Cari Missionari

Ogni promessa è
debito

Sono
Paolo Farinella, il prete di Genova che in questi anni ha tenuto la rubrica
biblica «Così sta scritto» e che i lettori hanno avuto la pazienza di seguire,
mi pare con qualche profitto. Vi avevo promesso di riprendere in primavera, ma
non sono in grado di mantenere la parola. Ho qualche problema di salute che mi
porta via molto tempo in giro per ospedali e non riesco più, per ora, a seguire
gli impegni di scrittura che esigono calma, meditazione, ricerca e studio.
Chiedo ai lettori di MC di avere ancora un po’di pazienza che non sarà delusa,
se Dio lo concederà. Per la città di Genova, infatti, sto preparando un «corso
biblico» sulla formazione della Bibbia (storia del testo) con lettura ed
esegesi delle parti più importanti. Se la Direzione di MC è d’accordo, vorrei
condividere il lavoro con i lettori. Penso che si possa partire con questo
nuovo progetto dal mese di gennaio del 2015, come dire dopo domani. Prima non è
possibile. Chiedo scusa, ma penso che sia meglio un tempo di silenzio e di
fatica, e fare bene ciò deve essere fatto, piuttosto che fare in fretta e
abborracciare. In attesa di rivederci presto su queste pagine, un caro e
affettuoso abbraccio a tutte le lettrici e a tutti i lettori, ovunque essi
siano. Con affetto,

Paolo Farinella, prete
10/4/2014

I non cristiani si
salvano? (2)

Ho
letto la sua risposta (MC aprile 2014, p. 6) e non la condivido tanto.
Probabilmente ho bisogno di più umiltà nell’accettare la realtà e il mistero.
Ma non riesco a far combaciare le diverse verità sull’argomento inferno. Forse
sono vittima d’insegnamenti sbagliati, di retaggi duri a morire nei fedeli, ma
le dirò che il racconto di un esorcismo (da un libro che racconta di fatti
del 1978
), dove un’anima dannata sotto comando risponde che «tante anime
vanno all’inferno perché fanno svogliatamente il loro dovere, si intiepidiscono
e poi…», mi ha colpito.

Poi
sono andata a leggere le indicazioni della Lumen Gentium, al n.14 che
lei non ha citato. Lì, a proposito dei «fedeli cattolici», è scritto che: «Perciò
non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa
cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non
vorranno entrare in essa o in essa perseverare. […] Non si salva, però, anche
se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì
in seno alla Chiesa col “corpo”, ma non col “cuore”. Si ricordino bene tutti i
figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro
meriti, ma a una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono
col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi
saranno più severamente giudicati». Buona Santa Pasqua

Piccola figlia della Luce
11/4/2014

Premetto che con la
lettrice abbiamo scambiato diverse email, e in questa pagina è stato
sintetizzato in poche righe (lo spazio è tiranno) il punto essenziale del nostro
dialogo. Rimane aperto un secondo punto,
su cui toeremo nel prossimo numero, a Dio piacendo.

Ho anche omesso il
titolo del libro da cui la lettrice ha tratto la testimonianza di un’anima
dannata, non perché il sottoscritto non creda all’esistenza del diavolo, ma
perché, a mio parere, molte di queste storie – su cui speculano quel tipo di
pubblicazioni – non riflettono il sano insegnamento della Chiesa e fanno
sensazionalismo e terrorismo spirituale. Forse qualcuno pensa che si debba
essere cristiani per paura. Io preferisco pensare che lo siamo per amore.

Nella mia risposta
precedente sottolineavo due punti: 1. Tutti gli uomini sono salvi per volere di
Dio, che ha mandato il suo Figlio Gesù proprio per questo. 2. Ogni uomo è
immagine di Dio e risponde a questo dono nella misura in cui vive una vita
retta secondo coscienza (anche se non conosce il messaggio cristiano).

Con questo non ho
voluto dire che «nessuno va all’inferno» e non sono entrato in merito alla vita
di chi si dichiara cristiano, ma da cristiano non vive. Neppure ho toccato
l’argomento dei non cristiani che, pur conoscendolo, rifiutano apertamente e
coscientemente il Vangelo. Concordo pienamente con il testo della Lumen Gentium
al n. 14. L’essere cristiano non è una questione di etichetta e il battesimo
non è un’assicurazione. È invece una vita vissuta nella libera accettazione e
pratica di un dono di amore.

Come già detto, anche
chi non ha mai conosciuto Gesù ha la capacità «umana» di relazionarsi con Dio e
vivere una vita degna del suo Creatore.

La situazione,
invece, è ben diversa per chi, pur sapendo, rifiuta, si oppone o addirittura
combatte sia Gesù che la comunità dei suoi discepoli e testimoni (vedi
l’articolo di pag. 63 dove si distingue bene tra religione e fondamentalismo).
Lo stesso vale per chi, pur dichiarandosi cristiano, non pratica affatto e vive
un cristianesimo di forma e facciata, ma non di sostanza.

È vero: «Tutti sono
salvati in Cristo», ma non tutti si salvano. Si è salvati, sì, ma il vivere da
salvati è una scelta, una risposta libera a un atto di amore. È entrare in
relazione e accettare l’incontro con Dio in Gesù Cristo con una risposta libera
e responsabile, non di un momento, ma di una vita. Chi coscientemente non
accetta o rifiuta Gesù, si autoesclude.

Però non si può
essere cristiani per paura. Gesù ci ha rivelato Dio come Amore, gioia e vita;
un Dio che si interessa dell’uomo, che lo cerca, che è misericordia e
tenerezza; un Dio che si commuove come una madre e ci ha dato un solo
comandamento: «Amate Dio e amatevi come io vi ho amato». Questo è il vero culto
che onora Dio, l’amore vicendevole. E dove c’è Amore non c’è posto per la
paura.

Ospedale di Sololo

Le scrivo a nome del gruppo missionario di Manta, diocesi
di Saluzzo (Cuneo), che da anni ha come attività principale quella di sostenere
l’ospedale di Sololo nel Nord del Kenya ai confini con l’Etiopia. Cerchiamo di
essere utili operando su più fronti. Da un lato, organizziamo interventi
tecnici, che hanno lo scopo di rendere più funzionale l’ospedale, riducendone
contemporaneamente i costi di gestione, dall’altra ci impegniamo, in
particolare nella zona del saluzzese, a raccogliere fondi che poi inviamo alla
Diocesi di Marsabit come aiuto alla ristrutturazione dell’ospedale e alle spese
della pediatria e della mateità. In questo periodo, i missionari di Sololo
sono un giovane sacerdote fidei donum rumeno e tre suore keniane,
dell’ordine francescano di San Giuseppe. Oltre a loro, c’è un chirurgo, di
origine burundese ma cittadino italiano, unico medico dell’ospedale che conta
circa 90 posti letto.

Quest’anno la diocesi di Marsabit (Kenya) compie
cinquant’anni. Mezzo secolo speso con e per la gente, dai Samburu ai Borana,
dai Rendille ai Gabbra, dai Turkana a tutti gli altri. Un anno dopo, nel 1965,
nasceva la missione di Sololo voluta dal vescovo di allora monsignor Carlo
Cavallera (missionario della Consolata di Centallo).
I primi missionari vivevano sotto una tenda. Piano piano, la missione si
ingrandì e con esso il piccolo dispensario costruito dal vescovo.

Grazie anche al lavoro di preti e suore Comboniani, che
succedettero ai missionari della Consolata, furono costruiti la General Ward,
la mateità con la sala operatoria, l’isolamento, gli ambulatori e il
laboratorio analisi, la farmacia, e anche la cucina, l’officina e la
falegnameria.

Lentamente, l’ospedale St. Anthony of Padua è
diventato il miglior ospedale della zona, una delle più povere a cerniera tra
il Nord Kenya e il Sud dell’Etiopia. Amministrato dal 2012 dalla suora
francescana, sister Judith Bomett, l’ospedale ha 90 posti letto, un medico
chirurgo e circa 35 dipendenti.

Due anni fa, grazie alla Quaresima di Frateità,
l’ospedale poté dare avvio all’iniziativa «Madre Maria», per pagare le cure
alle donne in gravidanza e alle partorienti. Da allora il numero delle nascite
in ospedale è in continua crescita.

Da amministratrice attenta, ma soprattutto da missionaria
che dedica tutta se stessa ai poveri, sister Judith si è resa conto da subito
della necessità di porre mano alla ristrutturazione dell’ospedale, che mostra i
suoi anni. Partiti tre anni con la mateità, abbaimo poi aiutato la
ristrutturazione del reparto di medicina generale con pediatria e chirurgia. In
questo 2014 vogliamo sostenere il rinnovamento del reparto accettazione e
pronto soccorso e attrezzarlo con il laboratorio analisi per offrire un
supporto diagnostico al medico. La richiesta della suora, accettata
dall’Ufficio Missionario Diocesano di Saluzzo su suggerimento del nostro
gruppo, è stata proposta a tutta la diocesi nella terza settimana della
Quaresima di Frateità 2014.

Grazie a nome del gruppo missionario.

Ines Mussetto
Manta (Cn)
www.gruppomissionariosololohospital.it

risponde il Direttore




Caro Amico – 02/2014

All’inizio
di questo mese di giugno celebriamo la Pentecoste: il rombo infuocato dello
Spirito Santo che forza la porta sprangata del cenacolo.

I discepoli di Cristo sentono
disarticolarsi la museruola che serra i loro cuori. Il sudario che imbriglia le
loro lingue nell’unico idioma da loro sempre parlato si straccia.

E il flusso della Parola è
liberato dalle loro bocche e dai loro gesti per riversarsi sui popoli (Atti
2,1-11).

L’estate che si apre di fronte a
noi è un campo vasto nel quale giocare le carte affidateci dallo Spirito: in un
paese lontano, in un campo di formazione e lavoro in Italia, in un
pellegrinaggio, o in spiaggia, in montagna, nel riposo, al quale anche
siamo chiamati per gustare la bellezza del dono delle cose.

Per chi affronta le proprie
ferite con la cura della mamma Consolata, una delle carte da giocare è
certamente la consolazione, stile inconfondibile del missionario che va agli
afflitti, agli affaticati e oppressi.

Consolati, consoliamo.
Da amico
buona Pentecoste,
buona festa della Consolata,
buona estate e buona missione.
Luca Lorusso

Indice:
Editoriale
Amicomondo
Per la preghiera
Bibbia on the road
Parole di corsa
Progetto Etiopia
Missione & Missioni
Io, tu, noi

Luca Lorusso




Milano e i migranti / 1 Il valore aggiunto oltre il bisogno

Secondo il rapporto Caritas
Migrantes
del 2013, la sola provincia di
Milano conta poco meno di 360mila stranieri residenti, un numero appena
inferiore al totale di quelli che risiedono nell’intero Piemonte. La Lombardia è,
nel suo insieme, la prima regione in Italia per numero di stranieri residenti:
un milione e ventottomila persone.
Il gruppo più numeroso è rappresentato dai rumeni (137mila), seguiti da
marocchini, albanesi, egiziani, cinesi, indiani e altri. In questo numero, MC
racconta un percorso di quarantacinque chilometri fra centro e periferie della
Milano multiculturale.

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Milano, uscita della metropolitana, fermata Duomo. A metà delle scale che portano in superficie, un uomo - dai tratti potrebbe essere originario dell’Asia centrale - sta seduto con un bicchiere di carta in mano, in attesa che qualcuno vi depositi qualche spicciolo. Alle sue spalle, un maxischermo sulla facciata di marmo bianco del Duomo riproduce la pubblicità di uno smartphone. Per un attimo, un effetto prospettico crea l’illusione che l’uomo col bicchiere e il telefonino siano parte della stessa proiezione. Salendo la scale l’illusione scompare, ma la suggestione ci mette un po’ a dissolversi. La tentazione di pensare che quell’immagine sia un emblema è forte, ma Milano si muove troppo velocemente e in troppe direzioni per lasciarsi incastrare in una generalizzazione.

Tra la Fiera del Mobile, quasi una prova generale dell’Expo 2015, e la Chinatown di via Paolo Sarpi, a nemmeno un chilometro dalla storica sede del Corriere della Sera in via Solferino; fra i manifesti della Lega contro «Bruxelles che uccide» accanto alla stazione centrale, e i fogli con la scritta «Via i leghisti da San Siro» attaccati sui nomi delle vie intorno a piazzale Selinunte; fra questi frammenti di città e molti altri, c’è «la piazza»: ecco il luogo dell’incontro, delle reti di solidarietà e dei tentativi di condivisione. Ma anche lo spazio delle quotidiane tensioni, degli stili di vita difficili da conciliare, del costante viavai di persone e di culture che a volte non si fermano abbastanza per osservarsi e poi riconoscersi.

Una panoramica sulla città vista dall’Ufficio per la pastorale dei migranti

«“Fate incontrare la gente”: questo è il mio incoraggiamento per i sacerdoti che delle parrocchie». A parlare è don Alberto Vitali, dell’Ufficio per la pastorale dei migranti (Upm) della Diocesi di Milano. Quando le persone si accorgono di avere problemi comuni, come crescere i figli, trovare un lavoro, accudire un malato, continua don Vitali, diventa meno difficile capirsi e venirsi incontro. La Caritas ambrosiana si occupa della promozione umana e del sociale. «Noi ci concentriamo sul fatto che un migrante è un credente», spiega don Alberto, «e partiamo da questo presupposto per organizzare il lavoro della cappellania generale, che conta trenta realtà etniche diverse».

Il sacerdote traccia un quadro molto chiaro delle generazioni di migranti con i quali svolge il proprio lavoro: la prima generazione ha fra le sue caratteristiche un forte legame identitario con il paese d’origine, e vive nel mito del ritorno, anche se spesso è costretta a rassegnarsi al fatto che tale ritorno non avverrà mai a causa della mancanza di risorse economiche. La seconda generazione, invece, è quella della piena crisi di identità. Quest’ultima, che rimane sopita nei bambini, affiora nell’adolescenza, quando magari arrivano le prime «cotte» per un coetaneo e ci si sente rifiutati perché stranieri. Sentirsi improvvisamente diversi genera nei ragazzi un trauma non semplice da superare, e spesso si innesca una ricerca del gruppo di «uguali» nel quale sentirsi accettati. In alcuni casi, che rimangono comunque limitati, questi gruppi di uguali finiscono per essere le gang criminali giovanili di cui si sente ogni tanto parlare. «È paradossale», aggiunge don Vitali, «che in questi casi la voglia di essere “uguali” porti di fatto a unirsi a altri “diversi”». Quanto alla terza generazione, si tratta di persone completamente integrate.

A Milano, spiega Simona Beretta, anche lei in forze all’Upm e curatrice, oltre che ideatrice, del concorso di scrittura Immicreando, sono tre i tipi di enti che si occupano di migranti: il comune, la Chiesa e le associazioni e onlus, ad esempio il Naga. Non c’è una rete strutturata che unisca queste entità. Nonostante ciò, il cornordinamento funziona grazie a costanti contatti e incontri. Nelle singole realtà di quartiere, poi, la presenza di una situazione di difficoltà viene spesso gestita grazie alla comunicazione fra associazioni, parrocchie, uffici pubblici presenti in loco che si segnalano gli uni gli altri i casi di disagio e si cornordinano per dare una risposta. Quanto all’idea di periferia, a Milano occorre tenee in considerazione due tipi: quella dei comuni della prima cintura, e poi il cosiddetto hinterland. «Ma anche per Milano, come per Torino», chiarisce Simona, «la corrispondenza fra migranti e margine geografico non è automatica: basta pensare a posti come via Padova, una delle strade più multietniche della città, che comincia da piazzale Loreto, una zona tutt’altro che periferica». Che la marginalità e il disagio siano, almeno in parte, un effetto di un fallimento urbanistico è un’ipotesi che Simona non rifiuta: «Non si può dire che ci sia stato un vero e proprio progetto di ghettizzazione, ma nemmeno c’è mai stato un progetto per spezzare queste catene urbanistiche. Il resto, poi, lo ha fatto il mercato immobiliare: i prezzi più bassi nelle zone più disagiate hanno attirato, a loro volta, persone alle quali le difficoltà economiche non permettevano di vivere in zone più costose».

Caritas ambrosiana: il valore di un percorso

Il Servizio accoglienza immigrati (Sai) di Caritas ambrosiana nasce nel 2002 per fornire consulenza e orientamento a immigrati e datori di lavoro a seguito della sanatoria prevista dalla legge 189/2002 (Bossi - Fini). Si consolida poi come più ampia risposta alle problematiche migratorie a Milano, in linea con la sensibilità e le priorità dell’allora arcivescovo di Milano, cardinal Carlo Maria Martini, confermato e sostenuto poi dai suoi successori, cardinali Dionigi Tettamanzi e Angelo Scola. Al Sai, che vede la presenza continuativa e operativa di assistenti sociali, avvocati, consulenti di area legale, operatrici dell’area orientamento al lavoro e della segreteria, e la preziosa collaborazione di venticinque volontari, accedono oggi fra le sei e le settemila persone all’anno. Il Servizio offre ascolto, accoglienza temporanea, accompagnamento sociale, consulenza legale. Nelle situazioni di particolare vulnerabilità è previsto un intervento di sostegno diretto. «Ma il soddisfacimento immediato di un bisogno attraverso l’elargizione di denaro per pagare un debito o un servizio necessari all’immigrato», sottolinea il responsabile del Servizio, Pedro
Di Iorio, «è qualcosa a cui ricorriamo il meno possibile. Cerchiamo piuttosto di leggere il bisogno e condividere con la persona che si rivolge a noi l’idea di un piccolo progetto finalizzato a una possibile maggiore autonomia e miglioramento della propria situazione, un percorso durante il quale, ovviamente, ci impegniamo con possibili azioni di accoglienza, accompagnamento ai servizi territoriali e anche di piccolo sostegno economico». Pedro ci tiene molto a dare rilievo a questo aspetto: ciò che gli sta a cuore è scongiurare per quanto possibile il rischio che «il viandante, così come l’operatore sociale che fornisce il servizio, finiscano per fare del bisogno il solo codice di identificazione relazionale, tralasciando invece il valore aggiunto». Un migrante, cioè, non è solo un bisognoso, ma qualcuno cui proporre, nel territorio, percorsi di socializzazione e conoscenza.

«Nei confronti di chi cerca lavoro, Caritas non può intervenire direttamente come fosse un’agenzia interinale: il nostro ruolo è quello di aiutare la persona per un miglior posizionamento nella ricerca attiva del lavoro. Gli strumenti disponibili sono di natura formativa, di base e professionalizzante, di orientamento e informazione che la “piazza” spesso non è in grado di dare».

«Piazza» è un termine che Pedro usa spesso: la definisce il luogo del passaparola, dei network etnici, dove i migranti hanno notizia dei servizi, come quelli offerti dalla Caritas; ma è anche uno spazio frammentato, dove non sempre i canali da percorrere per far fronte alle proprie necessità sono chiari: «Per questo diventa ancora più importante far attenzione a non creare aspettative ingiustificate rispetto a qualunque bisogno che ci viene esposto e fornire ai migranti informazioni che alla gratuità uniscano la qualità».

La mole di lavoro per il cosiddetto front-office, che si occupa fra l’altro di codificare il bisogno il più rapidamente possibile, è ragguardevole: sono quindicimila all’anno le telefonate a cui gli operatori rispondono, una media di quaranta al giorno. «I richiedenti asilo/titolari di protezione internazionale rappresentano il quindici per cento del flusso complessivo di richieste che riceviamo; per il medesimo target di riferimento (protezione internazionale), a Milano il comune svolge azioni di accoglienza e accompagnamento affidate, attraverso una convenzione, alla cornoperativa Farsi Prossimo che gestisce quattro centri d’accoglienza per uomini e uno per donne. I “migranti economici” sono circa l’ottantacinque per cento: l’Italia sta diventando meno appetibile come meta per chi cerca un impiego e anche i migranti della prima ora, quelli che erano stati protagonisti di storie di successo e che oggi si trovano sempre più spesso in condizioni di precarietà, con quel che ne consegue in termini di sgretolamento delle famiglie e di impatto devastante dal punto di vista psicologico».

Oltre due terzi degli utenti del Sai hanno una situazione abitativa che nella migliore delle ipotesi consiste in un posto letto (oneroso) in coabitazione con altri connazionali. Altre volte si tratta di persone ospitate nei centri di accoglienza, come il rifugio Caritas vicino alla Stazione Centrale, o nei centri di accoglienza gestiti dal comune o da istituzioni religiose. Spesso l’alternativa è la strada o l’area dismessa. Lo scalo della stazione di Porta Romana è un esempio di quest’ultimo tipo di sistemazioni: «Dal ponte sulla ferrovia in Corso Lodi si vedono solo le passerelle dove i passeggeri aspettano i treni», racconta Pedro, «ma se cammini lungo i binari arriverai a intravedere, di notte, i fuochi accesi dalle decine, a volte centinaia, di persone che passano la notte nelle strutture dismesse dello scalo».

Quanto all’ipotesi di rientrare nei paesi di provenienza, Pedro ribadisce che nella maggior parte dei casi «da sconfitti a casa non si torna». Qualcuno sceglie comunque il recupero degli affetti anche se il prezzo è ammettere il fallimento, ma molto dipende anche dalle condizioni messe in campo dal paese di provenienza. «Ad esempio, in Perù sono attivi progetti di reinserimento degli emigrati che rientrano e questo aiuta a creare le condizioni per i rimpatri».

Via Padova, le declinazioni dell’accoglienza

Via Padova è un’arteria di oltre quattro chilometri che collega piazzale Loreto a Crescenzago. Quattro anni fa la zona fu al centro dell’attenzione dei media per l’assassinio di un giovane egiziano a opera di una banda di latinos.

Nel quartiere che si estende intorno alla chiesa di San Gabriele, nella parte di via Padova vicina a piazzale Loreto, la popolazione straniera è al quaranta per cento. «La maggioranza degli immigrati» spiega don Davide Caldirola, «proviene dall’America Latina, specialmente Ecuador e Perù, e dall’Egitto. Raramente si tratta di famiglie, spesso sono assembramenti di persone, ed è più difficile stabilire un contatto con loro».

Qui molte sono case di ringhiera, dove il contatto diretto fra condomini è inevitabile, ma gli avvicendamenti sono frequenti: gli affitti sono alti e la gente non si ferma molto. «Qualche giorno fa», riporta don Davide, «una signora mi ha detto che se fosse per lei sarebbe ben contenta di conoscere i vicini di casa, ma cambiano ogni tre settimane...».

Accanto agli stranieri, nel quartiere vivono parecchie persone anziane che si sono stabilite qui da anni e le difficoltà a conciliare le loro esigenze con quelle dei nuovi abitanti non è sempre semplice. «Non si può chiedere a un anziano di imparare l’egiziano per poter stabilire un rapporto con i vicini e a volte anche le forme un po’ chiassose di convivialità di alcuni gruppi di migranti creano disagio in persone che desidererebbero un po’ più di quiete». Sui principi della condivisione e dell’accoglienza, dice don Davide, non si può che essere tutti d’accordo; spesso, però, nel concreto, la partita della multiculturalità non si gioca sui principi ma su tanti piccoli episodi quotidiani che creano tensioni.

Come parrocchia, a San Gabriele si è scommesso su quello che don Caldirola definisce un «puntare alla normalità», assecondando cioè l’incontro che già sta avvenendo nelle nuove generazioni. «All’oratorio uno su tre dei bambini che ricevono i sacramenti ha genitori stranieri. La nostra struttura accoglie tutti i bambini, cristiani o non cristiani, perché crescano insieme e sostituiscano all’appartenenza etnica i valori dell’amicizia».

Chiara Giovetti
(1 - continua)

Tags:
migranti, accoglienza, Milano, Caritas, pastorale migranti, periferie, Via Padova
Chiara Giovetti




Carlo di Gesù (Charles De Foucauld)

Charles
De Foucauld nacque il 15 settembre 1858 a Strasburgo in Francia, visse una
giovinezza scapestrata, l’unica cosa che lo interessava era divertirsi.
Intraprese la carriera militare ma dopo pochi anni fu congedato per
indisciplina aggravata da cattiva condotta, un marchio disonorevole che lo
lasciò completamente indifferente. Incominciò a viaggiare e da audace
esploratore si addentrò in una zona sconosciuta del Marocco ricavandone notizie
interessanti che gli meritarono una medaglia d’oro dalla Società di Geografia
di Parigi. Toccato dalla fede profonda di alcuni musulmani conosciuti in
Africa, al suo ritorno in Francia ebbe una profonda crisi che lo portò a
riavvicinarsi alla fede cristiana decidendo di «vivere solo per Dio»; la sua fu
una conversione sconvolgente che gli cambiò radicalmente la vita. Entrò in un
monastero trappista e dopo alcuni anni si recò in Terra Santa per vivervi come
Gesù in povertà e nascondimento. Fece gli studi di teologia, al termine dei
quali fu ordinato sacerdote e ottenne di stabilirsi a Tamanrasset, un’oasi
sperduta nel cuore del deserto del Sahara, ove trascorse tredici anni dedicandosi
totalmente alla preghiera e all’ospitalità dei viaggiatori che vi facevano
sosta. Durante la sua permanenza in quell’ambiente, realizzò un aggioatissimo
dizionario francese – tamashek (la lingua dei tuareg), in uso ancora oggi.

Carlo, lo sai che sei
una delle figure più adamantine e originali della Chiesa del XX secolo?

Non
esageriamo adesso, sai benissimo che in gioventù ne ho combinate di cotte e di
crude. Il fatto stesso che fui congedato con disonore per indisciplina e
cattiva condotta dall’esercito francese la dice lunga sui miei trascorsi
movimentati.

Effettivamente parte
della tua vita fu segnata da intemperanze di non poco conto.

La
mia giovinezza fu segnata dal fatto che non credevo in nulla e che mi concedevo
ogni cosa desiderassi. Ma tutto ciò, paradossalmente, svuotò completamente la
mia vita di significato. Una volta congedato, partii come esploratore in
Marocco allo scopo di illustrare e descrivere zone inesplorate dell’Africa.

Fu in quell’occasione
che venisti a contatto con la fede islamica professata dagli accompagnatori dei
tuoi viaggi e dalla gente di quelle lande sperdute?

La
fede dei musulmani cominciò a far vacillare le mie laiche sicurezze tipicamente
francesi. Il vedere come quella gente semplice e umile si prostrasse cinque
volte al giorno in direzione della Mecca per rendere culto al Dio onnipotente e
misericordioso, provocò in me un’ansia di ricerca del senso della vita alla
quale forse per troppo tempo non avevo dedicato alcuna attenzione.

Fu al tuo ritorno in
Francia che la ricerca di Dio trovò il suo compimento.

È
vero, tornato nella mia patria incominciai con determinazione e insistenza a
percorrere un cammino che mi avrebbe aiutato a ritrovare la fede.

E quella tua ricerca
alla fine ebbe buon esito.

Sì,
nello stesso attimo in cui mi resi conto dell’esistenza di Dio, compresi che
non potevo fare altro che vivere per Lui, con Lui e soprattutto come Lui! Si può
dire che la mia vocazione religiosa risale al momento stesso in cui in me scoccò
la scintilla della fede.

Sei stato aiutato da
qualcuno nel tuo cammino?

Sono
grato a padre Henri Huvelin che mi accompagnò passo dopo passo nella mia
faticosa ricerca diventando un prezioso direttore spirituale. Da lui mi
confessai dopo tanto tempo e su suo consiglio decisi di recarmi nel 1888 in
Terra Santa per visitare i luoghi dove aveva vissuto Gesù.

Dove avvenne qualcosa
di importante per te…

Precisamente.
Fu proprio in quel viaggio che decisi di diventare monaco. Al ritorno in
Francia, nel gennaio del 1889 entrai nel monastero trappista di Nostra Signora
delle Nevi nella diocesi di Viviers, dove mi venne dato il nome di Alberico
Maria.

Però la tua ansia e
ricerca di Assoluto ti spingeva altrove, non è vero?

Nel
1901 fui ordinato sacerdote e il 28 ottobre dello stesso anno ritornai in
Africa e mi stabilii a Benis-Abbes, una zona situata proprio dove passava il
confine fra Algeria e Marocco. Nel 1905 mi spostai a Tamanrasset dove costruii
una piccola dimora in cui potevo fare le mie meditazioni, scrivere, contemplare
la creazione e dialogare con le persone che il Signore mi faceva incontrare.

Il silenzio e la
vastità del deserto favorivano la contemplazione del mistero di Dio?

Sì.
Passavo ore e ore contemplando quello che mi circondava, tutto ciò che vedevo e
ascoltavo, dal colore cangiante della sabbia del deserto che mutava alla luce
del sole delle diverse ore della giornata, al sibilare del vento che mi parlava
di Dio. Entrai col tempo in un rapporto intimo con Lui, vivevo una spiritualità
che andava sempre più concentrandosi sul Cristo Crocifisso e l’Eucaristia.

Se non vado errato,
cucisti sulla tua tunica bianca un cuore rosso di stoffa sormontato da una
croce.

Era
un modo silenzioso, profondamente efficace, di dare testimonianza dell’amore di
Dio e di Gesù suo figlio che aveva effuso lo Spirito dopo il sacrificio della
Croce sull’umanità intera.

Tu accoglievi ogni
persona che passava da Tamanrasset. Un modo sincero e profondo per offrire
ospitalità e dare testimonianza della tua fede cristiana.

A
tutti quelli che passavano di là, qualunque religione professassero, mi
presentavo loro come un «fratello universale». A tutti davo accoglienza e
ascolto, e cercavo di intavolare un dialogo pieno di rispetto e di
comprensione.

Oggi riflettendo sui
molteplici modi di annunciare il Vangelo, scopriamo che il tuo è quello più
congeniale per avvicinarci alle popolazioni di lingua, cultura e fede diversa.

La
testimonianza che io offrii in un angolo sperduto del deserto del Sahara non
aveva come obiettivo la conversione della gente. Era piuttosto centrata sul
fatto che, come discepolo di Gesù di Nazareth, non potevo fare altro che dare
lode al mio Dio, dare ragione della speranza e della fede che era nel mio cuore
e, come dice San Pietro, e cercare di esprimere sempre rispetto e tenerezza.

Certo, se si pensa
alle «conversioni» di interi popoli avvenute nei secoli passati con la
coercizione e la spada, c’è da restare allibiti per la disarmante semplicità
con cui hai presentato la fede in Cristo Gesù.

Quello
che apparentemente può essere ritenuta un’inutile perdita di tempo o un modo di
fare che non dà nessun risultato nell’immediato, se vissuto con amore e
dedizione, risponde invece a una potente logica evangelica, quella del seme che
muore per dare molto frutto.

Il tuo modo di agire,
il tuo carisma, hanno dato origine a una spiritualità cui si ispirano diversi
Istituti e Congregazioni che fanno della preghiera e della testimonianza
silenziosa uno dei cardini preziosi per annunciare Cristo Crocifisso.

Il
Signore edifica meraviglie servendosi della nostra povertà. Con la sua morte in
croce Gesù ha salvato il mondo. Con la pochezza degli Apostoli ha fondato la
Chiesa. È con la santità che si conquista il cielo, e la fede viene propagata.
Ricordiamoci sempre che la fede si è diffusa a macchia d’olio quando i
cristiani la celebravano nelle catacombe, mentre ha segnato il passo quando la
Chiesa era carica di ricchezze e splendori.

Oltre alla
contemplazione ti sei addentrato anche nella lettura e meditazione delle Sacre
Scritture. La tua prassi di vita ha inciso sul tuo modo di pregare?

Più
la Parola di Dio mi afferrava, più mi sentivo in sintonia con il Signore del
creato, con il Padre misericordioso che ama in maniera sconfinata tutti i suoi
figli e a lui mi abbandonavo completamente.

A mo’ di conclusione
di questa nostra intervista, puoi recitare la tua preghiera, quella che ti ha
qualificato nella Chiesa del XX secolo come un maestro di spiritualità?

Con
piacere… ripeti con me: «Padre mi abbandono a te, fa di me ciò che ti piace.
Qualsiasi cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto
tutto, purché la tua volontà si compia in me, e in tutte le tue creature: non
desidero nient’altro, mio Dio. Rimetto l’anima mia nelle tue mani, te la dono,
mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. È per me un’esigenza
di amore, il donarmi a te, l’affidarmi alle tue mani, senza misura, con
infinita fiducia: perché tu sei mio Padre».

Il
primo dicembre del 1916 l’umile dimora di Charles De Foucauld fu saccheggiata
da predoni sbandati del deserto. Gioi dopo il suo cadavere fu ritrovato
abbracciato all’Ostensorio che conteneva ancora le particole consacrate.

Benedetto
XVI l’ha beatificato il 13 novembre 2005.

 
don Mario Bandera
Missio Novara

Mario bandera




Binomio impossibile: fondamentalismo e religione

Riflessioni e fatti sulla Libertà Religiosa nel mondo – 20
La violenza dettata dall’intolleranza sembra essere una realtà
molto diffusa nel mondo. Spesso associata alla religione, o meglio ai
fondamentalismi religiosi. Ma è lecito accostare il termine «fondamentalismo»
al termine «religione»?

Accade di frequente oggi che si
confonda il fondamentalismo con la religione. È così che conflitti nati da
questioni economiche o politiche o etniche vengono descritti come di natura
religiosa. Con questo criterio si contrappongono facilmente cristiani e
musulmani, buddisti e induisti, e altri ancora, come nei casi in cui i
cristiani divengono vittime di intolleranza e di persecuzione, ad esempio in
Nigeria, in India e in altre nazioni dell’Africa e del continente asiatico.

La violenza fa purtroppo parte di
quel fondamentalismo religioso che oggi sembra nascere soprattutto in seno
all’Islam, ma che è stato usato in passato anche nel mondo cristiano, e ancora
oggi in certi movimenti cristiani integralisti.

Il medioevo cristiano

La concezione che nel medioevo si
aveva della Chiesa e dello stato può, per esempio, spiegare la guerra scatenata
dal mondo cattolico contro i Catari, o più comunemente Albigesi, nella Francia
meridionale. Una guerra durata vent’anni, dal 1209 al 1229, che qualcuno definì
la prima crociata di cristiani contro altri cristiani, nella quale caddero
vittime non solo gli eretici, ma a volte l’intera popolazione di una città,
come avvenne a Bézier nel 1209. Il legato pontificio, alla domanda di un capo
della spedizione, pare abbia pronunciato questa orribile frase: «Uccidete,
uccidete! Dio saprà riconoscere i suoi». Il risultato di simile concezione fu
un massacro generalizzato, che si estese poi alle città di Carcassone, Pamiers
e Albi. Nel 1244 i Catari furono massacrati senza pietà anche a Montségur e
continuarono a essere messi al rogo fino alla metà del Trecento.

Ma oltre alla tragedia subita dai
Catari, possiamo citare anche le dolorose persecuzioni che colpirono il
movimento pauperistico dei Valdesi, fondato da un commerciante di Lione, Pietro
Valdo, o Valdesio, e diffuso ancora oggi nelle valli del Pinerolese e
nell’Italia meridionale.

In quel periodo storico, a causa
dell’intima compenetrazione tra l’elemento politico e quello religioso,
l’eresia non veniva considerata solo un peccato di coscienza o di fede, ma un
attentato contro la sicurezza della società. La difesa della verità sembrava
dovesse essere attuata con la violenza.

Soltanto poche persone in quel
periodo compresero il vero senso dell’insegnamento evangelico di non uccidere e
di essere invece disposti a subire la croce per testimoniare la propria fede.
Un vescovo, Vado di Liegi (980-1048), biasimò le brutali misure contro eretici
veri o presunti adottate in Francia. San Beardo di Chiaravalle, anche se
arrivò ad affermare che agli eretici spettava il rogo, condannò le persecuzioni
degli ebrei e l’uccisione di eretici a Colonia nel 1144, asserendo che la fede
deve nascere dentro il cuore dell’uomo e non mediante la costrizione.


Violenza: segno del «fallimento» della religione

Questo insegnamento fu preceduto
molto prima da alcuni cristiani delle prime generazioni. Tutti sappiamo che i
cristiani dei primi secoli furono oggetto di ostilità sanguinose. Contro quella
che oggi possiamo definire intolleranza religiosa dei primi secoli, gli
apologisti come Giustino (+165 d.C.), Tertulliano (+220 circa) e Lattanzio
(+320 circa) rivendicarono la libertà e il diritto naturale che ciascuna
persona ha di adorare le proprie divinità. La violenza è il peggior strumento
di diffusione della religione e un segno evidente del suo fallimento. Nessuna
religione infatti si difende e si propaga con la violenza.

Il Mahatma Gandhi soleva dire che «la
violenza è l’arma più debole, la nonviolenza quella più forte».

Nella premessa della sua prima
apologia in difesa dei cristiani Giustino partì dalla considerazione che lo
stato non deve lasciarsi guidare dalla violenza e dalla tirannia, ma ispirarsi
a saggezza, pietà e rispetto delle persone. Tertulliano nell’Apologetico
(n. 24) sostenne che una religione coatta e imposta è una strada aperta verso
l’irreligiosità, e aggiunse che nessuno vuole essere adorato per forza, neppure
un uomo. Infine, Lattanzio nel De divinis institutionibus (V, 20), di
fronte alla persecuzione di Diocleziano, la più cruenta di tutte, dettò un
celebre passo che non si può ignorare: «La religione si difende non uccidendo,
ma morendo; non con la crudeltà, ma con la fede… Se tu vorrai difendere la
religione con il sangue, i tormenti, il male, non la difenderai, ma la
contaminerai e la violerai».

«Perché non era uno di noi»

Il tema del fondamentalismo che usa
la violenza nel nome dell’appartenenza religiosa non può quindi essere
applicato solo al mondo musulmano o induista. Nessuna religione è immune dalla
violenza, così come dalla superstizione. La storia ci insegna che il
fondamentalismo può riferirsi a qualsiasi religione. È troppo facile dire che «il
mio Dio non è il tuo Dio, il mio è vero e il tuo no!». Sotto queste frasi si
nascondono spesso altre idee e altri interessi, etnici, economici, politici.
Oppure, più semplicemente, si nasconde una strana gelosia religiosa, cioè il
bisogno di appartenere alla religione migliore, più buona e più vera delle
altre.

Un giorno Gesù rimproverò i suoi
discepoli perché avevano visto un tale che scacciava i demoni nel suo nome e
glielo avevano proibito, «perché non era uno di noi». E Gesù disse loro: «Non
glielo proibite… Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9, 38-40).

Lo spirito di Assisi

Il pericolo dell’esistenza di una
religione non autentica è comunque sempre presente. Per questo la Parola di Dio
chiede una quotidiana conversione, di passare cioè dagli idoli vuoti e vani
all’unico vero Dio. La Chiesa del Concilio Vaticano II si è soffermata più
volte sul valore delle religioni storiche, di qualsiasi religione. Nella
Dichiarazione sulla Chiesa e le Religioni non cristiane ha sottolineato come «la
Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni.
Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei
precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da
quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio
di quelle verità che illuminano tutti gli uomini» (n. 2).

In altre parole tutte le religioni
contengono cose vere e buone; esse sono la presenza e il riflesso di quella «luce
che illumina ogni uomo» (Gv 1, 2), mediante cui Dio chiama alla salvezza.
Questa visione teologica ha conosciuto una sua meravigliosa attuazione nel 1989
ad Assisi quando, in uno straordinario incontro tra le religioni, Giovanni
Paolo II lanciò «lo spirito di Assisi»: non più le religioni una contro le altre,
ma una accanto alle altre, anzi le une che pregano Dio accanto e insieme alle
altre.

La lista dei martiri

Rimane comunque il fatto che il
fondamentalismo detto religioso produce ancora oggi violenza. I cristiani, ma
anche i musulmani, i buddhisti, e gli altri, soffrono persecuzioni a causa
della loro testimonianza di fede e di carità.

In base ai dati raccolti e pubblicati
dall’Agenzia Fides, nel 2013 sono stati uccisi nel mondo 22 cristiani,
per la maggior parte sacerdoti in cura d’anime, insieme a una religiosa e a due
laici. Il doppio rispetto al 2012 in cui ne furono uccisi 13 (e comunque un
numero che si riferisce solo a quei «martiri» che avevano incarichi ecclesiali,
e non ai molti «cristiani comuni» vessati anch’essi per la loro fede, ndr).
Scorrendo le poche notizie che si hanno di questi sacerdoti, si osserva che non
tutti possono essere definiti martiri nel senso tradizionale del termine, perché
quasi tutti sono stati uccisi in seguito a tentativi di rapina o di furto,
aggrediti in alcuni casi con efferatezza e ferocia, segno del clima di
decadimento morale, di povertà economica e culturale, che genera violenza e
disprezzo della vita umana, tutti però vivevano la loro testimonianza di fede
in un contesto di degrado umano e sociale, annunciando il messaggio evangelico
senza gesti eclatanti, ma con le opere e la loro presenza nell’umiltà della
vita quotidiana.

Il dialogo possibile

La Chiesa del Concilio condanna ogni
violenza nel nome dell’appartenenza religiosa, e non manca di continuare a
proclamare e a vivere il proprio impegno per la riconciliazione e la pace
attraverso il dialogo interreligioso e le molteplici opere di carità
evangelica, che foiscono aiuto e conforto a gente di qualsiasi religione. Lo
ha sottolineato l’appello lanciato dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma nel
febbraio 2014 in un convegno internazionale dal titolo «La religione e la
violenza», che ha visto la partecipazione di personalità delle religioni, della
diplomazia e della politica, provenienti da Europa, Asia, Africa e Medio
Oriente.

In un mondo infetto da un’epidemia di
violenza – ha sottolineato Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di
Sant’Egidio – «la diplomazia tradizionale ha bisogno di nuovi strumenti: in
primo luogo la religione, poi la politica, la cultura, la lotta al
sottosviluppo. L’intera società civile deve essere impegnata in uno sforzo di
superamento di antiche diffidenze, quando non di veri e propri conflitti, che
sono all’origine delle esplosioni di violenze e terrorismo che hanno
insanguinato il mondo all’inizio del Terzo Millennio».

Il convegno è partito da una
considerazione poco ottimista: «Negli ultimi anni la violenza religiosa è aumentata
in maniera sconvolgente» – ha detto il cardinale Walter Kasper, presidente
emerito del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani – e ciò è avvenuto
perché «gli appartenenti a tutte le religioni, compresi i cristiani, vale a
dire persone o gruppi che pretendono di agire in nome di una religione, o del
cristianesimo, sono stati o sono fautori di violenza». Dunque la religione è
insieme autrice e vittima di violenza. Eppure «la pace nel mondo non è
possibile senza pace tra le religioni» e senza che le fedi promuovano i loro
tratti comuni circa i diritti umani, la libertà religiosa, la tolleranza e il
dialogo, spezzando «il circolo vizioso della violenza che genera violenza».

A sua volta Benjamin Kwashi, vescovo
di Jos in Nigeria, ha dato una valida testimonianza dell’importanza che il
dialogo interreligioso ha nelle diverse articolazioni della società, e in
particolare tra la sua gente che vive da anni una situazione di drammatica
violenza tra musulmani e cristiani.

Ha sottolineato l’importanza del
dialogo anche Abdelfattah Mouron, vincitore delle elezioni in Tunisia e
artefice della nuova Costituzione, uno dei frutti più maturi delle primavere
arabe. «La violenza – ha affermato – normalmente precede la religione». Compito
della religione «è di recuperare la propria autonomia e di costruire la pace
alimentando cultura, valori ed educazione».

Allo stesso modo, Muhammad Khalid
Masud, membro della corte suprema del Pakistan, ha sostenuto che la religione
non fa «parte della violenza», anche se ha riconosciuto che «possa essere usata
per giustificare la violenza».

La verità aperta

Ecco quindi che il rapporto tra
religioni e violenza, tra religioni e fondamentalismo, va posto in maniera
radicalmente diversa. In un contesto di assuefazione all’uso della violenza, le
religioni hanno il dovere di purificarsi e di assumersi le proprie
responsabilità, altrimenti il fondamentalismo verrà sempre più definito
religioso, fino a qualificare qualsiasi religione come generatrice di
vessazioni e di violenza e non invece di pace.

«Chi si rifugia nel fondamentalismo è
una persona che ha paura di mettersi in cammino per cercare la verità». Lo
scrive papa Francesco in un testo tratto da La bellezza educherà il mondo,
pubblicato dalla Editrice Missionaria Italiana a un anno dalla sua elezione in
Conclave (13 marzo 2013). «La nostra verità – afferma – non sia
fondamentalista, ma aperta al dialogo».

Giampietro Casiraghi


Tags
: libertà religiosa, dialogo, fondamentalismo, religione

Giampietro Casiraghi




Pillole «Allamano» 5: Trasformare l’ambiente, non solo gli uomini


L’unica pretesa, se possiamo definirla tale, di questa serie di «pillole» consiste nel raccogliere alcune suggestioni che provengono dal nostro Fondatore e provare ad applicarle alla vita di oggi. Il tutto nella convinzione che nella profonda spiritualità di Giuseppe Allamano esistano elementi capaci di trascendere il tempo in cui sono stati vissuti in prima persona da lui e di dire qualcosa di illuminante per la missione cui siamo chiamati oggi in Europa.

Il dinamismo di un carisma, ovvero quel dono di Grazia che Dio concede a qualcuno in particolare affinché possa essere messo al servizio della comunità, si manifesta soprattutto attraverso la sua incarnazione nel vissuto quotidiano. Un carisma, infatti, si evolve quando viene assunto e trasmesso attraverso scelte concrete che lo modellano sulla realtà di cui si è protagonisti. Così è stato per i primi missionari, che hanno ricevuto una formazione speciale direttamente dalla bocca di Giuseppe Allamano, e sono stati capaci di tradurla in azione. Così è stato anche per l’Allamano che si è venuto formando lui stesso, gradualmente, con ciò che i suoi missionari gli condividevano attraverso diari, lettere e dialoghi personali. Tutto questo materiale veniva da lui nuovamente offerto, arricchito dalle sue considerazioni. Oggi, questo stile improntato a una narrazione missionaria può essere utile all’impegno diretto di ogni cristiano nell’evangelizzazione dell’Europa, ad esempio per fare distinzioni, chiarificare termini, sintetizzare esperienze passate di evangelizzazione che possono diventare maestre di vita.

«Puntate alla trasformazione dell’ambiente» è una frase che potrebbe oggi apparire ambigua e generare qualche perplessità. Nel corso della storia, in molte occasioni, l’impatto del missionario con l’ambiente in cui è vissuto o ha operato è stato giudicato in modo negativo, poco rispettoso delle culture, delle persone, ecc. In altre parole, il missionario è stato accusato di aver tradito l’ambiente nel tentativo di trasformarlo. Inutile aprire una discussione che ci porterebbe a remare in mari troppo lontani e vasti, senza il tempo e la pretesa di affrontare in poche righe quelli che sono da sempre temi molto complessi di missionologia. È molto più utile narrare storie missionarie, documentando gli innumerevoli esempi di missione «ben fatta», ma anche le esperienze negative, nelle quali l’attenzione verso l’altro, i suoi reali bisogni e la sua cultura sono stati effettivamente calpestati da un’azione inopportuna. Non per niente, una delle pillole che Giuseppe Allamano ci obbligherà ad assumere prossimamente sarà proprio quella che invita a «fare bene» il bene, e a non fidarsi solamente delle buone intenzioni.

Nella teologia cristiana, la cura dell’ambiente non si discosta da quella della persona, piuttosto la comprende. Nella sua condizione di essere creato, l’uomo è chiamato a vivere in spirito «ecologico», dove il termine ecologia va letto nella sua accezione più ampia, ovvero come scienza che regola l’insieme di relazioni tra gli esseri viventi e l’ambiente in cui vivono, nonché la qualità di tali relazioni. Si parla qui di ecologia della vita quotidiana, o di ecologia sociale.

Una casa in ordine (il termine greco οίκος, da cui deriva la parola ecologia, significa appunto casa)1 consente all’essere umano di vivere bene, in armonia con ciò che lo circonda, mentre una casa disordinata genera caos, malessere e frustrazione. Bisogna saper «vestire» il proprio ambiente, sentirlo come una seconda pelle, qualcosa che ci appartiene, ci definisce e ci realizza rendendoci felici.

La pillola di questo mese suggerisce una cosa molto semplice, che non vuole assolutamente penalizzare l’essere umano: trasformare l’ambiente significa renderlo più vicino al modello che l’uomo si propone per essere veramente felice insieme ai suoi simili. Lo sfruttamento dell’ambiente, inteso come ambiente naturale, da parte di pochi crea obbligatoriamente una disarmonia nella vita di molti, e ciò, come direbbe il racconto della creazione nel libro della Genesi, non è «cosa buona». Trasformare l’ambiente significa quindi distruggere quei meccanismi e quelle strutture che impediscono all’uomo di essere ciò che è chiamato a essere. In molti casi queste sono strutture di peccato, costruite per guadagnare e schiavizzare, sfruttare e godere, alla faccia degli altri, soprattutto di coloro che non possono scegliere, non si possono difendere e per questa ragione restano sempre ai margini, esclusi.

Giuseppe Allamano aveva ben chiaro il fatto che l’opera di evangelizzazione è tanto più efficace quanto più è in grado di incidere sull’ambiente in cui le persone sono immerse e vivono. Le Conferenze di Murang’a, organizzate nel 1904 dai primi missionari della Consolata in Kenya per pianificare la vita missionaria e scegliere le linee metodologiche da seguire, sono il frutto del continuo dialogo fra l’Allamano e i suoi missionari, e sottolineano l’intima relazione fra la persona e l’ambiente. Il metodo di evangelizzazione che nasce a Murang’a si radica nel Dna della spiritualità trasmessa dall’Allamano, e diventa la base dello stile missionario della Consolata, esportato da allora in tutto il mondo. Il tratto distintivo è l’attenzione al quotidiano delle persone: la salute, l’educazione, il modo di produrre, gestire, mantenersi grazie a un’economia sostenibile. Questi aspetti, uniti alla valorizzazione di elementi come le relazioni familiari e comunitarie, il ruolo della donna, il rispetto della persona nei suoi diritti e nella sua cultura e religione, puntano a creare comunità armoniche, felici e aperte ad accogliere il messaggio del Vangelo.

Tale metodo fondato sulla promozione umana non solo viene approvato dall’Allamano, ma viene da lui difeso con forza da critiche estee: «In passato, alcuni si permisero di criticare il nostro metodo di evangelizzazione, quasi ci occupassimo troppo del materiale con pregiudizio del bene spirituale; si diceva che bisognava predicare e battezzare e non occuparsi di altro. Ma dopo la pubblicazione del decreto di approvazione e le conferenze di Monsignore e di padre Gabriele (Filippo Perlo e suo fratello Gabriele, ndr.) mutarono parere e molti di buona fede lo confessarono».

Giuseppe Allamano ha certamente in mente le visite ai villaggi che i missionari fanno con costanza e, con esse, le opere sociali che iniziano a svilupparsi come segno di promozione umana. Si tratta di interventi che vengono però fatti con un’attenzione speciale alla cultura, alle vere esigenze della gente. Può la missione della Chiesa in Europa nutrirsi di questa intuizione profonda dell’Allamano? Credo che alcuni aspetti vadano tenuti presenti e possano aiutarci a riflettere sul senso della missione nel vecchio continente.

La missione in Europa deve cambiare perché l’Europa stessa è cambiata. Il contesto missionario di oggi è totalmente differente da quello che l’Allamano conobbe a suo tempo. Aspetti sociali, demografici, culturali, religiosi si intersecano e si aggrovigliano rendendo ogni discernimento più difficile. Ma di fronte a questa complessità occorre fornire a noi stessi una risposta chiara in merito alla nostra identità. Come fecero i primi missionari della Consolata in Kenya, occorre definire chi siamo noi oggi.

Di questi tempi, si parla molto di nuova evangelizzazione per l’Occidente, orientata a incontrare quelle fasce della popolazione ormai scristianizzate per invogliarle a «ritornare». È altrettanto certo, però, che oggi l’Europa si sta sempre più trasformando in un contesto anche di «prima evangelizzazione».

Per poter trasformare l’ambiente dobbiamo conoscerlo, e la miglior forma di conoscenza è l’incontro diretto, il contatto personale che crea empatia, e genera apertura. Giuseppe Allamano era un uomo illuminato, pretendeva dai suoi studio e applicazione perché intuiva molto bene come il contesto andasse innanzitutto capito. Lo studio delle lingue, ad esempio, era conditio sine qua non per poter andare avanti nel cammino di formazione, al punto da diventare per il Fondatore una discriminante vocazionale. L’idea di fondo era chiara: senza il possesso della lingua, strumento principale di comunicazione, come si poteva entrare in un contatto profondo con una cultura? Oggi lo stesso si potrebbe dire dei mille linguaggi che si parlano in Europa, tra cui, non ultimi, quello digitale, della comunicazione, scientifico, ecc.

Trasformare l’ambiente significa proporre un paradigma alternativo, che sia significativo, offra risposte adeguate, rappresenti una sfida al modello dominante.

Infine, trasformare l’ambiente significa dare uno spirito nuovo. Per anni il nostro continente si è attaccato all’illusione che il benessere economico potesse sopperire all’assenza di senso in cui si dibattevano e dibattono tuttora molte esistenze. Oggi, però, quell’illusione si è rivelata per ciò che era, una bolla di sapone che, scoppiando, ha infranto il nostro sogno: siamo senza soldi, ma continuiamo a doverci gestire le nostre solitudini, i nostri piccoli o grandi deserti familiari, gli effetti delle nostre morali deboli, il tutto condito dalla frustrazione di vedere chiudere attività, progetti e speranze. Stiamo mandando in cassa integrazione la nostra idea di futuro: serve uno spirito nuovo, che dia un movimento fresco e originale al continente e motivi una profonda ecologia della vita quotidiana.

La missione può fare la sua parte; del resto, si fonda su una speranza che la trascende e che rappresenta l’oggetto del suo stesso annuncio.

Qualche altra «pillola» dell’Allamano potrà aiutarci a capire e vivere meglio questo momento di trasformazione.

Ugo Pozzoli

 1) È interessante notare che in alcune cosmologie andine, come quella dei Nasa della Colombia, lo spazio dove vivono gli esseri viventi viene definito «casa piccola», in contrapposizione alla «casa grande», abitata dagli spiriti.


Tutte le 10 parole




Il peso della memoria

Viaggio in Cile / 2


Uccisioni, sparizioni, prigionia, tortura, persecuzioni. I
costi umani della dittatura del generale Pinochet sono stati molto alti. A Santiago abbiamo
visitato il «Museo della memoria e dei diritti umani». Un’opera con cui il Cile
ha voluto abbattere i muri della negazione e dell’occultamento. Per costruire
il proprio futuro senza dimenticare il passato.

Santiago
del Cile. La si nota appena dal metro si esce su Avenida Matucana. È una
costruzione color verde smeraldo a forma di parallelepipedo che sovrasta una
piazza ad anfiteatro, costruita sotto il livello stradale. La struttura del
«Museo de la memoria y los derechos humanos» è modea, ma anche sobria come si
conviene a un luogo che racchiude la memoria di 17 anni di dolore e sofferenza.

Inaugurato
l’11 gennaio del 2010, il Museo è infatti uno spazio destinato a dare visibilità
alle violazioni dei diritti umani commesse dallo stato cileno tra l’11
settembre 1973 e il 10 marzo 1990, durante il governo del generale Augusto
Pinochet.

L’entrata
è dalla piazza «interrata», Plaza de la memoria, che a sua volta ospita una
serie di grandi pannelli in cui si raccontano, con testi e immagini, le lotte
dei popoli latinoamericani contro le dittature. Dall’Argentina al Guatemala:
mai dimenticare che praticamente tutti i paesi del continente hanno conosciuto
regimi repressivi, spesso legati in un’unica trama (il Plan Condor)1.

La parete delle vittime

Il
museo offre ai visitatori un panorama completo di quegli anni attraverso
immagini, giornali e documenti video dell’epoca, testimonianze audio,
interviste ai sopravvissuti.

Il
cuore «emozionale» della struttura è però un balcone interno che si trova al
secondo livello. Ha pareti di vetro e candele elettriche che delimitano i suoi
lati. Davanti a esso si apre una vasta parete su cui sono state collocate
migliaia di foto in bianco e nero, piccole e grandi, nitide o meno: sono i
ritratti delle vittime della dittatura. Che però (e per fortuna) non rimangono
volti anonimi e senza voce. Al centro del balcone è stato infatti posto un
leggio elettronico attraverso il quale qualsiasi visitatore può conoscere nome,
cognome e storia di ogni persona ritratta nelle immagini appese.

Lo
schermo tattile riproduce la parete con tutte le sue foto e l’elenco dei nomi.
Scegliamo a caso. Al tocco dello schermo si apre una finestra con la foto
ingrandita e le informazioni sulla vittima. Leggiamo qualche storia: «David
Silberman Gurovich, 35 anni, ingegnere, comunista, sparito dal 4 ottobre 1974»;
«Eugenia del Carmen Martínez Heández, 25 anni, operaia tessile, sparita a
Santiago il 24 ottobre 1974»; Ida Amelia Vera Alamarza, 30 anni, architetto,
membro del Mir2,
sparita il 19 novembre 1974»; «Jorge Humberto Nuñez Canelo, 27 anni,
commerciante ambulante, sparito a Santiago il 30 settembre 1973»; «Rosa Elena
Morales Morales, 46 anni, del partito comunista, sparita 18 agosto 1976 a
Santiago»; «María Cecilia Magnet (Mapu) Ferrero, 27 anni, sociologa, sposata
con il medico argentino Guillermo Tamburini (Mir), spariti il 16 luglio 1976 a
Buenos Aires». Persone comuni di diversa età, provenienza, condizione sociale
la cui esistenza fu spezzata dal regime. «Nessuno può negare, disconoscere,
minimizzare o banalizzare la tragedia dei diritti umani in Cile. Ci
saranno differenti interpretazioni circa le cause della frattura democratica.
Ci saranno distinte interpretazioni sull’eredità del regime autoritario. Però
sul costo umano che il Cile pagò, non dovrebbero esserci divergenze». Sono
parole pronunciate da Michelle Bachelet il giorno della posa della prima pietra
del museo, nell’ottobre 2008. Al contrario di molti politici, la presidente può
parlare con cognizione di causa. Suo padre Alberto morì in carcere, sua madre e
lei stessa passarono per Villa Grimaldi, uno dei principali luoghi di
detenzione e tortura del regime3.

Pro e contro

La Chiesa cattolica non si oppose – almeno inizialmente – al golpe
del generale Pinochet. Troppe erano le paure rispetto all’ideologia socialista
di Salvador Allende e troppi i legami tra Vaticano e Stati Uniti. Il generale
poi era un cattolico e un devoto alla Madonna. Nell’aprile 1987, durante la
visita di papa Giovanni Paolo II, il dittatore si fece fotografare sul balcone
de La Moneda assieme al papa. Tuttavia, il fronte pro-Pinochet non fu mai
monolitico: una parte della Chiesa cilena contrastò da subito il golpe.

Il museo dedica ampio spazio ad alcune di queste persone. La
figura più conosciuta fu il cardinale Raúl Silva Henríquez, arcivescovo di
Santiago durante la breve esperienza di Salvador Allende e nei primi 10 anni
della dittatura. Era il cardinale che provava «una profonda ribellione contro
la menzogna, la violenza, l’ingiustizia, l’arroganza e la mancanza di rispetto
dei diritti umani»4. Fu soprattutto il cardinale che fondò prima, con altre 5
denominazioni religiose, il «Comitato per la
pace in Cile» (Comité para la Paz en Chile) e, immediatamente
dopo lo scioglimento dell’organismo ecumenico (avvenuto il 31 dicembre 1975),
la «Vicaria della solidarietà» (Vicaria
de la solidaridad
)5, espressione della sola Chiesa cattolica. Questa concentrò il
proprio lavoro su due aree: la difesa dei diritti umani e la loro promozione,
compiti assolti con la concretezza che l’urgenza storica esigeva. Nel primo
numero di quello che in seguito diventerà un rapporto mensile, la Vicaria
scriveva: «È evidente che in un paese non possono sparire persone. (…) Il
Goveo ha l’obbligo pubblico di dare una risposta circa la situazione degli
“scomparsi”». E nel paragrafo seguente: «La tortura esiste ed è deplorevole per
il nostro paese»6.

L’ultimo
responsabile dell’organizzazione fu mons. Sergio Valech, che la guidò fino alla
sua chiusura, nel 1992. Proprio a causa della sua opera in favore dei diritti
umani, nel 2003 mons. Valech fu chiamato a presiedere la «Commissione nazionale
sulla prigionia politica e la tortura», che lavorò (in due periodi distinti)
per colmare le lacune lasciate dalla Commissione Rettig. Il suo secondo
rapporto, uscito nell’agosto 2011, è quello che – almeno fino a oggi – fornisce
i dati più aggioati sulla dittatura di Pinochet: le persone morte o scomparse
furono 3.065, le vittime di abusi 40.018.

Meno in vista dei prelati, ma non meno importanti, furono due
semplici sacerdoti, che – per opporsi al regime – persero la vita: Juan (Joan)
Alsina e André Jarlan.

Padre
Alsina, spagnolo, fu fucilato a Santiago il 19 settembre del 1973, appena una
settimana dopo il golpe di Pinochet. La frase che disse al suo carnefice è
rimasta negli annali: «Mátame de frente porque quiero verte para darte el perdón»
(Uccidimi di fronte perché voglio vederti per concederti il perdono).

Anche
il sacerdote francese André Jarlan viveva a Santiago, nel quartiere de La
Victoria, roccaforte antigovernativa. Rimase ucciso il 4 settembre 1984 durante
una retata dei carabineros. Tristemente famosa è la foto che ritrae il
suo corpo senza vita seduto alla scrivania, con il capo colpito da un
proiettile e reclinato sulla Bibbia, aperta sul Salmo 129.

Il Museo è una scuola

Quando si toccano argomenti delicati come i diritti umani, è
difficile commentare senza correre il rischio di cadere nella retorica o,
peggio, nell’ipocrisia. Per questo è importante che esistano luoghi come il
Museo della memoria e dei diritti umani. Su una parete di cemento, nei pressi
della sua entrata, sta scritto a lettere cubitali: «El museo es una escula»
(il museo è una scuola). Una frase apparentemente banale ma certamente vera. Al
di là delle possibili, differenti visioni della storia (non soltanto cilena),
mettere in luce le sofferenze e le miserie umane, le vittime e i carnefici non è
mai un esercizio inutile.

Paolo Moiola
(fine seconda puntata – continua*)
Note

1 – Con Plan Condor s’intende una complessa (e
oscura) operazione di politica estera degli Stati Uniti volta ad impedire l’instaurarsi di governi di sinistra
nei paesi latinoamericani. Ebbe luogo tra l’inizio
degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta. Riguardò soprattutto Cile,
Argentina, Bolivia, Brasile, Perù, Paraguay e Uruguay.
2 – Mir: Movimiento
de Izquierda Revolucionaria; Mapu: Movimiento
de Acción Popular Unitaria.
3 – Su Michelle Bachelet si veda il
relativo capitolo nel libro di Paolo Moiola-Angela Lano, Donne
per un altro mondo, Il Segno dei Gabrielli editori, 2008,
pagg. 262-267.
4 – «Una profunda rebeldía ante la
mentira, la violencia, la injusticia, la prepotencia y la falta de respeto a
los derechos humanos». La presidente Bachelet ha ricordato questa frase sia in
occasione della posa della prima pietra (10 dicembre 2008) sia in occasione
della inaugurazione del Museo (11 gennaio 2010).
5 – Un’interessante
lettura del pensiero del cardinale si può avere in: Guillermo Sandoval, Heán
Sepúlveda, Rodolfo Bonifaz, El Cardenal de los
trabajadores, Centro di Estudios Laborales Alberto
Hurtado, Santiago 2000. Il libro è scaricabile gratuitamente da internet.
6 – Pagina 10 de Reflexion
1, febbraio 1976. Reperibile sul sito:
wwww.archivovicaria.cl. 

A colloquio con mons. Luis Infanti
de la Mora


Acqua, terre, mari,
minerali: «Basta con la svendita
delle risorse»

A differenza del suo primo mandato, la presidenta
Bachelet non potrà proseguire sulla strada del neoliberismo, dimenticando equità
ambientale e sviluppo sostenibile. Oggi è fondamentale porre un freno a imprese
invasive e irresponsabili. E la Chiesa non deve farsi comprare dai poteri
economici e politici. Mons. Luis Infanti de la Mora, combattivo vescovo
dell’Aysén, ragiona secondo una prospettiva teologica, ma senza perdere di
vista la concretezza.

Nato in provincia di Udine, Luis Infanti de la Mora
arriva in Cile nel 1973, all’età di 19 anni, come seminarista dell’Ordine dei
Servi di Maria. Dopo gli studi all’Università cattolica di Santiago, è a
Cochabamba, in Bolivia, per 8 anni. Ordinato sacerdote, nel 1995 arriva a
Coyhaique, capoluogo dell’Aysén, la Patagonia cilena. Nel dicembre del 1999 è
nominato vescovo del vicariato apostolico di Aysén.

Mons. Infanti
guadagna notorietà internazionale quando si schiera contro il megaprogetto
HidroAysén, lottando a fianco delle popolazioni locali e di «Patagonia senza
dighe» (Patagonia sin represas), un movimento popolare simile a quello «NoTav»
degli albori. Una scelta di campo tutt’altro che banale: un vescovo di origini
italiane si oppone a un’opera che vede proprio l’Italia in prima fila,
considerando che l’attore principale di HidroAysén è l’Enel, azienda in cui lo
stato italiano è l’azionista più importante.

Mons. Infanti, sul web si legge che HidroAysén – il consorzio tra
Enel-Endesa e Colbún (della famiglia cilena Matte) – avrebbe ridimensionato di
molto il proprio megaprogetto idroelettrico sui fiumi Baker e Pascua della Patagonia
cilena. Ciò risponde al vero o si tratta di malainformazione?

«In Aysén
l’impresa HidroAysén (italiana e cilena) da vari anni ha progettato 5 grandi
dighe per produrre energia idroelettrica in favore delle miniere di rame al
nord del Cile, a quasi 3.000 chilometri di distanza. Il megaprogetto di
HidroAysén è stato finora paralizzato per l’opposizione di grandi settori della
popolazione. Oggi ci sono molti segnali che indicano la sua imminente morte,
anche perché il nuovo governo di Michelle Bachelet sembra contrario alla sua
realizzazione. Ricordo che, nel febbraio-marzo del 2012, l’indignazione
popolare portò a paralizzare per 40 giorni tutta la regione, unendo in un’unica
voce di protesta Patagonia sin represas (Patagonia senza dighe),
pescatori, commercianti, studenti, autotrasportatori. In tutto ciò la Chiesa
dell’Aysén ha avuto un ruolo rilevante». 

In che modo?

«Affiancando
le varie organizzazioni e i settori sociali che si sono espressi contro questo
progetto. Pubblicando una lettera pastorale Danos hoy el agua de cada dia
(Dacci oggi la nostra acqua quotidiana), in cui, oltre a presentare con
argomentazioni precise i motivi del rifiuto di questa iniziativa
imprenditoriale, noi abbiamo messo in discussione la proprietà dell’acqua
nell’Aysén e in Cile. Con una visione etica e spirituale, abbiamo aiutato a
prendere coscienza della sua importanza come elemento vitale di sempre maggior
rilievo in tutto il mondo. Abbiamo infine evidenziato una sorta di nuova
colonizzazione dei paesi del Nord verso i paesi del Sud, una colonizzazione che
trasforma l’acqua in una merce emarginando grandi settori della popolazione,
condannandoli alla povertà se non addirittura alla morte».

Lei parla di «merce» e non di «bene pubblico»…

«Il tema della
privatizzazione dell’acqua (proprietà e gestione monopolistica dell’Enel,
attraverso la controllata Endesa Chile) è entrato come tema prioritario nella
società cilena e sta dando impulso anche a un movimento per cambiare l’attuale
Costituzione politica dello Stato, approvata nel 1980, in piena dittatura di
Pinochet e quindi antidemocratica».

Gran parte della crescita economica del Cile è fondata sullo
sfruttamento delle proprie risorse naturali: risorse minerarie, foreste, acqua,
risorse ittiche. Si tratta di uno sfruttamento «sostenibile»? E ancora: è
realisticamente possibile avere uno sfruttamento «sostenibile» o si tratta di
una contraddizione in termini?

«La politica
neoliberista in Cile ha aperto le porte alla svendita delle risorse naturali
alle imprese multinazionali, le quali fanno i loro interessi e si preoccupano
solo dei propri guadagni. E certamente non delle necessità delle popolazioni.
La cosiddetta “responsabilità sociale delle imprese” non ha una efficacia reale
nei territori e con le comunitá in cui le imprese operano. Prova di ciò sono le
continue proteste in tutto il Cile contro imprese invasive e irresponsabili,
appoggiate da legislazioni che le avallano».

Il programma di governo di Michelle Bachelet parla – alla pagina 126 –
di «equità ambientale» e di «sviluppo sostenibile». La presidenta riuscirà in
questo o si tratta soltanto di mera propaganda?

«Nel suo
governo precedente Michelle Bachelet ha dato numerosi esempi di voler
approfondire il sistema liberista portato avanti dai tempi della dittatura di
Pinochet: la “equidad ambiental” e il “desarrollo sustentable” non sono state
dunque tra le sue priorità. Nell’attuale gestione di governo non potrà fare lo
stesso. Perché la coscienza, le esigenze, l’intervento e la partecipazione
della popolazione cilena la obbligheranno a tenere fede agli impegni presi nel
suo nuovo programma di governo».

Lo stato – in Cile come in Italia e nella maggior parte dei paesi – non
sembra voler capire che la difesa dell’ambiente è una questione cruciale per il
presente e il futuro. Tuttavia, troppo spesso i cittadini sono i primi a non
rispettare l’ambiente. È d’accordo con questa affermazione? Se sì, cosa
occorrerebbe fare per porvi (rapidamente) rimedio?

«La difesa
dell’ambiente e le nostre relazioni di comunione con esso incontrano sempre
maggiore coscienza nei cittadini, anche se non sempre si traducono in
atteggiamenti e stili di vita nella quotidianità.

In questi
tempi in cui anche la Madre Terra lancia profonde grida di sofferenza come
“dolori di parto”, in qualità di religiosi, noi abbiamo una gran responsabilità
nell’annunciare, vivere e celebrare la nostra fede in Dio Creatore, che ha dato
vita ad ogni creatura affinché cresca e si sviluppi con pienezza. Diventa
allora responsabilità essenziale dell’essere umano – con la sua saggezza, la
sua scienza, il suo amore, la sua lungimiranza – impegnarsi per costruire “i
cieli nuovi e la terra nuova”. Percepisco che la spiritualità biblica del Dio
Creatore e Redentore ha profonda sintonia con la spiritualità vissuta da San
Francesco d’Assisi e anche con le modalità di vita dei popoli indigeni e di chi
rispetta, ama e lotta per promuovere la comunione e la bellezza di ogni essere
creato, soprattutto dell’essere umano».

Secondo lei, i popoli indigeni hanno – mediamente – un rispetto maggiore
della natura o questo è un luogo comune per enfatizzare il loro ruolo?

«Fatte salve
le differenze tra uno e l’altro, tutti i popoli indigeni hanno una cultura
profondamente spirituale di comunione e di incontro con la Divinità attraverso
le creature e specialmente attraverso la natura (acqua, boschi, clima, vento,
fuoco…). Ciò li porta a un profondo rispetto e condivisione dei beni naturali,
che sentono come parte intimamente unita alla loro vita. Quando sono invasi e privati del loro ambiente,
come succede con sempre maggiore frequenza nella società consumista, si sentono
violentati fisicamente, spiritualmente e moralmente. Offesi nel loro stesso
stile di vita».

Una parte della Chiesa cattolica e della gerarchia in particolare ha
timore a schierarsi dalla parte degli ambientalisti, perché li considera troppo
vicini a posizioni ideologiche di sinistra, spesso viste come antitetiche
rispetto ai dettami evangelici. Si tratta di un timore fondato?

«Tra gli
ambientalisti ci sono varie linee ispiratrici e varie posizioni, come anche
nella Chiesa cattolica e in ogni organizzazione umana.

La dottrina,
oggi, merita un maggior approfondimento della fede nel “Dio Creatore” e nella
proclamazione originaria del popolo della Bibbia che “la terra è di Dio”,
contrapponendola a certe persone e organizzazioni umane che si sentono signori
e padroni dei beni comuni. Se questo approfondimento teologico e pastorale
della Chiesa porta a posizioni e decisioni simili a qualche gruppo o movimento
o partito o organizzazione, non deve destare alcun timore.

Grazie anche
agli ultimi papi, la Chiesa cattolica sta prendendo più coscienza del tema
ambientale e dei suoi gravi problemi (terra, acqua, alimenti, estrattivismo,
cambiamento climatico, …) e della povertà come struttura sociale imposta dai
poteri depredatori della vita. Mi pare che oggi la sua scelta di campo sia
dalla parte degli impoveriti, degli emarginati, dei silenziati, facendo la
stessa opzione di Cristo».

I poteri economici sanno essere molto persuasivi. Secondo lei, è
possibile resistervi?

«La Chiesa,
compresa la gerarchia, soprattutto in America Latina, sempre con maggior
evidenza non si lascia comprare dai poteri economici e politici che la
vorrebbero tenere come alleata per silenziare la sua missione profetica di
fedeltà a Cristo e all’umanità. Le strategie del potere, del dolce e gentile
potere, molte volte hanno uno spirito diabolico. Preghiamo sempre per non
cadere in questa pericolosa tentazione».

Paolo Moiola
Siti web:
www.patagoniasinrepresas.cl
www.hidroaysen.cl
 
Libri:

• Luis Infanti de la Mora, Dacci
oggi la nostra acqua quotidiana
, Emi, Bologna 2010.
• Patricio Rodrigo S. – Juan Pablo
Orrego S. (a cura di), Patagonia chilena sin represas, Ocho Libros
Editores, Santiago 2007. Questo (bellissimo) volume è scaricabile gratuitamente
dal sito di Patagonia sin represas.

 

La
Chiesa cilena e Pinochet

DAL «BALCONE» AL MARTIRIO

• padre Juan (Joan) Alsina – Sacerdote spagnolo, fucilato a
Santiago il 19 settembre del 1973, una settimana dopo il golpe di Pinochet.

• padre André Jarlan – Sacerdote francese, ucciso dai carabineros
il 4 settembre del 1984 a La Victoria, durante la repressione di una
manifestazione contro la dittatura.

• cardinale Raúl Silva Henríquez – Nel 1973 fu cofondatore del «Comité
para la Paz en Chile». Dopo la sua chiusura forzata, il 1 gennaio 1976 fondò la
«Vicaría de la Solidaridad», organismo di assistenza sociale e legale alle
vittime della giunta del generale Pinochet. Nonostante pressioni e minacce,
l’organismo lavorò fino alla caduta della dittatura.

• monsignor Sergio Valech Aldunate – Fu l’ultimo responsabile (dal 1987
al 1992) della «Vicaría de la Solidaridad». Fu presidente della «Commissione
sulla carcerazione politica e la tortura» (Commissione Valech). 

Diritti umani in Cile


Dalla violazione al riscatto

• 1973, 11 settembre – 1990, 10 marzo: Dittatura del
generale Augusto Pinochet.• 1990, aprile – 1991, febbraio: Lavoro della «Comisión
Nacional de Verdad y Reconciliación». Il risultato finale è l’«Informe Rettig»,
che sarà giudicato insoddisfacente.

• 1992, febbraio – 1994, febbraio: Lavoro della «Corporación
Nacional de Reparación y Reconciliación».
• 2003, settembre – 2004, novembre: Lavoro della «Comisión
Nacional sobre Prisión Política y Tortura», nota anche come «Comisión Valech»,
dal nome del suo presidente, mons. Sergio Valech.
• 2010, febbraio – 2011, agosto: Lavoro della seconda
Commissione Valech. Nel rapporto finale si riconosce che la dittatura di
Pinochet ha fatto 40.018 vittime e 3.065 persone morte o sparite.
• 2010, 11 gennaio: Apre a Santiago il «Museo de la Memoria
y los Derechos Humanos».

________________________________

Siti
internet:

www.museodelamemoria.cl
www.archivovicaria.cl
Ringraziamenti

Si ringraziano per l’aiuto e la disponibilità María Luisa Ortiz e Alejandra
Tapia, dirigenti del Museo della memoria di Santiago.

* Nella prossima puntata: l’incontro con i pescatori dell’isola di Chiloé;
l’intervista con il vescovo di Ancud, mons. Juan María Agurto Muñoz, e altro
ancora.

Tags: Cile, dittatura, memoria, Pinochet, Michelle Bachelet, Luis Infanti de la Mora, museo, Chiesa, acqua, risorse, Chiloé

Paolo Moiola




Le guerre dei Mari Orientali

L’espansionismo cinese


La fame d’energia della Cina non conosce pause.
Per esaudirla Pechino non si ferma davanti a nulla. Lo sanno tutti i paesi
confinanti che si affacciano sul Pacifico: Vietnam, Giappone, Filippine,
Malesia, Indonesia, Taiwan. Con essi la superpotenza fa la voce grossa
pretendendo le isole Paracel, Spratly e Senkaku. Sotto i mari meridionali e
orientali si celano riserve di idrocarburi, che Pechino vuole tutte per sé.

Dalla fine degli anni Ottanta lo sviluppo
economico della Cina sembra inarrestabile. Per sostenere questa crescita ed i
consumi del suo miliardo e mezzo di abitanti la nazione è costretta a cercare
continuamente nuove fonti di approvvigionamento energetico e, conseguentemente,
a sviluppare la propria sfera di influenza.

Nel
2009 un rapporto della Iea (Inteational Energy Association) ha
evidenziato che la Repubblica Popolare era divenuta il maggior consumatore al
mondo di energia sorpassando gli Stati Uniti e le proiezioni riportano che
entro il 2030 la richiesta raddoppierà.

Nonostante
la crisi della centrale giapponese di Fukushima, la dirigenza del Partito
comunista non ha ritoccato i propri programmi nucleari: i 20 reattori in funzione
ed i 28 in costruzione porteranno l’energia fissile prodotta a coprire il 6%
del fabbisogno energetico nazionale entro il 2020, mentre gli impianti eolici
colmeranno il 12% delle richieste.

In
attesa che l’energia prodotta da fonti rinnovabili, di cui Pechino è strenuo
sostenitore, possa influire significativamente sulla sua politica industriale,
l’economia del paese deve sorreggersi sui derivati fossili.

Il
carbone, però, che attualmente sopperisce al 69% della domanda energetica, crea
enormi problemi sia dal punto di vista ambientale che sociale a cui si dovrà
trovare rimedio a breve termine.

Il
petrolio e il gas naturale, che soddisfano il 22% del consumo energetico,
sembrano essere, almeno a breve termine, la soluzione meno invasiva e più a
portata di mano. Myanmar, Bhutan, Nepal, Laos sono stati dei serbatorni
energetici che hanno sopperito alla fame di megawatt dell’industria cinese, ma
la mastodontica macchina economica, che dagli anni Novanta marcia ad un ritmo
impressionante di sviluppo, necessita di ben altro.

Il
principale problema, però, è che il 52% del petrolio importato dalla Cina
proviene dal Medio Oriente, regione continuamente sconvolta dalle continue
tensioni politiche. Ciò ha indotto il governo di Pechino a cercare altre fonti
di approvvigionamento che permettano di guardare con più tranquillità al
proprio futuro.

Il
reperimento di queste nuove fonti energetiche deve necessariamente passare
attraverso una maggiore incisività politica e diplomatica che, per la dirigenza
cinese, si traduce in un rafforzamento del proprio apparato militare per
rendere le nuove rotte commerciali sicure e, al contempo, allargare la propria
sfera di influenza.

Una
delle principali e naturali valvole di sfogo di questa politica sono i mari che
si aprono ad est delle coste cinesi.

Il
controllo di queste distese d’acqua chiamate comunemente Mar cinese orientale e
Mar cinese meridionale (ma sempre più spesso queste denominazioni vengono
contestate dai paesi che nutrono gli stessi interessi della Cina) e delle
minuscole isolette che si ergono sulla superficie marina sono oggi più che mai
oggetto di contenzioso tra la Cina e gli stati confinanti.

Non
importa quanto grandi siano queste isole – a volte si tratta solo di semplici
scogli o affioramenti inadatti anche a costruirvi un minuscolo monolocale –
l’importante è piantarvi la propria bandiera nazionale per stabilire la
sovranità e poter sfruttare le risorse energetiche e ittiche entro le acque che
le circondano.

Secondo
la United Nations Convention on the Law of the Sea (Unclos), ogni
nazione ha esclusivo diritto di sfruttare le risorse comprese entro 200 miglia
nautiche (320 km) dalle proprie coste.

Ma
cosa accade quando i limiti di queste 200 miglia nautiche si sovrappongono con
quelle di altre nazioni? Non vi è una specifica legge internazionale che regola
la questione e il problema viene demandato ai rapporti dei singoli stati che,
come è logico prevedere, non hanno facile risoluzione.

È il
caso delle rivendicazioni nel Mar cinese orientale, dove Cina, Taiwan e Giappone
reclamano l’amministrazione delle isole Senkaku/Daiyou (anche il nome delle
isole varia a seconda dello stato che le reclama) e nel Mar Cinese Meridionale
dove gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly sono contesi da ben sette
nazioni (Vietnam, Cina, Taiwan, Filippine, Brunei, Malesia, Indonesia).

Il
Mar cinese (sia orientale che meridionale) è considerato una vera e propria
autostrada del mare, dove, stando ai dati foiti dalla Casa Bianca, ogni anno
passano 5,3 trilioni di tonnellate di merci, di cui il 23% statunitensi. Il
sottosuolo dei suoi fondali conterrebbe 11 miliardi di barili di petrolio (nel
mondo si stima ve ne siano un totale di 1,47 trilioni) e 190 trilioni di metri
cubi di gas naturale (su un totale mondiale di 6,7 quadrilioni). Numeri
impressionanti, che fatichiamo a quantificare, ma che danno l’idea della posta
in gioco.

Le isole Paracel

La
disputa più incancrenita, ma, almeno sulla carta, anche la più “semplice” da
risolvere, perché ha solo due contendenti, è quella dell’arcipelago delle
Paracel, disputato tra il Vietnam, che lo chiama Hoàng Sa, e la Cina per la
quale sono le isole Xisha.

Le
Paracel sono un gruppo di isole al largo delle coste vietnamite e a sud di
Hainan. Le quindici isole principali sono divise in due insiemi: il gruppo
Amphitrite a Est ed il gruppo Crescent a Ovest a cui se ne aggiungono altre tre
più lontane, sebbene facenti parte della stessa regione geografica. L’isola più
grande, Woody Island, è lunga 1,8 km e larga 1,2.

Per
secoli, a causa delle loro ridotte dimensioni, le Paracel sono sempre state
evitate dalle rotte marittime e nessuna delle due nazioni che oggi le
contendono ha mai rivendicato alcun diritto di amministrazione.

Solo
nel 1816 l’imperatore Gia Long, della dinastia vietnamita Nguyen, cominciò a
interessarsene con lo scopo di accaparrarsi le merci delle navi che,
malauguratamente, naufragavano sulle loro coste senza, però, stabilire alcuna
guaigione a difesa del territorio. Nel 1902 la dinastia cinese Qing cominciò
ad accampare pretese di sovranità e nel 1974, approfittando degli Accordi di
Parigi e dell’imminente caduta del Vietnam del Sud, il cui governo controllava
le Paracel, Pechino occupò le isole stabilendo su Woody Island un avamposto
militare e costruendovi anche un aeroporto.

A
nulla sono valse le proteste di Hanoi per riavere il controllo dell’arcipelago:
i caccia cinesi da Woody Island possono raggiungere le coste vietnamite in
pochi minuti di volo e dalla postazione militare cinese risulta più facile
intercettare ogni tipo di segnale radio.

Da
parte sua il Vietnam continua a trivellare i fondali marini attorno
all’arcipelago provocando continue ritorsioni della Cina: la PetroVietnam, la
compagnia petrolifera nazionale, ogni anno estrae da tre giacimenti situati
all’interno dell’area 24,4 milioni di tonnellate di petrolio, il 26% della
produzione totale del Vietnam e negli ultimi anni ha condotto una sessantina di
esplorazioni geologiche per cercare nuovi depositi offshore. Nel 2011 si
è sfiorata la crisi diplomatica quando due navi militari cinesi hanno tranciato
i cavi di esplorazione della nave vietnamita Binh Minh.

Ma
chi subisce maggiormente le conseguenze delle tensioni tra Hanoi e Pechino sono
i pescatori. Dal 1999 la Cina ha formalmente proibito la pesca entro le sue
acque territoriali alle navi straniere, ma la mancata formalizzazione
internazionale dello status delle Paracel rende nullo il divieto. Almeno
secondo la tesi vietamita. Dal 2005 la marina militare cinese ha sequestrato 63
pescherecci battenti bandiera di Hanoi con 735 membri d’equipaggio e, per far
rispettare il bando, entro il 2015 Pechino vuole pattugliare la zona mettendo a
disposizione del comando locale 16 aerei e 350 navi.

Le isole Spratly

Più
complicata è la questione delle isole Spratly. Immaginate di avere un isolotto
di 5 kmq (circa 2,5 chilometri di lunghezza per 2 chilometri di larghezza) e di
dividerlo in 750 minuscoli pezzetti sparpagliandoli su un’area di 410.000
chilometri quadrati al largo delle coste del Boeo e delle Filippine. Ecco,
queste sono le Spratly. L’isola più grande, Taiping, è una striscia di sabbia
lunga 1,4 km e larga 400 metri su cui Taiwan ha costruito un aeroporto. I
minuscoli affioramenti delle Spratly sono contesi da Taiwan, Cina, Vietnam,
Malesia, Indonesia, Brunei e Filippine rendendo la controversia uno dei più
complicati rompicapi diplomatici al mondo.

Sono
state queste acque, più che quelle delle Paracel, a veder fronteggiarsi le
marine militari delle nazioni coinvolte nella disputa.

Dapprima
l’incidente dello scoglio di Johnson: nel 1988 tre navi vietnamite vennero
affondate e 74 marinai furono uccisi da uno scontro con la marina cinese. Poi,
nel 1995, a Mischief Reef tre navi cinesi ingaggiarono una battaglia di 90
minuti con una nave filippina. Infine,
nel 2012, fu lo scoglio di Scarborough, 160 km dalle coste filippine e 800 da
quelle cinesi, a essere conteso tra Manila e Pechino. In Cina si scatenarono
manifestazioni pubbliche culminate con il boicottaggio dei prodotti filippini
che causarono, per le sole banane, una perdita di 34 milioni di dollari alle
casse del governo Aquino.

Tra
questi tre incidenti più gravi, se ne sono consumati altre decine coinvolgendo
tutte le nazioni interessate. Giacarta ha lamentato che dal 2009 ben 180 pescherecci
malesi, filippini e vietnamiti sono stati scoperti a pescare abusivamente in
acque territoriali indonesiane, mentre compagnie petrolifere straniere, dal
2011, hanno effettuato 15 esplorazioni geologiche al largo dell’isola di
Palawan per contro del governo filippino, scatenando le proteste di Pechino e
di Kuala Lumpur.

La
battaglia delle Spratly si consuma anche a colpi di toponimi: dal 2011, dopo
che navi militari cinesi avevano compiuto una serie di incursioni in acque
territoriali filippine, il governo di Manila ha cominciato a chiamare le acque
a occidente delle sue coste Mar filippino occidentale.

A
complicare ancor di più la già ingarbugliata situazione, è recentemente
subentrata anche l’India, anch’essa interessata alle perforazioni marittime e
sostenitrice del Vietnam nel contenzioso. Dopo che l’India’s Oil and Natural
Gas Corp.
(Ongc) ha iniziato ad esplorare tratti di Mar cinese meridionale,
la Cina ha inviato continui segnali di insofferenza verso i carghi indiani che
solcano le acque antistanti il Vietnam.

Senkaku: tra Cina e Giappone

Più a
Nord dello scacchiere sudest asiatico un’altra questione è balzata alla ribalta
di recente: quella tra Giappone, Cina e Taiwan su quelle che Tokyo chiama isole
Senkaku, Pechino isole Daioyu e Taipei isole Daiyoutai. Le Senkaku/Daioyu sono
5 isolette disabitate per un totale di 5,17 kmq tra Cina, Taiwan e l’isola
giapponese di Okinawa, a cui amministrativamente appartengono.

Nel
1885 il Giappone avrebbe acquisito i diritti di sovranità di questo minuscolo arcipelago
dopo essersi assicurato che nessun altro stato le reclamava. La guerra
sino-giapponese conclusasi proprio nel 1885 con il trattato di Shimonoseki e la
cessione di Formosa (oggi Taiwan) al Giappone escludeva le isole Senkaku perché
queste, secondo quanto affermato da Tokyo, erano già state annesse all’impero,
quindi non facevano parte dell’isola cinese. In questo modo il trattato che
imponeva la restituzione di Formosa alla Cina dopo la fine della seconda Guerra
mondiale avrebbe escluso il ritorno delle Senkaku al governo cinese.

L’arcipelago
è stato ignorato da Pechino e Taiwan fino all’11 settembre 2012 quando Konioki
Kurihara, un giapponese di Saitama e proprietario di tre dei cinque isolotti,
li ha venduti al governo di Tokyo per 2,05 miliardi di yen. La pescosità delle
acque attorno all’arcipelago e la ricchezza in idrocarburi del sottosuolo hanno
ingolosito Pechino, che ha reclamato le isole in quanto farebbero parte della
piattaforma continentale cinese prima che questa sprofondi nell’oceano per
2.300 metri per formare il canale di Okinawa.

L’alterco
tra Cina e Giappone (Taiwan, dopo un iniziale protesta si è defilata dal
diverbio perché non ha argomenti che appoggino le sue richieste), è sfociato in
un confronto militare ed economico che ha coinvolto la recente storia coloniale
e i rispettivi movimenti nazionalisti.

Le
proteste popolari che si sono scatenate nelle città cinesi hanno convinto
aziende come la Panasonic, la Honda, la Toyota e la Canon a sospendere
temporaneamente la produzione nei loro stabilimenti cinesi e causando una
contrazione degli investimenti giapponesi.

La
questione Senkaku ha permesso al governo di Shinzo Abe di aprire la porta per
un possibile cambio degli articoli costituzionali che impediscono al Giappone
di intervenire militarmente al di fuori del proprio territorio. Nel 2013, per
la prima volta in undici anni, il budget militare del Giappone ha avuto un
incremento dello 0,8% rispetto all’anno precedente, raggiungendo una spesa di
51,7 miliardi di dollari. A questo va a sommarsi il più cospicuo aumento (1,8%)
concesso alla Guardia costiera.

Aspirazioni e flotte militari

I
contenziosi nel Mar Cinese sono anche una scuola di diplomazia per le inesperte
classi politiche asiatiche. Sapendo che singolarmente gli stati coinvolti non
riusciranno a spuntarla con il colosso cinese, tutti gli incontri con le
delegazioni cinesi vengono svolti tramite l’Asean, l’Associazione delle Nazioni
del Sud Est Asiatico.

Pechino
ha sempre cercato di risolvere la questione territoriale tramite incontri
bilaterali. È per questo motivo che la richiesta di arbitrato internazionale
presentata nel gennaio 2013 al tribunale de L’Aia dalle Filippine ha colto di
sorpresa la dirigenza cinese, che ha reagito con irritazione anche
all’incontro, avvenuto a Manila nel febbraio 2014, tra esperti di questioni
marittime di Vietnam, Malesia e Filippine per preparare un piano comune contro
la Cina.

Tutto
questo sommovimento politico e diplomatico porta anche ad un aumento
esponenziale delle spese militari in tutta la regione.

Nel
maggio 2013 il Giappone ha venduto 10 navi di pattuglia alla Guardia costiera
filippina per 110 milioni di dollari mentre – secondo il Sipri (Stockholm
Inteational Peace Research Institute
) – il Vietnam ha aumentato il
proprio budget militare del 70% dal 2011, e la Cina, dal 2003, del 175%.

Sono
proprio le forze armate di Pechino, e in particolare la marina, a sfruttare a
proprio vantaggio la delicata situazione creatasi nel Mar Cinese. Una politica,
quella dell’ampliamento dell’influenza marittima della Repubblica Popolare,
nata già negli anni Ottanta sotto la guida di Liu Huqing, comandante della
marina militare dal 1982 al 1988. Liu, che si era formato in Unione Sovietica,
aveva sviluppato la strategia della doppia linea di difesa: la debole marina
cinese degli anni Ottanta si sarebbe limitata a proteggere le coste nazionali
per poi spostare il proprio fronte marittimo lungo la prima catena di isole (la
fase attuale che vede l’assestarsi della flotta nel Mar Cinese). L’ultimo
gradino nella scala di potenziamento sarebbe il prossimo passo: spostare la
linea di difesa della flotta oltre le Filippine per contrastare l’egemonia
statunitense.

Il
potenziamento e la modeizzazione delle unità navali cinesi servirà anche a
controllare la marina Usa dopo la doppia umiliazione del dicembre 1995 e del
marzo 1996, quando a Washington bastò l’invio di due portaerei, la Nimitz
e la Independence, per dissuadere Pechino dal continuare a rivendicare
le acque territoriali ai danni di Taiwan.

Da
quell’offesa i generali cinesi hanno tratto lezione e, dopo aver varato quattro
nuove classi di sottomarini e sei nuove classi di incursori, nel settembre 2012
è stata inaugurata la Liaoning, la prima portaerei della flotta a cui ne
seguirà una seconda da 50-60.000 tonnellate entro il 2015 e, nel 2020, una
terza a propulsione nucleare.

Ma
una marina forte serve a poco se non si ha la strada aperta per entrare nelle
zone strategicamente nevralgiche per il controllo del Pacifico. E la Cina,
attualmente, ha solo due porti adatti ad ospitare con sufficiente copertura la
propria flotta e permettere, al contempo, l’accesso immediato al mare aperto:
la base di Xiaopingdao, nel Mar Giallo, e l’isola di Hainan.

Le
isole Paracel saranno dunque indispensabili per proteggere la base di Hainan,
mentre le isole Spratly faranno da sentinella e protezione per l’accesso della
flotta all’oceano Pacifico.

Piergiorgio Pescali

Tags: isole contese, Cina, Vietnam, Filippine, Giappone, zone a rischio, guerra, tensioni inteazionali, energia, petrolio, Paracel, Senkaku, Spratly

Piergiorgio Pescali




Tanzania: Tribe «No Name»


I watoto wa mateso, figli del dolore, sono una «tribù» composta da più di 1600 persone, confinata da circa ottant’anni a 2400 metri, sulle montagne dell’Udzungwa. Isolati e cacciati dalla regione di Iringa perché affetti da una forma di epilessia rarissima, sconosciuta quanto loro. A causa dalla malattia venivano considerati posseduti dal demonio.

 

Mi sveglia l’odore della terra bagnata. Piove da giorni ma la notte ne viene giù così tanta che sembra voler sfondare i mabati (le lastre di lamiera che coprono la casa). Ascolto i ragazzi cantare mentre puliscono il cortile, io decisamente meno attiva di loro riesco a pensare solo a un caffè che mi tiri su la pressione. Accendo il computer e inizio la battaglia con la Vodacom nella speranza di aprire la casella di posta elettronica e di leggere un minimo di news.

Arriva Richard, il veterinario, con dei nuovi casi da conoscere. Sono riuscita a coinvolgerlo a tal punto che adesso si sente uno zelante missionario. Non è semplice raggiungere il villaggio, per via delle strade che sembrano aver inghiottito delle saponette tanto si scivola. Sotto la solita pioggia saluto uomini, donne e bambini con le zappe sulla testa che camminano verso i campi.

Incontro Niky, solo, sul ciglio della strada con lo sguardo perso nel suo mondo. Sono stati proprio quegli occhi spudoratamente inespressivi a colpirmi, a tal punto da decidere di studiare questa malattia con il fine di aiutarli. Non mi risponde, è disorientato e non ha preso la medicina. La madre è nella shamba (campo) e lui probabilmente è scappato. Mi chiede un lecca lecca. La prima volta che mi vide era spaventato e non voleva farsi toccare, però alla vista della strana caramella caddero tutte le barriere, e da allora, quando mi incontra mi prende la mano cercando la caramella. Lo accompagno a casa affidandolo alla vicina, e noi proseguiamo. Ci inoltriamo in sentieri nascosti dal mahindi (mais) già alto. La vegetazione sembra aver risucchiato il paesaggio. Il profumo della terra bagnata mi accompagnerà per questi mesi.

Al cospetto del capo

Seguo Richard con passo svelto su e giù per i sentieri, affollati da case nascoste dal verde. Il sole si sveglia all’improvviso. È forte, tipico segno che pioverà ancora. Come una lucertola mi lascio bruciare la pelle ingrigita dalla pioggia.

Arriviamo alla dimora del capo villaggio. Un impasto di fango e terra rossa ricopre la casa imbiancata da disegni e scritte di ringraziamento. Babu (nonno) Aldo Kahemela è seduto a far asciugare le ossa bagnate dall’umidità delle montagne. Ultra ottantenne, con sguardo curioso ci dà il benvenuto nel suo villaggio e ci presenta la grande famiglia. Figli, nipoti e pronipoti di tutte le età ci accerchiano con sorrisi e offerte di ogni tipo, dalla polenta al pombe, il tipico fermentato alcolico ricavato dalla canna da zucchero o dal mais. L’ospite, anche inatteso, qui è visto come una benedizione.

Janeth mi saluta porgendomi la sua unica mano ricoperta da calli, l’altra è ridotta a un moncherino bruciato che sembra un uncino. È babu Aldo a parlare per primo: «Lei è mia nipote, la figlia di mio fratello. Ha iniziato a cadere quando era una ragazzina. Abbiamo capito che era quella malattia perché la kifafa è la maledizione delle nostre montagne. E negli anni Janeth è peggiorata, tanto da cadere più volte al giorno». «Ho avuto un attacco così forte che sono caduta nel fuoco e quello che resta di questa mano ne è il risultato. Non mi hanno portata in ospedale perché era troppo lontano ma mi ha cucita il guaritore tradizionale del villaggio» continua Janeth. «Se prendo le medicine mi accorgo quando sto per avere una crisi. Una ventata di calore m’invade tutta, ogni parte del corpo inizia a tremare e la testa gira così forte che perdo i sensi. In quei momenti, se sono cosciente, cerco di sdraiarmi a terra per non cadere e non farmi male e se sono vicina al fuoco mi allontano». Janeth è visibilmente ustionata in più parti del corpo, ogni bruciatura racconta un giorno della sua vita senza medicina. In Tanzania ogni forma di epilessia viene curata con il phenobarbitone, un antidepressivo che consente agli epilettici di condurre una vita quasi normale, riducendo notevolmente gli attacchi senza però badare alle controindicazioni.

Il phenobarbitone è considerato una medicina salva-vita e il ministero della salute ne aveva previsto la distribuzione gratuita, ma i dispensari e l’ospedale non ne hanno mai, e raramente viene distribuito ai malati. Stranamente però lo si può comprare nelle duke (negozi).

Malattia di origini incerte

Parlo con la dottoressa responsabile dell’unico ospedale della provincia e anche lei sembra non conoscere le percentuali troppo alte dei malati.

«Io riconduco tutto al parassita del maiale, perché questo tipo di epilessia è diffusa solo qui. Sulla costa, dove non hanno i maiali per via del caldo intenso, non ci sono così tanti malati. E i casi riscontrati presentano una forma di epilessia causata da malaria, febbre e convulsioni. Qui non c’è famiglia che non allevi maiali. Quando giro per villaggi insisto che devono pulire la zona dove stanno gli animali, che devono cucinarne bene la carne. E invece i maiali li vedi gironzolare come fossero cani. Questo parassita non si trova solo nella carne non cotta ma anche nei luoghi dove transitano e defecano i quali sono, il più delle volte, gli stessi in cui va la gente.

Le ustioni, le malformazioni gravissime, che vedi sul corpo delle persone, sono dovute al fatto che per cultura e freddo qui c’è sempre il fuoco acceso e loro, in preda alle crisi, incoscienti ci cadono dentro. Le ustioni non sono curate se non con erbe e il risultato sono  infezioni gravi e quindi amputazioni».

Questa è anche la tesi di Richard, effettivamente comprovata in moltissimi casi.

Generalmente i primi attacchi di kifafa compaiono dopo i dieci anni, invece nei bambini sono di origine genetica, causa di una vecchia consanguineità o perché figli di donne che hanno abusato di alcol durante la gravidanza.

Su queste montagne la piaga del bere pombe per riempire lo stomaco, per combattere il freddo o per noia, è diffusissima. Solo una percentuale ridotta di persone ha sviluppato la malattia in seguito a un trauma cranico, a malaria o meningite.

Mungu mwema (Dio buono)

Questa popolazione della foresta vive la quotidianità in una lotta ancestrale per la vita. È una «lotta di preghiera». Sono uomini e donne, la cui cultura è scandita dall’appartenenza a ritmi tribali che regolano ogni azione. Una tribù che lotta e prega per avere un buon raccolto e contro malattie come la kifafa che portano via il cervello, non fanno più ragionare.

Vivendo con loro si respira il rispetto e la fiducia che ripongono nel «Dio buono», la certezza che Dio cammini insieme a loro. Raccontano di un Dio che è amore e non è mai violento.

È interessante ascoltare anche il loro concetto di amore decisamente diverso dal nostro. L’amore coincide con Dio ma è sinonimo di rispetto, bontà, sostegno reciproco, forza, coraggio, fiducia. Sono gli spiriti buoni e gli spiriti cattivi a determinare, invece, le azioni positive e negative. Non è mai Dio a volere cose negative perché lui è il creatore. Certamente si deve un grande «grazie» ai missionari e alle missionarie che instancabilmente hanno girato queste montagne per far conoscere Dio. E la gente ha integrato la parola di Dio nelle proprie credenze.

Reportage «faticoso»

Potrei continuare a scrivere dei tanti sguardi e corpi spaventati, sorridenti, ubriachi, ustionati, deformi che ho incontrato, del mio senso d’impotenza davanti a una popolazione così malata, a volte rassegnata, però sempre serena nell’animo, ma non riesco a evitare di chiedermi come mai anche questa parte d’Africa lontana e scomoda sia frequentata solo dai missionari e dalle missionarie. In Tanzania le associazioni nazionali e internazionali, grandi e piccole di volontariato e di assistenza sono ovunque con progetti ambiziosi. Ho letto di una società che sembra sia venuta per impiantare gratuitamente la fibra ottica in tutto il paese. La installeranno insieme ai canali per l’acqua che ancora non ci sono?

Già negli anni settanta molti medici sottoposero all’attenzione internazionale questa diffusione stranamente massiccia di epilettici, tanto da coinvolgere il governo tanzaniano in una politica sanitaria adeguata. Ma mai nessuna associazione di prevenzione e sostegno ha realmente studiato le cause e gli effetti di queste forme di epilessia e proposto un programma sanitario.

In Italia, secondo la Lega Italiana contro l’epilessia (Lice), ogni anno circa 500.000 persone vengono colpite, ma i malati avendo la possibilità di curarsi, conducono vite normali.

In Tanzania invece, la convinzione generalizzata delle grandi Ong è che l’epilessia sia una malattia causata da scarsa igiene o da antichi riti e usanze tribali. Non destando l’attenzione internazionale come invece accade per l’Aids, si ritiene che non sia utile investire in piani di prevenzione e cura.

Questo reportage, «Tribe no name», è faticoso fisicamente ed emotivamente. È una protesta nei riguardi di chi è complice della triste realtà che nel 2014 in Tanzania, ci siano ancora troppe persone che muoiono di epilessia, che non hanno diritto a una vita normale perché viene negata loro una pastiglia salva vita.

Romina Remigio
 

 Questo splendido reportage fotografico di Romina Remigio ha vinto il «Silver award», categoria Storia, al Fiof Awards Contest 2014 di Orvieto. Clicca sul simbolo a destra per vederlo sul nostro sito. Clicca qui per vederlo su sito della Fiaf.

Tags: epilessia, discriminazione, malattia, emarginazione, pregiudizi sociali, Tanzania

 

Romina Remigio

 



Voce allo spirito

Incontro con il capo supremo del Vodù
«Siamo spirito e tendiamo all’eccellenza. Perché siamo una
piccola particella di Dio». Il capo della religione più temuta della storia, ma
anche malintesa e bistrattata, si racconta. Lui, uno scienziato della Sorbona,
è da 40 anni anche sacerdote vodù. Con sorrisi e gentilezza ci racconta le sue ultime
battaglie, contro persecuzioni e calunnie, per dare alla religione degli
haitiani il posto che le spetta.

Un cartello segnala casa sua, il Péristyle de Mariani, ovvero il
tempio vodù (anche detto hounfor) di Mariani, cittadina nei sobborghi Sud di Port-au-Prince. Qui,
Max Gesner Beauvoir ha fondato nel 1974 un luogo di culto della religione vodù,
tuttora molto attivo.

Classe
1939, ingegnere chimico, ha studiato a New York per poi specializzarsi in
biochimica con un dottorato alla Sorbona a Parigi. Ha lavorato a lungo negli
Usa, specializzandosi sui poteri curativi delle piante, ottenendo anche un
brevetto. Ma la sua vita cambia nel 1973, quando, sul letto di morte, il nonno,
famoso sacerdote vodù, lo indica come suo successore.

Max Beauvoir diventa un hougan (sacerdote), e ben
presto strenuo difensore della religione vodù i cui adepti sono da sempre
perseguitati. Nel 2005 nasce l’idea di fondare la Federazione nazionale dei voduisti haitiani, che nel 2007 diventa Confederazione (in creolo: Konfederasyon Nasyonal Vodou Ayisyen). Max Beauvoir viene eletto capo supremo, ovvero «Ati nasyonal» del
vodù haitiano.

Ci
riceve nel cortile di casa sua, una costruzione molto particolare, nella quale
ogni dettaglio, dagli scuri alle grate delle finestre, alle pietre che
compongono i muri, ricorda simboli mistici.

Seduti
intorno a un tavolo, conversiamo con questo distinto signore dai capelli
bianchi, gentile e tranquillo. Stentiamo a credere che sia il capo di una
religione che spesso incute timore.

Un sentimento lungo secoli

Dopo il terremoto del 2010 c’è chi ha dato la
colpa di tale evento al vodù. «Un predicatore americano, Pat Robertson, ha
dichiarato che questo disastro naturale è dovuto al fatto che nel paese si
serve Satana1. Ma questi sentimenti sfortunati trasmettono
l’amarezza che alcuni hanno nel loro cuore, dovuta al fatto che gli haitiani
avevano vinto la loro guerra d’indipendenza contro l’armata di Napoleone. E non
solo. Il governo degli Usa dell’epoca aveva preso parte per il re di Francia, e
così gli statunitensi avevano preso molto male la disfatta francese. Ma nella
realtà ne avevano anche beneficiato, perché la Francia aveva dovuto vendere
grande parte del Mississippi agli Usa, per appena 10 cent all’ettaro. E questo
ha quasi raddoppiato il territorio statunitense. L’amarezza degli europei in
generale era tale che alcuni decenni dopo l’Europa ha invaso il continente
africano fino a dividerlo come una torta2. Così piccoli paesi come il Belgio hanno avuto il controllo di enormi
regioni vaste come il Congo».

Max Beauvoir ci descrive gli strumenti usati
dagli Usa per creare un’atmosfera «negativa» intorno alla religione haitiana. «Sono
sentimenti profondi e molto cattivi, e non sono mai finiti da quell’epoca,
continuano ancora oggi. È per questo che gli Usa hanno messo in piedi una
struttura particolare, chiamata Hollywood, che ha fatto tutta la sua fortuna
sull’anti haitianismo, contro la cultura haitiana e contro il vodù. Ha prodotto
e diffuso un grande numero di film sul vodù, tradotti in decine di lingue, al
fine di penetrare la coscienza di tutto il mondo. Anche gli europei, che
sarebbero i più scientifici e disinteressati, in modo incosciente sono
influenzati da tutta questa “campagna”.

Più tardi qualcuno di Hollywood diventa
candidato alla presidenza. È Ronald Reagan che fa una campagna elettorale
ancora sulle spalle dei voduisti. Infatti è parlando del «voodoo economics»3 che fa
ridere tutti del vodù e degli haitiani. E Reagan viene eletto, fa due mandati e
diventa uno dei più potenti presidenti degli Usa di tutti i tempi.

Questo sentimento profondo contro l’haitiano
e la sua cultura esiste nel cuore di molte persone nel mondo, quindi le parole
del predicatore statunitense non ci hanno stupiti. Sottolineo che Haiti non è
il paese che ha subito più terremoti. Esistono paesi molto più sismici, come
Cile, Giappone e gli stessi Usa, con
Los Angeles, sono terra di terremoti».

Così dopo il sisma una volta di più ci sono
state persecuzioni anti vodù contro praticanti e sacerdoti.

Anche l’epidemia di colera, il cui bacillo è
stato portato da alcuni nepalesi del contingente dei caschi blu dell’Onu
(Minustah)4, ha dato adito a uccisioni. «Persone che si
dicono molto formate, hanno imparato la biologia, hanno detto che gli haitiani
sono in grado di fabbricare il vibrione del colera. E così avrebbero diffuso la
malattia a tutti. Per questo motivo hanno ucciso molti voduisti, sacerdoti e
praticanti, accusandoli di fabbricare il colera. Occorre ricordare che nel nome
di Gesù, che dice di amare tutti, 13 volte nei 200 anni di storia di Haiti5, sono stati perseguitati hougan e mambo. Sono stati pogrom anti vodù, di cattolici e protestanti insieme, in
modo ecumenico, per uccidere migliaia di voduisti. Sono andati da loro, hanno
presi i loro beni personali, quello che non volevano lo hanno bruciato, hanno
inviato molti oggetti rituali alle università americane, penso in particolare a
Yale.

Ma per loro era il lavoro di Cristo, uccidere
le persone, e potevano farlo come volevano. Parlo di cristiani di tutte le
confessioni».

L’anima degli haitiani

Max Beauvoir ci racconta: «Sotto il regime di Duvalier nello
spirito dei cristiani haitiani c’era la convinzione che tutti i voduisti
appoggiassero Duvalier, e che lui e il vodù fossero la stessa cosa. Occorreva
uccidere tutti i voduisti perché erano duvalieristi. Sostenevano che solo loro
avevano tutti i diritti. I ton ton
macoute6 erano necessariamente voduisti. Per provarlo entravano nei templi
e trovavano abiti blu, che era l’uniforme dei ton ton macoute, ma è pure la divisa di cousin Zaka, il loa (spirito) del lavoro. Lo chiamiamo Zaka mede, il lavoro divinizzato. Dio vi dice:
avete la vita, la salute, ma in più dovete lavorare perché dal lavoro arrivano
dignità e onore».

Gli chiediamo se il feroce dittatore François Duvalier, abbia
strumentalizzato la religione.

«Non realmente. Ma non ha fatto nulla per promuovere la religione
vodù. Lui ha piuttosto promosso i gruppi di protestanti. Quando François
Duvalier è arrivato al potere c’erano sette gruppi protestanti, quando è andato
via erano 3.000 gruppi diversi.

Sono piuttosto i giornalisti che hanno strumentalizzato il
rapporto Duvalier-religione. Era molto comodo dire che Duvalier era voduista:
la sua anima quindi parlava con voce nasale, come un morto, come baron Samedi (il loa dei cimiteri, ndr). Tutto falso».

Il leader religioso spiega l’essenza del vodù. «È molto triste che
il vodù non sia stato promosso, perché il vodù è l’anima stessa degli haitiani.
È a causa del vodù che un haitiano è haitiano. Tutte le abitudini che abbiamo,
i nostri usi e costumi sono vodù. Tutta la saggezza degli haitiani è rinchiusa
nella tradizione e nei termini vodù, e soprattutto nelle parabole vodù. È in
queste che troviamo il modo in cui comportarci non solo l’uno con l’altro, ma
con gli stranieri. Grazie a esse conosciamo il nostro posto nel mondo: con il
sole, la luna, le stelle, gli alberi, gli animali, il mare, tutto quello che ci
circonda. È nel vodù che troviamo tutte queste relazioni.

Perseguitando o anche non valorizzando la religione «hanno
impedito al paese di svilupparsi. Perché non ci si può sviluppare che a partire
da se stessi, da ciò che si è, non a partire da un altro. È come lo sviluppo
della persona umana, che avviene da se stessa. Ma bisogna essere in forma, è
così che si va avanti nella vita. Bloccando questa crescita hanno fermato il
paese e la sua evoluzione».

Gli errori degli europei

Prima dell’arrivo degli europei, sull’isola vivevano indigeni e
non africani. I loa non erano presenti.

«Gli spiriti vodù non possono venire che con le persone vodù, sono
sempre le persone a fare da veicolo. C’è stata una serie di errori commessi da
Cristoforo Colombo. Ad esempio nel credere che ad Haiti vivesse una razza
diversa, che hanno chiamato “pelle rossa”. Uno dei più grandi errori della
storia: non c’è mai stata una razza dalla pelle rossa. C’era gente che abitava
qui, in un clima tropicale. C’erano zanzare, e così si cospargevano di un
unguento ricavato dai semi rossi di una pianta locale. Questo li proteggeva.
Solo molti anni più tardi si è scoperto che sulla terra e nell’universo c’è una
sola razza, detta la “razza umana” e anche quelli che parlano di neri, bianchi
e gialli hanno solo creato categorie che non esistono, a uso e consumo dei
razzisti. Sempre Colombo voleva provare che la terra è rotonda. Ma in Africa lo
sapevamo da lungo tempo. Avevamo pure degli strumenti, il laye, che è rotondo. Laye, vuole dire universo in lingua
yoruba in Nigeria, ma è della stessa radice di Ayi da cui deriva Ayiti (Haiti in creolo). Ayi vuol dire la
terra, Ayi-ti, ovvero questa terra è nostra. Il popolo fon in Benin, ha lo stesso termine. E
abbiamo anche delle divinità: la madre dell’universo è mambo Delayi».

Spiritualità e razionalità

Da ingegnere chimico a capo supremo del vodù7. Sembra difficile conciliare una
parte così razionale con una spirituale e irrazionale.

«Siamo qui in quattro persone, ma nel vodù diciamo che siamo qui
in quattro spiriti: sono i nostri spiriti a essere seduti a questa tavola.
Possiamo dire che ci sono i nostri corpi; ma tutto il lavoro che facciamo, ad
esempio il video che state girando, è una produzione spirituale. Il vostro
corpo non fa altro che aiutarvi in questa produzione. La mano tiene la
telecamera, il cervello aiuta lo spirito. Riflette sulle cose poi le realizza.
E i nostri spiriti sono ben più grandi di quello che vediamo seduto sulla
sedia. O ancora: una persona che rispettiamo, ci saluta, ci dà la mano, saluta
la nostra dignità, ovvero lo spirito, non il corpo. Abbiamo diritto al rispetto
perché è una particella dello spirito di Dio che abbiamo nelle mani. Siamo
spiriti. Si veda Dambala-Wèdo, il dio serpente. Il suo vévé8 rappresenta due serpenti: è proprio per ricordare che siamo
spiriti. E come il serpente, lasciamo il nostro corpo “in dietro”
periodicamente, ma la nostra vita continua. Siamo figli di Dio: come è
possibile che un figlio di Dio possa morire? Dio è la perfezione. Prima di
tutto lavoriamo per diventare perfetti. Per questo ci ha dato un corpo
imperfetto, ma noi ci impegniamo per aiutarlo nel suo lavoro, la grande opera
di Dio che è la creazione. Mantenere vivente tutto quello che c’è intorno a
noi, il sole la luna, le stelle, gli alberi, il mare: il mondo. È per questo
che siamo qui. Siamo stati creati da Dio che è perfetto.

Ci serviamo delle nostre imperfezioni per migliorarci in
continuazione, in modo da diventare un po’ come lui. Anche se mentiamo,
rubiamo, ecc. Questi sono errori di “prima nascita”, ma ci miglioriamo con
l’esperienza. Riusciremo, siamo figli di Dio. Tutti vanno in paradiso. Bruciare
gli spiriti non è possibile, le anime non hanno sostanza».

Nel vodù un ruolo centrale è giocato dai sacerdoti: hougan (o hungan) gli uomini e mambo le donne.

«Si diventa hougan solo attraverso l’iniziazione. Il che vuol dire prendere
coscienza che si è spirito. Che si può vivere come persona, come faccio in
questo momento, oppure è il mio spirito che prende il posto e tutto diventa più
grande, più straordinario. Ognuno di noi ha i suoi spiriti, io ho i miei, voi
avete i vostri. Qui ad Haiti conosciamo questi spiriti, ma negli altri paesi,
come in Europa, si impara a evitare gli spiriti, a non riconoscerli, e si pensa
che sia il corpo a fare tutto e che il cervello sia come un computer. Questo
per noi non è vero: tutto il corpo è al servizio dello spirito ed è lo spirito
la cosa importante di noi, ci rende belli, grandi, formidabili. Ci permette di
dire che coltiviamo l’eccellenza, qualsiasi cosa facciamo, che siamo artista o
prete. Questo per cercare di avvicinarci a Dio il più possibile».

Religioni unite?

Oggi i voduisti hanno creato con le altre religioni haitiane la
piattaforma «Religioni per la pace»9 che ha assunto un ruolo «politico» di mediazione nell’impasse che vede contrapporsi il presidente
della Repubblica, Michel Martelly e il parlamento. I tempi delle persecuzioni
sembrano lasciati al passato.

«Abbiamo creato insieme “Religioni per la pace”, tutte le
religioni insieme. Io sono amico dei vescovi. Lavoriamo insieme. Non siamo
ancora arrivati a portare questo approccio fino al livello della base, in modo
che il piccolo pastore lasci tranquilla la piccola mambo. Ma lavoriamo verso questo, vogliamo
arrivarci. C’è sempre chi pensa: “Bisogna farvi morire, sparire, perché siete
emissari del diavolo”, ma sono cose che sostengono perché non riescono a
spiegare la nostra esistenza. Si tratta di razzismo cattivo, criminale e
assassino».

Anche per difendere la religione e i suoi spazi Max Beauvoir fonda
la Confederazione nazionale dei voduisti haitiani (Konfederasyon Nasyonal Vodou Ayisyen)10.

Gli chiediamo: «Lei è presidente?». Risposta: «No, Ati si dice. Quando i voduisti hanno
voluto mettersi insieme abbiamo cercato un titolo, e abbiamo rifiutato
presidente e direttore generale. Abbiamo scelto Ati, come Legba che è Ati bon. Nel vodù vuol dire il grande albero
della foresta che protegge i piccoli alberi e permette loro di crescere.
Attraverso le sue azioni diventa un modello che permette ai piccoli di
svilupparsi e di esprimersi. Questa è la mia funzione.

Nel 2007, ci siamo resi conto che i cristiani sono insieme, hanno
formato l’ecumenismo, sempre anti vodù. Ma siamo in un paese vodù, e loro hanno
occupato tutte le funzioni e tutti i posti di rilievo. Quindi stiamo solo
reclamando il nostro spazio su questa terra che è nostra».

Questa religione oggi sta migliorando la sua immagine nel mondo. «Osservo
molta curiosità per il vodù, e non solo ad Haiti. I giovani mi scrivono delle
mail. C’è un riconoscimento generale del fatto che il vodù è un’espressione
culturale normale, valida e spirituale. E i giovani haitiani praticano il vodù».

«Sono il capo del vodù haitiano. È una carica molto pesante e
difficile da portare. Ci sono delle forze negative nel paese. Sono forze
straniere e portano molti soldi per corrompere il cuore della gente e per
impedire che gli haitiani siano autentici e veri. Vengono sotto forma di Ong,
che non sono negative di per sè, ma funzionano negativamente. Vengono per fare
certe cose, ma quando si trovano nel paese non c’è coesione, ognuna fa per
conto suo». Un po’ sorpresi chiediamo all’Ati
nasyonal: «Anche prima del terremoto?». E lui: «Sì, dal 1804».

Marco Bello
 


Note

1 – Devin Dwyer, Pat Robertson blames
earthquake on pact haitians made with Satan, ABCnews, 13 gennaio 2010.2 – Riferimento alla conferenza di Berlino (1884-85) durante la quale
le potenze europee si spartirono l’Africa.

3 – Voodoo economics fu il
nome dato al piano economico proposto da Ronald Reagan alle primarie contro
George W. Bush nel 1980. Reagan vinse e in seguito fu eletto presidente.
4 – Cfr. MC gennaio 2011 e gennaio 2012.
5 – Dall’indipendenza, il primo gennaio 1804.6 – I ton ton macoute erano la
milizia privata di Duvalier, che non si fidava neppure dell’esercito. Furono i
principali responsabili di assassini politici e torture.

7 – Marlise Simons, Power of
voodoo, preached by sorbonne scientist, New York Times, 15 dicembre 1983.
8 – Vévé, disegno simbolico
raffigurante gli attributi di un loa, utilizzato nelle cerimonie.
9 – Réligions pour la paix, piattaforma composta da cattolici, protestanti e voduisti per
mediare una riconciliazione nazionale.
10 – Marc Lacey, A Us-trained entrepreneur
becomes voodoo’s Pope, New York Times, 5 aprile 2008.


Glossario


Vodù in pillole

Vodù
(o vudù)
: religione sincretica che trae le sue
origini dalla spiritualità africana e si evolve ad Haiti. Da non confondere con
il vudù praticato in paesi come Benin (Dahomey) e Nigeria, da cui si origina,
ma si differenzia per l’evoluzione creola e i legami con i santi cristiani. Nei
paesi anglofoni si scrive voodoo, in quelli francofoni vaudou, in
creolo vodou.

Loa: sono le divinità e gli spiriti che fanno
parte del pantheon vodù. Ne esistono un’infinità e sono in continua evoluzione.
I principali, riconosciuti da tutti, hanno origini africane; gli altri sono
creoli, meno potenti, ma fondamentali. Gli uomini chiedono ai loa
protezione e questi li «posseggono» durante i riti. I loa sono capaci
del bene e del male e collegano il visibile con l’invisibile.
I diab sono gli spiriti cattivi. Molti loa sono associati a santi
cristiani.

Rada, petro, kongo e gli altri: i primi due sono i riti principali del vodù
haitiano secondo i quali si classificano i loa. Nel rada si ritrovano
alcuni spiriti del Dahomey; il petro ha spiriti più vendicativi e utilizzati
nella magia. Il kongo ha origini bantu, prevede sacrifici e riti più violenti.
Esistono altre innumerevoli classificazioni, ma nessuna universale. Ogni
categoria ha ritmi di tamburo, strumenti, danze, profumi e saluti propri.

Mambo e hungan: sacerdotessa e prete
vodù (questo chiamato anche boko) sono i maestri dei riti.

Damballah-wèdo: è il dio serpente,
vive sugli alberi e nei corsi d’acqua. È una delle divinità più popolari del
vodù haitiano.

Tratto da: Sodò, la cascata dei miracoli, MC,
luglio-agosto 2001
.

La bibliografia è vasta. Il classico in italiano è: Métraux,
Vodu haitiano, Einaudi Paperbacks, 1971.

Tags: Haiti, vudù, Max Beauvoir, religione, hogan, loa

Marco Bello e Gianluca Iazzlino