Un grido stanco, ma tenace.
Contro l’oblio.
Camminando per El Salvador
con l’orecchio attento, abbiamo incontrato un grido, sempre più stanco e
flebile, ma tenace. Esso nasce dal decennio di guerra intea degli anni
Ottanta, e dalle violenze e ingiustizie che lo hanno preceduto e seguito.
Chiede verità, giustizia, riconoscimento, riparazione. Proviene dalle anziane
madri degli scomparsi, dai figli dei massacrati, dai sopravvissuti alle torture,
dai bambini sottratti alle famiglie e dai genitori che li cercano, da coloro
che hanno fatto dei diritti umani la loro battaglia di vita. Costoro sono l’umanità sofferente, l’effetto collaterale
che, in ogni parte del mondo, segue sempre un periodo di barbarie.
Vi
sono molti modi per visitare un paese: scoprie le ricchezze artistiche,
godere delle spiagge e della natura, seguire un percorso enogastronomico. Noi
abbiamo deciso di attraversare El Salvador dedicando il nostro sguardo e il
nostro ascolto alla domanda di giustizia che si eleva dalla sua terra.
All’indomani del conflitto, che insanguinò il paese per
tutti gli anni Ottanta, El Salvador scelse la via dell’amnistia, che escluse la
possibilità di celebrare processi e depotenziò radicalmente il lavoro svolto
dalla Commissione per la verità istituita nel 1992. Alla base di questa
strategia, adottata da molti paesi latinoamericani nello stesso periodo, vi era
l’interesse dei vertici politici e militari e di alcuni leader guerriglieri ad
autotutelarsi. Negli anni successivi, la politica del «voltar pagina» prese le
forme del silenzio sul passato, del negazionismo, dell’ostacolare qualsiasi
richiesta delle vittime.
A fronte dell’inerzia (quando non dell’ostilità) dello
stato, il movimento per i diritti umani, che aveva raggiunto l’apice negli anni
della guerra, fece del contrasto all’impunità e della difesa dei diritti delle
vittime una delle sue nuove ragioni d’essere.
Con pochi mezzi e molto coraggio, alle organizzazioni
storiche (i comitati delle Madri, l’Ufficio di tutela legale
dell’Arcivescovado, la Comisión de Derechos Humanos, l’Istituto per i
diritti umani dell’Universidad Centroamericana) se ne affiancarono
alcune nuove, tra cui il Centro Madeleine Lagadec e l’Associazione
Pro-Búsqueda. Si tratta di piccole organizzazioni che, con modalità diverse
(l’appoggio psicologico ai familiari durante le esumazioni dei caduti, la
rappresentanza giuridica davanti alle istituzioni nazionali e inteazionali,
la ricerca dei bambini scomparsi…), si adoperano per rispondere alle necessità
delle vittime.
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El pulgarcito de America
La scrittrice cilena, nobel per la letteratura nel 1945, Gabriela Mistral
lo battezzò el pulgarcito (pollicino) de America. Con 6 milioni
di abitanti e una superficie di 21mila kmq (di poco inferiore a quella
dell’Emilia Romagna, ndr), è il paese più piccolo e densamente popolato
dell’America Centrale. Situato lungo el cinturón de fuego (un «anello»
che borda i margini dell’Oceano Pacifico di attive zone di subduzione – zone di
frizione tra due zolle tettoniche in cui sono frequnti eventi vulcanici e
sismici, ndr), il 90% del suo territorio è formato da materiale
vulcanico, e sei dei suoi ventitre vulcani presentano qualche forma di attività.
San Salvador, la capitale, sorge
alle pendici di un vulcano nella valle cosiddetta «della amache». L’ultimo
devastante terremoto risale al 2001, ma i temblores (tremori della
terra) sono all’ordine del giorno.
El Salvador appare come un paese
dove la natura è matrigna, ma anche madre benigna che impressiona per la
biodiversità della flora e della fauna tropicale, la rigogliosità della
vegetazione, i colori degli uccelli, e l’abbondanza della frutta.
1524 / La
Colonizzazione
All’arrivo dei coloni spagnoli,
nel XVI secolo, la regione dell’odierno El Salvador era abitata dai Pipil,
etnia di origine nahua, e da alcune enclavi minori, di ascendenza maya. I conquistadores,
dopo aver sbaragliato la resistenza autoctona nel giro di quattro anni di guerre
sanguinose (1524-28), s’impadronirono delle terre e fecero della
manodopera indigena la loro principale fonte di arricchimento. Il duro lavoro
nelle piantagioni, le malattie e la diffusione del meticciato eliminarono
progressivamente i tentativi di rivolta. Dopo i conquistadores, anche i misioneros
(missionari appartenenti a diversi ordini religiosi) approdarono in El Salvador
e si dedicarono alla cura pastorale dei coloni e dei creoli e alla conversione
al cattolicesimo degli indios e dei meticci.
El Salvador rimase dipendente
dall’Audiencia del Guatemala, appartenente al vicereame della Nuova Spagna fino
al 1821, quando per l’insofferenza verso le vessazioni economiche della
Casa reale spagnola dichiarò la propria indipendenza partecipando alla
federazione delle Province unite dell’America centrale (1823-39).
Nel 1841, dopo lo
scioglimento della federazione, fu proclamata la repubblica.
A partire dall’indipendenza il
paese fu guidato alternativamente dai conservatori e dai liberali, entrambi
espressione dell’élite creola.
Una ristretta oligarchia
borghese (le cosiddette 14 famiglie), dedita alla produzione di caffè per
l’esportazione, attraverso la corruzione di governatori e alcaldi, le
compravendite legittime e alcune leggi che proibivano il possesso comune della
terra (emanate tra il 1879 e il 1882), si impadronì di gran parte delle
terre coltivabili, trasformando gli indigeni e i contadini meticci in
braccianti sottopagati.
Nel 1913, grazie a brogli elettorali, la dinastia Melendez Quiñónez
salì al potere, avviando il primo, lungo, periodo di dittatura sofferto dal
paese. La politica di repressione della classe lavoratrice favorì la nascita
delle prime organizzazioni sociali e sindacali e gettò il seme per la grande
insurrezione del 1932.
Nel 1931 un colpo di stato portò al potere il generale
Maximiliano Heández Martínez. La grande depressione economica mondiale non
risparmiò El Salvador, la cui economia dipendeva dalle esportazioni. La
drammatica situazione sociale nelle campagne, dove il 91% dei lavoratori
agricoli non possedeva terra da coltivare per il fabbisogno familiare, e la
cancellazione delle elezioni municipali che il governo golpista aveva inizialmente autorizzato, furono tra i
fattori scatenanti degli scioperi del 1931 e dell’insurrezione dell’anno
seguente.
Quanto avvenne nel 1932 è sovente considerato la «shoa salvadoregna», ed è
indicato con l’espressione la Matanza (il massacro). Nella capitale le rivolte
erano guidate dal Partito comunista di Farabundo Martí, mentre nelle campagne
furono i contadini a sollevarsi. Il regime rispose con inaudita violenza: tra
gennaio e febbraio furono sterminate circa 30mila persone. Autrici dei massacri
furono le forze militari regolari e le formazioni di civili paramilitari,
antesignane degli squadroni della morte che sarebbero poi stati protagonisti
delle violenze degli anni ’70 e ’80.
Durante gli anni della sua
dittatura, Martínez si schierò con le potenze dell’Asse prima e con gli Usa
poi. Fu sostituito dal generale S. Castañeda (1945-48) e dai colonnelli Oscar Osorio (1950-56) e J. M. Lemus (1956-60).
Sul fronte interno, una volta
tramontati gli iniziali tentativi riformisti, questi governi optarono per il
soffocamento di qualunque forma di opposizione. Sul piano internazionale, si
posero nella scia degli Usa.
Alcuni ufficiali riformatori
presero il potere per pochi mesi tra la fine del 1960 e l’inizio del 1961, quando furono sostituiti da una giunta militare
conservatrice, al potere con i colonnelli A. Rivera (1962-67) e F. Sánchez (1967-72). L’azione di questi governi non incise
sulla situazione di grave ingiustizia sociale, data dalla concentrazione della
ricchezza, e in particolare della terra, in poche mani. Grazie ai consueti
brogli elettorali il Pcn (Partido de conciliación nacional), espressione
della destra anticomunista e militarista dei colonnelli, vinse le elezioni
presidenziali del 1972 e del 1977. Nel corso degli anni Sessanta, nell’intera America Latina i fermenti libertari e sociali si erano
fusi con le istanze provenienti dal Concilio Vaticano II e dalla
conferenza dei vescovi latinoamericani di Medellín, che mettevano il «popolo»
al centro della Chiesa e richiamavano i cristiani all’impegno per la giustizia
sociale.
L’ondata di rinnovamento trovò
in El Salvador un terreno fertile. Il clero più favorevole alle decisioni di
Medellín s’impegnò nella difesa e nella «coscientizzazione» del popolo oppresso,
anche a costo di una profonda divisione intea alla Chiesa.
Nacquero le Comunità
ecclesiali di base (piccoli gruppi di fedeli che si riunivano per la
lettura comunitaria della Bibbia, considerata uno strumento di comprensione
della realtà e una guida per l’impegno sociale), cui presto si affiancarono
numerose altre organizzazioni sindacali e politiche, d’ispirazione
cristiana, comunista o rivoluzionaria.
La crescente partecipazione
sociale del popolo scatenò una sempre più spietata repressione, che a sua volta
indusse alcune organizzazioni popolari a far nascere veri e propri movimenti
politici d’ispirazione marxista leninista, rivoluzionaria o insurrezionalista,
esplicitamente orientati alla lotta. Questi, allo scoppiare della guerra nel 1980, confluirono nel Frente Farabundo Martí para la
Liberación Nacional (Fmln).
1976-1980 / Rutilio Grande e monsignor Oscar
Romero
Nel 1976 mons. Chávez y González, arcivescovo della capitale,
rassegnò le dimissioni. Alla sua successione non fu nominato il suo ausiliare,
mons. Rivera Damas, ritenuto troppo critico verso il governo, bensì mons. Oscar
Aulfo Romero y Galdamez. Romero era un uomo spirituale, dedito allo studio,
estraneo alla politica e non in contrasto con l’oligarchia e il governo.
Nel febbraio del 1977 la polizia rispose con il fuoco alle proteste contro i
brogli elettorali. Il 12 marzo dello stesso anno, padre Rutilio Grande
fu ucciso in un’imboscata, insieme a due contadini. Nella missione di Rutilio,
la lettura assidua della Bibbia e l’aiuto reciproco avevano portato i campesinos
a prendere consapevolezza dell’inconciliabilità dell’universale pateità di
Dio e della fratellanza tra gli uomini con la situazione di disuguaglianza e
oppressione in cui vivevano. La scoperta dei propri diritti li aveva portati a
protestare per le frodi sul salario e a organizzare il primo sciopero. Rutilio,
per rimanere fedele alla sua linea di adesione univoca e incondizionata al
Vangelo, aveva difeso il diritto dei fedeli a organizzarsi politicamente, rimanendo
estraneo ai raggruppamenti e alle iniziative politiche.
Padre Grande e il neoeletto
arcivescovo di San Salvador erano intimi amici. La morte del gesuita scosse
profondamente mons. Romero e lo spinse a interrogarsi sulla sua missione in
quel preciso momento storico. Egli si sentì chiamato a diventare voce e difesa
del popolo oppresso, a costo dello scontro frontale con il presidente, il
governo e l’oligarchia. Ciò creò una forte unità tra lui e il clero diocesano
che inizialmente non ne aveva apprezzata la nomina.
Romero non giustificò mai alcuna
forma di violenza, nemmeno quella rivoluzionaria, poiché violava la sacralità
della vita umana, rendeva impossibile il dialogo e alimentava la spirale di
vedetta. Non poteva però tacere il fatto che fosse la violenza strutturale e
istituzionalizzata a suscitare quella dei movimenti popolari. L’Arcivescovo non
rifiutò mai il dialogo con gli uni o con gli altri, ascoltando e proponendo la
via cristiana della conversione e della nonviolenza.
Nel 1979, nel vicino Nicaragua la lotta di liberazione dei
sandinisti sconfisse il dittatore Somoza: ciò fece apparire ancora più
insostenibile la dittatura militare salvadoregna, che venne rovesciata con un
golpe quasi incruento. Una giunta rivoluzionaria, composta di esponenti
riformisti dell’esercito e della società civile resistette due mesi e mezzo.
Seguì una seconda giunta rivoluzionaria, ma lo scenario non cambiò: in
città le manifestazioni erano represse nel sangue, nelle campagne l’esercito
e gli squadroni della morte seminavano il terrore tra i contadini. La
guerriglia, dal canto suo, rispondeva a questa situazione con sequestri e
omicidi di politici e di membri dell’oligarchia, attacchi contro le forze di
sicurezza, occupazioni di edifici, scatenando terribili rappresaglie che
colpivano la popolazione civile.
L’arcivescovo Romero prese
un’iniziativa senza precedenti: scrisse al presidente degli Stati Uniti, Jimmy
Carter, per chiedere di non inviare più aiuti militari a El Salvador, poiché
questi sarebbero stati utilizzati per la repressione del popolo. La sua
richiesta rimase inascoltata. Un mese più tardi, il 24 marzo 1980, dopo aver ricevuto numerose minacce di
morte dagli ambienti di destra e, in seguito all’appoggio alla prima giunta
rivoluzionaria, anche da quelli di sinistra, l’Arcivescovo Romero fu ucciso
mentre celebrava la Messa nella cappella dell’Ospedale presso cui risiedeva, a
San Salvador.
Le indagini sull’omicidio, a
causa di interruzioni, depistaggi, furti di documenti, uccisioni dei testimoni,
non hanno portato alla celebrazione di un processo. Le investigazioni compiute
da istituzioni nazionali e inteazionali concordano nell’indicare Roberto
D’Aubuisson, fondatore degli squadroni della morte e del partito di destra
Arena, quale organizzatore dell’attentato, su probabile incarico d’importanti
proprietari terrieri ed esponenti dell’oligarchia.
Il 30 marzo si svolsero i
funerali. Tra le 50 e le 100mila persone affollarono la cattedrale e la piazza
antistante. Non è chiaro se furono i militari o i guerriglieri ad aprire il
fuoco per primi, fatto sta che le esequie interrotte dell’arcivescovo martire,
e i morti calpestati dalla folla terrorizzata segnarono l’inizio di una lunga e
sanguinosa guerra civile.
1980-1992 / La
Guerra Civile
Il 1980 inaugurò l’epoca dei massacri, perpetrati dalle forze
della controinsurgencia ai danni della popolazione rurale per annientare
ogni residua volontà di ribellione e fare «terra bruciata» intorno alla
guerriglia. Il governo, che riceveva grandi quantità di aiuti economici e militari
dagli Usa, su pressione di questi intraprese alcune riforme (a partire da
quella agraria) e avviò il processo di transizione verso un governo civile:
il leader della Democrazia Cristiana (Pdc) José Napoleón Duarte assunse
l’incarico di presidente provvisorio nel dicembre 1980 e nel marzo successivo fu istituita l’Assemblea costituente, nella
quale i partiti di destra (Pcn e Arena) avevano la maggioranza. Nel 1983 venne varata la nuova Costituzione, nel marzo 1984 si svolsero le presidenziali e l’anno successivo le
legislative. Nonostante la vittoria in entrambi gli appuntamenti elettorali, il
Pdc di Duarte non riuscì a percorrere la via delle riforme e della
pacificazione nazionale, non potendo controllare le forze armate e i legami di
queste con gli squadroni della morte. Le elezioni legislative del 1988 videro l’affermazione di Arena (Alianza
republicana nacionalista), che aveva iniziato la sua scalata politica nel
1984. Nell’89 il leader arenero Alfredo
Cristiani divenne presidente, inaugurando un ventennio di governi del suo
partito.
Nonostante fosse al potere
l’estrema destra di Arena, nel 1990
alcune concause (tra cui il crollo del Muro di Berlino e l’allentarsi della
Guerra Fredda) resero possibile la negoziazione di una soluzione alla guerra,
che aveva ormai assunto un profilo di bassa intensità, anche a causa del
violento terremoto che, nel 1986, aveva seminato morte e
distruzione nel paese già martoriato. Le lunghe trattative tra il governo e
l’Fmln, mediate dal Segretario generale dell’Onu, portarono alla stesura di
un’agenda di riforme (militare, economica e sociale) e culminarono con gli accordi
di pace firmati a Città di Messico il 16 gennaio 1992. Dopo 12 anni di guerra civile si
contarono circa 75mila
morti, 8mila desaparecidos e un milione di profughi.
1989 / Strage all’Universidad
Centroamericana
Nel 1989, mentre era in corso una forte offensiva della
guerriglia sulla capitale, un battaglione speciale dell’esercito penetrò nel
campus dell’Universidad Centroamericana «José Simeón Cañas» (Uca) e
massacrò il rettore, il padre Ignacio Ellacuría, altri cinque gesuiti che
componevano la direzione dell’ateneo, la loro collaboratrice e la figlia di
questa.
I gesuiti della Uca facevano
parte del settore più progressista della Chiesa. Attraverso l’Uca intendevano
educare i giovani, in particolare i figli delle classi dominanti, alla
responsabilità verso la realtà sociale ed economica del paese. Erano abituati
alle campagne denigratorie condotte contro di loro da esponenti del governo,
dell’esercito e della Chiesa stessa, alle minacce e agli attentati ai danni
dell’Università.
Come previsto dagli accordi, fu
istituita una Commissione per la Verità, sotto l’egida delle Nazioni Unite, con
il compito di fare luce sulle violenze perpetrate da entrambi gli schieramenti
in lotta.
La reazione del Goveo di
fronte al dossier elaborato dalla Commissione fu critica e sprezzante. Il presidente
in carica, Alfredo Cristiani, affermò che il report non rispondeva al desiderio
della maggioranza dei salvadoregni, i quali volevano perdonare e dimenticare un
passato tanto doloroso. Cinque giorni più tardi, il 20 marzo 1993, l’Assemblea legislativa emanò una
legge di amnistia generale, che concesse l’impunità a tutti coloro che
avevano commesso delitti relazionati al conflitto armato. Tale legge, tuttora
vigente, permette ai responsabili dei crimini di vivere indisturbati, in alcuni
casi occupando posizioni di prestigio nella vita politica ed economica del
paese e costituisce il principale ostacolo alla ricerca di verità e giustizia
portata avanti dalle vittime del conflitto e dai loro familiari.
Le due decadi successive al
conflitto videro, sul fronte politico, la supremazia di Arena con i suoi
presidenti Cristiani (1989-94), A. Calderón Sol (1994-99), F. Flores (1999-2004) e E. A. Saca (2004-2009), che puntarono tutto sullo sviluppo
del capitalismo, rifiutandosi di affrontare le cause che avevano portato
alla guerra intea.
Dalla fine della guerra poi, il
problema dell’alto livello di criminalità crebbe sempre più: dal 1994 al
2012 le fonti ufficiali hanno registrato 73.608 omicidi (la guerra civile ne
causò circa 75mila). Le violente bande giovanili, chiamate pandillas
callejeras o maras, pur non essendo le sole responsabili di tanta
violenza, sono tutt’oggi la principale fonte di allarme sociale.
Nel 2009, l’Fmln (trasformatosi in partito con gli accordi di
pace), vinse per la prima volta le elezioni dopo alcuni tui elettorali in cui
aveva guadagnato consensi, al contrario di Arena che ne aveva persi. Mauricio
Funes divenne presidente della Repubblica con promesse e aspettative di
progressi sul fronte della giustizia sociale e dello sviluppo che furono poi
onorate solo in misura moderata.
Lo scorso mese di marzo 2014, dopo una campagna elettorale dominata
dal tema della sicurezza, l’Fmln – con il candidato Salvador Sanchez Cerén, ex
leader guerrigliero – ha vinto nuovamente le elezioni, con un vantaggio di soli
6mila voti su Arena.
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Annalisa Zamburlini