Somaliland: Il paese che non c’è

Una storia coloniale
che lo divide dalla Somalia. Indipendente dal 1991 ma non riconosciuto dalla
comunità internazionale.

l Somaliland è riuscito a mantenere l’equilibrio tra
i clan e a evitare la frammentazione del territorio. Ha ottenuto una stabilità
e una pace invidiabili in Africa. Il bestiame e le rimesse sono le sue risorse.

Ma dove va il Somaliland?

«Nabad y Cano», «La pace e il latte». Ad Hargeisa, la capitale del
Somaliland, lo slogan è ribadito sui muri delle case, dà nome a negozi e
ristoranti, trionfa in bocca ai Somali che ti spiegano la distanza che passa
tra il loro paese, che non ha seggio all’Onu e formalmente non esiste, e la
Somalia, più a Sud, reale come possono esserlo delle macerie, o un buco nero di
aiuti inteazionali, o un titolo per l’ennesima conferenza internazionale.

«Pace
e latte», ovvero la stabilità politica e la prosperità. In realtà, nei 23 anni
passati da quando questo estremo lembo settentrionale di Somalia, affacciato
come una terrazza sul Golfo di Aden e sul Medio Oriente, proclamò
l’indipendenza, sia la stabilità che la prosperità sono stati soprattutto un
esercizio retorico e il prodotto di un esperimento politico che la comunità
internazionale non ha capito del tutto. O forse non ha voluto capire. Perché
altrimenti avrebbe dovuto ammettere che il Somaliland, un paese non
riconosciuto dal resto del mondo, e che pertanto non riceve aiuti
inteazionali, è riuscito laddove il legittimo governo somalo ha fallito:
impedire massacri tra fazioni, la radicalizzazione religiosa, la
balcanizzazione del territorio e una perenne emergenza umanitaria. L’immagine
plastica della sicurezza Hargeisa la dà nel centro città, dove schiere di
cambiavalute aspettano i clienti all’ombra di muraglie di banconote logore e
sbiadite, su cui troneggia il sigillo della Banca del Somaliland.

«Non vedresti nulla di simile a Mogadishu», dice
Abdirizak, un venticinquenne con la finanza sulla punta delle dita: scorre
rapidamente i biglietti consunti, li raggruppa in mazzette, li stringe tra le
nocche. «Questo è un dollaro», dice. I biglietti verdi arrivano dalle agenzie
di rimesse che costellano il centro, attorno all’hotel Oriental, all’inizio del
mese e durante le feste come Ramadan ed Eid. Le ricevute dei trasferimenti
monetari dall’estero disegnano una geografia di migrazioni e flussi su scala
globale, dal Kenya all’Inghilterra, da Dubai agli Stati Uniti. E poi più in là,
fino a Cina e India, da dove businessmen locali importano le merci che vengono scaricate nel
porto di Berbera, giovando della tassazione minima, e da lì raggiungono sulla
via dei contrabbandieri Etiopia e Gibuti.

Non
ci sono guardie, attorno all’hotel Oriental. I soldi arrivano in carriole piene
direttamente dalla banca centrale e sono usati per acquistare dollari in
eccesso: il metodo somalo anti inflazione. Ed è quasi una metafora del
Somaliland, dove istituzioni e privati stringono insieme il timone di questo
raffazzonato paese attraverso acque tormentate, verso l’agognato riconoscimento
internazionale.

Somalia o Somaliland?

Somaliland e Somalia non sono
solo i prodotti di diverse avventure coloniali, ma rappresentano due opposte
concezioni d’Africa agli occhi dei colonialisti, inglesi nel primo caso,
italiani nel secondo. Il Somaliland britannico era null’altro che un posto di
transito sulla rotta verso la perla dell’impero, l’India. Empori marittimi
protesi verso lo Yemen, con alle spalle solo una distesa riarsa, attraversata
da nomadi e soprattutto dalle loro mandrie. Per gli inglesi, il valore di
questo territorio di guerrieri indomabili stava per l’appunto nel bestiame e
nella posizione: il primo garantiva l’approvvigionamento dell’avamposto di Aden
e la seconda, da preservare a ogni costo, evitava che sul passaggio in India si
proiettasse l’ombra dei francesi, annidati a Gibuti, o degli italiani.
Coltivando rapporti con i leader tradizionali e religiosi, le autorità
coloniali britanniche preservarono i sistemi locali di governo ed esercitarono
un controllo indiretto sul territorio.

Tocco leggero britannico che
contrasta con il bisturi italiano nel Sud: la Somalia doveva essere l’ennesima
propaggine d’Italia, e per un periodo lo fu, tra le piantagioni di banane e i
fiumi Juba e Shabelle e la dolce vita di Mogadiscio, dove la borghesia
coloniale italiana di giorno si crogiolava sul Lido e la sera passaggiava su
via Roma. Una Versilia sull’Oceano Indiano in cui i nativi musulmani
scivolavano come ombre accanto a commendatori e signore. L’amministrazione
italiana rimescolò le carte: promosse dei leader e ne cancellò altri, fece
saltare senza accorgersene equilibri delicati e neutralizzò meccanismi
tradizionali di risoluzione dei conflitti che per secoli avevano consentito a
gruppi di pastori, amanti della poesia ma armati fino ai denti, di coabitare
nello stesso ambiente scarso d’acqua e di pascoli.

Indipendenza: strano paese

Il paese
che l’Italia consegnò all’indipendenza, nel 1960, era una strana creatura di
ufficiali cresciuti nei carabinieri ma ben radicati nei clan d’appartenenza e
partiti modellati sulla Democrazia Cristiana e con una pericolosa vocazione
autoritaria. La Somalia italiana e il Somaliland britannico diventarono
l’indipendente Repubblica somala. Ma secoli di migrazioni avevano disseminato
comunità somale per tutto il Coo d’Africa, nel Kenya Nord orientale e
nell’Haud etiope. Le tensioni tra la neonata Somalia e i paesi vicini
iniziarono all’indomani dell’indipendenza, con l’insurrezione degli irredentisti
somali in Kenya, repressa nel sangue da Jomo Kenyatta. Per riscattare l’onore
violato della democrazia somala sconfitta, il generale Siad Barre, «bocca larga»,
come era chiamato, prese il potere e virò il timone verso il campo sovietico,
lanciando una sedicente rivoluzione socialista per secolarizzare il paese sul
modello della Turchia di Ataturk.

Negli anni ’70, però, la
guerra contro l’Etiopia per ricongiungersi ai fratelli somali in Ogaden fece
deragliare la rivoluzione, l’alleanza con l’Urss (che prese le parti
dell’Etiopia di Menghistu) e la Somalia intera.

Perso lo sponsor sovietico,
la Somalia si affidò sempre di più agli aiuti inteazionali, che negli anni
‘80 fluirono nel paese per sparire nelle tasche dei papaveri del regime, tutti
legati allo stesso clan Darod di Siad Barre.

La secessione

La politica dei clan, mai
scomparsa del tutto, era riemersa nelle crepe delle istituzioni democratiche e,
nel Nord del paese, era stata abbracciata dagli Isaaq, famiglie di commercianti
e allevatori, insofferenti all’accentramento in mani Darod. Il Somali National Movement (Snm) nacque
all’inizio come forza politica per rivendicare maggiore autonomia, ma la feroce
repressione del regime lo trasformò durante gli anni ’80 in movimento di
guerriglia. Nell’88, Siad Barre autorizzò bombardamenti a tappeto su Hargeisa
per domare i rivoltosi (e per puntellare il consenso attorno al suo ormai
decrepito regime). Migliaia di profughi si riversarono in Etiopia, ma
Mogadiscio non riuscì a completare la distruzione: nel ’91 il regime somalo
collassò e una miriade di fazioni se ne contese le spoglie (e, col passare del
tempo, gli aiuti umanitari in arrivo). Lo stesso anno, i leader dell’Snm
proclamarono la resurrezione dell’ex Somaliland britannico, stavolta come
Repubblica del Somaliland.

La guerra civile dell’88 fu
l’atto di mutilazione dal resto della Somalia. Nel cuore di Hargeisa, la
carneficina è raccontata in un murales sul monumento iconico della città, un
piedistallo su cui è issato un Mig somalo, abbattuto dalla contraerea dell’Snm.
Il sangue versato alimentò l’aspirazione all’indipendenza. Il nuovo Somaliland
emerse da una conferenza durata quasi un anno a Borama, una città
nell’entroterra, dove leader religiosi, capiclan e politici navigati si riunirono
per discutere l’assetto da dare al nuovo paese. Ne emerse un sistema ibrido,
che riunisce istituzioni politiche di stampo occidentale, un parlamento di
rappresentanti e uno di anziani, e poi diversi meccanismi giuridici a vario
livello. Questa complessa architettura, non priva di tensioni, è per molti la
chiave che spiega la relativa stabilità del Somaliland. Sistema in cui gli
assetti interni furono decisi fin dall’inizio in consultazioni locali, e non in
conferenze inteazionali come in Somalia.

Il primo presidente Egal, già
uomo forte del regime di Mogadiscio caduto in disgrazia con Siad Barre e rinato
come padre dell’indipendenza del Somaliland, giocò la carta della supremazia
Isaaq, in effetti maggior clan del nuovo stato. Ma ciò alienò i clan Darood
dominanti nelle regioni orientali, sul confine con il Puntland, altro brandello
di Somalia scampato al caos, ma privo di velleità indipendentiste. È qui, nelle
regioni di Sol e Sanaag, che la politica si fa ancora mitra in mano e, per
quanto le elezioni del 2011 si siano concluse regolarmente secondo gli
osservatori inteazionali, la tensione resta alta. Tanto più da quando
circolano voci sulla presenza di petrolio nella zona. A Las Canood, capitale di
Sol, i leader Dulbahante e Warsangeli, i sottoclan più influenti, immaginano già
una nuova Dubai sul Coo d’Africa.

Bestiame e rimesse

Per il
momento, il «petrolio» del Somaliland consiste in due risorse: quella
principale è il bestiame, cammelli, bovini e capre, che da qui, e dalla zona di
confine con l’Etiopia, fluisce verso l’Arabia Saudita e lo Yemen attraverso il
porto di Berbera: una ricchezza che vale quasi il 30% del prodotto interno
lordo (appena un miliardo e quattrocento milioni di dollari, il quarto più
basso del mondo per reddito procapite) e impiega circa il 25% della forza
lavoro, sia uomini che donne, ma che è estremamente dipendente da variabili
estee. Così, il bando imposto tra il 2001 e il 2009 dall’Arabia Saudita
all’importazione di bestiame per motivi sanitari fu un duro colpo per l’economia
del paese. Oggi, i casi di Mers (Middle east respiratory syndrome) rilevati nella penisola Arabica e legati ai
cammelli fanno temere un giro di vite sulle esportazioni future. Anche l’altra
risorsa cruciale, le rimesse inteazionali, che tiene a galla il paese,
dipende dagli equilibri inteazionali.

Il
gigante locale nel settore, Dahabshiil, fondato negli anni ’70 da Mohamed Duale
e oggi guidato dal figlio Abdirashid, è una delle avventure imprenditoriali
d’Africa di successo. Da qui transitano gran parte dei circa 500 milioni di
dollari (cifra stimata) inviati dai migranti per sostenere famiglie e business.
Per operare in Europa, tuttavia, le agenzie di rimesse devono appoggiarsi a
un’istituzione bancaria riconosciuta. Nel 2013, la banca Barclays, che consente
a Dahabshiil di operare in Gran Bretagna, aveva annunciato la chiusura dei
conti per incapacità di monitorare le transazioni. Solo dopo una mobilitazione
di massa di intellettuali e attivisti la misura è stata revocata.

«Anche
se non siamo riconosciuti, il Somaliland è un paese davvero globale», dice
Mohamed Behi Yonis, il ministro degli Esteri. «In tanti qui hanno doppio
passaporto. Vanno in Europa o negli Stati Uniti, acquisiscono la cittadinanza e
poi tornano indietro». In effetti, pur dalla sua posizione marginale, il
Somaliland non ha nulla da invidiare all’Etiopia per quanto riguarda le
comunicazioni. Tutt’altro: le telefonate inteazionali dal Somaliland sono le
più economiche del mondo, e il settore delle telecomunicazioni, da cui dipendono
i rapporti con la diaspora, è particolarmente dinamico e innovativo. Ma il tema
del riconoscimento internazionale ricorre nelle conversazioni al mercato del
bestiame Mahmoud Haybe o nei chioschi dove i Somali masticano khat, uno stimolante leggero che arriva ogni mattina dall’Etiopia. Il
desiderio di essere uno stato come gli altri si scontra contro il dogma delle
frontiere coloniali a cui l’Unione Africana è aggrappata, nonostante le
sanguinose eccezioni degli ultimi decenni (da ultimo, il Sud Sudan). Maggiori
sono i progressi della Somalia, minori sono le prospettive che il Somaliland
conquisti un seggio all’Onu. Perfino la Turchia, uno dei maggiori partner del
governo di Hargeisa, è allergica ai separatismi. «Stiamo lavorando a livello
diplomatico per dimostrare che il Somaliland può essere un prezioso partner
internazionale», dice ancora Behi Yonis. «Siamo riusciti a evitare la guerra e
a contenere il terrorismo. Possiamo contribuire al bene della Somalia. Ma il
nostro futuro è l’indipendenza».

Gianluca Iazzolino

Questo servizio è la
prima puntata dell’inchiesta sul mobile money intitolata: «Riuscirà
il denaro del futuro a rendere la povertà un problema del passato?
».

L’inchiesta è finanziata
nell’ambito del programma Innovation Development Reporting dell’European
Joualism Centre
. www.joualismgrants.org.

Inchiesta «mobile
money» – Denaro virtuale / 1

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L’inchiesta
Cos’è il denaro
elettronico, al secolo «mobile money»

Dare un conto in «banca»
a tutti

Servizi finanziari per i più poveri: questa la formula
magica che agenzie inteazionali dello sviluppo ripetono con crescente
frequenza. La visione tecnocratica dell’accesso al credito mutua il linguaggio
dell’industria bancaria e cavalca l’innovazione tecnologica: il telefono cellulare,
il «silver bullet» come dicono, o lo strumento definitivo per veicolare
prodotti finanziari nelle aree più remote dei paesi in via di sviluppo.

Così, il mobile money,
ovvero il denaro mobile, è diventato il fenomeno del momento nella comunità di
esperti dello sviluppo. Punto di convergenza degli interessi di compagnie
telefoniche, organizzazioni inteazionali e Ong, che stanno già cominciando a
usare piattaforme accessibili da telefoni cellulari per pagare stipendi e
muovere fondi.

Al momento 233 servizi di mobile
money
sono disponibili nel mondo, soprattutto in Africa subsahariana e in
Asia meridionale.

M-Pesa, la piattaforma lanciata da
Safaricom in Kenya nel 2008, ha fatto scuola: il successo del servizio, che
conta oggi oltre 23 milioni di utenti, ovvero il 73% della popolazione adulta
kenyana, e muove ogni mese quasi 150 miliardi di scellini kenyani (1,25
miliardi di euro), è stato un’iniezione di fiducia per multinazionali
desiderose di conquistare il cosiddetto «fondo della piramide», ovvero i
consumatori più poveri.

Secondo il Cgap (Consultative groupe to assist the
poor
), un centro di ricerca che promuove l’inclusione finanziaria nel Sud
del mondo, la telefonia mobile è oggi la tecnologia fondamentale per spalancare
le porte delle banche – banche senza muri – ai 2,7 miliardi di persone nel
mondo che non hanno accesso ai servizi finanziari. Così come la telefonia
mobile ha scavalcato la necessità della telefonia fissa, il denaro mobile può
permettere un salto a piè pari delle infrastrutture bancarie tradizionali. Ecco
perché le compagnie telefoniche dubitano che nel Nord del mondo, affollato di
carte di credito, conti online e altri prodotti bancari, il denaro mobile possa
attecchire. Mentre nel Sud la crescente mobilità, sia legale che illegale, fa
della smaterializzazione del contante un vantaggio in termini di sicurezza e
flessibilità. Resta la domanda: di chi è il vero ritorno? E chi sono i nuovi
esclusi?

Abbiamo provato a rispondere a
questi quesiti nel corso di un viaggio che comincia in Somaliland e ci porterà
fino in Nepal, passando da Haiti e Burkina Faso. Dove negli ultimi anni il
denaro mobile ha consentito a centinaia di migliaia di persone di diventare per
la prima volta titolari di un conto bancario, sia pure «nella nuvola» (nel cloud,
ovvero virtuale).

Gianluca
Iazzolino e Marco Bello


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La diffusione del mobile money
in Somaliland
Il denaro virtuale nel
paese inesistente

Abdirizak non si separa mai dal suo telefono cellulare. Lo stringe
in pugno mentre si aggira tra mandrie di cammelli, parlando rapidamente con gli
altri mercanti, finché si ferma e dà la mano a uno di loro. Le loro parole sono
coperte dal rumore di fondo di versi animali e voci umane. I due nascondono la
stretta di mano sotto un panno bianco, e la contrattazione ha inizio. Le cifre
sono espresse in silenzio, sulla punta delle dita. Dita che si toccano e si
stringono: pizzicare l’indice altrui significa rilanciare di mille, afferrare
l’intera mano è una richiesta da 5.000.

Attoo, i curiosi tentano di
prevedere l’andamento della contrattazione mentre l’oggetto dell’interesse, un
esemplare femmina di cammello, rumina beato a due passi. Quando i due
raggiungono un accordo, la stretta di mano è rotta con enfasi. Poche frasi per
definire l’affare, quindi la parola torna alle dita, stavolta sulla tastiera
dei cellulari. Non c’è contante, né documenti da firmare. Abdirizak digita
rapidamente sul suo telefono e, quando il cellulare dell’altro squilla, la
cammella ha un nuovo padrone.

Scene simili si ripetono senza sosta nel mercato di
bestiame Mahamud Haybe, alla periferia della capitale del Somaliland, Hargeisa.
Questo è il cuore economico di un paese inesistente e reale al tempo stesso,
dove flussi di cammelli, bovini e capre uniscono le aree rurali a quelle
urbane, il corno d’Africa alla penisola arabica. Questo è il luogo in cui i
cambiamenti entrano in sintonia con l’anima del Somaliland.

In passato, i pagamenti sarebbero
stati effettuati con una lettera firmata per ritirare il dovuto presso una
delle tante agenzie di rimesse che costellano Hargeisa. Oggi, invece, è bastato
Zaad, una piattaforma di denaro elettronico lanciata nel 2009 da Telesom, il
maggiore operatore di telefonia mobile del paese. Da allora, il servizio si è
diffuso dappertutto, conquistando 380.000 iscritti e 275.000 utenti attivi su
una popolazione di 3,8 milioni di abitanti.

La Gsma, l’associazione che
riunisce gli operatori di telefonia mobile, l’ha definito un «Mobile Money
sprinter
» e l’ha accolto come un motore d’inclusione finanziaria. L’impatto
di Zaad sull’economia del Somaliland balza all’occhio: i numeri di conto
spiccano sui muri, su cartelli appesi in negozi e ristoranti o anche solo su
semplici fogli bianchi in cima alle pile di denaro dei cambiavalute.

In un paese privo di banche commerciali e tagliato fuori dai
circuiti bancari inteazionali, Zaad permette agli utenti, siano commercianti,
studenti o pastori, di conservare i risparmi in un portafogli elettronico ed
effettuare pagamenti a distanza. Le agenzie di rimesse continuano a dominare il
campo delle transazioni inteazionali, ma negli ultimi anni hanno senza dubbio
perso terreno nei confronti di Zaad all’interno del Somaliland. Non è stata
un’impresa facile per Telesom, una compagnia telefonica fondata da Sheik
Ahmed-Nour Mohamed Jimale nel 2002 e oggi divisa tra una miriade di azionisti.

Creato sul modello di Safaricom
M-Pesa in Kenya, il più celebre e studiato sistema di denaro elettronico al
mondo, Zaad è stato adattato a un contesto che non ha eguali. Anche se la
moneta locale è lo scellino del Somaliland, il sistema opera con dollari
americani, la valuta che olia il commercio locale e dà la misura della bilancia
commerciale in profondo rosso del paese.

Lanciato inizialmente tra
imprenditori e commercianti, Zaad non ha spese aggiunte. «All’inizio, la gente
era piuttosto diffidente a caricare denaro nel sistema» ricorda Abdikarim
Mohamed Eid, il direttore generale di Telesom. «Dovevamo conquistare la loro
fiducia. Così siamo riusciti a convincere i datori di lavoro a pagare gli
stipendi attraverso Zaad e abbiamo plasmato un ecosistema. Sapevamo che se
tutti avessero accettato Zaad, l’uso sarebbe schizzato alle stelle». Entro un
anno, così è stato. Nel 2010, il tasso di iscritti si è impennato. In quanto
principale operatore mobile del paese, Telesom ha fatto leva su un effetto
network: i pagamenti si possono effettuare solo tra sim Telesom, una strategia
che ha aumentato il divario con gli altri concorrenti nello stesso campo. Anche
senza applicare tariffe di servizio, Telesom è riuscita ugualmente a fare
affari d’oro fidelizzando i clienti.

Nel 2011 ha lanciato Salaam Bank, una banca
islamica i cui servizi sono accessibili dalla piattaforma Zaad, servizi che
includono non solo conti correnti, ma anche piccoli prestiti. Il fenomeno Zaad
ha cominciato ad attirare l’attenzione degli attori dello sviluppo
internazionale, evocando la morte del contante.

Basta una passeggiata nel cuore di
Hargeisa per rendersi conto che non è proprio così. Montagne di cartamoneta
aspettano di essere tramutate in dollari o smaterializzate in sms. «Zaad ha
cambiato il nostro lavoro», dice Abdullahi, un cambiavaluta. «Trasformiamo
denaro di carta in denaro elettronico, così chiunque può viaggiare tranquillo
con la sua scorta di dollari».

Il problema è che quelli che
possono riempirsi il portafogli elettronico di denaro Zaad sono quelli che già
vengono pagati in dollari, ovvero dipendenti del settore privato, espatriati e
destinari di rimesse. «Noi dipendenti pubblici siamo pagati in scellini»,
confida Wali Dauud Egal, funzionario al ministero delle finanze. «Accelerando
la dollarizzazione dell’economia, Zaad non fa che gonfiare i prezzi e questo ha
delle ricadute su di noi in particolare».

Il governatore della Banca centrale
del Somaliland, Abdi Diriir Abdi esprime la stessa preoccupazione, venata di
toni nazionalisti: «Telesom è al di là della nostra portata; non sappiamo
quanti soldi incassano e, di conseguenza, come regolarci con le tasse. Inoltre,
Zaad provoca inflazione e offende la dignità della nostra moneta. In Kenya o
Tanzania, le compagnie di telefonia mobile usano la valuta locale. Perché qui
no?».

A dire la verità, non esistono
studi che leghino Zaad all’inflazione. Ma è un dato di fatto che Zaad sia
esplosa in un vuoto di regole. Quando Abdikarim Mohamed Eid discusse per la
prima volta l’idea di denaro mobile con il precedente governatore centrale,
l’accordo fu di sviluppare un regolamento strada facendo. Zaad applicò delle policies
in linea con le norme inteazionali anti riciclaggio, ma, con il nuovo
governatore, la discussione si arenò. Lo strapotere di Zaad non sfugge agli
abitanti del Somaliland i quali, pur facendone largo uso, ammettono che il
controllo di Telesom sull’economia nazionale potrebbe essere negativo nel lungo
termine.

Eppure, mentre la Banca centrale è incapace di imporre
l’uso degli scellini, gran parte dei somali continua a preferire i dollari per
mettersi al riparo dall’inflazione. Inoltre, lo scontro tra Telesom e la Banca
centrale riflette le contraddizioni di un sistema in cui non esiste un confine
netto tra politici e uomini d’affari. Adesso, la linea sfumata è anche tra
operatori telefonici e istituzioni finanziarie. Il vero avversario di Telesom è
infatti Dahabshiil, pronto a entrare nel campo del denaro mobile con la
piattaforma E-Dahab. Allo stesso tempo, Zaad si prepara a varcare i confini del
paese e, dopo aver stretto un accordo con Tawakal e WorldRemit, due agenzie di
rimesse inteazionali, anuncia una rivoluzione nel settore delle transazioni
inteazionali. Mentre la competizione imperversa, la mancanza di regole sta
mettendo a nudo l’incapacità dello stato di guadagnare da questo lucrativo giro
d’affari, o anche solo di monitorarlo. Il che potrebbe rivelarsi un boomerang,
proprio per l’accesso ai servizi finanziari.

Tradendo l’aspirazione al
riconoscimento internazionale, molti commercianti dicono che la vera inclusione
finanziaria si realizzerà solo quando il paese sarà integrato nei circuiti
bancari globali. Ma per Safyia, una consulente all’Inteational Labour
Organization
(Ilo) che forma donne imprenditrici, il problema è soprattutto
quello delle donne nelle aree rurali, dove l’economia è di sussistenza: «Non
hanno garanzie per chiedere prestiti, nè in contanti nè in formato elettronico
– dice -. E spesso non possono neppure aprire un conto Zaad perché non hanno
una carta d’indentità. L’inclusione finanziaria dovrebbe andare di pari passo
con l’inclusione politica». 

Gianluca
Iazzolino e Marco Bello

(Fine prima
puntata – continua) 

Marco Bello e Gianluca Iazzolino

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