Una primavera solo all’inizio
Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 21
Le «primavere arabe»
hanno suscitato entusiasmi e retoriche che paiono oggi non completamente
giustificati. La libertà religiosa, ad esempio, sembra avee fatte le spese. L’islamologo
gesuita Samīr Khalīl Samīr ci racconta ciò che per lui è il grande passo avanti
delle rivoluzioni che dal 2011 stanno, ancora oggi, cambiando il volto
dell’area mediorientale. Nonostante le problematiche.
«Una “primavera” non consiste nei primi
frutti che si possono raccogliere, spesso acerbi e aspri, bensì nello slancio
verso la coscienza democratica che germina nella testa di milioni e milioni di
persone, in gran parte giovani». Parola di Samīr Khalīl Samīr nell’introduzione
al suo libretto Quelle tenaci primavere arabe, edito dalla Emi.
Gesuita egiziano, Samīr Khalīl Samīr è un islamologo
attento ai processi culturali e sociali dell’area mediorientale. Lo
intervistiamo per farci raccontare quanto, secondo lui, le cosiddette primavere
arabe abbiano influito sulla libertà religiosa in quella zona e, in particolar
modo, in Egitto. Secondo un recente studio del Pew Research Center,
infatti, sembra che l’effetto delle rivoluzioni sulla libertà religiosa sia
stato per lo più negativo.
Può
fare un bilancio delle cosiddette «primavere arabe» iniziate tre anni fa?
«Si
sente spesso dire che la primavera araba è diventata l’inverno arabo. Però
secondo me ciò che si è realizzato negli ultimi tre anni è un cambiamento
profondo che porterà delle conseguenze positive anche laddove niente si è
fatto, come nella penisola araba.
Che
cosa sta cambiando? Innanzitutto per la prima volta si sa che si può
protestare. E non protestare nel vuoto, ma per cambiare.
C’è
stata l’epoca delle rivoluzioni: nel ’52 in Egitto con Nasser, nel ’54 in Iraq,
nel ’58 in Siria. Tutte conseguenze di quella crisi enorme che è stata la
creazione dello stato d’Israele. Oggi la gente prende coscienza che quelle
rivoluzioni, di solito militari e autoritarie, non possono continuare, e dice:
“Grazie per ciò che si è fatto, ma adesso è troppo”.
In
Egitto fino agli anni ’50 c’era libertà a tutti i livelli, ma anche ingiustizia
sociale, perché pochi privilegiati avevano tutte le possibilità, mentre la
massa del popolo viveva con difficoltà. La rivoluzione introdotta da Nasser ha
lavorato su questo, ad esempio con le riforme agrarie. Ma politicamente ha
fatto un passo indietro. Oggi, con le primavere arabe, tutti sanno che non solo
è possibile protestare in parole, ma anche cambiare le cose».
Le
primavere arabe sono state accolte dall’Occidente con grande entusiasmo. Sembra
però che col tempo la situazione della libertà sia peggiorata, in particolare
per la libertà religiosa, che già era molto compressa.
«A
fare la rivoluzione in Egitto e Tunisia sono stati essenzialmente i giovani,
che hanno avuto un ruolo decisivo suscitando la presa di coscienza in tutta la
popolazione. Ma poi, quando si è trattato di fare un governo, non essendo
preparati alla gestione del potere, ognuno è andato su una linea diversa: in
Egitto hanno fatto più di 10 partiti.
Gli
unici organizzati per prendere il potere erano gli islamisti. I Fratelli
musulmani, creati nel ’28, hanno infatti una struttura molto disciplinata: un sistema
gerarchico nel quale ognuno obbedisce al superiore, e non sa niente di più.
Hanno un programma molto semplice, sempre uguale fin dalle origini: “L’islam è
la soluzione”. Per qualunque domanda: economica, politica, sociale, religiosa.
Non è un affare intellettuale ma emotivo. L’islam è sacro. E poi i Fratelli
musulmani si sono moltiplicati grazie al finanziamento del Qatar e, all’inizio,
dell’Arabia saudita, prendendo possesso delle moschee e spiegando alla gente
che quando l’Islam avesse preso il potere sarebbe stato il paradiso.
Ecco
perché hanno vinto le elezioni. Benché abbiano ottenuto solo il 51,7%.
E
l’Occidente ha subito detto: “Ecco! Questa è la democrazia!”. L’Occidente ha
sostenuto che Morsi rappresentava il potere del popolo. In realtà il popolo,
dopo un anno, ha visto che la situazione sociale non era cambiata. Anzi era
peggiorata, anche a causa delle regole introdotte per l’islamizzazione del
paese che hanno fatto crollare il turismo, la prima fonte di entrata per
l’Egitto, e ha reagito: “Noi vogliamo la riforma sociale, la riforma politica,
e siamo stati delusi”».
Quindi
c’è stata la nota raccolta di firme per le dimissioni di Morsi.
«I
giovani hanno ripreso il contatto con la popolazione e hanno avviato una
petizione. Dopo 11 mesi di governo, le firme raccolte per mandare via Morsi
sono state 22 milioni. Non si era mai vista in Egitto una petizione di questo
tipo. E poi, un mese dopo, la gente è scesa per strada. In Egitto, grazie a
Dio, non girano molte armi, quindi la gente non poteva fare niente se non con
l’aiuto dell’esercito. Perché dal ’52 l’esercito è il potere che va con il
popolo contro i regimi. E dunque l’esercito è venuto a sostenere il popolo, non
per fare un colpo di stato, come ho letto nella maggioranza dei giornali in
Occidente, ma per creare un governo provvisorio, retto da un magistrato che era
stato nominato da Morsi stesso come uno dei capi della magistratura. Poi ha
invitato tutti i partiti a presentarsi, e tutti hanno accettato fuorché i
Fratelli musulmani, che hanno detto: “O noi o niente”.
Io dico: “Meno male che i Fratelli musulmani hanno preso
il potere”. Perché da 90 anni si presentavano come la soluzione di tutti i
problemi, e la gente semplice ci credeva. Ma ora tutti hanno potuto finalmente
vedere che non hanno cercato di migliorare la situazione sociale, politica, ma
di islamizzare, cambiando i programmi scolastici, le strutture, la televisione,
provando a introdurre la sharia. Ecco perché secondo me c’è una presa di
coscienza: è frutto dell’esperienza! E questo è un passo avanti. Ma non abbiamo
ancora risolto i nostri problemi: ci vorrà credo almeno un decennio per
strutturare democraticamente paesi che non hanno mai praticato la democrazia».
Come
hanno reagito i Fratelli musulmani alla rimozione di Morsi?
«Il
potere islamista è simile ai regimi precedenti: cerca di imporsi. Per questo ci
sono ancora violenze. In Egitto ci sono stati attacchi contro le chiese, contro
i più deboli, quelli che non hanno potere e non cercano di prenderlo. Non c’è
nessuna giustificazione a questo se non il fanatismo che è una tendenza forte e
fondamentale negli islamisti. È un’ideologia radicale che vuole imporre
l’applicazione della religione e che non piace alla maggioranza dei musulmani.
L’ascesa
al potere dei Fratelli musulmani è stata un passo avanti dal punto di vista
della presa di coscienza che una religione può anche diventare una dittatura.
Quando sono arrivati al potere, in un mese hanno fatto da soli una nuova
Costituzione, e abbiamo dovuto votarla nel giro di una settimana. Ma come si fa
a leggere e ponderare una Costituzione in una settimana? Nessuno lo crederà, ma
l’Egitto ha il 40% di analfabeti che, per questo, seguono ciecamente il
predicatore che tocca la corda sensibile della religione».
E
in Tunisia com’è la situazione?
«In
Tunisia è andata meglio, perché lì c’è una lunga esperienza di laicità dello
stato. Nella Costituzione tunisina c’è la parità tra uomo e donna. La Tunisia è
l’unico paese islamico al mondo ad aver vietato la poligamia, che ha imposto
l’uguaglianza tra uomo e donna nell’eredità, mentre il Corano dice che la donna
deve ricevere la metà di ciò che ricevono in eredità i suoi fratelli. La
Tunisia quindi aveva già fatto ben altri passi avanti. Anche se ora si sta
riducendo la laicità, e l’islamismo si diffonde, rimane però un Islam molto più
democratico».
Tutto
ciò sembra confermare l’opinione di chi sostiene che la libertà religiosa si
sia ridotta.
«Nell’area
mediorientale e nordafricana la situazione dei cristiani oggi è più difficile
di prima. Proprio a causa di questo background islamista.
L’Islam
storicamente categorizza le persone in tre gruppi: i musulmani, che hanno tutti
i diritti e doveri. La società deve essere musulmana. All’opposto c’è l’ateo. È
inammissibile non credere. L’ateo non può vivere nella società musulmana. La
terza categoria è intermedia: sono i protetti, cioè gli ebrei e i cristiani.
Essi sono in una posizione intermedia perché credono in Dio, ma non sono
musulmani, e quindi non hanno la credenza perfetta. Per cui possono vivere
nella società musulmana, ma sottomessi.
Questo
sistema dall’Ottocento in avanti si è lasciato influenzare dall’Occidente. Oggi
la categoria dei sottomessi esiste ancora, però è meno forte.
In
Egitto una moschea si può costruire anche senza permessi, e nessuno la può
distruggere.
Per
costruire una chiesa bisogna chiedere il permesso e possono passare anche dieci
anni prima che venga data l’autorizzazione. La richiesta rischia di non
arrivare mai a conclusione, perché bloccata nell’iter burocratico da qualche
islamista. Per cui ogni tanto viene distrutta una chiesa perché costruita in
modo illegale. La discriminazione nel concreto della vita è forte. Anche
convertirsi dall’Islam al cristianesimo è impossibile. L’unico modo è emigrare».
Quindi
come vede lei la condizione dei cristiani nell’area, e come vede il loro
futuro?
«In
Nord Africa cristiani ce ne sono pochi. Ci sono alcune migliaia di nordafricani
diventati cristiani, in particolare in Algeria. In teoria non possono. Si fa di
nascosto ma con il rischio della prigione. In Arabia saudita gli apostati
vengono uccisi. Nella penisola arabica ci sono più di due milioni di cristiani:
filippini, srilankesi, indiani, etiopi, ecc. Essi non hanno il diritto di
ritrovarsi insieme neppure in privato. In Occidente nessuno dice nulla su
questa ingiustizia perché l’Arabia è ricca.
Ciò
che noi chiediamo come cristiani è di essere semplicemente dei cittadini.
Sul
passaporto egiziano, come su qualunque documento, è obbligatorio indicare la
religione. Quando ho dovuto rifare il passaporto in ambasciata a Parigi, alla
voce “religione” ho scritto “ateo”. Poi alla voce “mestiere”, “monaco”. Sono
stato subito richiamato, e l’ambasciatore mi ha chiesto: “Sa che cosa ha
scritto? Di essere monaco e ateo”. Io allora gli ho chiesto che cosa avesse a
che fare la religione con lo stato, e gli ho detto che è un affare tra me e
Dio. Poi gli ho richiamato il principio della rivoluzione egiziana nasseriana
del ’52: “La religione appartiene a Dio, la patria a tutti”. A quel punto
l’ambasciatore mi ha detto che ero troppo avanzato, che ci vuole del tempo. Io
gli ho replicato che con il suo ragionamento anche mille anni non sarebbero
sufficienti.
Tutto
questo suscita domande tra i cristiani del medio oriente. Molti mi dicono:
“Abuna, io voglio vivere e morire qui. Ma i miei figli? Devo pensare a loro. È
per questo che ho deciso di emigrare. Perché qui non si può vivere”. Io rispondo
loro che hanno ragione, ma anche che c’è un’altra possibilità: rimanere per
cambiare la società. Io sono convinto che questa è la missione dei cristiani:
come dice il Vangelo, siamo il lievito nella pasta. La storia e gli studi del
centro che ho creato a Beirut dicono che sono stati i cristiani nel corso della
storia ad aver plasmato gran parte della cultura mediorientale: sono stati il
lievito. Oggi abbiamo questa missione: diffondere lo spirito del Vangelo».
Samir Khalil
Samir
Nato al Cairo nel ’38, Samir
Khalil Samir è gesuita dal ’55. Ha compiuto gli studi in Francia, tra cui
un dottorato di islamistica ad Aix-en-Provence. A Roma ha fatto un dottorato in
scienze religiose al Pio (Pontificio Istituto Orientale), istituto in cui
insegna da 40 anni. Ha insegnato per 12 anni anche al Pisai (Pontificio
Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica). E insegna regolarmente altrove nel
mondo. È stato anche impegnato per sette anni in Egitto per lo sviluppo sociale
nei villaggi e nei quartieri poveri del Cairo, lanciando, tra le altre cose, un
insieme di piccole scuole per analfabeti musulmani e cristiani. Da più di
quarant’anni è impegnato a far conoscere il patrimonio culturale dei cristiani
di lingua araba, avendo essi una teologia, un pensiero essenzialmente
improntato al rapporto con i musulmani, sviluppati dall’ottavo secolo in
avanti, sconosciuto agli stessi arabi. Ha pubblicato una sessantina di libri in
questo settore, e ha creato un centro che promuove tali studi, il Cedrac, a
Beirut, città in cui vive e insegna (all’università Saint-Josef).
«Essenzialmente la grande letteratura
arabo-cristiana appartiene al Medio Evo, dall’ottavo al quattordicesimo secolo.
Sia per i musulmani che per i cristiani è il periodo aureo. È in questo periodo
che i cristiani hanno dato un contributo di prim’ordine alla cultura araba, che
quindi non è esclusivamente islamica. Dal 14° secolo in avanti è iniziata
l’epoca della decadenza, durata fino al 19° secolo, quando è nato un nuovo
“rinascimento”, di nuovo con il grande contributo dei cristiani. Il ruolo
culturale dei cristiani nel mondo arabo è grandissimo. Perciò abbiamo una
cultura comune, e su questa base possiamo costruire, proporre un progetto
condiviso».
Nuovo presidente,
vecchi padroni
Il nuovo presidente dell’Egitto è
Abdel Fattah al Sissi, ex ministro e ufficiale dell’esercito, che si è
confermato il vero padrone del paese africano. Al Sissi si è imposto con oltre
il 96% dei suffragi, percentuale che rafforza ancora di più i dubbi sulla
democraticità delle elezioni egiziane. Queste erano state indette per il 26 e
27 maggio, ma la scarsissima affluenza ai seggi aveva indotto il Comitato
elettorale (Pec) a prolungare di 24 ore la possibilità di votare. Nonostante
questo, si è recato alle ue soltanto il 46,9% degli egiziani. Nel corso
dell’ultimo anno, il movimento della Fratellanza musulmana, che aveva vinto le
elezioni del giugno 2012, è stato dichiarato fuorilegge. Il suo principale
rappresentante, Mohamed Morsi, presidente deposto da un colpo di stato (luglio
2013), è attualmente sotto processo.
Tags: libertà religiosa, fondamentalismo, religione, primavere arabe, Egitto, Fratelli Musulmani
Luca lorusso