Il convento dei rifugiati
Bangui: una
straordinaria storia di accoglienza
Il paese nel cuore dell’Africa
vive una stagione di persecuzioni e caccia all’uomo. Dopo alcuni mesi di
governo dei ribelli Seleka, si sono formate milizie di reazione. In mezzo i
civili, siano essi cristiani o musulmani. Obbligati a nascondersi o fuggire, lasciare
la loro terra. Oppure a morire sotto i colpi di un connazionale.
capitale, donne, bambini e uomini si rifugiano dove possono. Ed ecco che il
convento dei Carmelitani Scalzi si trasforma in uno dei campi profughi più
grandi e meglio gestiti. E i frati diventano dei grandiosi operatori di vita e
di speranza.
di Federico Trinchero, Marco Bello e Silvia C.
Turrin
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Bangui, 5 Dicembre 2013
Come penso abbiate già
saputo, oggi la situazione a Bangui è improvvisamente precipitata. Anche per
noi qui è difficile capire cosa stia veramente succedendo. Ci sono stati spari,
morti e saccheggi in quasi tutti i quartieri.
Al Carmel (il convento dei
Carmelitani) stiamo ospitando più di 500 persone. È difficile contarli tutti.
Provengono da diversi quartieri. La maggior parte sono bambini piccoli con le
loro mamme. Ma ci sono anche tanti ragazzi.
Siamo riusciti a dare un po’
di cibo caldo a quasi tutti. Gli studenti e i novizi si sono dati da fare senza
tregua. Ora la gente sta dormendo nel cortile tra la chiesa e il refettorio.
Sappiamo che la situazione è analoga in altre parrocchie e comunità religiose
della capitale.
La notte è passata abbastanza
bene per i nostri 600 graditissimi ospiti. Dopo la Messa delle 6 e 45 molti
ripartono per rientrare nelle loro abitazioni. Il coprifuoco è infatti
terminato. Provo a fare colazione, ma mi chiamano al portone d’ingresso. La
gente corre verso il convento. È il panico. Nel quartiere si spara. Li
accogliamo a braccia aperte. Li sistemiamo come meglio possiamo, anche se la
poggia, a un certo momento molto forte, rende tutto più difficile. Moltissimi,
ovviamente, sono bambini. Per fortuna c’è solo un ferito. Provo a contarli
discretamente, perché non vorrei mai che qualcuno pensasse che non ci sia posto
per lui. Sono quasi 2.000.
Telefoniamo all’arcivescovo,
in nunziatura, all’ambasciata francese per informarli della nostra situazione e
chiedere se ci possano dare una mano per nutrire la gente. Ma comprendiamo che
non siamo gli unici a vivere una situazione del genere. Attraversare la città
per venire qui da noi è difficile per tutti. Pazienza, ci organizzeremo
diversamente.
Verso le 10 due caccia
rombanti attraversano il cielo nuvoloso. Sono arrivati i francesi! La gente
applaude. Io quasi piango.
Poco dopo il cielo si
rischiara un po’. Gli uomini rientrano nei quartieri. Restano con noi le donne
e i bambini.
Non ho il coraggio di
chiedere a questa gente la loro storia e il motivo per cui sono qui. Chiedo ai
bambini il loro nome. Uno si chiama Shalom, l’altro Dieu Sauve…
cosa volete di più? Le donne sono tutte concentrate a cucinare e a consolare i
loro bambini. I vecchi sono pochissimi. I volti più tristi sono quelli dei
giovani e degli uomini della mia età. Sono esausti. Che futuro li attende? Deve
essere insopportabile avere una voglia matta di ribellarsi e non poterlo fare.
In questi giorni non
riusciamo più a pregare secondo l’orario abituale. Inoltre la nostra chiesa è
ormai occupata da 300 bambini. Ci pensano loro a pregare al posto nostro. I
loro strilli e il loro pianto ininterrotto suppliscono abbondantemente alla
nostra salmodia. Dopo le 17 arrivano altri aerei. Siamo tutti con il naso
all’insù. I bambini non stanno più nella pelle e per qualche minuto dimenticano
la fame. Cose così le hanno viste soltanto nei film, e questa è realtà.
Alle cinque siamo quasi tutti
già svegli. Faccio un giro di perlustrazione. Trovo due famiglie nella sala del
capitolo. Poi vado in chiesa. Due bambini hanno pensato bene di mettersi a
dormire proprio sotto l’altare. Questo sì che è sensus fidei dei piccoli: non c’è posto più
protetto di quello. Altri sono addormentati sugli stalli del coro e pregano al
nostro posto. Gli uomini e alcune donne, come ieri, rientrano nei quartieri per
recuperare qualcosa, costatare i danni e, purtroppo, sapere chi è morto. C’è
una bambina che da due giorni cerca il suo papà e la sua mamma. Facciamo un
affido temporaneo alla cuoca che, con suo marito, nostra sentinella, abita
nella nostra concessione. Ha già tre figli e giusto qualche giorno fa le
chiedevo se pensava di fae un quarto. Eccola esaudita! C’è anche un papà con
un bambino di pochi mesi che da due giorni non trova sua moglie. Registriamo i
loro dati e spargiamo la voce. Alla sera il papà ritrova finalmente la moglie.
Alle 9 parte la «nettezza
urbana»… perché circa 2.000 persone che vivono insieme su uno spazio grande più
meno come un campo da calcio, hanno indubbiamente le loro esigenze e qualche
inconveniente. Se dobbiamo essere un campo profughi, lo dobbiamo fare bene. Con
i bambini ripuliamo tutta la zona. Poi in fila indiana ci si lava le mani e in
premio c’è una frittella. Nel frattempo la gente cucina, lava i bambini, fa il
bucato e stende i panni. Anche la rete del campo da pallavolo diventa un comodo
stenditornio. Organizziamo l’accesso all’acqua e ai wc; disinfettiamo con la
candeggina e delimitiamo le zone con la calce.
Cedric, il nostro medico da
campo continua a ricevere gente e distribuire medicine. I casi più gravi sono
nel noviziato. Continuano ad arrivare aerei,
ormai non li contiamo più. Verso le 15 arriva dal
vicario episcopale e dall’Unicef l’ordine di registrare tutti per ricevere
degli aiuti. Ci mettiamo subito al lavoro.
Abbiamo un po’ di paura per
gli uomini. Alcuni sono un po’ agitati e covano sentimenti di rancore. Inoltre,
pur essendo i più forti, sono i più minacciati. La Seleka li cerca e li vuole
eliminare. Qui da noi si sentono protetti.
Il numero dei nostri ospiti
supera ormai i 2.100. Per la precisione: 800 bambini con meno di 12 anni
(alcuni di pochi mesi); 600 donne (di cui non poche incinte…) e 700 uomini. Nel
pomeriggio si organizzano delle partite a calcio.
Arrivano anche i primi aiuti
dal nostro insuperabile Youssouf: un sacco di riso, uno di zucchero e un bidone
di olio. Per tutta la giornata andiamo avanti e indietro con la radio accesa
per capire cosa sta succedendo in città. Due elicotteri sorvolano la nostra
zona più volte. Dopo i pasti la nostra (com)unità di crisi fa il punto della
situazione. Condividiamo i problemi e le esigenze dei nostri ospiti,
distribuiamo gli incarichi, cerchiamo nuove soluzioni, moltiplichiamo tutto per
2.000 e speriamo che funzioni.
La Croce Rossa internazionale
ci informa che ci sono nella città una ventina di siti come il nostro. Anche
campi da più di 10.000 profughi. Cosa succede esattamente in città è per noi
difficile da capire. In alcuni quartieri è cominciato in modo capillare il
disarmo dei ribelli. Purtroppo ci sono già due vittime nell’esercito francese
venuto a liberarci. Ogni tanto non resisto alla tentazione e faccio un salto in
chiesa. L’altare è circondato da un giardino di visetti neri e occhioni
bianchi. Ma trovo anche Jean, 64 anni, il nostro profugo più anziano che ha
visto tutti i colpi di stato del Centrafrica. Tutti mi chiamano mon père, ma lui si è preso giustamente il
privilegio di chiamarmi mon fils. Ha un piede fasciato e cammina col bastone. Poco prima di cena
riesco a trovargli un letto, un materasso e un cuscino, e lo sistemo nella
stanza del capitolo. Da sei giorni andiamo avanti più o meno così. Stiamo
facendo una cosa che nessuno di noi aveva mai fatto e mai vissuto in vita sua.
Una Ong avrebbe fatto forse meglio, ma sicuramente più tardi. La Chiesa,
invece, è arrivata prima. Anzi: era già qui, non se ne è andata e quasi non si è
accorta di restare. E i poveri hanno capito che venire qui era fare la strada
più corta e andare nel luogo più sicuro.
13 Dicembre
La bella notizia è la visita
inaspettata del nostro coraggiosissimo arcivescovo Dieudonné Nzapalainga. Per
la nostra gente è come se fosse arrivato il papa in persona. Ci ha trovati al
lavoro: chi alla distribuzione del cibo, chi impegnato nella pulizia del campo,
chi intento a sistemare i teloni di plastica contro la pioggia, chi concentrato
a seguire i malati… Il vescovo, venuto con un imam, ha visitato il nostro
campo e poi ha fatto un breve ma forte discorso invitando tutti alla pace, alla
riconciliazione e al perdono. Anche l’imam ha fatto un discorso analogo. Come
potete ben capire, l’intento di questa visita è stato quello di gettare acqua
sul fuoco di uno scontro tra cristiani e musulmani che rischia di incendiare
l’intero paese. Vogliamo, possiamo e dobbiamo vivere in pace insieme. Il nostro
piccolo Carmel vorrebbe essere nient’altro che questo: una scintilla di pace in
un grande fuoco di violenza.
Purtroppo venerdì scorso ci
sono stati degli scontri molto violenti in città, in un quartiere piuttosto
vicino al nostro convento. Questo ha provocato un improvviso aumento dei nostri
profughi. Come ogni giorno, verso le 7, ci avviamo verso il luogo all’aperto
dove celebriamo la messa. Lungo il tragitto sentiamo diversi spari, alcuni
molto forti e vicini. Mi domando se non sia più opportuno non iniziare la
celebrazione per evitare il panico. Ma il canto d’ingresso è ormai iniziato.
Gli spari si susseguono senza sosta. Verrà qualcuno a farci del male? Celebro
la messa più lunga della mia vita. Ammiro tuttavia la compostezza
dell’assemblea. Quando gli spari sono più forti, c’è come un sussulto e un
gemito collettivo; ma i nostri fedeli non si schiodano da dove sono.
L’eucaristia che celebriamo è la nostra migliore protezione, uno scudo
impenetrabile. Davvero la nostra unica salvezza. La celebrazione continua, ma
un fiume di gente che corre impaurita, con poche masserizie sulla testa,
raggiunge il nostro sito e ci circonda. Che impressione e che sfida questa
eucaristia inerme nel pieno vortice della guerra! La celebrazione termina e, in
pochi istanti, ci accorgiamo che i nostri ospiti da 2.500 sono diventati circa
10.000. Inizialmente siamo un po’ spaventati e ci domandiamo come potremo
gestire una tale massa di gente. Ma, superato questo iniziale smarrimento e
sensazione di impotenza, comprendiamo che tutto quello che abbiamo vissuto
finora non è stato che un allenamento per l’avventura che ci sta davanti.
L’avvenimento più importante è
stato, il 10 gennaio, quello delle dimissioni del presidente Michel Djotodia,
salito al potere con un colpo di stato lo scorso 24 marzo. In tutto il
Centrafrica c’è stato come un grande sospiro di sollievo collettivo. Ma, dopo
qualche ora di gioia e di speranza, la guerra si è di nuovo fatta sentire con
spari, morti, saccheggi e disordini in molti quartieri, alcuni dei quali molto
vicini al nostro convento. I nostri rifugiati, quindi, hanno preferito restare
con noi, in attesa di tempi migliori e di una pace più vera. Secondo le ultime
stime ufficiali un centrafricano su cinque – il che vuol dire quasi un milione
– è attualmente sfollato. Difficile non dare ragione a questa gente, ormai
toppo abituata ai giochi di prestigio della politica.
Restare qui è una forma di
protesta pacifica per esigere al più presto una pace vera e non una pace a metà.
Nel nostro campo rifugiati la
vita procede abbastanza normale… per quanto possa dirsi normale la vita di
migliaia di persone strette attorno ad un convento. È davvero interessante
osservare come la gente si è organizzata per sopravvivere in questa emergenza.
Si è creato addirittura un piccolo mercato di verdura, carne, generi alimentari
di ogni sorta e altre cose utili. Ci sono dei salon de coiffure, piccole farmacie, negozi di
articoli religiosi, una specie di gioco del lotto, buvette e bistrot sempre molto frequentati.
Abbiamo fatto addirittura un
regolamento per aiutarci a vivere meglio insieme di giorno e riposare un po’ di
più la notte. Non è del tutto e sempre rispettato, ma ha la sua utilità, tanto
che altri campi rifugiati l’hanno preso in prestito.
Un intraprendente comitato –
con tanto di presidente, vicepresidente, segretario generale, ecc. -assicura il
trait d’union tra la comunità dei frati e i rifugiati per il
cornordinamento delle attività. E, manco a farlo apposta, è sorto pure il
sindacato per i diritti dei rifugiati. Insomma: attorno al convento ora c’è un
Centrafrica in miniatura con tutti i suoi vizi e le sue virtù. E questa
coabitazione forzata mi ha permesso di conoscere meglio i primi e di apprezzare
di più le seconde.
Nel frattempo, oltre che ai
santi, ci affidiamo ai militari francesi, i quali stanno facendo un meticoloso
lavoro di disarmo e pacificazione tra i diversi gruppi ostili. Proprio pochi
giorni fa, una pattuglia è venuta a farci visita. Il sergente Thierry si è
fermato a parlare con noi per aggioarci sulla situazione. Purtroppo ci sono
ancora gruppi di ribelli che si nascondono attorno alla capitale… e attorno al
nostro convento; ma vi sono comunque segnali concreti di distensione. Speriamo
che abbia ragione. Ci assicura che sono qui per una missione di pace, anche se
hanno addosso degli strumenti che sembrano dire il contrario. Mi fa quasi
tenerezza questo giovane sergente! Prima di essere precipitato qui, tra Seleka
e anti Balaka, è stato in Afghanistan, in Libano e in Mali. Ci racconta che una
notte, su una strada di Bangui, ha dovuto assistere con la sua pattuglia al
parto di una donna: «Solitamente noi militari vediamo la gente morire, quando
non siamo noi stessi costretti a uccidere. Questa volta ci è invece capitato di
aiutare un bimbo a nascere». E poi, un po’ emozionato, mi rivela che da pochi
giorni è diventato lui stesso papà di due gemelli che non ha ancora visto.
Il nostro campo profughi ha
ormai superato abbondantemente i due mesi. Davvero, chi l’avrebbe immaginato,
che quelle porte, spalancate il mattino del 5 dicembre dello scorso anno,
sarebbero rimaste aperte per così tanto tempo e che i nostri ospiti si
sarebbero così affezionati al Carmel!
Evidentemente, se sono ancora
qui, sebbene diminuiti, un motivo c’è. La situazione, infatti, stenta a
migliorare in modo significativo. A Bangui non passa giorno, e soprattutto
notte, in cui non ci siano morti, saccheggi e regolamenti di conti. Ma la cosa
ancor più drammatica è che, da diverse settimane, è ormai quasi l’intero paese
a essere teatro di scontri e di violenze senza precedenti.
Se in capitale una certa
presenza militare, soprattutto francese, assicura una relativa tranquillità e
la possibilità di spostarsi senza rischiare troppo la vita, in provincia la
situazione è molto più complessa. Tutta la zona Nord occidentale del paese è
stata a più riprese oggetto di rappresaglie da parte ora dei Seleka ora degli
anti Balaka: saccheggi, uccisioni, tante case e mercati bruciati. Il paese è
entrato nel vortice di una violenza becera che sembra non arrestarsi. Quello
che all’inizio sembrava una lotta per il potere, si è ora trasformato in uno
scontro tra queste due fazioni che hanno avvelenato il paese e mietuto vittime
innocenti. Se i Seleka, e chi li ha sostenuti, sono indubbiamente all’origine
della situazione in cui ci troviamo, gli anti Balaka hanno dimostrato una
violenza pari, se non superiore, a chi li ha preceduti e provocati.
Gli anti Balaka, che non sono
musulmani, non possono dirsi cristiani. Se lo erano, le loro azioni dicono il
contrario. Più volte, infatti, i vescovi hanno denunciato questa violenta
reazione popolare, che i media hanno frettolosamente interpretato come
cristiana. Ma, poiché non sono musulmani, la confusione è stata inevitabile. Ci
consola la consapevolezza che, sebbene tutto ciò sia una vergogna, sono stati
centinaia, forse migliaia, i musulmani che hanno trovato rifugio nelle
parrocchie e nei conventi sparsi nel paese salvandosi la vita. Ma l’esodo di
questa minoranza è ormai cominciato. Tantissimi musulmani – e tra questi anche
alcuni nostri carissimi amici – sono stati costretti a lasciare il paese, pur
essendo nati qui. A ciò si aggiunge un effetto collaterale che renderà ancora
più difficile la già fragile economia del paese. Le poche attività commerciali
del paese – soprattutto, ma non solo, la vendita all’ingrosso e al dettaglio
dei generi alimentari di base – erano infatti in mano ai musulmani. Il futuro
del Centrafrica, anche quello economico, è quindi una vera incognita.
In questo quadro desolante c’è
stato, il 20 gennaio, un segnale di distensione: l’elezione di un nuovo
presidente nella persona di Cathérine Samba-Panza, ex sindaco di Bangui (vedi box). Tale nomina è stata salutata
positivamente dalla comunità internazionale. Cathérine Samba-Panza ha una cosa
alla quale i politici tengono molto e che faceva difetto a chi l’ha preceduta:
il favore popolare. Ciò non toglie che il compito che le sta davanti sia
difficile, quasi impossibile. È ancora presto, allora, per cantare vittoria e brindare
alla pace.
La nuova
presidente ha in seguito nominato un nuovo primo ministro il cui cognome è
tutto un programma: Nzapayeke, che significa «Dio c’è». Un ottimo tandem con il
vescovo di Bangui, il cui cognome, Nzapalainga, significa «Dio sa». Quindi: Dio
c’è e Dio sa. Queste due certezze, che non sembrano mai essere venute meno nel
cuore di tutti i centrafricani, siano essi cristiani o musulmani, sono più che
sufficienti per non scoraggiarci, sentirci al sicuro e andare avanti.
Nel
frattempo è nata una scuola d’emergenza, grazie anche all’iniziativa degli
insegnanti cattolici presenti tra i nostri rifugiati. È sorta nel giardino
delle suore, a pochi metri dal nostro cancello. Il giorno dell’inaugurazione,
seduto sulla poltrona principale, ho ricevuto gli onori degni di un direttore
scolastico di una popolatissima scuola con classi, purtroppo senza banchi e
sedie, che sfiorano i duecento allievi. Mi hanno dato la parola presentandomi
come padre Federico, papà di tutti i profughi del Carmel. In questi giorni, la
gioia più grande è vedere ogni mattina frotte di bambini che sciamano dal
nostro campo, con le loro cartelle griffate Unicef, per raggiungere le loro
classi profumate di plastica… per fare una cosa così normale, così bella e così
giusta come andare a scuola. Io, alla loro età, non mi ero accorto di essere
fortunato perché i giorni di scuola superavano quelli di vacanza. Qui, invece,
da alcuni anni, è purtroppo quasi il contrario.
Se i
bambini non mancano, la nostra fattoria ha subito un duro colpo a causa di
diversi furti. A Bangui i prezzi dei generi alimentari sono a volte addirittura
raddoppiati e la carne è diventata introvabile. Quanto a
bambini, al Carmel non ne sono più nati. In compenso è arrivato Geoffroy, di
circa 12 anni, proveniente da Bossangoa, una città situata a 400 Km a Nord di
Bangui. Geoffroy non ha fratelli, i suoi genitori sono morti a causa di una
granata, e la sua casa è stata incendiata. Accompagnato da militari è arrivato
fino a Bangui. Dopo aver trascorso qualche giorno nel campo profughi
dell’aeroporto – che ospita circa 100.000 sfollati – un moto taxi lo ho
lasciato davanti al cancello del nostro convento senza troppe spiegazioni. E
noi lo abbiamo lavato, vestito, nutrito, cercando di comprendere qualcosa del
suo passato e di trovare una soluzione per il suo futuro. Nel frattempo, senza
troppe difficoltà, Geoffroy si è adattato a usi e costumi del convento, forse
un po’ smarrito per tanta accoglienza da parte di 12 giovani frati, ma felice
di poter dormire in un luogo sicuro.
Fino a
pochi giorni fa il numero dei nostri profughi si era stabilizzato intorno ai
5.000. Ma, dal momento che in diversi quartieri di Bangui si spara ancora, la
gente, anche quella che aveva provato a rientrare, spesso è costretta a ritornare
da noi. Attualmente potrebbero essere intorno ai 15.000 (il 40% dei quali sotto
i 15 anni). Nella capitale i siti che accolgono profughi sono ancora 59, alcuni
dei quali con molta più gente di noi.
La guerra non è finita. Ogni
giorno, infatti, sappiamo di uccisioni e rappresaglie nei quartieri della città
o in altre zone del paese. Se la presenza dei militari impedisce che tali
episodi possano degenerare, la situazione resta comunque tesa e incerta. Anzi,
proprio durante la settimana santa, la Chiesa Cattolica si è trovata nel mirino
dei ribelli. A fae le spese è stato dapprima il vescovo di Bossangoa, una
diocesi a 400 Km da Bangui. Per fortuna è stato rilasciato il giorno seguente.
Il venerdì santo, invece, un sacerdote centrafricano, della medesima diocesi, è
stato barbaramente ucciso mentre stava raggiungendo in moto il villaggio di cui
era parroco.
Secondo l’ultimo censimento
effettuato da una Ong il numero dei nostri profughi è sceso e si è ormai
stabilizzato a 7.500. Siamo uno dei 5 campi profughi più grandi della capitale.
Vi sono state settimane nelle quali siamo stati molti di più. Ora tutti i
nostri ospiti hanno trovato rifugio sotto 79 tendoni di plastica, dove possono
abitare più famiglie insieme. Vi sono poi un centinaio di altre piccole
abitazioni. Il campo è diviso in 12 quartieri. Ogni quartiere ha un
responsabile coadiuvato da due consiglieri. Un comitato presiede e organizza
ogni attività. Ci sono un’équipe di vigilanza per la notte e un’altra per il
giorno; altre due squadre sono incaricate della pulizia dei servizi igienici,
del campo e della raccolta dell’immondizia. Un’altra squadra, formata di
giovani alquanto muscolosi, si occupa di scaricare i viveri. Ogni due
settimane, infatti, la Croce Rossa Internazionale deposita, in uno dei chiostri
del convento, tonnellate di riso, fagioli, 2.800 litri di olio e 12 grandi
sacchi di sale. Infine, un consiglio di 10 saggi – uomini e donne – svolge un
influente ruolo di controllo su tutte le attività. C’è poi uno spazio giochi
per i bambini, un ambulatorio medico e una scuola. In un cortile del convento è
stato installato un serbatornio da 10.000 litri di acqua che, dopo essersi
riempito durante la notte grazie alla nostra pompa, viene svuotato il mattino
seguente, in meno di un’ora, tramite 12 rubinetti.
*Padre Federico Trinchero,
carmelitano scalzo, è missionario in Rca e superiore del convento Notre Dame du
Mont Carmel di Bangui.
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Dal golpe di Michel Djotodia
all’arrivo degli anti Balaka
Futuro incerto in Centrafrique
Gli spari sono forti e
chiari, singoli e vicini. Stiamo parlando al telefono con un conoscente. Lui è
a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, dove lavora per una Ong. «Aspettate,
vado a vedere che non siano troppo vicini». Poi torna la calma e la
conversazione riprende. In Rca è da oltre un anno e mezzo che si vive in
perenne stato di guerra, o di guerriglia. Nel dicembre 2012 furono i diversi
gruppi armati a maggioranza islamica che, coalizzati nella ribellione Seleka,
mettevano a rischio il regime decennale di François Bozize. Regime che
rovesciarono il 24 marzo dell’anno successivo, quando, presa la capitale,
Michel Djotodia, numero uno della coalizione, divenne presidente grazie a un
colpo di stato (si veda MC ottobre 2013). Così in un paese dove la
popolazione è cristiana all’85%, il governo e l’esercito diventarono a
schiacciante maggioranza musulmana. Di più: tra i comandanti, molti non erano
neppure centrafricani, ma sudanesi o ciadiani. La Seleka controllava tutto il
territorio nazionale, sebbene suddivisa in tante fazioni, non molto cornordinate,
mentre le istituzioni dello stato erano di fatto scomparse. Così i gruppi
ribelli dettavano legge, perseguitavano e taglieggiavano la popolazione.
«Gli anti Balaka hanno origine come meccanismo di
autodifesa contro i soprusi della Seleka – ci racconta una nostra fonte locale
– nascono a Bassangoa (nell’Est del paese a forte presenza cristiana, ndr)
poi si moltiplicano nelle altre città». Queste milizie, sedicenti cristiane,
diventano il nuovo elemento di instabilità. Combattono dapprima contro la
Seleka, ma iniziano subito a commettere persecuzioni e rappresaglie nei
confronti dei musulmani in genere. Il conflitto prende una piega
etnico-religiosa, tant’è che le Nazioni Unite mettono in guardia contro il
rischio «genocidio». Gli islamici lasciano in massa il paese. È il 5 dicembre
che gli anti Balaka attaccano la capitale. «Sono armati di armi “artigianali”,
machete, qualche arma da fuoco. Restano milizie non cornordinate tra loro, anche
nella stessa località si possono avere tanti gruppi diversi, poco collegati.
Sicuramente ci sono dentro banditi, qualcuno che ne approfitta. C’è poca
politica» continua la nostra fonte. Eppure i dubbi di un appoggio esterno ci
sono: secondo il Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite: «François Bozize
fornisce sostegno materiale e finanziario a delle milizie […] che cercano di
riportarlo al potere, ovvero gli anti Balaka, ed ex membri dell’esercito
centrafricano». Levy Yakété, vicino a Bozize prima del colpo di stato, è
accusato di organizzare distribuzione di machete a giovani cristiani
disoccupati, allo scopo di attaccare i musulmani. I due personaggi, insieme a
Nourredine Adam, numero due della Seleka, sono stati raggiunti da sanzioni
inteazionali dell’Onu.
La Francia decide di irrobustire la
sua presenza, fino a quel momento di 600 militari, arrivando a 2.000 e battezza
l’operazione Sangaris.
Diversi
scontri delle milizie cristiane si verificano anche con le truppe della Misca,
la missione di pace dell’Unione africana, circa 5.400 uomini, di cui fanno
parte 830 militari ciadiani. Ed è proprio contro questi che si accaniscono gli
anti Balaka, accusandoli di collusione con la Seleka.
Il presidente ciadiano Idriss Déby,
cambia atteggiamento rispetto alla crisi. Il Ciad è stato coinvolto fin
dall’inizio nel ruolo di mediatore, ma allo stesso tempo ha molti interessi in
campo, e ha appoggiato la Seleka (di cui diversi ufficiali sono ciadiani). Déby,
presidente di tuo della Cesac (Comunità economica degli stati dell’Africa
centrale), il 10 gennaio convoca un incontro di vertici a Njamena durante il
quale i presidenti dell’area decidono che Djotodia deve passare la mano. Così
il presidente Seleka «forzato alle dimissioni» abbandona e si trasferisce in
Benin per un esilio dorato (durante poco più di 9 mesi di potere è riuscito a
mettere da parte una discreta fortuna, grazie al commercio di pietre preziose).
Il Consiglio nazionale di
transizione (Cnt), parlamento provvisorio della Rca, composto da 135 membri,
elegge il sindaco di Bangui, Chathèrine Samba-Panza, nuovo presidente della
Repubblica ad interim, incaricata di organizzare le elezioni generali.
Nominato un nuovo primo ministro, André Nzapayéké, il 27 gennaio viene varato
un nuovo governo, molto simile al precedente, in cui entrano gli anti Balaka.
Ma gli scontri non si placano e, mentre Bangui resta in mano ai francesi della
Sangaris e alla Misca (dalla quale il Ciad ha ritirato i suoi uomini), le
truppe della Seleka ripiegano nelle loro zone di origine (a Nord Est) per
riorganizzarsi, mentre nel resto del paese imperversano gli anti Balaka.
Il 10 aprile il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite vota l’invio di una forza di pace di 11.800
caschi blu, che però non arriverà prima del 15 settembre, mentre l’Unione
europea manderà un contingente di 500 uomini.
Benché sia ben accetta dalla
popolazione, la Samba-Panza ha poco margine di manovra. Nel paese ci sono
almeno 200.000 sfollati interni e 60.000 rifugiati oltre confine. Intanto
l’esodo dei musulmani, sia stranieri sia centrafricani, continua con ogni
mezzo. «La situazione è molto preoccupante – riprende il nostro interlocutore –
le milizie delle varie fazioni fanno tutto quello che vogliono e nessuno può
intervenire».
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Incontro con il musicista Bibi Tanga
«Il
problema del mio paese è la classe dirigente che non sta assolutamente
dimostrando di essere impegnata, né è interessata a trovare una soluzione seria
a ciò che sta accadendo. L’attuale generazione politica non è all’altezza del
proprio compito e sta calpestando i nostri diritti».
Così denuncia l’artista centrafricano Bibi Tanga, nato
nel 1969 a Bangui, poi trasferitosi in Francia con la famiglia dopo aver girato
mezzo mondo. Cresciuto nella periferia parigina, ha sviluppato una doppia
cultura, conservando le proprie radici nella terra d’origine, la Repubblica
Centrafricana. «La maggior parte dei miei familiari – ci racconta – vive ancora
laggiù. In questa situazione così instabile e tormentata i miei rapporti con
loro sono quotidiani. Cerco di sentire telefonicamente i miei parenti ogni
giorno». Preoccupazione comprensibile, considerata l’involuzione
politico-sociale che sta attraversando questa nazione, da quando, nel marzo
2013, il presidente François Bozize è stato costretto a lasciare il paese per
l’incapacità di arginare gli scontri del gruppo ribelle chiamato Seleka.
Compositore,
bassista, interprete eclettico ed estroso, Bibi Tanga ha vissuto in Russia,
negli Stati Uniti e in Belgio, seguendo il padre diplomatico e funzionario
della Repubblica Centrafricana. La passione per la musica si è rivelata in lui
molto presto. Non ancora adolescente, Bibi Tanga ha imparato il solfeggio,
dedicandosi poi allo studio del basso, ed è in Francia che ha iniziato la sua
formazione musicale, ascoltando in particolare Jacques Brel, Curtis Mayfield,
James Brown e Bob Marley. Il suo sguardo artistico spazia quindi dal soul al
reggae, dal funk alla chanson française, ma il richiamo dei suoni della
Madre Africa lo hanno ridestato. Si è avvicinato alla musica di Fela Kuti col
suo irresistibile e politicamente impegnato afrobeat: una scoperta artistica
che per Bibi Tanga diventa una rivelazione sorprendente. Attingendo a tutte
queste influenze, l’artista centrafricano ha pubblicato nel 2000 il suo primo
album dal titolo Le vent qui soufflé, cui seguono Yellow Gauze
(2006), Dunya (2009) e 40° Of Sunshine (2012). Dischi pieni di
contaminazioni e di fusioni, come lui stesso sottolinea: «La mia è una “musica
senza frontiere”. Una definizione, questa, che mi piace. In fondo, tutta l’arte
in generale vede l’incontro di molteplici influenze. Non ci sono solo i ritmi
africani nei miei lavori, ma molto altro».
In
questo «altro» ritroviamo riferimenti sia alla vita di tutti i giorni, sia alla
situazione politico economica dell’Africa. Ritroviamo anche una mescolanza di
lingue – francese, inglese, sango – come pure il forte attaccamento alla terra
che gli ha dato i natali. «Il legame che nutro verso il mio paese è ancora più
intenso, considerato il dramma che sta vivendo. Ho voluto mantenere la
nazionalità centrafricana, talmente è forte l’affetto che provo per la mia città
d’origine. Bangui è stata sfigurata, distrutta dai recenti avvenimenti – spiega
con inquietudine l’artista – e la situazione continua a essere catastrofica. I
civili vengono massacrati, anche in altre zone del paese. Ma non voglio cadere
nella disperazione. È necessario pensare alla ricostruzione e a una soluzione.
Con la mia musica cerco di parlare di pace anche ai miei connazionali. Per
esempio, nel mio ultimo album intitolato Now ho inserito la canzone Ala
Za ï che nella mia lingua matea, il sango, significa proprio pace».
E di pace ne avrebbe davvero bisogno la Repubblica
Centraficana, la cui storia, sin dall’indipendenza avvenuta nel 1960, è sempre
stata tormentata da colpi di stato e regimi dispotici. Anche se Bibi Tanga non è
stato contrario all’intervento francese in Centrafrica nel dicembre 2013,
l’artista attraverso la sua musica deplora l’uso delle armi. Nel brano «Ngombe»,
cantato sempre in sango e inserito nel nuovo album Now, denuncia chi
utilizza il fucile per avere ragione, per dimostrarsi il più forte, per avere
il diritto di parlare. «Cantare nella mia madrelingua è un modo per sentirmi
vicino ai miei familiari, ai miei connazionali e alla mia terra d’origine, per
la quale sogno un futuro senza più massacri, senza più bagni di sangue. Spero
che la mia musica possa cambiare le coscienze».
Silvia C.
Turrin
Tags: guerra, violenza
Seleka, Anti-Balaka, rifugiati, guerra civile, convento, Carmelitani,
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Federico Trinchero e altri