Pazzia: l’ultimo muro
tenere sotto controllo con la chimica. Forti sono le pressioni delle
multinazionali del farmaco. Ma guarire si può. Come dimostrano alcuni
psichiatri e le storie che hanno raccolto. Cosa vuol dire guarire da una
malattia psichiatrica? E quali sono i fattori determinanti per uscie? Alcune
risposte in questo servizio.
«La prima
volta che sentii le voci avevo 18 anni, ero da poco andata via di casa e vivevo
sola. L’episodio durò una settimana e non lo dissi a nessuno. Dopo varie
vicissitudini, quando avevo 42 anni mia madre morì; da allora le voci non mi
hanno più abbandonata per diversi anni». A parlare è Lia Govers, classe ’52, di
origine olandese ma residente in Italia dall’età di 20 anni. Settima di 11
figli, da piccola Lia assiste allo sfacelo familiare legato alla morte di un
fratellino: la mamma finisce per tre mesi in uno Spdc, Servizi psichiatrici di
diagnosi e cura (i cosiddetti «repartini», nda), il padre – dopo aver tentato di dissotterrare
il figlioletto al cimitero – si dà all’alcol. Lia e i suoi fratelli sono
trascurati e costretti a una vita di sacrifici. Lei, forse più fragile, patisce
fin da piccola un senso di abbandono, non sentendosi amata e accettata dalla
madre.
Una volta morta la mamma, e con lei la speranza di
ricucire il loro rapporto, si scatena la follia. «Le voci esistevano solo nella
mia testa ma per me erano reali, e in qualche modo mi tenevano compagnia. Con
il passare del tempo però perdevo sempre più il contatto con la realtà,
arrivando a separarmi da mio marito e da mio figlio 13enne, e a restare
disoccupata» racconta Lia, a cui verrà poi diagnosticata una schizofrenia paranoide.
«Mi sentivo perseguitata, ero convinta che tutti ce l’avessero con me, nei miei
deliri e allucinazioni mi vedevo rapita, stuprata, lasciata senza cibo…». A un
certo punto Lia si convince di essere la principessa russa Anastasia e, rimasta
senza lavoro, non ne cerca un altro perché crede che presto potrà riavere la
sua identità e le sue ricchezze. Inoltre non paga e non ritira più le bollette,
persuasa che nella cassetta postale ci sia una bomba pronta a esploderle in
mano. Vedendo ovunque nemici e ingiustizie, Lia presenta alla Procura ben 160
esposti, per cui il tribunale di Torino decide di affidare il suo caso allo
psichiatra Giuseppe Tibaldi.
«In un certo senso è da lì che è partita la mia “storia
di guarigione”» racconta Lia. «Il giorno dello sfratto (perché non pagavo
l’affitto), è arrivato Tibaldi proponendomi un ricovero in ospedale. Sono
scappata e lui mi ha inseguita per la città ma sono riuscita a seminarlo.
Fatica sprecata, perché l’indomani lui e due carabinieri mi hanno ritrovata e costretta
al Tso» (Trattamento sanitario obbligatorio, che prevede il ricovero coatto in
repartino psichiatrico, nda). Sono iniziate così le cure farmacologiche, seguite da
un lungo ricovero in comunità psichiatrica e da una psicoterapia durata 10
anni. «Nel 2002, d’accordo con il medico, ho smesso di prendere i farmaci, e
nel 2009 ho terminato anche la psicoterapia. Adesso non sento più le voci e mi
sono liberata completamente dai miei deliri. Un fattore importante è stato
esaminare ed elaborare dentro di me il rapporto irrisolto con mia madre, e in
seguito le difficoltà di relazione con mio marito e una mia sorella».
L’illusione del
clinico
Oggi Lia conduce una vita normale, è tornata con il
marito e fa volontariato come facilitatrice in un gruppo di auto mutuo aiuto.
Inoltre scrive e partecipa a convegni per sensibilizzare l’opinione pubblica
sulla possibilità di superamento della malattia mentale. Qualche anno fa ha
anche pubblicato la sua autobiografia su stimolo del dottor Tibaldi, impegnato
dal 2002 nel raccogliere le «Storie di guarigione»: questo il titolo del
concorso letterario da lui promosso, che dal 2008 a oggi ha raccolto quasi un
migliaio di testimonianze da tutta Italia (vedi box).
Ma perché questa ostinazione nel collezionare i casi
riusciti? «Ci ho messo un po’ ma, a un certo punto del mio percorso
professionale, ho capito che considerare i pazienti psichiatrici come persone
senza scampo è un grave errore, da combattere con ogni mezzo» spiega Tibaldi,
che cornordina il Centro Studi e Ricerche in Psichiatria dell’Asl To2 di Torino. «Gli
studi scientifici più accreditati degli ultimi 20 anni dimostrano infatti che
le percentuali di guarigione nei pazienti psicotici superano il 50% dei casi;
anche se per arrivarci possono occorrere diversi anni».
Dove nasce allora l’idea che la follia sia un «carcere a
vita»? «I motivi sono diversi» spiega Tibaldi, «uno di questi è il pessimismo
prognostico, cioè l’atteggiamento che si forma tra psichiatri e operatori
lavorando nei «repartini»: qui i malati arrivano nel momento dell’acuzie,
quando sono più scompensati, spesso in regime di Tso.
I clinici hanno continuamente sotto gli occhi i malati
vittime di ricadute o cronici, e tendono a estendere questa percezione a tutti
i pazienti con un disturbo psichiatrico: l’illusione del clinico – smentita
dalle evidenze scientifiche – è perciò che tutti i pazienti psichiatrici
restino tali a vita. Mentre le persone come Lia, ricoverate solo una volta o
due, spariscono dalla vista dei servizi e vengono dimenticate in fretta». «L’illusione
del clinico» è così radicata che, quando sentono di schizofrenici guariti,
molti operatori replicano contestando la diagnosi: «Se è guarito, vuol dire che
non era davvero schizofrenico».
Sostenere la guaribilità della malattia mentale, precisa
Tibaldi, non significa affermare che tutti i pazienti psichiatrici guariscano,
ma che le probabilità positive superano quelle negative. Si tratta di una «ragionevole
speranza», che oltre tutto può stimolare i pazienti (e le loro famiglie) a
impegnarsi maggiormente nei percorsi di riabilitazione. Come ha mostrato lo
psichiatra svizzero Luc Ciompi, le aspettative favorevoli condivise da
operatori, familiari e pazienti favoriscono un’evoluzione positiva della
malattia. Vale a dire: se la persona sofferente e quanti se ne prendono cura
hanno fiducia nella possibilità della guarigione, è più probabile che questa si
realizzi.
Interessi delle
multinazionali
Dietro l’idea che le malattie psichiatriche siano
condanne a vita sta anche la «vergognosa contaminazione delle multinazionali
del farmaco», come spiega Ugo Zamburru, psichiatra responsabile del Centro
Diuo Leoncavallo dell’Asl Torino 2, attivo promotore dei reinserimenti socio
lavorativi di pazienti ed ex pazienti. Le case farmaceutiche, ci dice, hanno interesse
a far si che la malattia mentale sia ritenuta cronica, così da poter continuare
a vendere i loro prodotti ai pazienti per tutta la vita, con la promessa non di
guarirli ma di aiutarli a tenere sotto controllo i sintomi più gravi e
disturbanti. «Le aziende sovvenzionano università e convegni, offrono viaggi,
cene e regali ai medici per spingerli a pubblicizzare e prescrivere i propri
farmaci». Il guaio è, come sottolinea anche Tibaldi, «che i ricercatori
finanziati da queste aziende finiscono per sostenere che l’unica causa della
malattia psichica sia da cercare nella biologia – sbandierando perciò come
unico trattamento valido quello farmacologico – ignorandone invece le
componenti psicologiche e sociali il cui peso è fondamentale».
Come ha rivelato il libro inchiesta di Robert Whitaker «Indagine
su un’epidemia» (vedi box), si assiste oggi a un inquietante paradosso. Se da
50 anni a questa parte si spende sempre più in psicofarmaci – in Usa oltre 25
miliardi di dollari l’anno vanno in antidepressivi e antipsicotici, cifra
superiore al Pil del Camerun – non si è però verificata, come ci si poteva
aspettare, una parallela riduzione di queste patologie. Al contrario, è in atto
una vera e propria «epidemia» di pazienti psichiatrici, da cui le aziende traggono
lauti guadagni.
Un esempio fra tutti la Eli Lilly: nel 1987 aveva un
giro d’affari di 2,3 miliardi di dollari, ottenuti dalla vendita di antibiotici
e medicine cardiovascolari; poi nell’88 iniziò la vendita di fluoxetina (un
antidepressivo) e nel ’96 di olanzapina (un antipsicotico, commerciato in
Italia con il nome Zyprexa): a fine 2000 questi due farmaci da soli garantivano
metà delle entrate dell’azienda, arrivate a 10,8 miliardi di dollari.
Il farmaco, un
salvagente
Ma quale nesso esiste tra farmaco e guarigione? «Il
farmaco da solo non guarisce nessuno» dichiara convinto Roberto Rolli. Lui,
oggi 65enne, ha combattuto per 25 anni contro una psicosi maniaco-depressiva
che l’ha portato a ben 16 ricoveri tra ospedali e strutture psichiatriche, in
una delle quali negli anni ’70 è stato anche sottoposto a elettrochoc senza
anestesia. «Il farmaco secondo me serve solo come stampella» dice Roberto, che
per sua scelta continua ad assumere uno stabilizzatore dell’umore anche se dal
’98 non ha più avuto quelle crisi e quei deliri maniacali che lo portavano a
gesti estremi, come entrare in casa sfondando la porta con la motosega o
buttarsi nel Po per ripescare i documenti gettati un attimo prima. «Ma la
guarigione dipende da altro, non dalle medicine. Nel mio caso, è stato
importante aver trovato un bravo psicoterapeuta (il dottor Zamburru, nda) e mettermi a
frequentare i gruppi di auto mutuo aiuto».
«Il farmaco funziona come un salvagente: se non lo usi,
rischi di affogare, ma se lo usi sempre, non impari a nuotare» spiega Tibaldi. «Guarire
è imparare a nuotare: quello che dovremmo fare noi specialisti sarebbe offrire
il corso di nuoto (e non solo il salvagente)». Ed è importante che gli iscritti
al corso, finché non sanno nuotare da soli, si attengano alle istruzioni di un
buon allenatore. «Fuor di metafora, succede spesso che i pazienti, quando
iniziano a sentirsi meglio, decidano di sospendere di colpo l’uso dei farmaci,
senza consultare nessuno: questa è una scelta controproducente, perché aumenta
il rischio delle ricadute. Il salvagente bisogna sgonfiarlo poco alla volta».
I fattori che aiutano
a guarire
Ma cosa significa guarire per un malato psichico? «La
guarigione è un percorso in cui la persona riprende in mano il controllo della
propria vita, acquisendo la chiara consapevolezza della propria esperienza
psicotica: Lia oggi sa che quelle erano “voci” e non sue doti telepatiche, come
credeva all’epoca» spiega Tibaldi. «Non è detto che scompaiano tutti gli
aspetti problematici di sé, ma l’esperienza passata (pensieri, ricordi,
sintomi) perde d’invasività, non è più lei a dominare la persona, come si vede
bene nel finale del film A beautiful mind». In un certo senso, non ci si libera mai della propria
depressione o della propria psicosi, ma la si integra in maniera «sana» entro
il proprio modo di esistere. «Non è un tumore che si toglie, ma una parte che
perde di peso e virulenza nella vita mentale della persona, acquistando un
diverso significato».
«Toando all’esperienza di Roberto, secondo i
protocolli inteazionali non lo si può dire “davvero” guarito perché continua
a usare farmaci, anche se per sua scelta» chiarisce Zamburru. «Ma più che di
guarigione – che in psichiatria è un concetto labile e sfumato, come quello di
malattia – interessa parlare di “qualità della vita”. Da questo punto di vista
Roberto sta decisamente bene: ha smesso di bere, non ha più le crisi, esercita
la sua professione di avvocato in maniera efficace, ha ripreso la vita
familiare con moglie e figli, ed è anche impegnato nel promuovere i diritti dei
malati». Ma quali sono i fattori che aiutano a guarire, o comunque a recuperare
una vita serena e dignitosa? «Intanto è di grande aiuto avere una famiglia che
ti sostiene, disposta a partecipare al percorso di cura, e avere degli amici:
uno studio degli anni ’90 ha mostrato che il rischio di ricadute è minore se si
ha una rete sociale di almeno sette persone di riferimento, contro il rischio
di isolamento» spiega Zamburru.
È poi importante stabilire una buona relazione tra il
malato e i medici che se ne prendono cura (la cosiddetta «alleanza terapeutica»).
Ed è utile poter contare sulle capacità e le competenze preesistenti nel paziente
prima della malattia. «Anche una situazione economica decente aiuta. Viceversa
la povertà, la crisi del lavoro ecc. possono essere fattori di rischio per la
salute mentale» dice Zamburru. Per questo nel 2008 ha deciso di fondare il Caffè
Basaglia, un circolo culturale e ricreativo che dà lavoro a ragazzi con
problemi psichici, impiegati in attività di cucina, servizio ai tavoli, ecc.
(www.caffebasaglia.org). «In base alla nostra esperienza la malattia è
superabile con l’accettazione sociale, dando alle persone dignità e
riconoscendo loro un ruolo, non solo episodico».
Per questo è importante «concedere delle seconde
possibilità e, se occorre, delle terze e delle quarte, anche ai pazienti malati
da tempo e per i quali si sono già tentati percorsi riabilitativi o
d’inserimento lavorativo» sostiene Tibaldi. «Non bisogna arrendersi, neanche
davanti alle situazioni che sembrano più disperate. Esistono casi come quello
di Ken Steele, un americano malato di schizofrenia dall’età di 14 anni, che è
guarito dopo 32 anni». Mai darsi per vinti, dunque. Come dice Tibaldi, «l’idea
dell’inguaribilità è l’ultimo muro del manicomio che ci resta da abbattere»
Stefania Garini