Milano e i migranti / 1 Il valore aggiunto oltre il bisogno
Secondo il rapporto Caritas
Migrantes del 2013, la sola provincia di
Milano conta poco meno di 360mila stranieri residenti, un numero appena
inferiore al totale di quelli che risiedono nell’intero Piemonte. La Lombardia è,
nel suo insieme, la prima regione in Italia per numero di stranieri residenti:
un milione e ventottomila persone.
Il gruppo più numeroso è rappresentato dai rumeni (137mila), seguiti da
marocchini, albanesi, egiziani, cinesi, indiani e altri. In questo numero, MC
racconta un percorso di quarantacinque chilometri fra centro e periferie della
Milano multiculturale.
Milano, uscita della metropolitana, fermata Duomo. A metà delle scale che portano in superficie, un uomo - dai tratti potrebbe essere originario dell’Asia centrale - sta seduto con un bicchiere di carta in mano, in attesa che qualcuno vi depositi qualche spicciolo. Alle sue spalle, un maxischermo sulla facciata di marmo bianco del Duomo riproduce la pubblicità di uno smartphone. Per un attimo, un effetto prospettico crea l’illusione che l’uomo col bicchiere e il telefonino siano parte della stessa proiezione. Salendo la scale l’illusione scompare, ma la suggestione ci mette un po’ a dissolversi. La tentazione di pensare che quell’immagine sia un emblema è forte, ma Milano si muove troppo velocemente e in troppe direzioni per lasciarsi incastrare in una generalizzazione.
Tra la Fiera del Mobile, quasi una prova generale dell’Expo 2015, e la Chinatown di via Paolo Sarpi, a nemmeno un chilometro dalla storica sede del Corriere della Sera in via Solferino; fra i manifesti della Lega contro «Bruxelles che uccide» accanto alla stazione centrale, e i fogli con la scritta «Via i leghisti da San Siro» attaccati sui nomi delle vie intorno a piazzale Selinunte; fra questi frammenti di città e molti altri, c’è «la piazza»: ecco il luogo dell’incontro, delle reti di solidarietà e dei tentativi di condivisione. Ma anche lo spazio delle quotidiane tensioni, degli stili di vita difficili da conciliare, del costante viavai di persone e di culture che a volte non si fermano abbastanza per osservarsi e poi riconoscersi.
Una panoramica sulla città vista dall’Ufficio per la pastorale dei migranti
«“Fate incontrare la gente”: questo è il mio incoraggiamento per i sacerdoti che delle parrocchie». A parlare è don Alberto Vitali, dell’Ufficio per la pastorale dei migranti (Upm) della Diocesi di Milano. Quando le persone si accorgono di avere problemi comuni, come crescere i figli, trovare un lavoro, accudire un malato, continua don Vitali, diventa meno difficile capirsi e venirsi incontro. La Caritas ambrosiana si occupa della promozione umana e del sociale. «Noi ci concentriamo sul fatto che un migrante è un credente», spiega don Alberto, «e partiamo da questo presupposto per organizzare il lavoro della cappellania generale, che conta trenta realtà etniche diverse».
Il sacerdote traccia un quadro molto chiaro delle generazioni di migranti con i quali svolge il proprio lavoro: la prima generazione ha fra le sue caratteristiche un forte legame identitario con il paese d’origine, e vive nel mito del ritorno, anche se spesso è costretta a rassegnarsi al fatto che tale ritorno non avverrà mai a causa della mancanza di risorse economiche. La seconda generazione, invece, è quella della piena crisi di identità. Quest’ultima, che rimane sopita nei bambini, affiora nell’adolescenza, quando magari arrivano le prime «cotte» per un coetaneo e ci si sente rifiutati perché stranieri. Sentirsi improvvisamente diversi genera nei ragazzi un trauma non semplice da superare, e spesso si innesca una ricerca del gruppo di «uguali» nel quale sentirsi accettati. In alcuni casi, che rimangono comunque limitati, questi gruppi di uguali finiscono per essere le gang criminali giovanili di cui si sente ogni tanto parlare. «È paradossale», aggiunge don Vitali, «che in questi casi la voglia di essere “uguali” porti di fatto a unirsi a altri “diversi”». Quanto alla terza generazione, si tratta di persone completamente integrate.
A Milano, spiega Simona Beretta, anche lei in forze all’Upm e curatrice, oltre che ideatrice, del concorso di scrittura Immicreando, sono tre i tipi di enti che si occupano di migranti: il comune, la Chiesa e le associazioni e onlus, ad esempio il Naga. Non c’è una rete strutturata che unisca queste entità. Nonostante ciò, il cornordinamento funziona grazie a costanti contatti e incontri. Nelle singole realtà di quartiere, poi, la presenza di una situazione di difficoltà viene spesso gestita grazie alla comunicazione fra associazioni, parrocchie, uffici pubblici presenti in loco che si segnalano gli uni gli altri i casi di disagio e si cornordinano per dare una risposta. Quanto all’idea di periferia, a Milano occorre tenee in considerazione due tipi: quella dei comuni della prima cintura, e poi il cosiddetto hinterland. «Ma anche per Milano, come per Torino», chiarisce Simona, «la corrispondenza fra migranti e margine geografico non è automatica: basta pensare a posti come via Padova, una delle strade più multietniche della città, che comincia da piazzale Loreto, una zona tutt’altro che periferica». Che la marginalità e il disagio siano, almeno in parte, un effetto di un fallimento urbanistico è un’ipotesi che Simona non rifiuta: «Non si può dire che ci sia stato un vero e proprio progetto di ghettizzazione, ma nemmeno c’è mai stato un progetto per spezzare queste catene urbanistiche. Il resto, poi, lo ha fatto il mercato immobiliare: i prezzi più bassi nelle zone più disagiate hanno attirato, a loro volta, persone alle quali le difficoltà economiche non permettevano di vivere in zone più costose».
Il Servizio accoglienza immigrati (Sai) di Caritas
ambrosiana nasce nel 2002 per fornire consulenza e orientamento a immigrati e
datori di lavoro a seguito della sanatoria prevista dalla legge 189/2002 (Bossi
- Fini). Si consolida poi come più ampia risposta alle problematiche migratorie
a Milano, in linea con la sensibilità e le priorità dell’allora arcivescovo di
Milano, cardinal Carlo Maria Martini, confermato e sostenuto poi dai suoi
successori, cardinali Dionigi Tettamanzi e Angelo Scola. Al Sai, che vede la
presenza continuativa e operativa di assistenti sociali, avvocati, consulenti
di area legale, operatrici dell’area orientamento al lavoro e della segreteria,
e la preziosa collaborazione di venticinque volontari, accedono oggi fra le sei
e le settemila persone all’anno. Il Servizio offre ascolto, accoglienza temporanea,
accompagnamento sociale, consulenza legale. Nelle situazioni di particolare
vulnerabilità è previsto un intervento di sostegno diretto. «Ma il
soddisfacimento immediato di un bisogno attraverso l’elargizione di denaro per
pagare un debito o un servizio necessari all’immigrato», sottolinea il
responsabile del Servizio, Pedro
Di Iorio, «è qualcosa a cui ricorriamo il meno possibile. Cerchiamo piuttosto
di leggere il bisogno e condividere con la persona che si rivolge a noi l’idea
di un piccolo progetto finalizzato a una possibile maggiore autonomia e
miglioramento della propria situazione, un percorso durante il quale,
ovviamente, ci impegniamo con possibili azioni di accoglienza, accompagnamento
ai servizi territoriali e anche di piccolo sostegno economico». Pedro ci tiene
molto a dare rilievo a questo aspetto: ciò che gli sta a cuore è scongiurare
per quanto possibile il rischio che «il viandante, così come l’operatore
sociale che fornisce il servizio, finiscano per fare del bisogno il solo codice
di identificazione relazionale, tralasciando invece il valore aggiunto». Un
migrante, cioè, non è solo un bisognoso, ma qualcuno cui proporre, nel
territorio, percorsi di socializzazione e conoscenza.
«Nei confronti di chi cerca lavoro, Caritas non può intervenire direttamente come fosse un’agenzia interinale: il nostro ruolo è quello di aiutare la persona per un miglior posizionamento nella ricerca attiva del lavoro. Gli strumenti disponibili sono di natura formativa, di base e professionalizzante, di orientamento e informazione che la “piazza” spesso non è in grado di dare».
«Piazza» è un termine che Pedro usa spesso: la definisce il luogo del passaparola, dei network etnici, dove i migranti hanno notizia dei servizi, come quelli offerti dalla Caritas; ma è anche uno spazio frammentato, dove non sempre i canali da percorrere per far fronte alle proprie necessità sono chiari: «Per questo diventa ancora più importante far attenzione a non creare aspettative ingiustificate rispetto a qualunque bisogno che ci viene esposto e fornire ai migranti informazioni che alla gratuità uniscano la qualità».
La mole di lavoro per il cosiddetto front-office, che si occupa fra l’altro di codificare il bisogno il più rapidamente possibile, è ragguardevole: sono quindicimila all’anno le telefonate a cui gli operatori rispondono, una media di quaranta al giorno. «I richiedenti asilo/titolari di protezione internazionale rappresentano il quindici per cento del flusso complessivo di richieste che riceviamo; per il medesimo target di riferimento (protezione internazionale), a Milano il comune svolge azioni di accoglienza e accompagnamento affidate, attraverso una convenzione, alla cornoperativa Farsi Prossimo che gestisce quattro centri d’accoglienza per uomini e uno per donne. I “migranti economici” sono circa l’ottantacinque per cento: l’Italia sta diventando meno appetibile come meta per chi cerca un impiego e anche i migranti della prima ora, quelli che erano stati protagonisti di storie di successo e che oggi si trovano sempre più spesso in condizioni di precarietà, con quel che ne consegue in termini di sgretolamento delle famiglie e di impatto devastante dal punto di vista psicologico».
Oltre due terzi degli utenti del Sai hanno una situazione abitativa che nella migliore delle ipotesi consiste in un posto letto (oneroso) in coabitazione con altri connazionali. Altre volte si tratta di persone ospitate nei centri di accoglienza, come il rifugio Caritas vicino alla Stazione Centrale, o nei centri di accoglienza gestiti dal comune o da istituzioni religiose. Spesso l’alternativa è la strada o l’area dismessa. Lo scalo della stazione di Porta Romana è un esempio di quest’ultimo tipo di sistemazioni: «Dal ponte sulla ferrovia in Corso Lodi si vedono solo le passerelle dove i passeggeri aspettano i treni», racconta Pedro, «ma se cammini lungo i binari arriverai a intravedere, di notte, i fuochi accesi dalle decine, a volte centinaia, di persone che passano la notte nelle strutture dismesse dello scalo».
Quanto all’ipotesi di rientrare nei paesi di provenienza, Pedro ribadisce che nella maggior parte dei casi «da sconfitti a casa non si torna». Qualcuno sceglie comunque il recupero degli affetti anche se il prezzo è ammettere il fallimento, ma molto dipende anche dalle condizioni messe in campo dal paese di provenienza. «Ad esempio, in Perù sono attivi progetti di reinserimento degli emigrati che rientrano e questo aiuta a creare le condizioni per i rimpatri».
Via Padova è un’arteria di oltre quattro chilometri che collega piazzale Loreto a Crescenzago. Quattro anni fa la zona fu al centro dell’attenzione dei media per l’assassinio di un giovane egiziano a opera di una banda di latinos.
Nel quartiere che si estende intorno alla chiesa di San Gabriele, nella parte di via Padova vicina a piazzale Loreto, la popolazione straniera è al quaranta per cento. «La maggioranza degli immigrati» spiega don Davide Caldirola, «proviene dall’America Latina, specialmente Ecuador e Perù, e dall’Egitto. Raramente si tratta di famiglie, spesso sono assembramenti di persone, ed è più difficile stabilire un contatto con loro».
Qui molte sono case di ringhiera, dove il contatto diretto fra condomini è inevitabile, ma gli avvicendamenti sono frequenti: gli affitti sono alti e la gente non si ferma molto. «Qualche giorno fa», riporta don Davide, «una signora mi ha detto che se fosse per lei sarebbe ben contenta di conoscere i vicini di casa, ma cambiano ogni tre settimane...».
Accanto agli stranieri, nel quartiere vivono parecchie persone anziane che si sono stabilite qui da anni e le difficoltà a conciliare le loro esigenze con quelle dei nuovi abitanti non è sempre semplice. «Non si può chiedere a un anziano di imparare l’egiziano per poter stabilire un rapporto con i vicini e a volte anche le forme un po’ chiassose di convivialità di alcuni gruppi di migranti creano disagio in persone che desidererebbero un po’ più di quiete». Sui principi della condivisione e dell’accoglienza, dice don Davide, non si può che essere tutti d’accordo; spesso, però, nel concreto, la partita della multiculturalità non si gioca sui principi ma su tanti piccoli episodi quotidiani che creano tensioni.
Come parrocchia, a San Gabriele si è scommesso su quello che don Caldirola definisce un «puntare alla normalità», assecondando cioè l’incontro che già sta avvenendo nelle nuove generazioni. «All’oratorio uno su tre dei bambini che ricevono i sacramenti ha genitori stranieri. La nostra struttura accoglie tutti i bambini, cristiani o non cristiani, perché crescano insieme e sostituiscano all’appartenenza etnica i valori dell’amicizia».
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