ed esclusi. La storia di quel sogno che si realizza oltre le aspettative tra
Eritrea, Kenya e Tanzania. E del sogno di chi gli è stato accanto fino
all’ultimo. Il dottor Giorgio Giaccaglia raccontato con passione da sua moglie,
compagna di una vita dedicata agli altri.
«All’età di sei anni volevo fare il dottore». Giorgio mi
raccontava spesso di quel sogno che piano piano era diventato realtà. Frequentò
l’università di Bologna e nel 1967 si laureò in medicina e chirurgia. Poi si
specializzò in anestesia e in chirurgia vascolare. Aveva sempre avuto la sana
ambizione di diventare un bravo medico, ma non era solo una questione di
lavoro. Era un modo etico di intendere la professione e anche la propria vita.
E non a caso guardava a modelli di grandi medici come i pionieri Albert
Schweitzer (1985-1965) a Lambaréné in Gabon e Giorgio Ambrosoli (1923-1987) in
Uganda.
Ma fu solo a cavallo tra la fine degli anni Settanta e
l’inizio degli anni Ottanta, quando Giorgio lavorava nel grande centro
ospedaliero Malpighi di Bologna, che l’Africa fece irruzione con forza nella
sua vita. In quel tempo molti eritrei arrivavano a Roma e in Emilia Romagna per
farsi curare. Erano profughi in fuga dalla lunga guerra con l’Etiopia. Al
Malpighi, Giorgio ebbe l’opportunità di confrontarsi a lungo con loro, e si
appassionò alla loro causa. Una causa che lasciava molti morti e feriti dietro
di sé. E così accettò la proposta di partire per quella terra: un luogo
lontano, sconosciuto e in guerra che non aveva ancora istituzioni statali.
Partì verso un continente pieno di difficoltà, l’Africa,
con quel coraggio che lo ha sempre contraddistinto e con il desiderio di
aiutare gli altri.
Le ferite insanabili di
un bombardamento
Delle tante esperienze vissute durante quei viaggi che
portavano speranza e sollievo a molte persone, ce n’è una che più di altre
rimase nel cuore di Giorgio, e che lo accompagnò per tutta la sua vita. Una
mattina alcuni aerei bombardarono una scuola. Tante vite innocenti furono
spezzate: bambini devastati dalle schegge, corpi straziati che, in alcuni casi,
fu impossibile curare. Quelle bombe lasciarono una ferita profonda nell’animo
di Giorgio.
Dopo quell’episodio, ritoò ancora in Eritrea per qualche
missione, ma poi smise, e per lungo tempo lasciò l’Africa riprendendo il suo
lavoro in Italia. Per anni non pensò più di partire. Nel frattempo era
diventato primario all’Ospedale di Comacchio e poi del Delta, sempre nel
ferrarese.
Dove è facile toccare
il nulla
Nel 1997 qualcosa riprese ad agitarsi di nuovo nel suo cuore:
aveva bisogno di nuove risposte, sentiva di dover trovare qualcosa che ancora
mancava alla sua vita. Aiutato da don Tullio Contiero, un amico sacerdote a
Bologna, ebbe l’occasione di incontrare monsignor Ambrogio Ravasi, vescovo di
Marsabit. L’Africa quindi era tornata a bussare alla sua porta. E Giorgio
decise di aprirla. I sogni che aveva accarezzato da bambino e da ragazzo non
erano scomparsi. Rinati, con un animo nuovo, quei sogni erano pronti per essere
realizzati. Decise così di partire per il Kenya, destinazione Sololo, un posto
molto lontano da Nairobi, al confine con l’Etiopia. Là dove si entra in un
mondo diverso, nel quale è facile toccare il nulla e dove quel nulla è realtà.
Un luogo sperduto, dove solo il coraggio dei missionari aveva permesso alla
gente locale di cullare la speranza di una vita migliore. Giorgio si preparò al
meglio perché sapeva che avrebbe dovuto fare di tutto: l’anestesista, il
rianimatore, il chirurgo, il ginecologo, l’urologo. La gente arrivava da
lontano, di giorno e di notte, e portava i malati come poteva. Con carriole,
barelle fatte a mano, in braccio. Giorgio era sempre pronto a prestare
soccorso. E se la stanchezza si faceva sentire, ritrovava il vigore nella gioia
di aver salvato un’altra vita.
Un
giorno, andando verso Nord, Giorgio passò da Archer’s Post dove ero io,
missionaria laica. Era molto di fretta, prese un caffè e un bicchiere d’acqua.
Ci salutò e sparì dalla nostra vista. Lo aspettavano a Sololo dove non c’era
nessun altro medico in ospedale, e Giorgio sentiva su di sé tutta la
responsabilità di tanti malati che lo attendevano. In quel periodo decise che
si sarebbe fermato a Sololo per sei mesi. E solo l’asma lo costrinse a lasciare
il continente.
L’esperienza
africana, vissuta tra i più poveri, fu intensa. A ingenerare pensieri e
riflessioni contribuirono anche i grandi spazi, le notti silenziose, il cielo
tanto vicino alla terra da poter contemplare le miriadi di stelle che lo
popolano. Ma furono i lunghi momenti trascorsi insieme a parlare che gli
diedero l’opportunità di guardarsi dentro, di ascoltare il suo cuore, di
pensare alla sua vita. Scoprendo un tesoro nascosto da tanti anni dentro di sé.
Era
tempo di grandi decisioni. Ricordo che una volta, alla fine degli anni Novanta,
mentre lo accompagnavo a Isiolo, mi disse: «Voglio costruire un ospedale della
gioia e dell’amore, un ospedale per i bambini. Vederli curati e sorridenti.
Voglio curare tutti con le medicine giuste, usare tecniche d’avanguardia e fare
tutti i tipi di operazioni. Che ne pensi?», mi domandò, e io gli risposi che
era un bellissimo sogno. «Questo è ciò che hai nel tuo cuore, e sono contenta.
Ti penserò in questo tuo progetto».
Ma
non fu solo il suo progetto: ebbi infatti la possibilità e la gioia di
condividerlo con lui. E non solo il suo progetto ospedaliero, ma, in seguito,
anche la sua vita.
Era il 1999 quando Giorgio incontrò padre Livio Tessari,
il missionario della Consolata, che gli propose di costruire un ospedale nel
Tharaka, in Kenya. Nella missione di Matiri c’era una piccola mateità diretta
da un’infermiera missionaria, Rita Drago, che si trovava in quella località da
diversi anni. Quando arrivavano i casi gravi, la regola era di correre con la
jeep per strade dissestate o distrutte dalla pioggia allo scopo di raggiungere
un ospedale. Ma non sempre si arrivava in tempo. Ecco perché padre Orazio
Mazzucchi, missionario a Matiri, chiese al confratello padre Tessari di
aiutarlo a risolvere il problema che lo angustiava. In quella difficile realtà
Giorgio si mise subito all’opera. Bisognava trovare i fondi per costruire un
grande ospedale e lui iniziò a coinvolgere amici, conoscenti e tanta gente che
voleva dare il proprio contributo. Ben presto altre associazioni si unirono al
progetto. E così nel 2001 iniziarono i lavori di costruzione. Tempo due anni, e
il 5 ottobre 2003 la struttura fu aperta. Due sale operatorie, sala parto, sala
raggi, ecografia, laboratorio analisi, reparti di degenza, farmacia, cucina, acqua
potabile per tutto l’ospedale, lavanderia. E più tardi anche la pediatria e
un’ambulanza. All’ospedale il personale era quello del posto, dall’Italia
venivano molti volontari e medici specialisti. A lavorare vennero anche le
suore Orsoline. Rita, l’infermiera missionaria, continuava la sua
evangelizzazione collaborando con Giorgio. Instancabile e grande organizzatore,
egli dava tutto se stesso, e la gente lo stimava molto. Si era preparato fin
dai tempi di Sololo a svolgere quel servizio. Non lasciava niente al caso,
conosceva bene le necessità della gente: malattie, operazioni, cesarei, morsi
di serpente. Prima di allora avevo visto molte persone morire per un morso di
serpente, nonostante l’uso del siero. Con Giorgio, invece, nessuno moriva,
perché lui aveva una tecnica tutta sua, che funzionava. Instancabile, giorno e
notte andava in ospedale. E quando mancava l’anestesista, faceva lui: metteva
un infermiere a controllare il paziente, operava e risvegliava. E dopo ore di
sala operatoria, visitava i malati gravi.
Miele, frutta,
galline per dire grazie
Al
Tharaka hospital Giorgio portò anche il progetto «Dream», della comunità di
Sant’Egidio, per la prevenzione e cura dei malati di Aids. Aprì una scuola per
i bambini ricoverati e per le neo mamme in difficoltà con latte e biberon.
Grazie all’ospedale nel villaggio aumentò il lavoro: tanti i chioschi nati, gli
alberghetti per accogliere i parenti, e i pulmini (matatu) che
trasportavano la gente. Ogni giorno file lunghissime di persone venivano
all’ospedale certe di poter trovare cure. E capitava che, per ringraziarlo,
portassero a Giorgio del miele, della frutta o una gallina. C’era tanta
gratitudine.
Lasciare ad altri e
ricominciare
Giorgio maturò un po’ per volta la consapevolezza che a
un certo punto sarebbe stato giusto «lasciare ad altri il compito di continuare»,
così mi disse, e insieme, nel 2006, decidemmo di lasciare l’ospedale di Matiri.
Andammo in Tanzania, a Mbweni, a vedere un health centre che funzionava
poco: bisognava risistemare tutto, pochi credevano che quella struttura potesse
riprendere vita. La sfida era grande e bisognava rimboccarsi le maniche, ma le
motivazioni che portavamo nel cuore erano ancora più grandi della sfida. I
lavori iniziarono a luglio, e il 5 ottobre 2006 aprimmo: in meno di un mese la
struttura era già piena. L’ospedale era attrezzato con macchinari per la
diagnostica e per le operazioni. Di nuovo capitava che Giorgio facesse
l’anestesista durante un parto: operava, risvegliava la paziente e rianimava il
neonato. Una situazione difficile che lo spinse ad assumere medici locali che
lo aiutassero, ma anche del personale specializzato, oltre alle suore presenti.
I pazienti aumentarono così tanto che decidemmo di avviare una seconda sala
operatoria.
Spesso
andavo in ospedale da Giorgio. In genere era lui a cercarmi, e io sapevo che
quando erano le suore a chiamarmi era perché lui aveva nuovamente dato il
proprio sangue, in emergenza, prima di operare.
Lui
era così, sempre pronto a donare.
Ricordo
di un giorno in cui doveva operare un uomo appena conosciuto, di religione
musulmana. Sarebbe stata un’operazione difficile. Prima di farlo accomodare sul
tavolo operatorio, Giorgio chiese al paziente: «Sei musulmano?». E lui rispose
di sì. Lui allora gli disse: «Io sono cattolico. Tu prega il tuo Dio e io prego
il mio, in modo che guidi le mie mani». Insieme si fermarono a pregare.
L’operazione andò bene.
Tutti
avevano rispetto, stima, gratitudine per il «dottor George». Anche in questo
caso il villaggio trasse vantaggio dall’ospedale per il molto lavoro che si era
creato. C’erano molti «dala dala» che venivano e andavano, sempre carichi di
persone.
Storie africane di un
chirurgo atipico
A un
certo punto Giorgio e io capimmo quanto fosse cruciale insegnare quello che
sapevamo. Lo scopo era di rendere tutti capaci nel proprio lavoro, in modo che
sapessero svolgerlo bene. In primis i medici che dovevano operare, ma anche gli
altri, e per il personale analfabeta Giorgio pensò a una scuola.
Giorgio,
negli ultimi mesi prima di lasciarci nell’aprile del 2011, ha scritto un libro
dal titolo «Storie africane di un chirurgo atipico». Lo ha scritto perché in
quelle pagine ognuno possa ritrovare la sua presenza, il suo spirito, la sua
persona. E anche per incoraggiare chi, come lui, vuole aiutare i poveri della
terra. Ha anche voluto che la sua opera continuasse, e a tale scopo ha fondato
l’associazione che porta il suo nome («Giorgio Giaccaglia Stegagnini») per lo
sviluppo dell’urologia in Africa.
Lui
di talenti ne aveva ricevuti tanti. Sapeva di essere stato mandato in Africa da
qualcuno con la «Q» maiuscola, e voleva restituire i doni ricevuti con opere di
carità e con una grande fiducia nei tanti ai quali insegnava a lavorare in
ospedale e che desideravano, come lui, dedicarsi a curare gli ultimi.
Angela Trebeschi