Forse Darwin piangerebbe

Viaggio in Cile / 3

Anche a Chiloé il
modello del libero mercato è stato deleterio. Il supersfruttamento del mare ha
prodotto pesanti conseguenze sulla fauna ittica e sui pescatori artigianali,
schiacciati dalle grandi imprese. Ecco perché, se Charles Darwin tornasse a visitare
l’arcipelago cileno, forse non ne sarebbe entusiasta.


Ancud (Chiloé). Era il giugno del 1834 quando nel piccolo porto di Ancud attraccò
il «Beagle», un veliero della marina militare britannica che trasportava un
giovane naturalista inglese destinato a grande fama, Charles Darwin1.

Ancud
è la prima cittadina che s’incontra dopo aver attraversato il canale di Chacao.
Dai tempi della visita di Darwin questi luoghi sono rimasti relativamente
tranquilli. Ciò che, in quasi due secoli, è cambiato in toto (e in peggio) è
l’ecosistema, sia sulla terraferma che in mare.

Il mare depredato

Nel
porticciolo sono ormeggiate alcune imbarcazioni. La maggioranza sono barche a
motore di piccole dimensioni. Di solito il loro equipaggio è composto di
quattro uomini: tre vanno sott’acqua e uno rimane a bordo. Alcune imbarcazioni
sono appena rientrate in porto. Le operazioni sono veloci. Si scaricano a terra
i sacchi carichi di mariscos (frutti di mare, ndr) che vengono
subito pesati.

Un
uomo robusto, con barba e occhiali s’aggira per il porto. Osserva, parla con
tutti. Scopriamo subito che è il principale acquirente di prodotti ittici di
Ancud.

Ci
presentiamo e lui risponde con gentilezza, pur non smettendo mai di seguire le
attività che si svolgono attorno. Si chiama Alejandro Meda.

«Compro
tutto ciò che arriva in porto – racconta -: mariscos oppure luga roja
(un tipo di alga, ndr)2 come
questa che vedete nel camion. È molto richiesta, soprattutto dall’estero. Gli
Stati Uniti ad esempio ne comprano in gran quantità. Le acque di Ancud non
offrono tanto. Per pescare dell’altro, occorre andare al largo, dove si trova
il merluzzo».

Alejandro
è un commerciante e dà l’impressione di saperci fare, ma appena gli facciamo
una domanda sulla situazione della pesca dipinge un quadro a tinte fosche. «Il
mare non sta offrendo molto perché è stato sfruttato troppo. Un tempo le
imbarcazioni arrivavano piene di pesce. Ora arrivano con molto meno, forse un
terzo. Per questo i pescatori artigianali stanno diminuendo. Non occorrono
tante ricerche: basta guardare al numero di barche in porto, che è in costante
riduzione».

Con
il nostro accompagnatore entriamo nel magazzino dove sono raccolti sacchi di almejas
(vongole, ndr), che a noi profani sembrano giganti. «Anche la quantità
di almejas raccolte – ci spiega Alejandro – si è ridotta drasticamente
nel corso degli ultimi anni. In questo periodo poi il loro prezzo è raddoppiato
a causa dello sciopero contro la nuova legge sulla pesca». Secondo la
maggioranza dei piccoli pescatori artigianali la legge del febbraio 2013, lungi
dal migliorare la sostenibilità dell’attività, continua invece a favorire le
imprese industriali.

Lasciamo
Alejandro Meda e Ancud per dirigerci più a Sud, verso Castro.

I disastri della
salmonicoltura

Davanti alla banchina del piccolo porto di Dalcahue, a pochi
chilometri da Castro, incontriamo Victor. Giovane e gentile, ha una piccola
bancarella di choritos (Mytilus chilensis, un tipo di mollusco, ndr)
posta quasi sull’uscio di casa sua. È un pescatore artigianale, ma i mitili in
vendita non li ha pescati lui. «La mia barca è lì sotto», dice indicando con la
mano la spiaggetta sottostante. Victor ci parla del salmone e dei danni che la
sua produzione intensiva ha provocato. Dopo la crisi del 2007, dovuta alla
diffusione del virus Isa, le imprese – quasi tutte straniere (norvegesi,
canadesi e giapponesi) – hanno licenziato migliaia di lavoratori. «Oggi la
produzione è in ripresa, ma i problemi rimangono. A cominciare
dall’uso scandaloso degli antibiotici», spiega Victor.

I dati confermano la gravità della situazione. È stato calcolato
che nel 2013 le industrie salmoniere del Cile hanno utilizzato tra i 150 e i
230 grammi di antibiotici per tonnellata di salmone prodotto. Nelle imprese
norvegesi e canadesi la media normale è tra i 5 e i 50 grammi per tonnellata3.

Tutto torna. Qualche anno fa, durante un altro viaggio a Chiloé,
riuscimmo a visitare in mare aperto, a poche miglia dalla costa, un impianto di
salmonicoltura. Era una struttura galleggiante composta da vasche delimitate da
reti in cui il salmone veniva allevato e ingrassato (queste strutture sono
chiamate balsas-jaulas). In quell’impianto vedemmo sacchi di cibo per
l’ingrasso dei pesci ma anche borse di antibiotici pronti a essere gettati in
acqua. Senza essere esperti, capimmo subito le potenziali conseguenze negative
di queste «fattorie di salmoni». Enormi quantità di cibo, farmaci, feci si
disperdono nelle acque con effetti devastanti sull’ambiente marino.

Dopo aver accettato di mangiare (con qualche timore, in verità) un
chorito crudo offerto da Victor, lo salutiamo. Pochi passi e incontriamo
un altro pescatore, che sta facendo ordine su un piccolo peschereccio. Si
chiama Milo. Capelli biondi e occhi azzurri, l’uomo racconta di avere origini
russe. Pare assai meno coinvolto di Victor. La sua visione critica si limita al
proprio orto. Milo dice che è stanco di lavorare così e che in mare ci sono
troppi incidenti. Vorrebbe imbarcarsi su una grande nave da pesca. «Per girare
il mondo. E poi ti pagano 1.500-2.000 dollari al mese e non hai spese», spiega.

A Castro incontriamo Mauricio Muñoz, giornalista presso il
quotidiano La Estrella. Mauricio ci conferma quanto finora raccolto. «Oggi
le salmoneras hanno ripreso a lavorare. I controlli sono molto più
severi di un tempo, ma la minaccia di problemi sanitari è sempre latente».

Dopo la Norvegia, il Cile è il secondo produttore mondiale di
salmone. La domanda di questo prodotto è in costante crescita e dunque
l’attività della salmonicoltura risponde alle richieste del mercato. Un settore
che muove miliardi di dollari non si ferma davanti a problemi ambientali o
sanitari, per quanto gravi essi possano essere. Come quasi sempre accade quando
si lascia carta bianca all’economia di mercato, la questione dell’allevamento
dei salmoni si è trasformata in una lotta tra poveri, in questo caso tra
salariati delle salmoneras e pescatori artigianali. «Capisco gli uni e
gli altri – conclude Mauricio -. D’altra parte, quando butti in mare quantità
di alimenti artificiali per ingrassare i salmoni, si produce contaminazione. E
l’effetto domino è assicurato».

La speranza sta nella balena

Nel 1859, nella prima edizione del celeberrimo «L’origine delle
specie», Charles Darwin parlò anche delle balene, che potè ammirare proprio
durante i suoi viaggi nei mari del Sud America.

Oggi, proprio sul passaggio di questi splendidi cetacei, nelle
acque dell’arcipelago di Chiloé si è sviluppato un turismo naturalistico di
grande attrazione (e molto redditizio). Come al parco marino di Puñihuil, a 30
chilometri da Ancud. Queste attività turistiche potrebbero fungere da
catalizzatore dell’opinione pubblica internazionale sui problemi del mare e del
suo sfruttamento insensato.

In altre parole, alla fine un aiuto insperato potrebbe venire da
pinguini, delfini e balene, che ancora frequentano i mari di Chiloé. Almeno
fino ad oggi.

 
Paolo Moiola
(terza e ultima puntata)
 
Note
1 – Il diario di viaggio di Charles Darwin è raccontato nel libro The Voyage of the Beagle, pubblicato nel 1839.

2 – La luga roja – il cui nome scientifico è «Gigartina skottsbergii» – trova impiego in svariati
campi, dall’alimentare alla cosmetica.

3 – Dati riportati dalla «Fundación Terram» (www.terram.cl).

Breve cronologia di Chiloé

1553 – Il capitano Francisco de Ulloa, dietro comando di Pedro
de Valdivia, il conquistatore del Cile, tocca le isole dell’arcipelago di Chiloé.

1558, 28 febbraio
– García Hurtado de Mendoza prende
possesso delle isole per conto della Corona di Spagna.

1767 – 1771 – I gesuiti, primi evangelizzatori di Chiloé e ideatori
delle tipiche chiese in legno, vengono espulsi dalle Americhe e da Chiloé
(1767). Nel 1771 il loro posto viene preso dai francescani.
1826
Ben 8 anni dopo l’indipendenza del
Cile (1818), anche Chiloé si unisce alla repubblica cilena.

1834, giugno – Charles Darwin arriva per la prima volta a Chiloé.
Il «Beagle» getta l’ancora nel porto di Ancud.
1960, maggio – Si verifica il più
forte terremoto mai registrato sulla Terra. Noto come «terremoto di Valdivia»,
ha una magnitudo superiore a 9 gradi.
2000 – L’Unesco dichiara 16
chiese in legno di Chiloé «Patrimonio dell’umanità».
2007, giugno – Gli allevamenti di
salmone di Chiloé vengono colpiti dal virus Isa (Infectious salmon anemia),
provocando il crollo della produzione e dell’industria collegata.

2013, 9 febbraio – Entra in vigore la
nuova legge sulla pesca (n. 20.657). Anche a Chiloé ci sono proteste dei
pescatori artigianali.
2013, maggio – In varie parti
dell’arcipelago si tengono manifestazioni popolari per chiedere un sistema di
salute dignitoso.
2014, 28 aprile – La comunità huilliche
ricorre alla giustizia contro la costruzione del megaponte che – attraverso il
canale di Chacao – dovrebbe unire il continente (Puerto Montt) con Chiloé.

A colloquio con mons.
Juan María Agurto Muñoz

Da patrimonio di
Chiloé a patrimonio dell’umanità

Le chiese in legno
dell’arcipelago di Chiloé sono divenute un simbolo a livello internazionale. Ma
testimoniano anche un forte retaggio culturale, ricordando a tutti quanto può
apportare la collaborazione gratuita di una comunità (nota come «minga»). Di
questo e di altro abbiamo parlato con mons. Juan María Agurto Muñoz, vescovo di
Ancud.

Ancud (Chiloé). L’appuntamento è presso l’ex Convento
dell’Immacolata Concezione. Qui ha sede la
«Fondazione Amici delle Chiese di Chiloé» (Fundación Amigos de las Iglesias
de Chiloé
). Nella ex cappella l’organismo ha allestito un piccolo ma
prezioso museo dove i visitatori possono capire la storia e le tecniche della
scuola di architettura in legno di Chiloé, da cui sono nate le chiese
dell’arcipelago.

Mons. Juan María
Agurto Muñoz è vescovo dal 2002: prima come coadiutore di mons. Juan Yse de
Arce, poi dal 2005 come vescovo titolare. Per l’intervista si accomoda in un
contesto molto appropriato: davanti a una parete su cui sono appese una sequela
di foto delle chiese di Chiloé. Oggi nell’arcipelago sopravvivono – stando ai
dati della Fondazione – circa 70 chiese in legno, 16 di esse sono state
dichiarate «patrimonio dell’umanità».

Monsignore, il nome di Chiloé deriva
da un termine huilliche. Cosa rimane oggi dei popoli originari di questo
arcipelago?

«Una volta era
vergognoso ammettere le proprie radici indigene, oggi per fortuna è vero il
contrario. Quando gli spagnoli arrivarono a Chiloé, c’erano dei popoli
originari: Chonos, Cuncos e soprattutto gli Huilliches, che vengono considerati
i Mapuches del Sud, quelli relazionati con il mare (anche se – a essere sinceri
– molti Huilliches non vogliono essere assimilati ai Mapuches). Purtroppo
questa diversità culturale non è stata ancora accettata dalla nostra
Costituzione. Sarebbe un passo fondamentale per la riconciliazione e
l’eguaglianza nel paese. Per dirla con uno slogan, occorre coniugare la
diversità nell’unità. Per quanto mi riguarda, io sono un meticcio, una mescola
di sangue spagnolo e mapuche».

In un arcipelago come quello di
Chiloé le problematiche della salute e dell’educazione sono ancora più sentite
che nel resto del paese…

«Chiloé è
frammentata in un insieme di isole. Per chi vive nelle isole più piccole andare
ai centri di salute è una grande sfida, soprattutto nella stagione fredda. Debbono recarsi agli ospedali di Castro o di
Ancud o a Puerto Montt, sul continente, se c’è necessità di un controllo
particolare. Nel maggio 2013, a Quellón, ci sono state proteste per reclamare
una sanità degna. A partire da lì si sono organizzate manifestazioni in tutta
l’isola. Quanto all’educazione, qui abbiamo strutture universitarie minime. La
maggior parte dei nostri giovani debbono andare via da Chiloé per poter
studiare. E poi magari non ritornano più. Sicuramente nell’arcipelago c’è la
necessità di migliorare in maniera sostanziale i servizi per la salute e
l’educazione».

In questo edificio è ospitato il
museo e il centro visitatori delle chiese in legno di Chiloé. Ironia del
destino la cattedrale di Ancud è una costruzione modea…

«Nel maggio
1960 qui ci fu il più forte terremoto mai registrato sulla terra: con una
magnitudo superiore a 9 gradi (terremoto di Valdivia o Grande terremoto cileno,
ndr). La cattedrale di Ancud, che era stata costruita nel 1907, fu tanto
danneggiata che si preferì raderla al suolo. Le tragedie naturali hanno
influito sul carattere cileno, abituandolo a reagire, come accadde ad esempio
con il regime militare».

La natura è certamente
imprevedibile, ma troppo spesso i disastri ambientali hanno cause umane. Com’è
la situazione dell’arcipelago?

«Sulla fine
degli anni Settanta il
vescovo Juan Yse de Arce riuscì a far sì che la comunità fermasse un progetto
di disboscamento (denominato Astillas) che avrebbe reso desolata l’isola. Ancora oggi i boschi
di Chiloé sono troppo sfruttati, addirittura come legna da riscaldamento.
Purtroppo, il rinnovo del patrimonio boschivo è molto più lento del consumo.
Quanto al mare, alcuni anni fa abbiamo sofferto di una grave crisi nella
coltivazione del salmone provocata da un virus. Per questo oggi esigiamo una
salmonicoltura che abbia un maggiore rispetto dell’ambiente marino. Detto
questo, la coscienza civica deve crescere in tutti. Quando faccio le mie visite
pastorali nelle isole, vedo spiagge piene di materiale plastico».

Rimanendo in tema di mare, qui ad
Ancud ma anche a Dalcahue e a Castro abbiamo parlato con piccoli pescatori.
Sono tutti arrabbiati, delusi, preoccupati…

«Capisco i
pescatori. Quando li incontro nelle feste – per esempio in quella di San Pedro
Pescador, il 29 di giugno -, mi raccontano i loro problemi. La legge sulla
pesca riformata prevede quote per ciascuna specie ittica e divieti periodici (vedas)
per preservarle. Il problema fondamentale è che c’è stato un supersfruttamento
da parte dei grandi pescherecci, sia stranieri che cileni. I piccoli pescatori
artigianali hanno problemi a trovare pesci. Adesso poi, con la introduzione di
nuovi limiti e divieti, i piccoli si sentono ancora più vessati e per questo
protestano. Va pure ricordato che l’attività della pesca è anche intimamente
legata al tesoro di Chiloé».

Si riferisce alle chiese?

«Certo. Esse
sono state costruite con la tecnica dei falegnami che fanno le imbarcazioni.
Provate a guardare la volta del tetto: è come il fondo di una barca capovolta».

La loro storia parte da lontano…

«Le chiese
nacquero con la prima evangelizzazione a partire dal 1600: i gesuiti prima, i
francescani poi. Si costruivano come le case cioè utilizzando il legno nativo (alerce,
ciprés de las Guaitecas, coigüe
) e le tecniche di costruzione locali.
Nell’anno 2000 l’Unesco dichiarò 16 di esse “patrimonio dell’umanità”. Si badi
che l’agenzia delle Nazioni Unite non dà denaro: si limita al riconoscimento e
alla certificazione. Dato che ai visitatori non facciamo pagare un biglietto
d’ingresso alle chiese, il nostro autofinanziamento è per ora limitato alla
vendita di ricordini o piccoli servizi ai turisti. I restauri vengono quindi
pagati dallo stato cileno, che si è assunto il compito di proteggere il
patrimonio».

Per lei cosa rappresentano le chiese
di Chiloé?

«Sono un segno
della fede, ma anche dello sviluppo sociale e culturale dell’arcipelago. Esse
sono state costruite attraverso la minga cioè con la collaborazione
gratuita delle comunità. La minga, parola indigena, può riguardare la
costruzione della casa, l’effettuazione del raccolto o una battuta di pesca. Ma
anche la costruzione di una chiesa».

Un’ultima curiosità, monsignore. La
chiesa di San Francisco, a Castro, ha un colore giallo, che definire acceso è
quasi riduttivo. Quella di Tenaun è blu, quella di Caguach rossa. Come si
spiegano queste scelte cromatiche?

«In tanti se
lo chiedono, ma la spiegazione è molto semplice. Dato che qui, per gran parte
dell’anno, dominano il colore grigio delle nuvole e verde intenso della natura,
gli abitanti hanno sempre voluto colori molto vivi per le loro case e anche per
le chiese. Si sono scelti colori contrastanti che risaltino molto. Un ennesimo
esempio di come quella di Chiloé sia una comunità più viva che mai».

Paolo Moiola


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Paolo Moiola