Baby Doc è morto. Improvvisamente. Di morte naturale. Pochi
uomini hanno causato tanta sofferenza. E lui ha trascorso la sua vita nello
sfarzo. In totale impunità. L’uomo che, insieme al padre, ha più contribuito
alla dannazione di Haiti. La società civile lottava per procurargli un giudizio
terreno. E lui aveva in tasca un passaporto diplomatico. Restano il dovere di
memoria e il processo ai suoi complici.
Quattro ottobre 2014, il dittatore Jean-Claude Duvalier muore a 63
anni di attacco cardiaco. A casa sua, a Port-au-Prince.
Ma
facciamo un passo indietro.
Il 16 gennaio 2011, a un anno dal terremoto, Duvalier
atterra ad Haiti dopo un esilio (più che dorato) di 25 anni. È un duro colpo
per gli attivisti del movimento sociale haitiano e per famigliari e vittime
della dittatura duvalierista. Le associazioni di difesa dei diritti umani, il
movimento femminista, quello contadino, le organizzazioni ecclesiali di base,
gli intellettuali militanti nei partiti politici clandestini, avevano fatto un
fronte unico per cacciare Jean-Claude quello storico 7 febbraio del 1986.
Il
dittatore e i suoi collaboratori, protetti da Usa e Francia, riuscirono a
fuggire.
Il
movimento sociale a quel tempo aveva impiegato vent’anni a formarsi e
consolidarsi, ma restava comunque poco organizzato e non aveva una struttura e
un programma politico. Perseguiva un obiettivo: farla finita con ventinove anni
di terrore.
Jean-Claude, all’età di 19 anni, era succeduto al padre
François Duvalier, che aveva «regnato» nel terrore dal 1957 alla morte nel
1971. Le vittime del regime dei Duvalier sono almeno 30.000, ma alcune fonti
parlano del doppio, senza contare chi moriva sui barconi tentando di fuggire
dal paese (i boat people). Oltre alla scia di sangue che Jean-Claude aveva
lasciato dietro di sè, fuggendo aveva svuotato le casse dello stato: si parla
di un miliardo e mezzo di dollari. Emorragia di risorse che aveva trascinato
nel baratro la già debole economia haitiana e che ha pesanti conseguenze ancora
oggi sulla vita della popolazione.
Il
ritorno di Duvalier ad Haiti «è un disastro per le vittime e i loro famigliari,
per tutti coloro che hanno lottato contro la dittatura» ci confida nel gennaio
2011 padre Jean-Yves Urifié, un missionario francese in prima linea nella lotta
per la democrazia.
Passato lo sbigottimento
iniziale, le prime vittime sporgono denuncia contro il dittatore. Michèle
Montas, giornalista e già portavoce del segretario generale delle Nazioni unite
Ban Ki Moon, è tra le prime. «Occorre che la gente testimoni, per non
dimenticare» dichiara all’agenzia AlterPresse, mettendo l’accento sul dovere di memoria. Il 19 gennaio la
Montas sporge denuncia per crimini contro l’umanità, detenzione arbitraria,
esilio, distruzione di proprietà privata, tortura, violazione dei diritti
civili e politici. Moglie del noto giornalista Jean Dominique (assassinato il 3
aprile del 2000) sottolinea anche gli assalti del regime Duvalier alla libertà
di espressione e le violazioni al diritto dell’informazione. Radio Haiti Inter, di Dominique e Montas il 28
novembre 1980 era stata distrutta dalle milizie di Duvalier e dall’esercito e i
giornalisti arrestati, torturati ed esiliati.
Alcune
organizzazioni di difesa dei diritti umani si uniscono alle vittime e, nel
febbraio del 2011 fondano il «Collettivo contro l’impunità». Oltre a protestare
contro il ritorno del dittatore, l’obiettivo del Collettivo è fare in modo che
Duvalier sia giudicato per crimini contro l’umanità e crimini economici.
La storica associazione
femminista Kay Fanm cornordina il Collettivo, composto anche dal movimento donne
haitiane per l’educazione e lo sviluppo (Moufhed), il Centro ecumenico dei
diritti umani (Cedh) e la Rete nazionale di difesa dei diritti umani (Rnddh),
oltre che da 22 vittime che hanno presentato denuncia.
Lotta contro
l’impunità
Danièle Magloire, sociologa
di fama internazionale, membro di Kay Fanm, è la cornordinatrice del Collettivo.
L’incontriamo a
Port-au-Prince alcuni mesi prima della morte di Duvalier: «Ad Haiti le denunce
possono solo essere individuali, ma il Collettivo serve a essere più forti per
portare avanti i dossier e, in parallelo, continuare un lavoro di memoria, per
ricordare, soprattutto ai giovani che non l’hanno conosciuta, cosa ha fatto la
dittatura. E quindi per combattere i revisionisti. Per questo facciamo
commemorazioni: quest’anno per il 7 febbraio abbiamo lanciato un sito web:
“Haiti lotta contro l’impunità” (www.haitiluttecontre-impunite.org).
Abbiamo collaborato al film
del regista haitiano Aold Antonin, insieme a una cinquantina di vittime: Haiti le règne de l’impunité (Haiti il regno
dell’impunità)». «Il film presenta una serie di testimonianze di parenti delle
vittime, di vittime sopravvissute alla repressione e alle torture durante la
dittatura dei Duvalier» scriveva l’agenzia haitiana AlterPresse. «Queste testimonianze presentano
l’orrore generale di 29 anni di un regime feroce e pongono la questione
dell’impunità come uno dei mali più attuali della Repubblica di Haiti.
Contadini crocifissi sulla piazza pubblica, famiglie intere represse e
decimate, e che per anni hanno atteso o cercato parenti scomparsi, giornalisti
torturati, uccisi, esiliati».
Le attività del Collettivo
hanno dato origine a un altro gruppo, il «Comitato del dovere di memoria»,
composto da ex vittime e famigliari di vittime, che si dedica espressamente al
lavoro di memoria. C’era una collaborazione tra i due comitati, anche se il
primo si occupa maggiormente dell’aspetto giuridico.
Il Collettivo ha subito
sollecitato la Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh)
dell’Organizzazione degli stati americani, con sede a Washington, e ha ottenuto
un’udienza il 28 marzo del 2011. «All’epoca ad Haiti c’era il governo di René
Préval, che mandò un delegato. Quel governo era d’accordo sul fatto che lo
stato haitiano dovesse fare un’inchiesta sui delitti della dittatura. Fu
preparato un documento di accusa per crimini contro l’umanità e crimini
finanziari».
Gli avvocati di Duvalier si
sono fatti scudo a colpi di retorica, sostenendo che i «crimini contro l’umanità»
non esistono nel diritto haitiano. Danièle Magloire: «Effettivamente questo
termine non c’è, perché sono codici vecchi del XIX secolo. Ma occorre ricordare
che per il processo di Norimberga contro i nazisti, la Carta di Norimberga che
per la prima volta definiva, tra gli altri, i crimini contro l’umanità, fu
ratificata da 19 paesi tra i quali c’era Haiti. Alla creazione delle Nazioni
unite, e Haiti è paese fondatore, la Carta di Norimberga fu allegata alla
Dichiarazione universale dei diritti umani. I crimini contro l’umanità dunque
ci riguardano». Continua la sociologa, «Haiti è nata da una ricerca di umanità,
con la rivoluzione anti schiavista, contro il codice nero, la legge dei
francesi che ci relegava al ruolo di beni mobili e non di persone».
In seguito al documento di
accusa il giudice d’istruzione Carvés Jean ha fatto un’inchiesta molto leggera,
«ha sentito una volta Duvalier, ha ascoltato solo alcune vittime, non si è
mosso dall’ufficio», sostiene Magloire. «Questo giudice non è un duvalierista –
continua – ma era sotto pressione. Il contesto politico è cambiato». Nel 2011 è
stato eletto presidente Michel Martelly (si veda MC gennaio 2012) con una
grande spinta del governo degli Stati Uniti. «Martelly simpatizza apertamente
con i duvalieristi. Ha dichiarato pubblicamente che si dovesse amnistiare
Duvalier e voleva prenderlo nel suo gabinetto come consigliere politico. Ha poi
optato per suo figlio François
Nicolas Duvalier, il nipote di Papa Doc. In un paese che ha conosciuto una
feroce repressione, il capo di stato visita l’ex dittatore e lo invita alle
cerimonie ufficiali. È comprensibile la paura della gente verso il sistema».
Nel
gennaio 2012 il giudice d’istruzione di primo grado ha eliminato dall’accusa i
crimini contro l’umanità e derubricato i crimini finanziari a semplici delitti.
Il Collettivo ha contestato la decisione, lo stato invece no. A contestare il
risultato dell’istruttoria di primo grado c’era anche un altro gruppo di
vittime che ha presentato denuncia, ma non era parte del Collettivo.
Jean-Claude Duvalier ha
dichiarato che era un insulto verso la sua persona osare dire che abbia preso
un po’ di soldi.
Il governo Préval aveva
chiesto alla Svizzera di recuperare i 6 milioni di dollari residui dal
saccheggio perpetrato dai Duvalier. Ma il nuovo governo non ha più dato seguito
alla richiesta. Il Collettivo, invece, ha continuato a spingere il dossier in
collaborazione con associazioni svizzere fino ad ottenere il blocco dei fondi.
Nel dicembre 2013 la Svizzera, che ha fatto un’inchiesta molto precisa, ha
stabilito l’origine illecita dei fondi e deciso di toglierli a Duvalier per
restituirli allo stato haitiano, in quanto legittimo proprietario.
«Stiamo discutendo con le
autorità svizzere su come i fondi saranno trasmessi ad Haiti. Abbiamo fondati
timori sul loro utilizzo, perché ci sono molti duvalieristi nel governo. Lo
stesso ministro dell’Inteo, David Basile, è il capo del partito duvalierista
(Parti de l’Unité national). Un posto strategico, molto importante anche
per le future elezioni. Abbiamo fatto proposte che orientano l’uso dei fondi
verso il rafforzamento dei diritti umani, l’uguaglianza di genere, le prigioni.
Queste ultime non sono cambiate dai tempi della dittatura».
Il secondo passaggio è stato
in Corte d’appello. In questo grado di giudizio le udienze sono pubbliche, al
contrario del primo grado. Il Collettivo si è battuto per far comparire
Jean-Claude Duvalier davanti al giudice. «È stato difficile ma ci siamo
riusciti. Simbolicamente è stato molto importante, per la lotta contro
l’impunità: mostrare alla gente che un capo di stato poteva venire a rispondere
davanti alla giustizia. Inoltre le vittime hanno potuto testimoniare. Questo ci
ha fatto vedere una diversità di persone che hanno subito le persecuzioni:
professionisti, cittadini, contadini. Molti abitanti della zona rurale di La
Tremblay, a Croix-de-Bouquet, che ha sofferto enormemente, dove centinaia di
loro furono massacrati. Alcuni furono imprigionati sotto François e restarono
in carcere sotto Jean-Claude. È stato importante registrare tutte le
testimonianze».
Duvalierismo senza
Duvalier
«I
Duvalier hanno marcato Haiti a ferro e fuoco durante trent’anni di sistema
totalitario, e hanno messo un macoute (qui inteso
come duvalierista, nda) nella testa di ogni haitiano» ha scritto
l’esperto Christophe Wargny. Si tratta forse di un’estremizzazione, ma la
corrente duvalierista esiste e i duvalieristi sono ancora forti. Dalla sua fuga
nel 1986 i diversi governi haitiani non hanno mai voluto fare un processo al
regime. Le strutture messe in piedi dal suo governo sono rimaste, per questo si
parla di duvalierismo senza Duvalier. «La figura simbolica non era presente, ma
la struttura era dormiente e tutto si è riattivato con il suo ritorno. E c’è
poi il revisionismo: “Non era una dittatura, non era così terribile, guardate
ora in che situazione si trova Haiti, sotto Duvalier non era così, era tutto
perfetto”. Si fabbricano delle contro verità: si fa credere che le vittime
fossero solo terroristi, che attaccavano lo stato, destabilizzavano il paese.
Invece tutti i documenti dimostrano il contrario. Senza dimenticare i boat people (fuga con i barconi verso gli Usa e le Bahamas, nda). Oppure i braceros in Repubblica Dominicana: Duvalier
guadagnava un tanto per ogni haitiano che andava a lavorare in semi schiavitù
per il taglio della canna da zucchero nei bateys. Ha
fatto sterminare tutti i maiali creoli distruggendo l’economia rurale. Ha fatto
commercio di cadaveri di sangue. I crimini sono molti».
Il 20 febbraio scorso, dopo
mesi d’inchiesta, la Corte d’appello ha rovesciato la sentenza del giudice di
primo grado: Duvalier è accusato di crimini contro l’umanità, occorre
approfondire le inchieste. Ha nominato un nuovo giudice d’istruzione, Durin
Duret, che deve interrogare le vittime e anche i collaboratori di Duvalier,
tutti quelli citati nel documento accusatorio. Sottolinea che questi crimini
non vanno in prescrizione.
«Jean-Claude Duvalier ha
contestato che esistiamo, che il Collettivo possa essere parte civile. Vuole
che si cambino i giudici, ma non dice perché. Il grosso lavoro lo facciamo noi
del Collettivo, perché il tribunale non è attrezzato. I giudici sono soli, non
possono fare le inchieste, poi ci sono tutti i problemi di corruzione e
incompetenze. Il Collettivo costituisce il dossier e cerca gli elementi per il
giudice, perché vogliamo che l’istruttoria vada avanti. Inoltre facciamo molta informazione, comunicati in quattro lingue. Ed è
tutto lavoro volontario. Anche gli avvocati che lavorano con noi. Abbiamo
un’assistenza giuridica e tecnica importante da parte dell’associazione
Avvocati senza frontiere Canada. Fokal (Fondazione conoscenza e libertà) ci ha
appoggiato a livello finanziario».
Molte vittime, poche
denunce
Nonostante
l’enormità del numero di vittime del regime, poche decine sono a oggi le
denunce ufficiali. «Sono pochi coloro che hanno denunciato perché la gente non
ha fiducia nel sistema della giustizia. Inoltre si sente che il governo non è
dalla parte delle vittime. Occorre essere coraggiosi e non ci sono neanche
tanti avvocati disponibili a difenderti. Ma il fatto di essere riusciti a far
presentare Duvalier in tribunale e che ci sia stata una decisione della Corte
spinge la gente a pensare che abbia senso denunciare. O almeno testimoniare
pubblicamente, il che è estremamente importante. È sempre così: c’è un nocciolo
duro all’inizio, poi altri si aggregano. Per me non è il numero che conta.
Alla fine dell’istruzione il
tribunale dovrà decidere se ci sarà un processo oppure no. Penso che a quel
punto altre persone si decideranno, perché vedranno che c’è una possibilità».
La comunità
internazionale
A livello internazionale non
c’è una volontà politica a giudicare Duvalier e non c’è neppure tanto aiuto per
questo. Ci sono state dichiarazioni di buone intenzioni. Ma il Collettivo ha
fatto una campagna, rispetto alla comunità internazionale, chiamando in causa
diversi paesi. Cosa che ha spinto alcune ambasciate a delegare delle persone per
seguire alcune udienze. «Bill Clinton era nelle braccia di Duvalier, gli Usa
non hanno detto nulla, la Francia non ha preso posizione. Solo dichiarazioni
dell’Onu. Ma tutti questi paesi potrebbero appoggiare il tribunale haitiano a
portare avanti l’inchiesta. E qualche dossier a livello dell’Alto commissariato
e della Minustah. Perché a livello internazionale si parla tutto il tempo di
democrazia mentre i paesi campioni di democrazia non si sono indignati per
questa situazione? Se parliamo di crimini contro l’umanità, il peso non può
essere su un individuo».
Le organizzazioni
inteazionali di difesa dei diritti umani non hanno aiutato il Collettivo.
Human Rights Watch e Amnesty Inteational hanno fatto le loro inchieste ma non
hanno messo risorse per l’istruttoria. Hanno mandato le loro delegazioni a
seguire le udienze, «ma questo non basta» sottolinea Danièle Magloire. «Gli Usa
hanno della documentazione, ma non ne consentono l’accesso. Abbiamo bisogno che
si faccia pressione. Noi, come Collettivo, abbiamo preso da soli il rischio di
denunciare. Ma non abbiamo alcuna protezione. I fans di Duvalier ci
aggrediscono al tribunale, più ci avviciniamo al processo, più sono nervosi e
aggressivi, la polizia non reagisce».
Muore l’ex presidente
a vita
La morte del dittatore
scatena il dibattito: funerali di stato oppure no? Una coalizione della società
civile si ribella all’idea di un oltraggio simile, e alla fine la cerimonia è
organizzata in forma privata, ma numerosi sono i suoi partigiani presenti.
«[…] Giudicare Jean-Claude
vorrebbe anche dire chiedere conto al regime duvalierista stesso, e una volta
arrivati alla “riconciliazione”, indicare anche le cosiddette “grandi famiglie”
haitiane che hanno partecipato a quel festino macabro. Come continuano a fare oggi.
Giudicare Jean-Claude Duvalier significherebbe mettere sotto processo le classi
dominanti globalmente. Meglio, significherebbe spiegare il ruolo degli
imperialisti. Dell’epoca … e di oggi» scrive l’organizzazione sindacale Batay
Ouvriye.
«La morte di Jean-Claude
Duvalier non mette fine al processo giudiziario contro il suo regime, le
vittime del quale hanno denunciato anche gli accoliti dell’ex dittatore»
dichiara Pierre Espéreance, direttore esecutivo della Rnddh e segretario
generale della Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo
(Fidh).
Muore
l’uomo, ma non la storia. E le decine di migliaia di vittime di un regime che
ha segnato Haiti e ha contribuito a renderlo un paese tra i più poveri del
mondo, chiedono ancora verità e giustizia.
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Marco bello