Per esaudirla Pechino non si ferma davanti a nulla. Lo sanno tutti i paesi
confinanti che si affacciano sul Pacifico: Vietnam, Giappone, Filippine,
Malesia, Indonesia, Taiwan. Con essi la superpotenza fa la voce grossa
pretendendo le isole Paracel, Spratly e Senkaku. Sotto i mari meridionali e
orientali si celano riserve di idrocarburi, che Pechino vuole tutte per sé.
Dalla fine degli anni Ottanta lo sviluppo
economico della Cina sembra inarrestabile. Per sostenere questa crescita ed i
consumi del suo miliardo e mezzo di abitanti la nazione è costretta a cercare
continuamente nuove fonti di approvvigionamento energetico e, conseguentemente,
a sviluppare la propria sfera di influenza.
Nel
2009 un rapporto della Iea (Inteational Energy Association) ha
evidenziato che la Repubblica Popolare era divenuta il maggior consumatore al
mondo di energia sorpassando gli Stati Uniti e le proiezioni riportano che
entro il 2030 la richiesta raddoppierà.
Nonostante
la crisi della centrale giapponese di Fukushima, la dirigenza del Partito
comunista non ha ritoccato i propri programmi nucleari: i 20 reattori in funzione
ed i 28 in costruzione porteranno l’energia fissile prodotta a coprire il 6%
del fabbisogno energetico nazionale entro il 2020, mentre gli impianti eolici
colmeranno il 12% delle richieste.
In
attesa che l’energia prodotta da fonti rinnovabili, di cui Pechino è strenuo
sostenitore, possa influire significativamente sulla sua politica industriale,
l’economia del paese deve sorreggersi sui derivati fossili.
Il
carbone, però, che attualmente sopperisce al 69% della domanda energetica, crea
enormi problemi sia dal punto di vista ambientale che sociale a cui si dovrà
trovare rimedio a breve termine.
Il
petrolio e il gas naturale, che soddisfano il 22% del consumo energetico,
sembrano essere, almeno a breve termine, la soluzione meno invasiva e più a
portata di mano. Myanmar, Bhutan, Nepal, Laos sono stati dei serbatorni
energetici che hanno sopperito alla fame di megawatt dell’industria cinese, ma
la mastodontica macchina economica, che dagli anni Novanta marcia ad un ritmo
impressionante di sviluppo, necessita di ben altro.
Il
principale problema, però, è che il 52% del petrolio importato dalla Cina
proviene dal Medio Oriente, regione continuamente sconvolta dalle continue
tensioni politiche. Ciò ha indotto il governo di Pechino a cercare altre fonti
di approvvigionamento che permettano di guardare con più tranquillità al
proprio futuro.
Il
reperimento di queste nuove fonti energetiche deve necessariamente passare
attraverso una maggiore incisività politica e diplomatica che, per la dirigenza
cinese, si traduce in un rafforzamento del proprio apparato militare per
rendere le nuove rotte commerciali sicure e, al contempo, allargare la propria
sfera di influenza.
Una
delle principali e naturali valvole di sfogo di questa politica sono i mari che
si aprono ad est delle coste cinesi.
Il
controllo di queste distese d’acqua chiamate comunemente Mar cinese orientale e
Mar cinese meridionale (ma sempre più spesso queste denominazioni vengono
contestate dai paesi che nutrono gli stessi interessi della Cina) e delle
minuscole isolette che si ergono sulla superficie marina sono oggi più che mai
oggetto di contenzioso tra la Cina e gli stati confinanti.
Non
importa quanto grandi siano queste isole – a volte si tratta solo di semplici
scogli o affioramenti inadatti anche a costruirvi un minuscolo monolocale –
l’importante è piantarvi la propria bandiera nazionale per stabilire la
sovranità e poter sfruttare le risorse energetiche e ittiche entro le acque che
le circondano.
Secondo
la United Nations Convention on the Law of the Sea (Unclos), ogni
nazione ha esclusivo diritto di sfruttare le risorse comprese entro 200 miglia
nautiche (320 km) dalle proprie coste.
Ma
cosa accade quando i limiti di queste 200 miglia nautiche si sovrappongono con
quelle di altre nazioni? Non vi è una specifica legge internazionale che regola
la questione e il problema viene demandato ai rapporti dei singoli stati che,
come è logico prevedere, non hanno facile risoluzione.
È il
caso delle rivendicazioni nel Mar cinese orientale, dove Cina, Taiwan e Giappone
reclamano l’amministrazione delle isole Senkaku/Daiyou (anche il nome delle
isole varia a seconda dello stato che le reclama) e nel Mar Cinese Meridionale
dove gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly sono contesi da ben sette
nazioni (Vietnam, Cina, Taiwan, Filippine, Brunei, Malesia, Indonesia).
Il
Mar cinese (sia orientale che meridionale) è considerato una vera e propria
autostrada del mare, dove, stando ai dati foiti dalla Casa Bianca, ogni anno
passano 5,3 trilioni di tonnellate di merci, di cui il 23% statunitensi. Il
sottosuolo dei suoi fondali conterrebbe 11 miliardi di barili di petrolio (nel
mondo si stima ve ne siano un totale di 1,47 trilioni) e 190 trilioni di metri
cubi di gas naturale (su un totale mondiale di 6,7 quadrilioni). Numeri
impressionanti, che fatichiamo a quantificare, ma che danno l’idea della posta
in gioco.
La
disputa più incancrenita, ma, almeno sulla carta, anche la più “semplice” da
risolvere, perché ha solo due contendenti, è quella dell’arcipelago delle
Paracel, disputato tra il Vietnam, che lo chiama Hoàng Sa, e la Cina per la
quale sono le isole Xisha.
Le
Paracel sono un gruppo di isole al largo delle coste vietnamite e a sud di
Hainan. Le quindici isole principali sono divise in due insiemi: il gruppo
Amphitrite a Est ed il gruppo Crescent a Ovest a cui se ne aggiungono altre tre
più lontane, sebbene facenti parte della stessa regione geografica. L’isola più
grande, Woody Island, è lunga 1,8 km e larga 1,2.
Per
secoli, a causa delle loro ridotte dimensioni, le Paracel sono sempre state
evitate dalle rotte marittime e nessuna delle due nazioni che oggi le
contendono ha mai rivendicato alcun diritto di amministrazione.
Solo
nel 1816 l’imperatore Gia Long, della dinastia vietnamita Nguyen, cominciò a
interessarsene con lo scopo di accaparrarsi le merci delle navi che,
malauguratamente, naufragavano sulle loro coste senza, però, stabilire alcuna
guaigione a difesa del territorio. Nel 1902 la dinastia cinese Qing cominciò
ad accampare pretese di sovranità e nel 1974, approfittando degli Accordi di
Parigi e dell’imminente caduta del Vietnam del Sud, il cui governo controllava
le Paracel, Pechino occupò le isole stabilendo su Woody Island un avamposto
militare e costruendovi anche un aeroporto.
A
nulla sono valse le proteste di Hanoi per riavere il controllo dell’arcipelago:
i caccia cinesi da Woody Island possono raggiungere le coste vietnamite in
pochi minuti di volo e dalla postazione militare cinese risulta più facile
intercettare ogni tipo di segnale radio.
Da
parte sua il Vietnam continua a trivellare i fondali marini attorno
all’arcipelago provocando continue ritorsioni della Cina: la PetroVietnam, la
compagnia petrolifera nazionale, ogni anno estrae da tre giacimenti situati
all’interno dell’area 24,4 milioni di tonnellate di petrolio, il 26% della
produzione totale del Vietnam e negli ultimi anni ha condotto una sessantina di
esplorazioni geologiche per cercare nuovi depositi offshore. Nel 2011 si
è sfiorata la crisi diplomatica quando due navi militari cinesi hanno tranciato
i cavi di esplorazione della nave vietnamita Binh Minh.
Ma
chi subisce maggiormente le conseguenze delle tensioni tra Hanoi e Pechino sono
i pescatori. Dal 1999 la Cina ha formalmente proibito la pesca entro le sue
acque territoriali alle navi straniere, ma la mancata formalizzazione
internazionale dello status delle Paracel rende nullo il divieto. Almeno
secondo la tesi vietamita. Dal 2005 la marina militare cinese ha sequestrato 63
pescherecci battenti bandiera di Hanoi con 735 membri d’equipaggio e, per far
rispettare il bando, entro il 2015 Pechino vuole pattugliare la zona mettendo a
disposizione del comando locale 16 aerei e 350 navi.
Più
complicata è la questione delle isole Spratly. Immaginate di avere un isolotto
di 5 kmq (circa 2,5 chilometri di lunghezza per 2 chilometri di larghezza) e di
dividerlo in 750 minuscoli pezzetti sparpagliandoli su un’area di 410.000
chilometri quadrati al largo delle coste del Boeo e delle Filippine. Ecco,
queste sono le Spratly. L’isola più grande, Taiping, è una striscia di sabbia
lunga 1,4 km e larga 400 metri su cui Taiwan ha costruito un aeroporto. I
minuscoli affioramenti delle Spratly sono contesi da Taiwan, Cina, Vietnam,
Malesia, Indonesia, Brunei e Filippine rendendo la controversia uno dei più
complicati rompicapi diplomatici al mondo.
Sono
state queste acque, più che quelle delle Paracel, a veder fronteggiarsi le
marine militari delle nazioni coinvolte nella disputa.
Dapprima
l’incidente dello scoglio di Johnson: nel 1988 tre navi vietnamite vennero
affondate e 74 marinai furono uccisi da uno scontro con la marina cinese. Poi,
nel 1995, a Mischief Reef tre navi cinesi ingaggiarono una battaglia di 90
minuti con una nave filippina. Infine,
nel 2012, fu lo scoglio di Scarborough, 160 km dalle coste filippine e 800 da
quelle cinesi, a essere conteso tra Manila e Pechino. In Cina si scatenarono
manifestazioni pubbliche culminate con il boicottaggio dei prodotti filippini
che causarono, per le sole banane, una perdita di 34 milioni di dollari alle
casse del governo Aquino.
Tra
questi tre incidenti più gravi, se ne sono consumati altre decine coinvolgendo
tutte le nazioni interessate. Giacarta ha lamentato che dal 2009 ben 180 pescherecci
malesi, filippini e vietnamiti sono stati scoperti a pescare abusivamente in
acque territoriali indonesiane, mentre compagnie petrolifere straniere, dal
2011, hanno effettuato 15 esplorazioni geologiche al largo dell’isola di
Palawan per contro del governo filippino, scatenando le proteste di Pechino e
di Kuala Lumpur.
La
battaglia delle Spratly si consuma anche a colpi di toponimi: dal 2011, dopo
che navi militari cinesi avevano compiuto una serie di incursioni in acque
territoriali filippine, il governo di Manila ha cominciato a chiamare le acque
a occidente delle sue coste Mar filippino occidentale.
A
complicare ancor di più la già ingarbugliata situazione, è recentemente
subentrata anche l’India, anch’essa interessata alle perforazioni marittime e
sostenitrice del Vietnam nel contenzioso. Dopo che l’India’s Oil and Natural
Gas Corp. (Ongc) ha iniziato ad esplorare tratti di Mar cinese meridionale,
la Cina ha inviato continui segnali di insofferenza verso i carghi indiani che
solcano le acque antistanti il Vietnam.
Più a
Nord dello scacchiere sudest asiatico un’altra questione è balzata alla ribalta
di recente: quella tra Giappone, Cina e Taiwan su quelle che Tokyo chiama isole
Senkaku, Pechino isole Daioyu e Taipei isole Daiyoutai. Le Senkaku/Daioyu sono
5 isolette disabitate per un totale di 5,17 kmq tra Cina, Taiwan e l’isola
giapponese di Okinawa, a cui amministrativamente appartengono.
Nel
1885 il Giappone avrebbe acquisito i diritti di sovranità di questo minuscolo arcipelago
dopo essersi assicurato che nessun altro stato le reclamava. La guerra
sino-giapponese conclusasi proprio nel 1885 con il trattato di Shimonoseki e la
cessione di Formosa (oggi Taiwan) al Giappone escludeva le isole Senkaku perché
queste, secondo quanto affermato da Tokyo, erano già state annesse all’impero,
quindi non facevano parte dell’isola cinese. In questo modo il trattato che
imponeva la restituzione di Formosa alla Cina dopo la fine della seconda Guerra
mondiale avrebbe escluso il ritorno delle Senkaku al governo cinese.
L’arcipelago
è stato ignorato da Pechino e Taiwan fino all’11 settembre 2012 quando Konioki
Kurihara, un giapponese di Saitama e proprietario di tre dei cinque isolotti,
li ha venduti al governo di Tokyo per 2,05 miliardi di yen. La pescosità delle
acque attorno all’arcipelago e la ricchezza in idrocarburi del sottosuolo hanno
ingolosito Pechino, che ha reclamato le isole in quanto farebbero parte della
piattaforma continentale cinese prima che questa sprofondi nell’oceano per
2.300 metri per formare il canale di Okinawa.
L’alterco
tra Cina e Giappone (Taiwan, dopo un iniziale protesta si è defilata dal
diverbio perché non ha argomenti che appoggino le sue richieste), è sfociato in
un confronto militare ed economico che ha coinvolto la recente storia coloniale
e i rispettivi movimenti nazionalisti.
Le
proteste popolari che si sono scatenate nelle città cinesi hanno convinto
aziende come la Panasonic, la Honda, la Toyota e la Canon a sospendere
temporaneamente la produzione nei loro stabilimenti cinesi e causando una
contrazione degli investimenti giapponesi.
La
questione Senkaku ha permesso al governo di Shinzo Abe di aprire la porta per
un possibile cambio degli articoli costituzionali che impediscono al Giappone
di intervenire militarmente al di fuori del proprio territorio. Nel 2013, per
la prima volta in undici anni, il budget militare del Giappone ha avuto un
incremento dello 0,8% rispetto all’anno precedente, raggiungendo una spesa di
51,7 miliardi di dollari. A questo va a sommarsi il più cospicuo aumento (1,8%)
concesso alla Guardia costiera.
I
contenziosi nel Mar Cinese sono anche una scuola di diplomazia per le inesperte
classi politiche asiatiche. Sapendo che singolarmente gli stati coinvolti non
riusciranno a spuntarla con il colosso cinese, tutti gli incontri con le
delegazioni cinesi vengono svolti tramite l’Asean, l’Associazione delle Nazioni
del Sud Est Asiatico.
Pechino
ha sempre cercato di risolvere la questione territoriale tramite incontri
bilaterali. È per questo motivo che la richiesta di arbitrato internazionale
presentata nel gennaio 2013 al tribunale de L’Aia dalle Filippine ha colto di
sorpresa la dirigenza cinese, che ha reagito con irritazione anche
all’incontro, avvenuto a Manila nel febbraio 2014, tra esperti di questioni
marittime di Vietnam, Malesia e Filippine per preparare un piano comune contro
la Cina.
Tutto
questo sommovimento politico e diplomatico porta anche ad un aumento
esponenziale delle spese militari in tutta la regione.
Nel
maggio 2013 il Giappone ha venduto 10 navi di pattuglia alla Guardia costiera
filippina per 110 milioni di dollari mentre – secondo il Sipri (Stockholm
Inteational Peace Research Institute) – il Vietnam ha aumentato il
proprio budget militare del 70% dal 2011, e la Cina, dal 2003, del 175%.
Sono
proprio le forze armate di Pechino, e in particolare la marina, a sfruttare a
proprio vantaggio la delicata situazione creatasi nel Mar Cinese. Una politica,
quella dell’ampliamento dell’influenza marittima della Repubblica Popolare,
nata già negli anni Ottanta sotto la guida di Liu Huqing, comandante della
marina militare dal 1982 al 1988. Liu, che si era formato in Unione Sovietica,
aveva sviluppato la strategia della doppia linea di difesa: la debole marina
cinese degli anni Ottanta si sarebbe limitata a proteggere le coste nazionali
per poi spostare il proprio fronte marittimo lungo la prima catena di isole (la
fase attuale che vede l’assestarsi della flotta nel Mar Cinese). L’ultimo
gradino nella scala di potenziamento sarebbe il prossimo passo: spostare la
linea di difesa della flotta oltre le Filippine per contrastare l’egemonia
statunitense.
Il
potenziamento e la modeizzazione delle unità navali cinesi servirà anche a
controllare la marina Usa dopo la doppia umiliazione del dicembre 1995 e del
marzo 1996, quando a Washington bastò l’invio di due portaerei, la Nimitz
e la Independence, per dissuadere Pechino dal continuare a rivendicare
le acque territoriali ai danni di Taiwan.
Da
quell’offesa i generali cinesi hanno tratto lezione e, dopo aver varato quattro
nuove classi di sottomarini e sei nuove classi di incursori, nel settembre 2012
è stata inaugurata la Liaoning, la prima portaerei della flotta a cui ne
seguirà una seconda da 50-60.000 tonnellate entro il 2015 e, nel 2020, una
terza a propulsione nucleare.
Ma
una marina forte serve a poco se non si ha la strada aperta per entrare nelle
zone strategicamente nevralgiche per il controllo del Pacifico. E la Cina,
attualmente, ha solo due porti adatti ad ospitare con sufficiente copertura la
propria flotta e permettere, al contempo, l’accesso immediato al mare aperto:
la base di Xiaopingdao, nel Mar Giallo, e l’isola di Hainan.
Le
isole Paracel saranno dunque indispensabili per proteggere la base di Hainan,
mentre le isole Spratly faranno da sentinella e protezione per l’accesso della
flotta all’oceano Pacifico.
Piergiorgio Pescali