Cari Missionari

Beato l’uomo castigato?

Il dossier «Giustizia riparativa», per quanto lungo e
articolato non dice alcune cose che a mio modesto avviso sarebbe stato meglio
dire.

1 – Ammesso che i carcerati
«effettivamente pericolosi» siano il 20% del totale non mi pare opportuno
definire «piccola» una percentuale così. Un conto è chiarire che la gran parte
della popolazione carceraria è costituita da persone che meritano più rispetto,
più credito, più fiducia, un altro è dire che la minoranza è esigua.

2 – Nella Bibbia punizione,
castigo, espiazione e giudizio non sono parolacce. Il Dio che castiga non è in
contraddizione col Dio che ama, che perdona, che salva: «Beato l’uomo che tu
castighi Signore», recita il Salmo 93, che può essere tradotto anche con «Beato
l’uomo che tu istruisci Signore». Qual è la traduzione giusta? Sono giuste
entrambe, perché l’originale greco paideuo può essere tradotto con
castigo, punisco, ma anche con: educo, ammaestro, istruisco, addestro. […] Come
facciamo a dire che nella Bibbia Dio non punisce? Se Dio vuole castigare,
purificare, decontaminare, […] chi siamo noi per contestarglielo? […] Chi siamo
noi per dire che «non sappiamo cos’è la giustizia», come se la Parola di Dio
fosse incomprensibile, come se l’insegnamento della Chiesa fosse roba alla
portata di una piccola élite? […].

3 – Gesù nel Vangelo non
parla mai del castigo e del giudizio di Dio come di sovrastrutture create dagli
uomini, ma come di atti di giustizia, di amore e di solidarietà con chi è stato
angariato, ferito, umiliato. E, quando parla di pentimento, di contrizione, di
cilicio (cfr. Matteo 11, 21-26), non ne parla mai come di optional e
neppure come di residui di religiosità gretta e antiquata. I castighi di Dio
sono sempre retti, equi, perfetti, ineccepibili. Se gli uomini non li
riconoscono come tali vuol dire che sono ancora prigionieri del loro orgoglio,
della loro arroganza, della loro superbia.

4 – Se non è bello fare di
tutta l’erba un fascio con i carcerati, non è giusto farlo per i luoghi di
detenzione. […] ci sono esempi di professionalità, di abnegazione, di
eccellenza. […] Che senso ha dunque dire che il carcere non serve e bisogna
abolirlo? Bisogna fare in modo invece che tutti i luoghi di rieducazione […]
raggiungano i livelli di eccellenza che finora solo alcuni hanno raggiunto […].

5 – Ormai del ritornello «ce
lo chiede l’Europa» ne abbiamo fin sopra i capelli, chi vuol fare
europersuasione deve specificare nome e cognome di chi brontola, minaccia,
tuona e sanziona. Dopo quello che è accaduto in questi ultimi anni solo una
persona molto disattenta, molto disinformata o molto in malafede può continuare
a equivocare tra la sacrosanta aspirazione a un’Europa pacificata, unita, equa,
solidale e l’Europa delle grandi speculazioni bancarie camuffate sotto le
spoglie del rigore, del risanamento, dell’efficienza, del consolidamento
dell’Euro. Non basta lamentare che 29 miliardi di euro in dieci anni sono
troppi per un sistema penitenziario come il nostro, bisogna intervenire laddove
vi sono stati abusi, sprechi, malaffare, clientelismo e corruzione. […]

Francesco Rondina
Email, 21/02/2014
Caro sig. Rondina,

la ringraziamo per la
sua lettera e ci scusiamo per averla dovuta tagliare. Speriamo di aver lasciato
le parti sostanziali delle sue obiezioni, alle quali è impossibile rispondere
se non rimandando a una rilettura del dossier e ai libri lì citati. Qui
abbozziamo solo qualche spunto di riflessione seguendo la numerazione da lei
usata.

1- L’aggettivo
«piccola» nasce da una reazione al pensiero che il corrispettivo 80% di
detenuti non pericolosi, circa 50mila persone tenute in carcere, senza una
reale necessità, in condizioni disumanizzanti, sia una quantità decisamente
«grande». Non diciamo che gran parte dei carcerati meritino più rispetto,
diciamo di più: che tutti i carcerati ne hanno diritto (il diritto non si
merita, si ha per il solo fatto di esistere), a prescindere dai loro delitti.

2 e 3- Non è il luogo
questo per una «disputa biblica». Ciascuno può citare versetti o capitoli
interi della Scrittura per avvalorare la propria posizione (addirittura Satana
lo fa in Lc 4). Noi facciamo solo due brevi esempi (sperando di non fare come
Satana). Gesù in Mt 5,38 dice: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e
dente per dente”; ma io vi dico di non oppporvi al malvagio; anzi…»; e in Lc
23,34: «Padre, perdonali». Inoltre, se volessimo credere a un Dio che punisce,
sarebbe Lui a farlo, non l’uomo. Il «pentimento» – o per lo meno la libera
disponibilità a rimettersi in gioco – da parte del reo è necessario per l’avvio
di una pratica di giustizia riparativa. Il pentimento quindi non è escluso,
anzi, la giustizia riparativa promuove la possibilità di un pentimento
autentico, che sia un atto libero e responsabile, non un atto indotto dalla
costrizione, dalla paura della punizione, o dal premio sperato (come è tipico
della giustizia retributiva-punitiva).

4- Nel dossier non si
dice che il carcere non serve e che va abolito, anzi, a pagina 39 viene
affermato: «Chi è pericoloso deve essere separato», aggiungendo poi che «la
separazione dovrebbe essere mirata a prevenire l’effettiva pericolosità. Non è
logico, né utile, ricorrere al carcere anche per chi non lo è. Nei confronti di
chi è pericoloso, la limitazione della libertà di movimento deve però essere
modellata caso per caso, e non deve essere accompagnata dalla limitazione, o
addirittura esclusione, delle altre libertà fondamentali che non comportino
pericoli per la società: il diritto allo spazio vitale, alla salute,
all’affettività, all’informazione, al lavoro, all’istruzione».

5- La corte di
Strasburgo, cui probabilmente si riferisce, e della cui condanna parliamo a
pagina 34 del dossier, è un organo del Consiglio d’Europa – e non dell’Unione
Europea – che vigila sui diritti umani. Ogni istituzione o organizzazione, e
ogni loro atto, sono ovviamente contestabili. Alcune volte però possono offrire
un’occasione per crescere nel rispetto della dignità umana.

Luca Lorusso


Leggibilità

Finalmente! Avete dunque capito dopo anni che tutte
quelle lettere piccole e i terribili sfondi colorati rendevano illeggibile la
bella rivista! Alla buon ora, hurrà! Poi via con gli sfondi che rendono
difficile la lettura. Ma perché non si può fare sempre i bei leggibili sfondi
bianchi? Che mistero c’è? Economico? Artistico? Voglia di non fare i normali ed
essere per forza creativi? Semplicità è bellezza. Corpo 11 e sfondo bianco. Un
vostro «vecchio» lettore ed ammiratore

Alfio
Tassinari
email 28/02/2014

Caro Direttore,

congratulazioni per il vostro sforzo per ingrandire il
corpo del testo della pregiata Rivista. Mi azzardo a darle la mia in tre punti:

1. Missioni Consolata è «rivista missionaria della
famiglia» come dice il sottotitolo. Ora nelle nostre famiglie chi legge la
rivista sono quelli che abbisognano di inforcare gli occhiali, per cui un corpo
leggermente più grande nel testo sarà molto apprezzato.

2. Gli articoli di Missioni Consolata sono in gran parte,
e giustamente, ad argomento unico di poche pagine, eccetto il Dossier, per cui
caratteri diversi e corpo diverso non tolgono nulla all’unità del tema, «la
missione», della rivista, anzi possono enfatizzae l’argomento.

3. Ho notato che nel n. 3/14 della rivista compare un
articolo sulla cerimonia di nozze in Corea del Sud in cui, forse per la prima
volta da tanti anni, la rivista sacrifica il testo per le foto. Forse è questa
una gradita risposta alla sincera e benevola curiosità dei lettori.

Mi permetto di dirle che questo numero 3/14 l’ho letto di
un fiato, mentre trovavo fatica a leggere i numeri precedenti, e di porgere a
lei e tutti i suoi collaboratori le più belle felicitazioni di buon lavoro,
conscio che portare avanti una rivista prettamente missionaria e renderla di
interesse a lettori, che possono spigolare per mezzo di Inteet su tutti i
campi, non è facile. Ma pure rimane in tutti la soddisfazione di leggere
qualcosa che si ha tra mano e che si sente più consono di tutto quello che si
può trovare «on line».

P.
A. Giordano
email 25/02/2014

Il corpo 11 va decisamente bene: si legge con facilità,
non si perde tempo a decifrare, volendo si legge «a colpo d’occhio». Ho dimenticato di premettere che ho 15 lustri, ma che
comunque con gli occhiali e in buona luce ci vedo benissimo! E che comunque gli esperti siete voi. Grazie e buon
lavoro a tutti!

Paola
Andolfi
email 14/03/2014

Diversi lettori ci hanno scritto rispondendo
alla domanda circa il carattere da usare nella rivista. Qui ne riportiamo solo
alcuni. Il consenso sui caratteri più leggibili è unanime e ci incoraggia a
continuare nel miglioramento della qualità delle rivista, e non solo dal punto
di vista grafico. Grazie a tutti voi.

Eritrea
Caro padre Gigi,
ho letto con piacere e interesse la serie di articoli
apparsi sulla tua bellissima rivista che parlano dell’Eritrea. Forse non sai
che mia moglie ed io siamo nati in Eritrea, lei ad Asmara e io a Massaua. Solo
dopo la guerra siamo andati a vivere in Kenya dove ci siamo conosciuti. Ed è
anche per questo che seguo con attenzione ciò che succede in quel paese ora
sconvolto dalla follia di un dittatore. Speriamo che un giorno la situazione
possa cambiare in meglio e che il popolo eritreo possa avere una vita
tranquilla e serena.
La speranza, purtroppo, è un po’ debole perché nessuno ha
interesse ad aiutare il popolo eritreo, così come sta succedendo per altre
parti dell’Africa. Basta vedere la guerra full scale che si sta
consumando tra vari paesi che ben conosciamo: Uganda, Ruanda, Congo, Zaire,
Zambia. Burundi, ecc. Se ne parla pochissimo!
Kenya Juu
(W
il Kenya)!

Augusto
Vezzaro
email 10/3/2014

Un grazie e una
poesia

Caro padre,

pur con ritardo desidero ringraziare per le tre parole
augurali per il 2014: gioia, bellezza, audacia. Non è semplice
attivarle, viverle e onorarle perché la quotidianità presenta tanti intoppi e
tante sofferenze, ma ci provo. A tale proposito ho dedicato la composizione che
allego a Matteo, figlio di un amico, che il 2 marzo compirà il suo primo anno
di esistenza; c’è la felicità per una nuova vita, c’è la celebrazione del gioco
come forma d’intesa interpersonale e di scoperta della realtà, e c’è l’invito a
vivere relazioni in cui si è orgogliosi l’uno dell’altro. Trovo tante analogie
con l’impegno dei missionari per tutelare e valorizzare la vita, impegno che, a
mio parere, rappresenta una delle espressioni del cristianesimo. Mi farebbe
piacere che il testo fosse pubblicato per onorare tutti coloro che, a partire
dai missionari, cercano di difendere il grande valore della vita.

A Matteo

Auguri a te, Matteo,
stupenda creatura,
in occasione del tuo primo compleanno!

La tua presenza ci dà gioia e felicità,
moltiplica le energie,
rende lievi le fatiche,
ci interpella sul cammino, mai concluso,
dell’essere
pienamente uomini.

Quando giochiamo insieme,
è come se ci trovassimo
per “strada”
e celebrassimo
il nostro incontro:
quel che tu sei
e quel che siamo noi
si compongono
come accordo di una sonata
e rifulgono
come una goccia di rugiada.

Quando ci rallegriamo
l’un l’altro
è come se ci
comprendessimo
misteriosamente
e per magia
diventassimo leggeri
come acrobati sul trapezio.

Ci libriamo nel cielo
e ci immergiamo
nelle profondità degli
abissi marini
per scoprire tanti mondi,
così siamo orgogliosi,
a vicenda,
delle nostre magnifiche
vite.

Milva Capoia
Torino 23/02/2014

Risponde il Direttore




Zingaro e santo: Ceferino Gimenez Malla

Ceferino (Zefirino) Gimenez Malla detto «El Pelè», membro del popolo gitano, fin dalla sua
nascita è bollato come uno zingaro, quindi un escluso della società. Nasce in
Spagna nel 1861, forse a Benavent de Sangria, probabilmente il 26 agosto 1861.
Il caratteristico nomadismo del suo popolo gli impedisce di frequentare
regolarmente le scuole, lasciandolo quasi analfabeta. è di famiglia povera, che diventa ancor più povera quando il
padre se ne va con un’altra donna. Girando di villaggio in villaggio conosce la
precarietà tipica della vita di coloro che vivono nell’emarginazione. Fin da
piccolo impara a fare il panieraio, a intrecciare cioè cesti e canestri, che poi
vende nei villaggi. A 18 anni si sposa con il rito gitano con Teresa Jimenéz,
un matrimonio che durerà più di quarant’anni. Purtroppo la loro unione non sarà
coronata da figli, adotteranno quindi “Pepita” (Giuseppina) una nipotina di
Teresa. Ceferino è il primo zingaro a essere elevato alla gloria degli altari.

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Ceferino - o preferisci che ti chiami «El Pelè» come ti chiamavano tutti? -, parlaci un po’ di te.

Appartengo al popolo gitano - gli zingari -, le cui origini si perdono nelle nebbie della storia. Provenienti dall’India, ci siamo sparsi per tutta l’Europa. In Spagna siamo poco meno di un milione, la terza comunità più numerosa nel nostro continente.

Un popolo che non ha mai rinunciato ai suoi usi e costumi, soprattutto al nomadismo.

Proprio così. Pensa che il saluto ben augurante che usiamo tra di noi è lacio drom, che significa «buon cammino» o «buon viaggio», per indicare un modo di vivere in movimento, con il mondo intero come orizzonte.

Questo vostro modo di vivere vi ha causato parecchie noie, sofferenze e anche persecuzioni.

Ormai sono innumerevoli le prese di posizione legislative su (e contro) di noi. Il fatto di non essere stanziali fa di noi degli uomini liberi, poco controllabili da chi è preposto a garantire l’ordine pubblico e quindi anche temuti. In tutti i modi si cerca ancora oggi di obbligare gli zingari a diventare stanziali al pari di tutti i «payos» (termine che nella nostra lingua definisce chi non è zingaro).

L’ostilità nei vostri confronti ha avuto il suo apice con le leggi razziali di Hitler che voleva sopprimervi così come il popolo ebraico.

Vivendo in Spagna sono stato toccato solo marginalmente dal nazismo, ma l’orrore dei campi di sterminio resta una ferita sanguinante ancora oggi. Pensa che ad Auschwitz, sulla lapide che riporta i nomi dei popoli che soffrirono le pene dell’inferno, il nome del popolo zingaro non compare! Una dimenticanza non da poco.

La tua famiglia che posizione occupava?

Sono nato e cresciuto in una famiglia povera e numerosa. Le bocche da sfamare erano tante. In più mio padre a un certo punto se ne andò per vivere con un’altra donna lasciandoci nella più nera indigenza.

Nonostante ciò non sei diventato né ladro né accattone né imbroglione, come spesso e volentieri i «payos» pensano di voi.

C’è una legge fondamentale nel cuore di ogni uomo: essa dice che prima di tutto devi rispondere ai dettami della tua coscienza. La mia, fondata sulla fede cristiana e sui valori del popolo rom, mi ha sempre spinto ad agire per il bene.

Ti sei fatto la fama di uomo retto, con una autorevolezza morale tale da diventare un capo dei gitani aragonesi di Barbastro.

Proprio così, per il mio modo di fare e per i miei atteggiamenti mi trovai senza volerlo a essere un riferimento per coloro che avevano bisogno di un consiglio. Più volte sono stato chiamato a far da paciere nelle liti familiari, nelle controversie tra gitani e tra questi e gli abitanti della nostra cittadina.

Però devi ammettere che un giorno hai avuto un bel colpo di fortuna, o è stata la provvidenza? ce ne parli?

Una sera tornando a casa vidi sul ciglio della strada un uomo, per la precisione un ricco possidente della zona. Malato di tubercolosi, era svenuto e il sangue gli usciva dalla bocca. Incurante del rischio di contagio l’ho caricato sulle spalle e portato fino a casa sua. La famiglia volle ricompensarmi per quel gesto di carità e con quei soldi intrapresi un piccolo commercio di muli e cavalli.

Essendo un gitano non è difficile immaginare che quello era il tuo mondo.

Ma l’ambiente del commercio degli animali non era dei più puliti e pur cercando di essere limpido e onesto fino allo scrupolo, fui arrestato e incarcerato perché due animali che comprai risultarono rubati. Cosa più che sufficiente per accusarmi di ricettazione. La mia origine gitana e il pregiudizio razziale per cui ogni zingaro è un ladro e un disonesto, pesarono sul processo, ma alla fine riuscii a dimostrare la mia buona fede e la completa estraneità ai fatti. Fui quindi assolto con formula piena.

Perciò hai continuato la tua redditizia attività commerciale?

Sì. Avrei anche potuto diventare ricco, ma avevo, come si dice, le «mani bucate» perché soccorrevo chiunque si trovasse nel bisogno o in difficoltà, specialmente la mia gente, e facevo tutto di nascosto perché nella mia famiglia, mia moglie compresa, non condividevano la mia generosità.

Tutto ciò ti veniva dalla fede cristiana che professavi senza imbarazzo davanti a tutti.

Della mia fede non ho mai fatto mistero a nessuno, avevo sempre con me la corona del rosario e di notte mi piaceva guardare il cielo stellato facendo una specie di adorazione che consiglio a molti di fare. Contemplando il cielo e le stelle pregavo con più intensità.

La tua fede cosa ha cambiato nella tua vita?

Mi ha fatto regolarizzare la mia posizione familiare con il matrimonio religioso che ho celebrato nel 1912 con Teresa a Barbastro, dove mi sono stabilito acquistando una casa. Potendo quindi accostarmi ai sacramenti, facevo della Messa e Comunione quotidiana un punto importante della mia crescita spirituale. Mi dedicavo anche alla catechesi dei bambini sia rom sia spagnoli ed ero molto attivo nella san Vincenzo. Nel 1926 sono diventato anche terziario francescano e organizzatore dei pellegrinaggi annuali dei Rom a diversi santuari. Dal 1931 ho cominciato a partecipare regolarmente all’adorazione nottua dei «giovedì eucaristici».

Però sul tuo capo come su quello di milioni di spagnoli incombeva minacciosa la rivoluzione del 1936 che scatenò violenza, distruzione e morte, ed ebbe anche una forte connotazione antireligiosa.

La rivoluzione, cresciuta in un brodo di odio popolare e conflitto sociale dovuto alla turbolenta situazione economico-politica che viveva la Spagna in quegli anni, spinse alla radicalizzazione dello scontro tra le fazioni in lotta portando quelle d’ispirazione marxista a uccidere migliaia di religiosi.

Alla fine della guerra di Spagna si contavano più di 6800 preti e religiosi uccisi, tra questi anche tredici vescovi e oltre 200 suore di vita contemplativa. È invece impossibile avere il numero preciso dei laici, uomini e donne, uccisi per la fede. La tempesta che si abbattè in quel periodo sulla Chiesa fu una delle più feroci persecuzioni anticristiane del XX secolo.

E com’è che anche tu sei finito in carcere?

Devo dire che gli avvenimenti bellici che si susseguirono dall’inizio delle ostilità non scalfirono minimamente il mio essere cristiano, anzi. Però nel mese di luglio del 1936 difesi un sacerdote che era stato aggredito e per questo fui arrestato con lui. Perquisendomi, in tasca trovarono la corona del rosario. Quello fu più che sufficiente per sbattermi in galera accusato di ogni falsità.

Immagino che quella corona in carcere sia diventata «un’arma preziosa» tra le tue mani proprio per avvicinarti di più al Signore.

Non solo per me, ma anche per tutti i miei compagni di prigionia. Amici influenti si mossero in mio favore, vennero a trovarmi e mi garantirono l’immediata scarcerazione se solo avessi consegnato la corona del rosario e smesso di sostenere i compagni di prigionia con le mie preghiere. Ovviamente mi rifiutai, perché il rosario significava la fede in Cristo e il recitarlo con fede affidandomi alla Madre di Dio aiutava me e tutti gli altri a sopportare la brutta situazione in cui ci trovavamo.

Quando lo fucilano il 9 agosto del 1936, insieme a Florentino Asensio Barroso vescovo di Barbastro e ad altri prigionieri, l’ultimo suo grido è «Viva Cristo Re!» mentre in mano tiene alta come una bandiera la sua corona del rosario. Il giorno dopo alcuni zingari sono obbligati a scavare una fossa comune per tutti i fucilati e a buttare calce viva sui loro corpi per evitae il riconoscimento e cancellae la memoria.

A Roma il 4 maggio 1997, alla presenza di migliaia di zingari, Giovanni Paolo II lo proclama beato. Nell’omelia il papa dice: «Il beato Ceferino seppe seminare concordia e solidarietà fra i suoi, mediando anche nei conflitti che a volte nascono fra “payos” e zingari, dimostrando che la carità di Cristo non conosce limiti di razza e di cultura». Con lui è stato beatificato anche il vescovo Florentino, fucilato dallo stesso plotone di esecuzione. Di Ceferino non è rimasto niente se non lo sgualcito certificato di battesimo, che portava sempre con sé, e il rosario, segni concreti per confermare che si può essere zingari e santi secondo il monito dell’apostolo Paolo che ogni uomo si converta e viva, rimanendo nella sua cultura e tradizione.

Don Mario Bandera, Missio Novara
Tags: Ceferino, Zeffirino, zingari, santi, martiri spagnoli, martiri
Mario Bandera




Libertà in affanno 

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 19


La libertà di religione si conferma un diritto a rischio per
la maggioranza della popolazione mondiale. La regione più restrittiva è quella
del Medio Oriente-Nord Africa, seguita da quella dell’Asia-Pacifico. In Europa,
al terzo posto, a una crescente ostilità sociale corrisponde una crescente
pressione governativa.

Il 14 gennaio scorso è uscito il
quinto rapporto annuale del Pew Research Center1 sulle restrizioni alla libertà
religiosa nel mondo, Religious hostilities reach six-year high. I dati
riferiti riguardano l’anno 2012, che è stato il peggiore per la libertà
religiosa da quando l’organizzazione con sede in Washington DC ha iniziato a
monitorare la situazione, nel 2006-2007.

Libia post Gheddafi

È sufficiente fare attenzione alle
agenzie d’informazione riguardanti un paese come la Libia – scelto a esempio –
per trovarsi concordi con l’analisi del Pew Center che indica un
incremento molto forte delle restrizioni alla libertà religiosa in quelle terre
nel 2012, e per immaginare che, dopo quell’anno, non è probabilmente seguita
una sostanziale diminuzione.

Era il 25 febbraio quando l’agenzia Fides
pubblicava sul suo sito le dichiarazioni del Vicario apostolico di Tripoli
riguardanti il massacro di sette copti a Bengasi: «“Non si capisce bene cosa
vogliano questi fondamentalisti. Sicuramente vogliono mettersi in evidenza
spargendo il sangue di vittime innocenti. I copti ortodossi sono da tempo il
loro bersaglio, soprattutto in Cirenaica” dice […] mons. Giovanni Innocenzo
Martinelli […], commentando l’uccisione di sette lavoratori egiziani di
confessione copto ortodossa […]. Secondo fonti di agenzia, domenica 23 febbraio
i sette egiziani erano stati prelevati nelle loro abitazioni da uomini armati.
I loro corpi sono stati ritrovati il giorno successivo in una località alla
periferia della città. Le vittime sono state uccise da colpi d’arma da fuoco al
petto e alla testa. “Non sappiamo altro […]” dice mons. Martinelli. […] “Siamo
nelle mani di Dio, in queste situazioni incerte e insicure”». Agenzie
precedenti parlano di aggressioni a sacerdoti cattolici o copti ortodossi da
parte di milizie armate, di arresti ed espulsioni di decine di egiziani copti,
o di membri di comunità protestanti, in seguito ad accuse di «proselitismo», di
chiese prese d’assalto.

«In Libia due fedeli sono stati
uccisi in un attacco contro una chiesa copta ortodossa nella città di Misurata
nel mese di dicembre 2012. Questo è stato il “primo attacco [in Libia]
destinato a una chiesa dopo la rivoluzione del 2011”», scrive il Pew Center
nel suo rapporto, illustrando la crescita dell’ostilità sociale nel paese.

L’ostilità sociale nei confronti delle religioni

Per quantificare gli ostacoli
all’espressione e alla pratica religiosa nei singoli paesi, il Pew Center
usa due indicatori: l’indice delle ostilità sociali (Shi: social hostilities
index
), il quale misura gli atti contrari alla libertà di credo verso
determinati gruppi religiosi da parte della società civile, di gruppi o di
singoli; e l’indice delle restrizioni governative (Gri: govement
restrictions index
), il quale misura le azioni delle istituzioni nazionali
o locali che contrastano la religione. Lo studio statistico, avverte il Pew
Center
, tiene conto di alcuni dati e non di altri: misura gli impedimenti
alla libertà religiosa, ma non misura, ad esempio, la quantità di attività
libere e senza ostacoli, non giudica se le restrizioni siano giustificate o
meno, non valuta i processi storici, culturali, sociali che portano alle
restrizioni.

Attraverso una panoramica sul primo
dei due indici, veniamo informati del fatto che l’anno esaminato nel rapporto,
il 2012, è stato quello con i livelli più alti di ostilità sociale nei
confronti della religione mai registrato dall’inizio delle indagini nel
2006-2007. Se nel 2007 si era verificato un livello alto o molto alto nel 20%
dei 198 paesi presi in esame, nel 2011 tali livelli si erano attestati nel 29%
dei paesi, e nel 2012 nel 33%. L’aumento dell’ostilità sociale tra il 2011 e il
2012 è stato constatato in 4 delle 5 aree in cui il Pew Center suddivide
il mondo: l’unica area in cui c’è stata una lieve diminuzione è quella delle
Americhe, mentre l’incremento maggiore è stato rilevato nell’area del Medio
Oriente-Nord Africa. Quest’ultima regione, che è quella con livello medio
dell’indice di ostilità sociale più alto, nel 2012, su una scala di 10 punti,
ha fatto registrare un valore di 6,4 (nel 2011 era 5,4). In alcuni paesi della
zona l’aumento è stato molto vistoso: nella Libia di cui abbiamo già parlato
(da 1,9 nel 2011 a 5,4 nel 2012), in Tunisia (da 3,5 a 6,8), in Siria (da 5,8 a
8,8) e in Libano (da 5,6 a 7,9).

Prendendo in considerazione il mondo
intero, oltre ai quattro paesi dell’area Medio Oriente-Nord Africa, altri sette
hanno fatto registrare un aumento di due punti e più tra il 2011 e il 2012:
Mali, Messico, Guinea, Olanda, Madagascar, Afghanistan e Malawi. Nessun paese
al mondo ha avuto una diminuzione altrettanto cospicua.

L’incremento generale dell’indice è
stato dato dall’aumento molto forte di alcune forme di ostilità sociale: ad
esempio casi di individui aggrediti o sfollati dalle loro case per le loro
attività religiose (questo tipo di vessazione nel 2007 era stato registrato nel
24% dei paesi del mondo, nel 2011 nel 38%, e nel 2012 nel 47%). Il Pew
Center
riporta alcuni episodi emblematici avvenuti in diversi paesi: nel
Nord del Mali, per esempio, gruppi di estremisti islamici hanno condotto
esecuzioni, amputazioni, fustigazioni, distrutto chiese, vietato battesimi,
provocando la fuga di centinaia di cristiani verso la parte Sud del paese; «nello
Sri Lanka a maggioranza buddista alcuni monaci hanno attaccato luoghi di culto
musulmani e cristiani nella città di Dambulla nell’aprile 2012 ed è avvenuta
un’occupazione forzata di una chiesa degli Avventisti del settimo giorno nella
città di Deniyaya nell’agosto dello stesso anno per trasformarlo in un tempio
buddista».

Le restrizioni governative

Per quanto riguarda l’indice relativo
alle restrizioni governative della libertà di credo, il Pew Research Center
informa che non si sono registrati nel 2012 aumenti significativi. Restrizioni
elevate o molto elevate da parte delle istituzioni nazionali o locali si sono
verificate nel 29% dei 198 paesi presi in esame (28% nel 2011; 20% nel 2007).

Nell’ambito delle restrizioni
governative, nel 2012 rispetto all’anno precedente, i cambiamenti significativi
(almeno 2 punti su una scala di 10) sono avvenuti in due soli paesi: un grande
aumento di restrizioni in Rwanda, dove una legge di regolazione delle
organizzazioni religiose ha introdotto requisiti di registrazione molto
stringenti; e una grande diminuzione in Costa d’Avorio dove nel 2012 si sono
placate le violenze etnico-religiose postelettorali del 2011.

Il livello medio delle restrizioni
governative è aumentato in due delle cinque aree: in Medio Oriente-Nord Africa
e in Europa, mentre nelle Americhe è rimasto inalterato, e nelle altre due
regioni (Africa subsahariana e Asia-Pacifico) è diminuito. In particolare
l’Europa è stato il continente in cui le restrizioni governative sono aumentate
di più. L’area in cui invece sono diminuite di più è stata l’Asia-Pacifico.

Anche per le restrizioni governative
il Pew Center riporta alcuni episodi: parla ad esempio del caso di
Tuvalu, il cui governo centrale nel 2012 ha iniziato ad applicare una legge che
impedisce ai fedeli di religioni non riconosciute di riunirsi; della Tunisia,
in cui sono stati fatti dalle autorità pubbliche molti sforzi per rimuovere
alcuni imam che predicavano il salafismo.

I governi hanno usato atti di forza
contro gruppi religiosi o singoli fedeli in quasi la metà (il 48%) dei paesi
del mondo. Altro esempio è quello della Mauritania, il cui governo nell’aprile
2012 ha arrestato 12 attivisti anti-schiavitù con l’accusa di sacrilegio e
blasfemia per aver pubblicamente bruciato alcuni testi sacri considerati dagli
attivisti ispiratori dello schiavismo.

Uno sguardo d’insieme

Mettendo insieme i rilevamenti relativi
ai due indici, il Pew Center afferma che nel 2012 ci sono state
restrizioni elevate o molto elevate (sia sociali che governative) nel 43% dei
paesi (la percentuale più alta registrata dall’organizzazione in 6 anni). Data
la particolare popolosità di alcuni di questi paesi (Nigeria, India, Pakistan,
Egitto, Indonesia e così via) la porzione di popolazione mondiale che ha
vissuto il 2012 in un paese con livelli di restrizione della libertà religiosa
elevati o molto elevati è stata pari al 76% (5,3 miliardi di persone). Nel 2011
la percentuale era del 74%, nel 2007 del 68%.

Tra i 34 paesi con restrizioni molto
elevate (sociali o governative o entrambe) l’unico paese europeo presente era
la Russia (con entrambi gli indici al livello molto elevato). Tra quelli con
restrizioni elevate, i paesi europei erano 17, di cui tre – Bulgaria, Grecia e
Moldova – avevano entrambi gli indici al livello elevato, due avevano al
livello elevato solo l’indice di restrizioni governative, dodici avevano un
elevato indice di ostilità sociale (tra questi ultimi anche l’Italia).

Nel complesso le restrizioni, sia
sociali che governative, alla libertà religiosa nel mondo sono aumentate tra il
2011 e il 2012 almeno un po’ nel 61% dei paesi, e sono diminuite almeno un po’
nel 29%.

Vessazioni nei confronti di gruppi specifici

Un ultimo approfondimento cui vale la
pena accennare, è quello riguardante le vessazioni rivolte a specifici gruppi
religiosi.

I maltrattamenti nei confronti di
gruppi specifici possono avere una matrice sia sociale che istituzionale:
aggressioni fisiche, arresti e detenzioni, profanazione di luoghi sacri,
discriminazioni nel mondo del lavoro, dell’istruzione, delle possibilità di
accesso a un alloggio, aggressioni verbali, intimidazioni. Questo genere di
molestie si sono verificate, nel 2012, in 166 paesi su 198 studiati. Prendendo
in considerazione solo le tre religioni monoteiste, vessazioni nei confronti di
gruppi di musulmani sono state registrate in 109 paesi, nei confronti di gruppi
di ebrei in 71 paesi, verso i cristiani in 110 paesi.

Nel 2012, alcuni gruppi religiosi
avevano più probabilità di essere molestati dai governi che da gruppi sociali o
da privati cittadini, mentre altri avevano più probabilità di essere oggetto di
vessazioni da parte di individui o gruppi sociali che da parte di politiche
governative. Gli ebrei, per esempio hanno subito maltrattamenti sociali in 66
paesi, mentre hanno affrontato vessazioni governative in 28 paesi. Al
contrario, i membri di altre religioni del mondo, come i sikh e i baha’i, sono
stati molestati più volte dai governi (in 35 paesi) di quanto non lo siano
stati da gruppi o individui nella società (21 paesi).

Luca Lorusso
Note

1. Il Pew Forum (pewforum.org) è
un progetto del Pew Research Center, con base a Washington, finanziato
dalla Pew Charitable Trusts: un’organizzazione indipendente non-profit,
non governativa (Ong), fondata negli Usa nel 1948. Tutte le relazioni del
centro sono disponibili su www.pewresearch.org

Tags: libertà religiosa

Luca Lorusso




Luce e speranza a Marandallah

Dopo una guerra civile e dieci anni di conflitto latente la Costa
d’Avorio, ex perla dell’Africa occidentale, conosce oggi una crescita economica
sostenuta. Ma la riconciliazione nazionale e il miglioramento delle condizioni
di vita della popolazione avanzano lentamente. Mentre l’ex presidente Laurent
Gbagbo resta in carcere all’Aja e l’attuale capo di stato Alassane Ouattara
affronta in patria accuse di parzialità e inefficienza, il paese si prepara a
tornare alle ue l’anno prossimo.
I missionari della Consolata lavorano a Marandallah, nel Nordovest. Attraverso
progetti di sanità e alfabetizzazione cercano di sostenere lo sforzo di un
paese che vuole rimettersi in piedi.

Zoppicando verso le
elezioni

Laurent Gbagbo resta in prigione. È questa la decisione
della prima camera preliminare della Corte penale internazionale (Cpi)
dell’Aja lo scorso 12 marzo, in risposta alla richiesta di scarcerazione
avanzata dalla difesa del ex capo di stato della Costa d’Avorio. Gbagbo,
presidente ivoriano dal 2000 al 2010, era stato arrestato nell’aprile del 2011
insieme alla moglie Simone Ehivet Gbagbo, anche lei in seguito perseguita dalla
Cpi, dopo aver dato avvio a un’ondata di violenze per il rifiuto di lasciare il
potere al suo oppositore Alassane Dramane Ouattara, detto Ado, vincitore delle
lelezioni di fine 2010. Le violenze avevano causato la morte di circa tremila
persone e la fuga di poco meno di un milione d’ivoriani che trovarono rifugio
nei paesi limitrofi o si spostarono in aree del paese meno turbolente.

La Costa d’Avorio aveva già sperimentato un quinquennio
di conflitto fra il 2002 e il 2007, durante il quale i ribelli controllavano il
Nord del paese mentre il Sud era dominato dalle forze governative. Fra i
principali motivi del contendere c’erano il controllo del mercato del cacao e i
diritti della popolazione di origine straniera insediata da decenni nel paese (vedi
dossier sulla Costa d’Avorio in MC, marzo 2007 e febbraio 2011
). Le
elezioni del 2010 dovevano mettere fine a questa situazione di tensione dopo
che il presidente e il capo dei ribelli, Guillaume Soro, avevano accettato di
convivere in un governo di transizione – con Gbagbo presidente e Soro primo
ministro – per traghettare la Costa d’Avorio fuori dall’impasse politica. Ma
subito dopo il voto, il popolo ivoriano si è visto ripiombare nell’incubo della
guerra civile.


Rifugiati, sfollati,
apolidi, stranieri: l’eterno rompicapo della politica ivoriana

A oggi, sebbene si siano registrati diversi ritorni dei
rifugiati e degli sfollati alle loro case, la situazione rimane tutt’altro che
risolta. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, a metà 2013 i
rifugiati ivoriani erano ancora centomila, due terzi dei quali nella sola
Liberia. Il timore di subire rappresaglie e vendette una volta rientrati in
patria resta il principale motivo che spinge i rifugiati ivoriani a ritardare
il loro ritorno.

Inoltre, circa settecentomila persone risultano apolidi,
cioè prive di nazionalità. Quello della nazionalità è un problema di vecchia
data nel paese, dove poco meno di sei milioni di persone, cioè oltre un quarto
della popolazione, sono immigrati provenienti dai paesi limitrofi. Una gran
parte di questi immigrati si sono stabiliti in Costa d’Avorio molti anni fa,
attirati dalle opportunità di lavoro nelle piantagioni di cacao e in altri
settori ai tempi – erano gli anni Settanta – in cui l’economia ivoriana era il
motore della sub-regione e Abidjan, la capitale economica del paese con i suoi
grattacieli e le sue tangenziali sopraelevate, era chiamata la Manhattan dei
tropici. L’esodo dai paesi confinanti è proseguito anche negli anni successivi
al periodo d’oro, ma in moltissimi casi i migranti hanno continuato fino a oggi
a vivere in un limbo giuridico che non permette loro di godere di una serie di
diritti, fra cui quello alla terra e al voto.

Nel 2013 l’annuale studio dell’autorevole Fondazione
Mo Ibrahim
, creata dal magnate delle comunicazioni anglo-sudanese Mohamed
Ibrahim per incoraggiare il buon governo in Africa, ha collocato la Costa
d’Avorio fra i dieci stati africani che hanno avuto i risultati peggiori in
campi come i diritti umani, lo sviluppo, la sostenibilità economica e la
legalità. Diversi osservatori, inoltre, cominciano ad avanzare preoccupazione
rispetto all’imminenza delle nuove elezioni, previste per l’anno prossimo: la
pacificazione fra i gruppi in conflitto sembra ancora lontana e gli oppositori
criticano il presidente Ado accusandolo di parzialità soprattutto verso i
perpetratori dei crimini del 2010-2011, dato che in prigione ci sono solo i
sostenitori dell’ex presidente Gbagbo. La commissione indipendente che dovrebbe
aggioare le liste elettorali è stata sciolta dopo le elezioni del 2010 e non è
ancora stata ricostituita.

Nonostante un altro conflitto sembri per ora scongiurato
e la crescita del Pil sia stata pari al 8,7 per cento nel 2013, la Costa
d’Avorio conserva nelle città grosse sacche di povertà, mentre nelle zone
rurali della parte occidentale del paese il conflitto e la violenza rimangono
elementi del quotidiano.

La sanità in Costa d’Avorio

Fra le presenze dei missionari della Consolata in Costa
d’Avorio c’è quella di Marandallah, un villaggio di circa quattromila abitanti
che di fatto è il punto di riferimento per oltre trentamila persone dei
dintorni. Si trova nella regione di Worodougou, nella parte centro
settentrionale del paese, a poco meno di cinquecento chilometri da Abidjan. Con
il Nord della Costa d’Avorio, Marandallah condivide un maggior svantaggio
economico rispetto al Sud del paese e una mancanza di infrastrutture che
rendono molto difficili gli spostamenti e le comunicazioni. «La situazione dei
trasporti qui è veramente critica», scrive padre João Nascimento, uno dei
missionari. «Ci si muove quasi esclusivamente su piste sterrate piene di buche
e crepe e durante le piogge tutto si complica ulteriormente». Anche energia
elettrica e acqua potabile scarseggiano, soprattutto dopo gli scontri del
decennio 2002-2011 che hanno gravemente danneggiato gli impianti di
distribuzione e le infrastrutture.

Uno studio del 2012, effettuato su un campione nazionale
di circa diecimila famiglie dal ministero della sanità e dall’istituto di
statistica ivoriani in collaborazione con diverse agenzie ed enti inteazionali,
descrive la situazione sanitaria della zona come peggiore della media
nazionale. Per quanto riguarda la salute matea, ad esempio, se nella città di
Abidjan 97 donne su cento ricevono cure e assistenza durante la gravidanza,
nella regione Nordovest, solo 75 ne beneficiano. I parti assistiti da personale
sanitario qualificato sono l’88% a Abidjan mentre nella regione di Worodougou
ad assistere le partorienti sono le levatrici tradizionali o i familiari in
almeno un caso su due. Inoltre, la pratica delle mutilazioni genitali
femminili, con tutte le sue conseguenze dannose per la salute della donna, è
presente nel Nord e nell’Ovest del paese molto di più che nelle altre zone e
tocca circa sette donne su dieci.

Il dispensario di Marandallah

Le testimonianze dei missionari sono in linea con i dati
del rapporto: «È molto difficile trovare il personale sanitario», conferma
padre Ramón Lázaro Esnaola, responsabile del Centro sanitario cattolico Notre
Dame de la Consolata (Cscndc) di Marandallah, fondato nel 2007, «perché in
pochi sono disposti a venire a vivere in un luogo dove mancano acqua e
elettricità. Mancando la corrente, poi, diventa molto più complicato anche
offrire servizi di base come le vaccinazioni: per ottenere i vaccini occorre
infatti andare a Mankono, una città che si trova a quasi settanta chilometri da
qui e, viste le condizioni delle piste sterrate, è facile immaginare quanto
tempo, energie e denaro se ne vadano per fornire un servizio così fondamentale».

Il centro è nato per sopperire alla mancanza di copertura
sanitaria nella zona: la struttura più vicina, infatti, si trova a circa
novanta chilometri, una distanza proibitiva per la maggior parte della
popolazione locale. Il Cscndc offre servizi di medicina generale, ha una
mateità ed esegue analisi di laboratorio avvalendosi del lavoro di un medico,
un infermiere, due biotecnici, un’assistente sociale, due aiuto infermiere, tre
agenti sanitari comunitari, tre addetti alle pulizie e due guardiani nottui.
Ha dodici posti letto più altri sei nella mateità e effettua oltre tremila
consultazioni all’anno, mentre la mateità segue circa 170 parti e il reparto
chirurgia esegue più di duecento operazioni l’anno. Dal 2008 le attività
relative alla lotta all’Hiv/Aids si svolgono con il sostegno tecnico di
Icap-Costa d’Avorio, l’Inteational Centre for Aids Care and Treatment
Programs
gestito dalla statunitense Columbia University e dal
governo Usa. La cura della malnutrizione avviene con il supporto della
statunitense Father Norman Gies Foudation.

Più energia alla
salute e gli altri progetti sanitari

Nel 2013, con il sostegno di Caritas microprogetti, è
stato avviato «Più energia alla salute», un intervento per l’installazione di
un sistema fotovoltaico: «A lavori ultimati», spiega padre Ramon, «grazie
all’energia prodotta con i pannelli solari non dovremo più temere i tagli di
corrente frequenti nella zona e avremo una affidabile catena del freddo:
potremo cioè far funzionare regolarmente il frigo che ci è stato donato dal
sistema sanitario nazionale ivoriano per conservare i vaccini – senza doversi
spostare sempre fino a Mankono – e anche il sangue per le trasfusioni».

Un’altra componente dell’intervento è quella di
informatizzare la farmacia del dispensario in modo da avere un controllo più
dettagliato sullo stock e prevedere meglio i tempi e le necessità per i nuovi
acquisti. «Per procurarci i farmaci dobbiamo andare fino ad Abidjan», continua
padre Ramon. «Per questo è importante programmare il viaggio sapendo con precisione
quali farmaci devono essere reintegrati. Fare i conteggi “a vista” e segnarli
su una lista cartacea non è impossibile e lo si è sempre fatto, ma il margine
di errore e il dispendio di tempo sono molto maggiori. L’uso del computer
dovrebbe ridurre il numero di viaggi e, di conseguenza, i costi per il
mantenimento del centro».

Anche a Dianra, altro centro a una cinquantina di
chilometri da Marandallah, i missionari fanno funzionare un piccolo
dispensario. L’obiettivo per il futuro è costruire anche presso il centro
sanitario di Dianra una mateità, che per ora manca. Sono invece già attivi i
servizi di formazione del personale sanitario, svolta in cornordinamento con il
centro di Marandallah, e le missioni di visita ai villaggi che hanno
un’importanza fondamentale nella prevenzione delle malattie più comuni.

L’alfabetizzazione,
strumento per superare l’odio

Secondo lo studio a campione citato prima, la situazione
della regione di Nordovest rispetto all’alfabetizzazione è problematica tanto
quanto quella sanitaria: delle persone intervistate per la raccolta dei dati
statistici, sessantasei uomini e ottantotto donne su cento non sanno leggere né
scrivere mentre ad Abidjan – presa ancora una volta come esempio «virtuoso» –
le donne e gli uomini in questa condizione sono rispettivamente il quaranta e
il diciotto per cento. Tre quarti delle donne intervistate e circa metà degli
uomini hanno dichiarato di non avere alcun titolo di studio e di non leggere
giornali né utilizzare altre fonti di informazione. I bambini che frequentano
la scuola elementare a livello nazionale sono 68 su cento, ma nel Nordovest
sono mediamente dodici in meno.

«È vero», conferma padre João, «qui l’analfabetismo è più
diffuso che altrove. È un insieme di fattori che crea questa situazione:
l’isolamento, il fatto che la popolazione locale sia in parte di origine
straniera e mai integrata e anche, a volte, un senso di apatia e di
rassegnazione».

Grazie a fondi dell’Opera di promozione
dell’alfabetizzazione nel mondo
(Opam), padre João ha realizzato il
progetto A scuola di pace all’apatam, un intervento che prevedeva la
costruzione di sei strutture tipicamente africane note anche come paillotes,
in altrettante località intorno alla missione. Ora negli apatam si
stanno svolgendo i corsi di alfabetizzazione per gli adulti e per i bambini non
scolarizzati. La prossima tappa del progetto sarà fornire alle piccole
strutture l’illuminazione con impianti fotovoltaici, perché i corsi si tengono
quasi sempre di sera, dopo la giornata lavorativa, e un’illuminazione adeguata è
indispensabile per la buona riuscita della formazione. È previsto anche
l’acquisto di una moto che permetta all’équipe di cornordinamento di visitare le
comunità.

Oltre che all’alfabetizzazione vera e propria i corsi
serviranno anche a sensibilizzare e informare su temi come diritti umani,
diritto alla terra e riconciliazione fra comunità. «Leggere e scrivere non è
indispensabile solo per poter affrontare le attività quotidiane che comportano
la lettura o la compilazione di documenti amministrativi, ma anche per essere
in grado di comprendere meglio ciò che sta accadendo nel paese», conclude padre
João. Essere più consapevoli e più informati aiuta a sentirsi parte delle
dinamiche sociali, economiche e politiche della società in cui si vive.
L’obiettivo è dissolvere a poco a poco la paura, la diffidenza e il
risentimento e ridurre l’isolamento non solo geografico ma anche culturale in
cui la popolazione di Marandallah si trova a vivere.

Chiara Giovetti




Tags: sanità, salute, dispensario, Marandallah

Chaira Giovetti




Una donna su otto: Il tumore al seno 

Le patologie oncologiche / 1


Dopo quello del colon retto, il tumore al seno è la
patologia oncologica più diffusa. In Italia è la prima causa di morte per
tumore tra le donne. La sua incidenza dipende da un insieme di fattori:
ereditari, socio ambientali e comportamentali (gravidanza, alimentazione, fumo,
alcol). La buona notizia è che, negli ultimi anni, il tasso di sopravvivenza è
migliorato.

In questo tempo di crisi economica e di continui tagli alla sanità
pubblica sono in costante aumento coloro che non riescono a curarsi
adeguatamente. Questo fatto potrebbe avere conseguenze molto pesanti per chi è
costretto a fronteggiare patologie oncologiche, che tendono a essere sempre più
diffuse tra la popolazione e che – oltre a tutto ciò che comportano – hanno un
grosso impatto economico sui malati e sulle loro famiglie. Tra queste patologie
c’è il cancro della mammella, la cui incidenza è in costante aumento e i cui
costi – stimati per 2,5 anni di malattia – sono di circa 15.500 euro procapite
a carico del sistema sanitario nazionale (tra interventi chirurgici,
chemioterapia e radioterapia) e tra 24.800-28.500 euro a carico della paziente,
se si considerano i costi delle spese mediche (14% del totale di visite
specialistiche, esami di laboratorio, fisioterapia, riabilitazione, farmaci e
chirurgia plastica ricostruttiva), dei presidi sanitari (80% a carico della
paziente), dall’assunzione temporanea di persone per aiuti domestici e di una
possibile riduzione del reddito da lavoro tra il 10 ed il 40%.

Per capire meglio l’impatto sociale di questa
malattia, vediamo quali sono i suoi numeri, le sue caratteristiche e come viene
attualmente affrontata.

Secondo i dati dell’«Associazione italiana di oncologia medica»
(www.aiom.it) e dell’«Associazione italiana registri tumori»
(www.registri-tumori.it), se esaminiamo la prevalenza in Italia di questo
tumore, cioè il numero di donne malate in un determinato anno, vediamo che si è
passati da 48.200 nel 1970 a 490.000 nel 2010. Certamente questo dato è
influenzato da una diagnostica più accurata, ma l’incremento è comunque
rilevante. Attualmente è a rischio di
ammalarsi una donna su 8 (www.airc.it) e una su 50 rischia di morire per questo
tumore. Peraltro è migliorato il tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla
diagnosi, essendo passati dall’81% nel 1990 all’ 85-87% attuale. In Italia il
tumore del seno è la prima causa di morte per tumore tra le donne, mentre nella
popolazione totale è il secondo tumore più frequente, essendo primo quello del
colon retto e terzo quello del polmone. Nella popolazione femminile italiana,
il tumore del seno rappresenta ora il 28,9% di tutti i tumori, contro il 26,7%
degli anni ’90 ed il 18,4% degli anni ’80. Ogni anno ci sono circa 48.000 nuovi
casi – cifra quadruplicata dal 1970 (11.600) – e muoiono circa 13.000 donne. Le
più colpite sono le donne oltre i 64 anni (40% dei casi di tumore), mentre
abbiamo il 30% dei casi nella fascia 50-64 anni e il 20-30% dei casi sotto i 50
anni. Le donne colpite prima dei 40 anni sono il 5-7% dei casi. Si stima che le
donne attualmente malate siano circa 522.000. Anche gli uomini possono
ammalarsi di cancro al seno, sebbene molto più raramente (è a rischio un uomo
su 521), tranne in alcune regioni dell’Africa, in cui l’incidenza di questo
tumore tra gli uomini è più elevata che altrove. 

I tipi di tumore mammario sono molteplici. La maggiore frequenza di
questo tumore si riscontra nei paesi più industrializzati, con l’eccezione del
Giappone. Nell’America del Nord e nell’Europa occidentale, esso rappresenta un
cancro su 4 tra le donne, mentre in aree a basso rischio come la Cina e il
Giappone rappresenta rispettivamente un cancro su 8 ed uno su 16. I tassi di
incidenza più elevati sono quelli delle donne hawaiane (93,9 su 100.000) e
delle donne bianche statunitensi (70-90 su 100.000). Nel resto dei paesi
industrializzati tranne il Giappone, nel Sud del Brasile ed in Argentina ci
sono tassi di 60-90 su 100.000. Nell’America del Sud, tranne i paesi succitati,
e nell’Europa orientale e meridionale i tassi sono intermedi (40-60 su
100.000), nell’America centrale e tropicale del Sud, in Africa ed in Asia sono
bassi (meno di 40 su 100.000). L’incidenza di questo tumore aumenta con l’età
della donna , dai 30 ai 70 anni, con una flessione tra i 45-54 anni, cioè
nell’età della menopausa. Si possono osservare notevoli variazioni del rischio
all’interno di uno stesso paese in base a fattori sociodemografici come
l’etnia, la classe sociale, lo stato civile e la regione di residenza. Ad
esempio, in Israele l’incidenza di questo tumore è alta tra le donne ebree e
bassa tra le non ebree, mentre alle Hawaii è alta tra le hawaiane e bassa tra
le filippine. Già dal 1700, grazie alle osservazioni di Beardino Ramazzini
(1633-1714) sulle suore, si sa che questo tumore è più frequente tra le donne
nubili (50% di rischio in più), che tra quelle sposate. Inoltre è un tumore più
frequente nelle aree urbane, che in quelle rurali e tra le donne di più elevato
ceto sociale. Si capisce che i fattori ambientali sono importanti
nell’eziologia del cancro della mammella dalle variazioni del rischio nelle
popolazioni migranti, comunque influenzate dall’etnia di appartenenza. Ad esempio,
i tassi d’incidenza di questo tumore tra gli europei emigrati negli Stati Uniti
variano con relativa rapidità, diventando presto simili a quelli degli
statunitensi, mentre quelli delle popolazioni provenienti da Cina e Giappone
variano anch’essi, ma molto più lentamente. Tale differenza può essere
ascrivibile a un minore adattamento delle popolazioni orientali alle abitudini
alimentari e riproduttive statunitensi.

Diversi studi hanno evidenziato una
correlazione tra tassi di incidenza e di mortalità del carcinoma della mammella
e assunzione di grassi,  proteine di
origine animale e di calorie totali.

Alcune variazioni nell’incidenza del
carcinoma mammario sono sicuramente in relazione con il comportamento
riproduttivo, come il numero di figli per donna e l’età della prima gravidanza.
Da tempo si sospetta che un basso numero di gravidanze sia uno dei maggiori
fattori di rischio per il cancro della mammella. Uno studio compiuto da
MacMahon nel 1970 ha evidenziato che è anche importante l’età della donna alla
prima gravidanza portata a termine. Il rischio di contrarre il tumore è infatti
circa doppio nelle nullipare e nelle donne con la prima gravidanza a 30 anni e
oltre, rispetto a quelle che hanno avuto il primo figlio prima dei 20 anni.
Pare inoltre che il rischio per le donne con la prima gravidanza oltre il 35
anni sia superiore a quello delle nullipare. Altri studi hanno rilevato che
qualunque gravidanza condotta a termine prima dei 35 anni ha effetto
protettivo, mentre le altre aumentano il rischio. Inoltre l’effetto protettivo
di una gravidanza precoce si manifesta solo se essa è portata a termine, mentre
vi sarebbe un aumento del rischio in relazione all’aborto (sia spontaneo, che
procurato). Questo potrebbe volere dire che la prima parte della gravidanza
aumenta il rischio di tumore, mentre il suo completamento lo contrasta. Altri
studi sono giunti alla conclusione che anche l’allattamento può avere un
effetto protettivo, diminuendo del 50% il rischio nelle donne prima della
menopausa, ma non dopo. Sembra che un periodo critico per il rischio di
contrarre questo tumore siano gli anni immediatamente seguenti una gravidanza.
Probabilmente, oltre all’età e al numero delle gravidanze, entrano in gioco
altri fattori, come la classe sociale, le differenze culturali, le variazioni
nell’utilizzo della pillola contraccettiva. Per quanto riguarda quest’ultima,
così come nel caso della Tos (Terapia ormonale sostitutiva in menopausa), si
tratta di associazioni estro-progestiniche, che possono stimolare la crescita
di tumori endocrino-responsivi, come sono alcuni tipi di tumore mammario.
Secondo diversi studi, la pillola anticoncezionale (soprattutto nelle vecchie
formulazioni ad alto dosaggio) aumenta leggermente il rischio di questo tumore,
ma risulta protettiva nei confronti di quelli dell’ovaio e dell’endometrio.
Nelle donne che hanno assunto la pillola sembra esserci anche una diminuzione
nell’incidenza del tumore del colon, mentre aumenterebbe leggermente quella del
tumore della cervice. Le nuove formulazioni a base di estradiolo e nomegestrolo
sembrano avere minori effetti sul tessuto mammario, in termini di rischio. Un
aumento del rischio di tumore mammario è risultato essere correlato alla
terapia ormonale sostitutiva somministrata in menopausa, al fine di contrastare
gli effetti della fisiologica riduzione degli ormoni sessuali. Alcuni dati
epidemiologici hanno dimostrato un aumento del rischio di carcinoma mammario
sia a seguito della somministrazione esogena di estrogeni con la Tos, sia nel
caso dell’aumentata conversione periferica di androgeni surrenalici in
estrogeni, nelle donne obese. Dopo la menopausa, la maggiore fonte di estrogeni
è il tessuto adiposo, infatti molti studi hanno dimostrato che il rischio di
tumore mammario è superiore nelle donne in menopausa in sovrappeso oppure
obese, rispetto alle normopeso. Altri fattori che aumentano il rischio di
carcinoma mammario sono il menarca precoce e la menopausa dopo i 55 anni.
Secondo vari studi, ogni anno di ritardo nella comparsa del menarca ridurrebbe
il rischio di tumore mammario del 20%, mentre le donne che entrano in menopausa
prima dei 45 anni avrebbero un rischio inferiore del 50%, rispetto a quelle che
presentano la menopausa dopo i 55 anni.

Diversi studi hanno evidenziato che il consumo di oltre 30 grammi al
giorno di alcol è associato ad un aumento del rischio di carcinoma mammario di
1,5-2 volte, indipendentemente dal tipo di bevanda. In ogni caso i tumori
mammari ascrivibili al consumo di alcol sarebbero circa il 5% del totale. Le
radiazioni ionizzanti sono un altro fattore di rischio per questo tumore, che è
risultato elevato tra le donne sopravvissute alla bomba atomica e
all’esplosione della centrale nucleare di Cheobyl nel 1986, tra le pazienti
trattate con raggi X per una mastite post-partum e tra le pazienti sottoposte a
molteplici fluoroscopie, nel corso della cura per la tubercolosi.

Esiste una percentuale di popolazione intorno
allo 0,1-0,6%, che presenta mutazioni genetiche a carico dei geni BRCA1, BRCA2,
HER2 e p53.  Si stima che nei Paesi
occidentali, il 10% dei tumori mammari sia ascrivibile ad una o più di queste
mutazioni. Ciò significa che nelle famiglie in cui si sono verificati più casi
di tumore mammario, è consigliabile effettuare un test genetico, per
predisporre un piano di prevenzione accurato, dal momento che avere una parente
di primo grado (madre, sorella, figlia) con una storia di carcinoma mammario
aumenta il rischio di contrarre il tumore di circa l’80%, avere due parenti
colpite lo aumenta di circa 3 volte e con 3 o più parenti colpite, il rischio
diventa quadruplo, rispetto a quello della popolazione generale. La mutazione
del gene BRCA1 accresce maggiormente il rischio di tumore mammario, mentre
quella del gene BRCA2 è meno legata all’aumento di rischio del tumore mammario,
ma si correla a quelli per tumore ovarico, delle tube, di melanoma e,
nell’uomo, della prostata. La positività per mutazioni a carico del gene BRCA1
ha recentemente indotto Angelina Jolie, attrice di fama internazionale, a
sottoporsi alla mastectomia radicale bilaterale preventiva, seguita da
chirurgia plastica ricostruttiva, al fine di scongiurare l’insorgenza del
tumore, che aveva già ucciso in passato sua madre e sua sorella. L’attrice ha
inoltre annunciato che sta per sottoporsi anche all’asportazione preventiva
delle ovaie. Va detto che la mastectomia preventiva riduce il rischio di tumore
mammario al 5%, ma non lo azzera completamente, data l’impossibilità di essere
certi di avere asportato tutto il tessuto mammario (la mammella non ha confini
netti). Sebbene nessuna alternativa sia in grado di abbattere il rischio come
la mastectomia preventiva, tuttavia si possono percorrere altre strade come il
monitoraggio intensivo con mammografia e risonanza magnetica ogni anno a
partire dai 30 anni, eventualmente inframmezzate da ecografia ogni 6 mesi dopo
i 40 anni. Possono essere somministrati farmaci che bloccano gli effetti degli
estrogeni sulla mammella, come il tamoxifene, che diminuisce il rischio di
tumore al 25-40%, anche se induce una menopausa precoce. Un’altra possibile
strategia è l’asportazione delle sole ovaie, per ridurre la produzione di
estrogeni, senza modificare l’immagine corporea.

Altri importanti
fattori di rischio
per il carcinoma mammario sono gli inquinanti ambientali.
Tra questi è stata dimostrata una correlazione tra Pcb (policlorobifenili) ed
aumento del 2-4% del rischio di questo tumore. I Pcb, la cui produzione è stata
vietata negli Stati Uniti nel 1970, sono stati largamente usati in passato come
ritardanti di fiamma nelle apparecchiature elettriche e nella produzione di
materiali da costruzione come calce e veici. Purtroppo, essi sono stati
riversati come materiali di scarto in grandi quantità nei fiumi adiacenti alle
aree industriali, passando in tal modo nei pesci e da qui nel tessuto adiposo
umano e nel latte materno. Alcuni studi hanno dimostrato la correlazione tra
Pcb e forme tumorali mammarie più aggressive. Altri pericolosi inquinanti
ambientali che aumentano il rischio di cancro mammario sono gli idrocarburi aromatici
policiclici (Pca), che si ritrovano nei gas di scarico veicolari, nei cibi
grigliati ed affumicati, nel fumo di tabacco e nei fumi delle centrali
elettriche. È stata dimostrata una correlazione tra il fumo di sigaretta e
l’aumento di rischio di tumore mammario nelle donne giovani. Un altro
pericolosissimo prodotto di combustione legato a diverse forme di tumori, tra
cui quello mammario, è la diossina (liberata da inceneritori, acciaierie,
cementifici), a cui l’essere umano viene esposto attraverso il latte, il pesce
e la carne. Infine tra gli inquinanti ambientali che fanno aumentare il rischio
di tumore mammario ci sono i solventi organici usati nelle lavanderie a secco,
nei saloni di bellezza, nei negozi di macchine, per cui l’esposizione avviene
sia sul posto di lavoro, che utilizzando i prodotti di consumo. Poiché è
dimostrato il ruolo degli inquinanti ambientali nell’aumento del rischio di
tumore mammario, politiche di bonifica ambientale dovrebbero essere una priorità
assoluta di salute pubblica.

La prevenzione del tumore mammario, che viene attualmente
effettuata mediante mammografia, ecografia e autopalpazione è in realtà solo di
tipo secondario, cioè serve soltanto a individuare forme tumorali già in atto.
Ciò a cui bisogna tendere è invece prevenire la formazione del tumore con un
miglioramento dell’ambiente di vita e di lavoro, eliminando tutte quelle
sostanze o agenti fisici potenzialmente cancerogeni. 

Rosanna Novara
Topino


Il Seno

Il seno è costituito da un insieme di
ghiandole e tessuto adiposo ed è posto tra la pelle e la parete del torace. In
realtà non è una ghiandola sola, ma un insieme di strutture ghiandolari,
chiamate lobuli, unite tra loro a formare un lobo. Il tumore al seno è una
malattia potenzialmente grave se non è individuata e curata per tempo. È dovuto
alla moltiplicazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria
che si trasformano in cellule maligne. Ciò significa che hanno la capacità di
staccarsi dal tessuto che le ha generate per invadere i tessuti circostanti e,
col tempo, anche gli altri organi del corpo. Sono due i tipi di cancro del
seno: le forme non invasive e quelle invasive. Le forme non invasive sono le
seguenti: neoplasia duttale intraepiteliale (carcinoma in situ); neoplasia
lobulare intraepiteliale, entrambe con vari gradi. Le forme invasive sono: il
carcinoma duttale, quando supera la parete del dotto, rappresenta tra il 70 e
l’80 per cento di tutte le forme di cancro del seno; il carcinoma lobulare:
quando il tumore supera la parete del lobulo, può colpire contemporaneamente
ambedue i seni o comparire in più punti nello stesso seno.

Altre forme di carcinoma meno frequenti sono il carcinoma
tubulare, papillare, mucinoso, cribriforme. Hanno prognosi favorevole. (www.airc.it)

Glossario

Incidenza: numero di nuovi casi riscontrati in un anno in
un certo paese, nel mondo, ecc.
Tumore:
si intende una neoplasia, qualcosa di insorto ex
novo; puó essere benigno o maligno.
Cancro:
è una definizione generale, che riguarda ogni
tipo di tumore maligno.
Carcinoma:
è il cancro dei tessuti di origine epiteliale,
di cui la mammella fa parte, come tutte le ghiandole.
Menarca:
è il primo flusso mestruale della donna, che
rappresenta l’inizio del periodo fertile.
Nullipara:
donna che non ha mai partorito.
Mastectomia:
è l’asportazione chirurgica della mammella.
BRCA:
geni coinvolti nel tumore mammario.

tags: salute, seno, oncologia, tumore, patologie

Rosanna Novara Topino




«La morte non esiste»

Eugenio Susani, tra i «padri» della Cooperazione in Africa


Negli anni Sessanta nascevano le prime Ong in Italia. E
partivano i primi volontari. In quell’epoca si era un po’ pionieri della
cooperazione. Così è stato Eugenio Susani. Tra i primi a partire e cofondatore
di due importanti associazioni. Una vita dedicata all’Africa e al suo sviluppo.
Ma in modo non invasivo. Una figura, una storia, che ha ancora molto da
insegnarci.

«Eugenio Susani ci ha lasciato in una calda giornata di
agosto. Lo avevamo sentito al telefono qualche giorno prima; con voce
affaticata ma ferma ci aveva semplicemente detto: “Sto male. Speriamo di
poterci rivedere per la nostra solita passeggiata. Ma in questo momento non
sono in grado di prevedere nulla”. Poi le cose sono precipitate. In quelle
parole ritrovo tutta la personalità di Eugenio: la sua sobrietà, il suo odio
per la retorica, che non si smentisce neppure di fronte alle circostanze estreme.
Il suo stile asciutto, oggettivo, essenziale». Chi scrive è Riccardo Borghi,
già assessore alla cultura al comune di Opera e ora presidente della Unitre
locale. Borghi firma la postfazione del libro «All’ombra del baobab. Racconti
di un volontario in Africa», raccolta di storie vissute e pensieri di Eugenio
Susani.

Amico
dell’autore, ne fissa alcuni tratti essenziali: «Eugenio era uomo di grande
rigore intellettuale, ma altresì capace di grandi passioni civili. (…) Quando
ho conosciuto Eugenio, il primo pensiero è stato: “Ecco un vero illuminista”.
Tale era la sua volontà di conoscenza, la concretezza, l’entusiasmo per
l’azione razionale che trasforma la realtà, la propensione a trasmettere il
proprio sapere agli altri. Era, in verità, un’intuizione alquanto
approssimativa, ma che coglieva aspetti essenziali e nobili della sua
personalità, e dunque in qualche modo “vera”».

Tra i primi volontari

Eugenio
Susani, classe 1938, si interessò presto ai problemi del sottosviluppo e nel
1964 partecipò alla fondazione dell’Ong Mani Tese, per la quale in seguito fu
segretario nazionale (dal ’69 al ’70).

Ma è nel 1966 la scoperta
dell’Africa, quando Eugenio partì come volontario per l’Ong Coopi, fondata da
padre Vincenzo Barbieri. Arrivato a Kambia in Sierra Leone, per tre anni insegnò
lingua e letteratura francese al liceo Kolenten, gestito dai missionari
Saveriani. Erano gli anni in cui in Italia nascevano le Ong e la Cooperazione
internazionale, ai suoi albori, aveva ancora molto di militante e di
missionario. Erano i primissimi progetti al Sud ed Eugenio fu tra i primi a
partire. L’atmosfera era quella euforica della sperimentazione di qualcosa di
completamente nuovo.

Note di strada

Dai primi appunti di Eugenio
Susani da Kambia: «(…) come nel resto del paese, non esiste il municipio. Non
c’è un luogo dove il singolo cittadino possa rivolgersi per avere assistenza o
il semplice riconoscimento del proprio diritto. A dirla tutta, non ci sono
nemmeno diritti, perché tutto dipende dagli umori del momento di un’unica
persona (e dal grado di importanza del richiedente): il capo villaggio, lo chef coutumier, ossia colui che gestisce la
vita di tutti. Eppure la gente è tranquilla, serena. O almeno così pare…».

«Eugenio non smetteva di
stupirsi del fatto che, seppure nella povertà e talvolta nella miseria, gli
africani mostrassero serenità e gioia di vivere». Chi parla è Ferruccio Stella,
che fu stretto collaboratore di Susani nell’Ong Iscos (Istituto Sindacale per
la cooperazione allo sviluppo), l’organismo per la cooperazione del sindacato
Cisl. Susani ne è stato tra i fondatori nel 1983, e vi lavorò occupandosi dei
progetti in Africa fino al 1994, quando si ritirò.

Partecipazione e formazione

Ricorda Ferruccio: «Era un
grande contrattualista e negoziatore, riusciva a creare dei rapporti con i
locali di livello paritario. La sua sfida era sempre quella di convincere le
controparti africane ascoltando le loro idee e i loro problemi. Non imponeva
mai una sua logica di impostazione dominante, da finanziatore, anzi, il suo
credo era: “Coinvolgere il più possibile il partner locale, renderlo attore
primo delle attività e degli interventi di cooperazione nei progetti”. Lavorava
affinché gli africani diventassero non solo partecipi e paritari nella
preparazione dei progetti, ma anche autonomi in vista della continuazione
dell’attività dopo il progetto». Avvicinatosi a questo mondo grazie a Eugenio,
Ferruccio, oggi anche lui in pensione, svolse tre anni come volontario in
Senegal. Rientrato in Italia, continuò a lavorare in Iscos con Susani e ne
prese poi il testimone.

Continua
Ferruccio: «Un altro elemento fondante per Eugenio era la formazione. Non c’era
progetto senza un adeguato programma formativo, in tutti i sensi: gestione,
organizzazione, amministrazione, fino all’alfabetizzazione. Aveva il desiderio
che coloro che partecipavano e non avevano cultura scolastica, potessero
farsela grazie al progetto. Questo affinché la gente coinvolta fosse cosciente
e potesse poi gestire direttamente le attività».

Chi lo ha conosciuto ricorda
il suo «Amore per l’Africa», che non è «Mal d’Africa» sostiene Ferruccio. «Eugenio
era affascinato dalla lettura della cultura locale e aveva una capacità di
analisi delle cose africane che derivava dalla sua sensibilità nel cogliere la
realtà. E un talento nell’esprimere bene quello che lui riusciva a vivere».

Scrive Borghi: «(…) nel
complesso, credo che raramente un occidentale abbia dimostrato una così totale
capacità di immergersi e immedesimarsi nella cultura profonda di popoli
lontani. Eugenio, che non amava le ostentazioni di antimperialismo ideologico
cui tanti intellettuali da salotto ci hanno abituato, con la sua vita e i suoi
scritti ci ha lasciato un esempio alto di antimperialismo vissuto, di amore
integrale per gli oppressi del mondo, di dedizione a un ideale pratico di
giustizia e di emancipazione. In lui il gusto della vita semplice, l’amore per
gli uomini si fa spesso poesia».

Mai imporre

Come operatore della
cooperazione, come occidentale che porta conoscenze e finanziamenti per
realizzare progetti nel Sud del mondo, Eugenio si trovava spesso di fronte al
dilemma di come intervenire per migliorare la situazione nel rispetto della
cultura locale, senza imporre una cultura «altra». «Eugenio aveva il massimo
rispetto delle culture e non voleva imporre niente. Intervenire senza
distruggere la cultura tradizionale, se possibile dando strumenti per vivere
meglio la loro cultura locale. Questo è un grande insegnamento che mi ha dato e
che è sempre valido per i giovani di oggi» ricorda Ferruccio.

Forse anche per questo era
molto apprezzato dagli africani: «Non ho mai sentito critiche osservazioni
contro il suo atteggiamento, anche quando c’erano dei conflitti. Eugenio
affrontava il conflitto con caparbietà e con l’obiettivo di risolverlo
attraverso il confronto e la discussione per trovare una soluzione concordata.
Il conflitto veniva superato e i locali lo rispettavano molto per questa sua
capacità di negoziatore e di affrontare il problema senza lasciarlo in sospeso.
Talvolta optava per lasciare passare un po’ di tempo, ma non voleva mai imporre
soluzioni».

Continua Ferruccio Stella: «Spesso
nei progetti di sviluppo, chi ha un ruolo di responsabilità o potere nel
territorio in cui si lavora cerca di orientare le risorse per soddisfare i
propri interessi. Su questo Eugenio era rigido e ciò era causa di conflitti con
funzionari e capi villaggio. Il suo insegnamento è stato di combattere
qualsiasi realizzazione che non andasse nel senso di una totale correttezza
nell’utilizzo dei fondi».

Racconta
l’imprenditore Luciano Cervone, coinvolto in un progetto in Senegal: «Ricordo
di Eugenio le sorde e diutue battaglie per garantire l’onesta e l’appropriata
utilizzazione dei fondi stanziati, sottraendoli alle manomissioni e alle
pretese delle locali burocrazie.

Dopo i suoi incontri-scontri
con i vertici locali diceva: “La battaglia si combatte sempre per l’enveloppe (letteralmente la busta, cioè i
fondi, ndr) e per chi deve gestirla”. Ma non l’ho mai visto scoraggiato anzi
era sempre animato da una fiducia e da una perseveranza che mostravano il suo
“amore evangelico” per quelle popolazioni e per quel continente».

Scelte di vita

Liviana Susani, moglie di
Eugenio, ci racconta come in famiglia fecero scelte coraggiose e generose. «Decidemmo
di fare un’adozione e nel 1981 partimmo per l’Ecuador. Qui Manuel entrò a far
parte della nostra famiglia. Mi ricordo che il paese era in guerra con il Perù,
per cui le preoccupazioni non mancarono. Ma poi tutto andò bene. Anche in
seguito».

Una volta ritirato dal lavoro
nella cooperazione internazionale, Eugenio non si allontanò dalla lotta per i
diritti civili. A Opera dove viveva, divenne l’anima di un movimento contro
l’azienda Jelly Wax che stoccava rifiuti tossici sul territorio comunale. La
società interruppe l’attività. In seguito si candidò e fu eletto consigliere
comunale, ruolo che ricoprì per una legislatura (2003-08).

La sua
ultima impresa fu la fondazione, insieme ad alcuni intellettuali di Opera, tra
cui sua moglie e lo stesso Riccardo Borghi, della sezione locale della
Università delle tre età (Unitre). Era il 2006. In questo ambito teneva lezioni
sull’Africa: tradizioni, problemi socio-economici e politici, colonialismo e
neocolonialismo, guerre, aiuti umanitari, cooperazione. Ferruccio Stella: «Quello
che sapeva non se lo teneva per sé. Cercava in tutti i modi di trasmetterlo
agli altri, ai giovani. Lo ha sempre fatto. E con la Unitre rese questa dote
ancora più concreta».

Secondo Borghi, Eugenio aveva
una: «“Concezione quasi sacra dell’istruzione” e della cultura, l’impossibilità
di vedere la teoria disgiunta dall’azione con essa coerente, l’atteggiamento
antidogmatico e, nello stesso tempo, il grande rispetto per le tradizioni
radicate nel tempo e nell’adesione popolare. Eugenio vede l’immobilismo che
soffoca il continente, lotta per il cambiamento e il progresso, ma
“l’importante – pensa – è che il cambiamento avvenga senza sciupare quei valori
di fondo, che rendono ancora oggi così vitale la società africana”. In questo
passaggio è racchiuso il senso della vita e della politica di Eugenio».

Dentro la cultura

Eugenio amava penetrare nella
cultura africana, cercare di capire. E spesso i suoi «maestri» erano vecchi
saggi, che lui si prendeva il tempo di ascoltare. Come il vecchio Assane, che
racconta nel suo libro. «Passiamo qualche tempo in silenzio, poi chiedo: “Cos’è
la morte per te, Assane?”. “La morte non esiste” è la sua risposta. “Allora la
tua storia non è vera” lo provoco. “I miti sono miti, amico mio. Servono a
rendere la vita più sopportabile alla gente. Talvolta servono per dire una
verità. Ma, in genere, non bisogna prenderli troppo sul serio”. “Eppure la
gente muore. Perché dici che la morte non esiste?”. Assane, i gomiti appoggiati
sulle ginocchia, la testa tra le mani, resta di nuovo in silenzio. Poi riprende
col tono di sempre, la voce lenta, pesando le parole come se parlasse a se
stesso, forse vedendo qualcosa che io non vedo. “Muoiono i corpi. Non le
persone. La realtà è più grande di quello che vedono gli occhi”».

Marco Bello

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Tags: volontariato, cooperazione, Susani

Marco Bello




Silenzio sulla guerra

Incontro con padre Pizzaballa


Di Siria si parla molto meno di qualche mese fa. Ma i
problemi generati dalla guerra civile sono ancora insoluti. In queste pagine
Piergiorgio Pescali parla della situazione siriana con padre Pizzaballa, francescano,
«custode di Terrasanta» dal maggio 2004. L’intervista è parte di un libro in
via di pubblicazione.

«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il meno
possibile. Quindi io, ora, davanti a lei, sto contravvenendo a questa stessa
scelta».

Padre Pierbattista Pizzaballa sorride mentre si aggiusta il
saio francescano. Lui, «custode di Terrasanta», è impegnato a mantenere viva
l’attenzione verso la Siria. Lo abbiamo incontrato per porgli alcune domande*.

Dopo l’accordo per la distruzione delle armi chimiche di
Assad (settembre 2013), si è arrivati a scongiurare il pericolo di un
intervento militare internazionale diretto da parte dell’Europa e degli Usa
(che forse non erano neppure troppo convinti). Si è però assistito anche a un
allontanamento della Siria dall’attenzione mediatica. Questo da una parte ha
favorito l’incancrenirsi del conflitto, dall’altra ha permesso ai paesi
coinvolti – Turchia, Arabia Saudita, Qatar – di avere mano libera nelle loro
politiche di intervento. Padre Pizzaballa, cosa sta accadendo in Siria?

«In realtà in Siria non è cambiato molto rispetto ai
tempi in cui se ne parlava. Cambia sul territorio la forza dei vari movimenti a
seconda dei periodi, ma la situazione generale è immutata. Parte del territorio
è sotto controllo governativo, parte sotto quello dei ribelli. E i ribelli sono
una galassia indefinita di movimenti e sigle. A volte sono semplici bande
criminali che utilizzano varie coperture per compiere scorrerie e ruberie.

Risulta sempre più evidente che tra questi ribelli ci
sono frange di stampo fondamentalista, che creano problemi a tutto ciò che si
differenzia da loro. Ci sono, infine, milioni di profughi all’esterno e
all’interno del paese».

Le frange fondamentaliste sono formate da siriani o da
stranieri?

«In gran parte si tratta di stranieri. Provengono da
Cecenia, Pakistan, Egitto, Libia, Afghanistan. Sono persone abbruttite dalla
guerra, che hanno partecipato a tutti i conflitti di questi ultimi anni. Sono
persone abituate alla violenza, che è divenuta il loro pane quotidiano. Sono
persone che devono vivere, quindi saccheggiano; che devono fare sesso, quindi
stuprano.

All’inizio la rivolta non era questa: era una rivolta più
popolare, pacifica, politica. Poi è degenerata in violenza».

Chi sostiene, finanzia, appoggia queste frange
estremiste?

«Non posso dire con sicurezza chi siano le organizzazioni
e i governi che le appoggiano, ma possiamo sicuramente vedere da dove entrano:
dal Libano, forse anche dalla Giordania, ma soprattutto dal Nord, Turchia ed
Iraq.

Certamente godono dell’appoggio di Turchia, Arabia
Saudita, Qatar, ma anche di alcuni paesi occidentali, in particolare quelli che
hanno adottato la politica dell’anti-Assad a tutti i costi».

Come
sempre è il popolo che subisce le conseguenze di questi giochi politici. Come
vivono i siriani?

«Il
popolo è la prima vittima di una guerra entro la quale saranno ridefiniti gli
equilibri non solo della Siria, ma di tutta la regione mediorientale. Esiste,
certamente, una divisione anche tra la gente: c’è chi sta da una parte, chi sta
dall’altra. La maggioranza della popolazione vuole vivere tranquillamente la
propria vita quotidiana. Spesso, però, a causa della guerra si trova a dover
scegliere da che parte stare. Volente o nolente deve comunque fare una scelta.
Questa è la violenza della guerra siriana».

La separazione tra alauiti pro Assad da una parte e
salafiti-sunniti dall’altra rispecchia effettivamente l’attuale scacchiere
della guerra civile siriana?

«La
realtà siriana, come tutte quelle mediorientali, è una realtà complessa.
Possiamo, anzi, affermare che la complessità è ciò che caratterizza la vita di
tutti i mediorientali e, oggi in particolare, dei siriani. Quindi, tutte le
semplificazioni che, per vari motivi, vengono fatte hanno poco senso e
contengono imprecisioni e ingiustizie. È anche vero, però, che quando devi
presentare la complessità sei costretto a semplificare, altrimenti non riesci
più a farti capire. Diciamo, quindi, che grosso modo è così, anche se tra gli
alauiti ci sono persone che contrastano il regime e, viceversa, tra i sunniti
ci sono coloro che appoggiano Assad. Non è, come si può capire, facile
distinguere nettamente chi è da una parte e chi dall’altra».

Un embargo contro la Siria esiste di già, ma Europa e
Stati Uniti vorrebbero rafforzarlo. I francescani, così come la Chiesa
cattolica, sono sempre stati contrari all’embargo, e non solo della Siria.
Quale altro tipo di pressione è possibile fare?

«In genere l’embargo colpisce la popolazione povera, non
certo chi ha i mezzi e il potere. Siamo sicuramente favorevoli all’embargo
delle armi: se c’è gente che spara è perché qualcuno produce le armi, le vende
e le distribuisce. Siamo, invece, contrari all’embargo su alimentari,
medicinali, energia. Cos’altro si può fare, onestamente, non lo so. Non vedo
delle soluzioni semplici. La situazione è talmente degenerata, le ferite sono
talmente profonde che attualmente non vedo alcuna possibilità di pacificazione.
Spero, comunque, di sbagliare».

Israele
in questo contesto dove sta, cosa fa, cosa spera di ottenere?

«Credo che per Israele cambi poco. Chiunque andrà al
potere in Siria sarà comunque anti-israeliano».

Assad, comunque, al di là dei proclami, non ha mai dato
problemi a Israele. Quindi potrebbe, alla fin fine, rappresentare il male
minore.

«Assad è, per Israele, una bestia conosciuta. Penso che
qualcuno in Israele speri di continuare a confrontarsi con ciò che già conosce,
piuttosto che trovarsi a dover affrontare una nuova realtà».


E i cristiani in tutto questo dove stanno e come vivono?

«I
cristiani non sono un popolo a parte. Lo dico sempre. I cristiani sono siriani
come lo sono gli alauiti, i sunniti, i salafiti, gli sciiti. E, quindi, anche i
cristiani sono coinvolti nella guerra con tutte le sue sfaccettature. Ci sono
cristiani pro-Assad e cristiani contro Assad».

I cristiani sono comunque una minoranza all’interno della
Siria e sono concentrati in regioni, quelle settentrionali, dove i gruppi
estremisti di cui parlava in precedenza, sono più attivi. Sono, quindi, più
esposti alla violenza.

«Bisogna fare attenzione a non generalizzare. La guerra
distrugge tutto: chiese come moschee».

E i francescani?

«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il
meno possibile (quindi io, ora, davanti
a lei, sto contravvenendo a questa stessa scelta). Non perché abbiamo paura.
Noi non abbiamo paura di niente e di nessuno, ma solo perché siamo di fronte a
una situazione talmente complessa che fare dichiarazioni, specie se di parte,
serve a poco. Abbiamo fatto semplicemente la scelta di stare con la nostra
gente e aiutarla nei bisogni quotidiani. In questa guerra non c’è una parte
giusta e una sbagliata. Abbiamo, quindi, scelto di stare al nostro posto: con
la popolazione. Non potremo forse portare la pace, ma potremo consolare
qualcuno».


Ci sono diversi religiosi nelle mani dei ribelli, tra cui
il vescovo ortodosso di Aleppo, Boulos al-Yazigi, il siriaco ortodosso Youhanna
Ibrahim e padre Paolo Dall’Oglio. Si sa qualcosa di loro?

«No, non sappiamo nulla di preciso. Quello dei ribelli
non è un gruppo omogeneo, ma una galassia indefinita ed è molto probabile che
si passino i prigionieri da un gruppo all’altro».

Il vescovo siro cattolico di Damasco, Ignace II Younan,
prima del rapimento, aveva criticato Paolo Dall’Oglio per le sue dichiarazioni
anti Assad, dicendo che – senza il partito Ba’ath (il partito del
presidente, ndr)
-, Mar Musa (il monastero di Dall’Oglio, ndr) non
sarebbe mai potuto esistere.

«Sono questioni complicate in cui è difficile entrare e
giudicare. Credo che ciascuno debba fare la sua parte. I religiosi devono fare
i religiosi. Il nostro compito non è quello di entrare in questioni politiche
perché verremmo trattati da politici. Il nostro ruolo è, l’ho già detto, stare
con la gente: aiutarla, sostenerla. Naturalmente non puoi essere cieco rispetto
a ciò che sta accadendo. Devi sempre parlare di rispetto, di giustizia… ma alla
fine in momenti così gravi qualunque cosa tu dica è sbagliata».

Tra il 2011 e il 2013 le organizzazioni umanitarie
cattoliche hanno raccolto 72 milioni di euro da mandare in Siria. Come è
possibile, in una situazione così caotica, gestire questi aiuti? Come possono i
donatori essere sicuri che questi aiuti raggiungano effettivamente le
popolazioni a cui sono diretti?

«I bisogni sono tanti e in questo momento di guerra non
puoi pensare al futuro, ma al presente, a come aiutare la gente a continuare a
esistere. Uno dei problemi principali è quello dei profughi sia all’interno del
paese sia all’esterno, nei campi, soprattutto in Giordania e Libano. Lì c’è
bisogno di tutto. Occorre provvedere per l’assistenza immediata: medicinali, cure
mediche, viveri, vestiti. All’interno della Siria i soldi vanno a tutte quelle
famiglie che, a causa della guerra, debbono spostarsi. Bisogna cercare loro il
luogo in cui andare, trovare nuove scuole, spesso i prezzi esplodono e c’è chi
ne approfitta. Le chiese sono impegnate a dare un aiuto a queste famiglie nella
maniera più cornordinata possibile. Uno dei principali problemi è quello di unire
e cornordinare i vari gruppi all’interno della Chiesa, ma anche tra le varie
organizzazioni umanitarie, tra le Ong. Altro non si può fare. Io, come
francescano, posso garantire che, per quanto riguarda noi, siamo abbastanza
precisi e ferrei tenendo presente che, prima o poi, qualcuno ci chiederà di
rendere conto di quello che è stato fatto».

I luoghi cristiani in Siria sono stati preservati?

«Tutti i luoghi sono stati colpiti; non solo quelli
cristiani, ma anche quelli musulmani. Al Nord in maniera molto più pesante che
al Sud. Non possiamo dire se siano stati colpiti intenzionalmente o no. Di
conseguenza è molto difficile dare un’interpretazione».

Un possibile scenario potrebbe prevedere la divisione
della Siria in un Sud alauita pro-Assad e un Nord sunnita-salafita filo-turco.
Se questa ipotesi si avverasse, lo spazio geopolitico della regione sarebbe
diviso nettamente in due: un Sud filo-iraniano confinante con Israele (e quindi
possibile teatro di scontro tra Tel Aviv e Teheran) e un Nord più radicale, ma
più vicino all’Europa e filo-turco.

«Non posso prevedere come evolverà la guerra. Si parla,
effettivamente, di questa possibile divisione e della creazione di una Grande
Turchia, ma è ancora presto per dirlo. Anche i programmi più cinici devono fare
i conti con il territorio. Quindi, in qualunque direzione si vada, non sarà mai
una soluzione facile e pacifica».

Piergiorgio Pescali

Tags: Siria, pace, guerra, ecumenismo, jihad, fondamentalismo, cristiani

Piergiorgio Pescali




«Buon lavoro, Presidenta»

Viaggio in Cile / 1


Dallo scorso marzo, il palazzo della Moneda, sede della
presidenza, ospita di nuovo Michelle Bachelet. Nella capitale cilena abbiamo
incontrato il cardinale Ricardo Ezzati Andrello, che ci ha raccontato il «suo»
Cile: da Salvador Allende al generale Pinochet fino al ritorno della democrazia.
Con i suoi problemi: le troppe diseguaglianze, la questione dell’educazione, la
lotta dei Mapuche.

Santiago del Cile. Siamo arrivati in anticipo. C’è tempo per guardarsi attorno. La
zona è residenziale e la via alberata, dando coerenza al nome del municipio: Ñuñoa,
in mapudungún (la lingua mapuche), significa «luogo dell’iris». Al vicino
incrocio lo sguardo corre verso un grande cartello della recente campagna
elettorale. «Más áreas verdes. Todos con
Michelle», recita lo slogan scritto accanto al volto della signora
Bachelet, appena eletta presidenta. È ora di suonare il campanello. Entriamo in un curatissimo
giardino, posto tra una chiesetta in pietra e una casa a un solo piano,
elegante, ma molto semplice. È la residenza dell’arcivescovo di Santiago del
Cile, mons. Ricardo Ezzati Andrello, che ci accoglie con un ampio sorriso.

Attraversando l’Atlantico

Nato
in un piccolo paese del vicentino, all’età di 18 anni, sotto l’egida dei
salesiani, Ricardo Ezzati salpa dal porto di Genova alla volta del Cile. È il
1959. Dopo gli studi (Quilpué, Roma, Strasburgo)
e l’ordinazione sacerdotale, si muove tra Valdivia, Conceptión e Santiago, ricoprendo
vari incarichi e con sempre maggiori responsabilità. «La mia – racconta nel
salotto dove ci siamo accomodati – è stata una strada di pellegrino, avendo
dovuto cambiare tenda molto sovente»1. Il
suo lungo percorso cileno ci consente di toccare molti argomenti.

Negli
ultimi 50 anni il Cile è passato dalla breve stagione di Salvador Allende alla
lunga dittatura del generale Pinochet, fino al ritorno della democrazia. Il
paese ha ottenuto importanti successi economici, con elevati tassi di crescita
(4,2% anche nel 2013). Tuttavia, rimane uno dei più diseguali del mondo: l’1%
più ricco s’intasca il 31% dei redditi. La lista 2014 dei 1.645 miliardari
mondiali, stilata da Forbes2, conta 12 cileni, appartenenti all’oligarchia
storica (Fontbona, Horst, Matte, Falabella, Angelini Rossi, ma anche Piñera, il
presidente uscente).

«È
vero – conferma mons. Ezzati -: nel paese esiste un grande divario sociale tra
persone che non hanno niente e vivono nella povertà (se non proprio nella
miseria) e un gruppo minoritario di cileni che vive nell’abbondanza. Nel
settembre 2012, in una lettera pastorale3,
come vescovi abbiamo detto che lo sviluppo del Cile non può essere centrato
soltanto su valori economici e soprattutto che esso dovrebbe essere molto più
partecipato, più solidale, più giusto. Questo è un paese di molte speranze ma
anche di tantissime sfide».

Sfide
che dovranno essere affrontate da Michelle Bachelet, vincitrice delle ultime
elezioni con Nueva Mayoría, la
coalizione di centrosinistra. Alla fine del primo mandato, nel marzo del 2010,
lei aveva lasciato La Moneda con un alto indice di approvazione dei cittadini.
Oggi Bachelet ha più esperienza, ma anche più aspettative da soddisfare. Ha
affrontato la campagna elettorale sotto lo slogan Chile
de todos, promettendo più ospedali pubblici, più educazione pubblica, più
democrazia e diritti umani4.
Mons. Ezzati ha incontrato la presidenta
eletta il 16 dicembre. Che vi siete detti?, domandiamo.

«Dato
che la sua coalizione va dal partito comunista alla democrazia cristiana, le
abbiamo chiesto di non avere il timbro di un partito o di una determinata
ideologia, ma soltanto quello del bene comune. Le abbiamo chiesto che la sua
politica sia illuminata dai grandi valori dell’umanesimo. Le abbiamo chiesto di
essere presidente di tutte e tutti i cileni e di mettere il potere al servizio
dei poveri e di quelli che hanno più bisogno come gli anziani e i bambini.
Abbiamo infine parlato di temi molto concreti: la giustizia distributiva, la
famiglia, l’educazione».

Già,
l’educazione, tema caldo, caldissimo nel paese.

«Capisco gli studenti»

Il
Cile ha conosciuto molte riforme dell’educazione. Quella di Allende – si
chiamava «Scuola nazionale unificata» (Escuela
nacional unificada, Enu) – non vide mai la luce. Poi ci furono le
riforme di Pinochet – del 1981 e del 1990 (quest’ultima approvata nell’ultimo
giorno della dittatura) -, che portarono a una privatizzazione dell’istruzione.
Infine, nel 2006 Michelle Bachelet varò una riforma (legge 20370 o Lge) che,
nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto porre rimedio ai guasti delle precedenti.
Senza però riuscirvi. Oggi la situazione è questa: la qualità dell’educazione
pubblica è scarsa, mentre l’educazione privata è molto cara (e spesso
inadeguata). Questo ha portato a un sistema educativo diseguale in cui molti
studenti (e le loro famiglie) debbono indebitarsi per poter studiare.

Ecco
spiegato perché in Cile, in questi anni, le uniche, vere proteste sociali sono
nate proprio tra gli studenti. Prima (era il 2006) tra i giovani degli istituti
superiori, poi (2011) tra quelli universitari.

La
Chiesa cattolica cilena ha un ruolo rilevante nel sistema educativo del paese.
Vogliamo capire se questo suo essere parte in causa costituisca un impedimento
per prendere posizione. Mons. Ezzati, lei condivide le proteste studentesche? «Senz’altro.
Magari con qualche distinguo sulle loro modalità. Una riforma del sistema
educativo è però necessaria».

Ezzati
conosce bene il mondo dell’educazione, essendo stato rettore del collegio
salesiano di Conceptión e poi professore alla facoltà di teologia della «Pontificia
Università cattolica del Cile», un’istituzione con 26mila iscritti5 di cui oggi è gran cancelliere. «Noi
crediamo – precisa subito – che il diritto all’educazione sia un diritto
essenziale, ma è un diritto che riteniamo vada di pari passo con il diritto
alla libertà di educazione. Ogni persona ha cioè il diritto ad avere
un’educazione di qualità ma, insieme a questo, ha anche il diritto di scegliere
il tipo di educazione – di base, superiore o universitaria – in accordo con la
propria concezione di vita».

Anche
Michelle Bachelet considera fondamentale la riforma educativa e l’ha posta tra
le priorità del proprio programma di governo. Un programma ambizioso in cui si
parla anche di un debito storico dello Stato e della società cilena nei
confronti dei popoli indigeni. Questi – secondo i dati del censimento 2012 –
costituiscono l’11% della popolazione totale (1,8 milioni su 16,3)6. L’etnia prevalente è quella mapuche con
oltre 1,5 milioni di persone.

La lotta del popolo mapuche

Nel
settembre 2010, mons. Ezzati, all’epoca arcivescovo di Conceptión, accetta il
ruolo di mediatore nel conflitto tra oltre 30 Mapuche – incarcerati con
l’accusa di terrorismo e in sciopero della fame per protestare contro
l’applicazione della legge antiterrorismo varata all’epoca di Pinochet – e il
governo centrale.

«Io
preferisco il termine di “facilitatore del dialogo”. I Mapuche mi chiesero di
intervenire e il governo di Piñera accettò. Ebbi dialoghi lunghissimi con i
capi mapuche. All’epoca la crisi si risolse, ma la situazione tra indigeni e
governo rimane ancora oggi delicata, con manifestazioni di protesta e incendi
nei casi più gravi. La mia esperienza mi ha fatto scoprire che tra gli indigeni
ci sono due anime, due visioni. Quella predominante è pacifica e contemplativa
vedendo nella natura il riflesso di Dio. I Mapuche assistono con grande
preoccupazione alla scomparsa delle coltivazioni tradizionali per far posto a
pini ed eucalipti utilizzati nella produzione di cellulosa per carta. Ma non
basta. Con le coltivazioni tradizionali spariscono anche le erbe medicinali, su
cui si basa l’autorità delle machi, le
guide spirituali mapuche (che in gran parte sono donne)».

Cosa
occorre fare, dunque, per risolvere il conflitto tra indigeni e governo
centrale? «La prima cosa di cui c’è necessità è il riconoscimento politico dei
Mapuche come popolo con la sua cultura e identità. E poi va risolto lo storico
problema della terra».

Se in
territorio mapuche la terra è finita in mano alle imprese della cellulosa
(soprattutto quelle delle famiglie cilene Angelini e Matte), anche lo
sfruttamento di altre ricchezze naturali ha generato problemi. Come ad esempio
nell’Aysén, regione della Patagonia cilena, in cui un consorzio internazionale
(formato da Endesa-Enel e da una società della famiglia Matte) vorrebbe
sfruttare le enormi risorse idriche per la produzione di energia elettrica. Al
progetto si oppone la maggioranza delle popolazioni locali, guidata da mons.
Luis Infanti della Mora, italiano di Udine, vicario apostolico dell’Aysén7.

«La
battaglia di mons. Infanti nella regione di Aysén è una battaglia etica più che
economica. Ci sono istituzioni che lo appoggiano e altre che lo criticano.
Tuttavia, anche nelle correnti di pensiero ecologico ci sono posizioni diverse.
Il tema energetico è un tema forte. L’acqua sembra – dico sembra perché non
sono un tecnico – dare la possibilità di produrre energia in forma più pulita.
In Cile abbiamo molte centrali a carbone, che sono veramente inquinanti. Sono
vissuto per tre anni a Conceptión dove siamo riusciti a fermare la costruzione
di una nuova centrale termoelettrica a carbone, quella sì veramente inquinante.
L’acqua è un bene comune che deve essere difeso opportunamente. D’altra parte,
abbiamo anche bisogno di risolvere il problema energetico».

«Francesco è un dono»

Mons.
Ezzati non vuole parlare soltanto del suo ruolo pubblico. Vuole essere anche e
soprattutto un uomo di Chiesa. «Perché – spiega – è una condizione in cui mi
sento comodo e felice. Quella cilena non è una chiesa clericale, ma una chiesa
di popolo, dove la partecipazione dei laici è molto forte. Qui a Santiago
abbiamo una scuola di formazione dei laici (Instituto
Pastoral Apóstol Santiago, ndr)8 che
io ho seguito da vicino quando ero vescovo ausiliario della capitale, cui
partecipano migliaia di persone. Sono tutti volontari che, dopo il lavoro, alla
sera dedicano alcune ore alla propria formazione per essere attivi nelle
rispettive comunità. E poi un secondo aspetto molto bello della chiesa cilena
sono le espressioni della religiosità popolare, che costituiscono una ricchezza
straordinaria, trasmessa di generazione in generazione. Ricordo, tanto per fare
un esempio, la festa del Cuasimodo9 a Pasqua».

Da un
anno al Vaticano c’è un papa argentino. «Io ho avuto occasione di conoscere il
cardinale Bergoglio in alcune riunioni del Celam (Consejo
episcopal latinoamericano, ndr)10, ma
soprattutto durante l’assemblea di Aparecida – era il maggio del 2007 -, dove
eravamo nella stessa commissione, lui come presidente e io come membro. Dunque,
ho potuto conoscere abbastanza bene questo dono di Dio alla Chiesa universale.
Ho conosciuto un uomo molto umile, rispettoso del lavoro degli altri, un uomo
di una spiritualità semplice ma allo stesso tempo molto profonda. Una persona
di grande fede e dal tratto umano veramente squisito. Considero veramente una
grazia del Signore che lui sia il vescovo di Roma. Anche perché papa Francesco
porta alla Chiesa universale il respiro di una Chiesa che, dopo 500 anni di
storia, può offrirci molto».

Una
Chiesa, quella latinoamericana, che ha proposto, tra l’altro, una teologia
tanto affascinante quanto foriera di discussioni interminabili, polemiche
feroci, separazioni dolorose. Ci riferiamo alla teologia della liberazione. «Come
tutte le teologie, anche quella della liberazione ha una propria storia. I
documenti della Congregazione per la dottrina della fede parlano di una
teologia della liberazione necessaria e di una influenzata da idee
sociopolitiche. Dico questo senza voler fare una critica, perché da sempre la
storia della salvezza s’incarna nella storia concreta delle persone e dei
popoli. Io credo che la teologia della liberazione, quella più autentica, abbia
dato un apporto significativo alla Chiesa universale».

Le ferite del passato

La
teologia della liberazione si diffuse nei primi anni Settanta. Proprio negli
anni in cui ci fu, tra l’altro, il golpe di Augusto Pinochet contro il governo
socialista di Salvador Allende.

Mons. Ezzati
non si tira indietro quando gli chiediamo di commentare quel periodo storico. «Io
posso dire che, durante gli anni di Unidad
Popular11,
c’erano grossi problemi. Quando ci fu il colpo di stato si pensava che sarebbe
durato pochi giorni. Invece si trasformò in una dittatura, dove i diritti umani
furono calpestati e si generò molta ingiustizia. Allora ero un giovane e
insignificante prete di periferia, ma anch’io vissi momenti difficili. Nel
1978, con un gruppo di preti elaborammo dei testi scolastici di educazione
religiosa. Fummo denunciati come “nemici della patria e marxisti” semplicemente
perché un libro, destinato alla scuola superiore, parlava del cristiano nel
mondo facendo riferimento a problemi molto concreti: diritti umani, giustizia
distributiva, armamenti. Quel periodo è passato, anche se ci sono ferite che
rimangono e che soltanto con il tempo si potranno rimarginare».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua*)
Note

1 – Questa intervista a mons. Ezzati si è svolta a Santiago del Cile
prima che si conoscesse la sua nomina a cardinale, avvenuta lo scorso 22
febbraio.
2 – L’annuale lista di Forbes, uscita nel marzo 2014,
quest’anno comprende 1.645 persone. Si veda: www.forbes.com/billionaires.
3 – La lettera pastorale, uscita il 27 settembre 2012, è titolata Humanizar
y compartir con equidad el desarrollo de Chile
. Essa è scaricabile dal sito
della Conferenza episcopale cilena: www.iglesia.cl.
4 – Il programma di governo di Michelle Bachelet si può scaricare da:
michellebachelet.cl/programa.
5 – I siti corrispondenti: Università cattolica, www.uc.cl; Università
del Cile, www.uchile.cl; Collegio salesiano di Conceptión,
www.salesianoconcepcion.cl.
6 – Tutti i dati del censimento 2012 sono scaricabili dal sito:
www.censo.cl. Va notato che sui numeri dei popoli indigeni (sono 9 quelli
riconosciuti), e in particolare dei Mapuche, non c’è concordia.

7 – Si legga: Luis Infanti de la Mora, Dacci oggi la nostra acqua quotidiana, Emi, Bologna 2010.
8 – Il sito: www.inpas.cl.
9 – Originaria dell’epoca della colonia, la festa di Cuasimodo si
celebra la domenica successiva alla Pasqua.
10 – Il sito: www.celam.org.
11 – Nome della coalizione dei partiti di sinistra che portò alla
presidenza Salvador Allende.

 
Biografia essenziale


Cardinale Ricardo Ezzati Andrello
 

• 1942 – Nasce a Campiglia dei Berici, in provincia di
Vicenza.

• 1959 – Arriva per la prima volta in Cile per studiare a
Quilpué (Valparaíso) nel noviziato dei salesiani.

• 1970, marzo – Viene ordinato sacerdote.

• 1971-1990 – Ricopre vari incarichi all’interno della
Congregazione salesiana in Cile.

• 1991-1996 – È in Vaticano alla Congregazione per la vita
consacrata.

• 1996, settembre – Viene ordinato vescovo di Valdivia,
capitale della regione meridionale de Los Ríos.

• 2001, luglio – Viene nominato vescovo ausiliare di
Santiago del Cile.

• 2006, dicembre – Viene nominato arcivescovo di Conceptión,
capitale della regione del Biobío.

• 2007, maggio – Partecipa alla Conferenza di Aparecida,
dove lavora a stretto contatto con il cardinale Bergoglio, futuro papa
Francesco.

• 2010, settembre-ottobre – È «facilitatore del dialogo»
nello scontro tra i Mapuche e il governo centrale.

• 2010, dicembre – Viene nominato arcivescovo di Santiago
del Cile e presidente della Conferenza episcopale.

• 2014, 22 febbraio – Papa Francesco lo nomina cardinale.

Cile / 1: la
cronologia essenziale

Il ritorno di
Michelle

Nel bene e nel male, alcuni dei protagonisti della storia
cilena: Spagna, popolo Mapuche, Salvador Allende, Augusto Pinochet, Milton
Friedman e Chicago boys, Giovanni Paolo II, Sebastián Piñera, Michelle
Bachelet.

1810

Inizia il processo d’emancipazione dal dominio spagnolo. Il
Cile dichiarerà l’indipendenza il 12 febbraio del 1818.
1879 febbraio.Le truppe cilene occupano l’allora porto boliviano di
Antofagasta. Poco dopo l’azione, ad aprile, inizia la «guerra del Pacifico»,
che si concluderà nel 1883 con la vittoria cilena su Perù e Bolivia. Le
conseguenze di quel conflitto si fanno sentire ancora oggi.

1883

Termina la secolare «Guerra de Arauco». Le terre dei Mapuche
sono occupate in via definitiva dall’esercito cileno. La perdita è all’origine
di un conflitto mai più sanato.

1970 novembre.

Le elezioni sono vinte da Salvador Allende, medico e
socialista.

1973 settembre.

Il generale Augusto Pinochet guida un colpo di stato contro
il presidente Salvador Allende. La Moneda, il palazzo presidenziale dove
Allende è asserragliato, viene bombardata. Allende muore, forse per suicidio.
Il golpe ha l’appoggio concreto di Washington e di Henry Kissinger, il potente
segretario di stato Usa. È l’altro «11 settembre» della storia, il primo (ma
meno conosciuto e riconosciuto).

1975 marzo.

Il prof. Milton Friedman, economista statunitense, fondatore
della «Scuola di Chicago», visita per una settimana il Cile e incontra il
generale Pinochet. Nello stesso anno i cosiddetti «Chicago boys» (cileni
graduati alla scuola di Friedman) entrano nel governo di Pinochet, mettendo in
atto un forte piano di riforme economiche liberiste.

1987 aprile.

Papa Giovanni Paolo II visita il paese. Saranno 6 giorni
difficili e controversi.

1989 dicembre.

Dopo 17 anni di dittatura, si tengono elezioni democratiche.
Vince la coalizione di centro-sinistra (Concertación
de partidos por la democracia
), che goveerà ininterrottamente il Cile
fino al 2010. I presidenti saranno: Patricio Aylwin, Eduardo Frei, Ricardo
Lagos e Michelle Bachelet, prima donna presidente della storia cilena.

2006

È l’anno della prima rivolta studentesca, quella denominata
«rivoluzione pinguina» (a causa delle tipica divisa degli studenti: giacca blu
e camicia bianca). Nel 2011 ne seguirà una seconda, questa volta guidata dagli
studenti universitari.

2010 marzo.

Inizia il mandato presidenziale di Sebastián Piñera,
rappresentante della destra (Coalición por el cambio) e miliardario.

2013 novembre.

Camila Vallejo, la più conosciuta leader del movimento
studentesco, viene eletta deputata nelle liste del Partito comunista, alleato
di Nueva Mayoria, la coalizione di centro-sinistra guidata da Michelle
Bachelet.

2013 dicembre.

Al ballottaggio per le presidenziali vince la candidata
Michelle Bachelet, al suo secondo mandato.

2014 marzo.

L’11 del mese assume la presidenza Michelle Bachelet. Anche
la seconda carica del paese, la presidenza del Senato, è nelle mani di una
donna: Isabel Allende Bussi, figlia dell’ex presidente Salvador Allende.

Paolo Moiola

 

Cile / 2: una mappa riassuntiva


Le questioni principali

politica

La Costituzione cilena è, con poche modifiche, ancora quella
promulgata l’11 marzo 1981 durante la dittatura del generale Augusto Pinochet.
Nel programma di governo della presidenta Bachelet, pubblicizzato sotto lo
slogan «Chile de Todos», è prevista (pagg. 30-35) una nuova Magna carta in cui
democrazia e diritti umani siano più tutelati. Ma raggiungere questo obiettivo
non sarà facile.

economia

Il Cile è uno dei paesi al mondo che più sono cresciuti
negli ultimi 25 anni. Le diseguaglianze sociali permangono però molto ampie:
l’1% dei cileni incamera il 31% del prodotto nazionale (contro – ad esempio –
il 21% degli Stati Uniti). Il tasso di povertà è del 14,4%, che corrisponde a
2,5 milioni di cileni (dati Casen 2011). Le fortissime disparità economiche
sono riassunte nell’alto valore dell’Indice Gini (52,1, secondo i dati della
Banca mondiale e della Cia), che pone il paese ai primi posti nel mondo per
diseguaglianza. Il salario minimo, fissato ad agosto 2013, è pari a 210.000 pesos
cileni, pari a circa 270 euro.

salute ed educazione
Il problema dell’educazione pubblica – inefficiente, di
scarsa qualità e soppiantata da quella privata – ha generato le due rivoluzioni
studentesche nel 2006 e nel 2011. Il programma della presidente Bachelet
prevede una riforma radicale basata sul principio che l’educazione non è un
bene di consumo. Il problema della sanità pubblica è riassumibile in due dati:
il Cile è agli ultimi posti tra i paesi dell’Ocse come spesa sanitaria (7,5%
del Pil) e uno dei tre – assieme agli 
Stati Uniti e al Messico – in cui la spesa sanitaria privata supera
quella pubblica.

ambiente

La questione ambientale è legata alle conseguenze dello
sfruttamento delle risorse del sottosuolo (ad esempio, il progetto Pascua-Lama
nella regione di Atacama), dell’acqua (regione dell’Aysén, Patagonia cilena),
delle risorse forestali (soprattutto in terra mapuche) e delle risorse ittiche
(in particolare con riferimento alla pesca del salmone nelle acque
dell’arcipelago di Chiloé).

popolo mapuche

Mapuche – il principale gruppo indigeno del Cile e il terzo
per numero in America Latina – reclamano la restituzione delle loro terre a Sud
del fiume Bío-Bío (erano circa 100mila kmq), terre finite in mano a
latifondisti e compagnie forestali. Le loro azioni di lotta (dalla
disobbedienza civile agli incendi) sono punite con l’applicazione della Legge
anti-terrorismo 18.314 emanata nel maggio 1984 da Pinochet. Contro di essa si
levano non soltanto le proteste dei Mapuche, ma anche quelle delle
organizzazioni inteazionali per i diritti umani e dell’Onu.

relazioni
inteazionali

Il Cile ha due contenziosi territoriali aperti, sia con il
Perù che con la Bolivia. In entrambi i casi si tratta di conseguenze della
cosiddetta Guerra del Pacifico che – tra il 1879 e il 1883 – vide contrapporsi
il Cile all’alleanza tra Perù e Bolivia. I due paesi andini uscirono sconfitti
dal conflitto: il Perù perse la regione di Arica e la Bolivia il suo unico
sbocco al mare, sul litorale del deserto di Atacama. Di recente (27 gennaio
2014) la Corte internazionale di giustizia de L’Aia (Paesi Bassi) ha deciso sul
contenzioso tra Cile e Perù riducendo la sovranità del primo sul mare
antistante i due paesi di un’area pari a circa 38mila km quadrati. Anche la
Bolivia aspetta per il 2015 una decisione della Corte internazionale che le
permetta di riacquistare uno sbocco al mare.

Paolo Moiola

Tags: Cile, Mapuche, Ezzati Andrello, chiesa e società, cardinali

Paolo Moiola




Pillole «Allamano» 4: la mansuetudine come strada di trasformazione


4. Una scelta controcorrente: la mansuetudine come strada di trasformazione


Al termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale con la Formula Uno, Beie Ecclestone, storico deus ex machina del circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua profonda delusione per l’impatto dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron, dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a tutta velocità.

In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina: è come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse parte della sua essenza. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.

Pare una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre tale convinzione con la forza ci porta a essere molto più irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro.

Chi urla forse non crede nella forza delle proprie opinioni e sente di doverle imporre con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la marmitta del loro motorino per farlo rimbombare, nemmeno avessero da dominare con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato a esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che «da cosa nasce cosa» …). «Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento – scrive Sun Tzu, nel suo celebre saggio L’Arte della guerra – ma bensì sottomettere il nemico senza combattere». Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa 2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i giorni.

È certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in particolare attraverso il taoismo (ai cui principi si ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato tutta una serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la possibilità di un’altra via, fondata su concetti completamente diversi: piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo: ciò che è morbido vince ciò che è duro, ciò che è debole trionfa su ciò che è forte. Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste idee, ed è meglio non contraddire al riguardo una cintura nera con un certo numero di Dan all’attivo.

Non dobbiamo però guardare troppo lontano per vedere ribaditi concetti analoghi. Dobbiamo bensì aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione, perché ciò che stiamo cercando non si manifesta nel rumore, nella gazzarra, nella luce accecante del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo in questo modo, lo troveremo impegnato a dare la sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non solo è possibile, ma pure gratificante.

Giuseppe Allamano fu certamente una persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese ha origine nella sua disposizione d’animo, nello stile con cui scelse di vivere la propria vita: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione». Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del Fondatore questo si verifica.

Chi suggerisce una distinzione interessante fra i due concetti è Norberto Bobbio, che alla mitezza ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che la distinzione è problematica e forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella prima una maggior profondità di significato rispetto alla seconda. Il termine mansueto è detto in primis degli animali, e solo in senso derivato è applicato agli uomini, mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti, atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre, «la mansuetudine – scriveva il filosofo torinese – è una disposizione dell’animo dell’individuo che può essere apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione dell’animo umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014, pag. 34). Sembrerebbe di leggere in Bobbio un maggior apprezzamento della mitezza intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano.

Per Giuseppe Allamano questa sottile distinzione non esiste, al punto che usa i due determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario deve essere mansueto, come lo è la pecora con il pastore, ma deve vivere la sua mansuetudine al servizio attivo del prossimo, in particolare di colui che più necessita di essere consolato. L’esempio da seguire non può essere che quello di Cristo, uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare di sé come di una persona mite: «Venite a me voi tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi diventare caratteristica anche per il discepolo di Cristo che in virtù di ciò è chiamato beato e fatto erede della terra.

Nella mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella: il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono le basi anche per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la persona buona per sé, ma la rende buona «per gli altri», esattamente come, da laico, suggeriva Norberto Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto il contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona passiva, succube, indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale», senza niente da dire, senza energie, né risorse. Al contrario, il mite affida al lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di Dio.

 

Attraverso l’immagine della mitezza, la pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare. Non serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a quanto la Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su questa virtù morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il nuovo papato ci obbliga a guardarci dentro, a cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di ascoltare di più e di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere guide illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità, per comprenderne il ritmo di marcia.

Ne «La Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come abbiamo già sottolineato, sicuramente questa affermazione nasce dall’esperienza personale, nel contatto con la gente maturato nei lunghi anni passati al Santuario della Consolata, e diventa insegnamento anche per i missionari che si trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine – sono le sue parole – (…) Quando si tratta di salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a impedirne la conversione, forse per sempre. Esaminiamo dunque noi stessi per vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470).

Scegliendo la mitezza, come Giuseppe Allamano ci insegna attraverso la sua stessa vita, i suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la strada della trasformazione. Se un giorno grazie a questa virtù saremo in grado di ereditare la terra, è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo iniziare a costruirlo poco per volta. Oggi più che mai siamo alla ricerca di una nuova narrativa che racconti storie di pace e benessere, perché è solo e soltanto su queste prerogative che vorremmo costruire la nostra esistenza di domani.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Storie e volti di Radio /1: Stella del Mare

Fondata nel 1982 da mons. Yse, la sua voce arriva fino
alle isole più piccole e remote dell’arcipelago di Chiloé. Con «Radio Estrella
del Mar» iniziamo un breve viaggio tra alcune emittenti latinoamericane. Tutte
con un Dna di servizio.

Castro (isola di Chiloé). La
sede sta a lato del Terminal rural, la
stazione da dove partono i micro
(minibus) per tutte le località dell’arcipelago. «Radio Estrella del Mar» occupa
una piccola casa, resa immediatamente riconoscibile dal suo colore arancione.
Mi accolgono Luis Eugenio Gonzáles e Clemente Becerra, locutores,
annunciatori o – per usare un termine ormai di uso comune – speakers. Mi
mostrano i locali dell’emittente mentre il tecnico di tuo mette in onda un
annuncio commerciale.

Entriamo
in studio. Andremo in onda dal vivo. Sono venuto per fare un’intervista invece
mi ritrovo intervistato. Parlo con il mio spagnolo carico di sintassi e accenti
italiani, ma ciò che importa è toccare con mano l’entusiasmo con cui Luis
Eugenio e Clemente fanno il loro lavoro. «A esta
hora compartiendo su mañana en Estrella del Mar» (condividendo la
mattinata con voi), ripete il jingle agli
ascoltatori della radio, che sono quelli di Chiloé, ma anche della Patagonia
cilena (province di Palena e Aysén).

Dare voce a chi non ha voce

Padre
José Contreras Riquelme è direttore dell’emittente dal 2011. «La nostra è una
radio che vuole essere voce di chi non ha voce. Tuttavia, essendo un’emittente cattolica,
essa ha come fine ultimo l’evangelizzazione». L’arcipelago di Chiloé è un luogo
particolare, con caratteristiche orografiche e antropologiche molto diverse da
quelle del resto del Cile. Padre Contreras, pur non essendo nativo del luogo,
conferma: «Sì, anche in ragione del nostro essere isole, abbiamo mantenuto
costumi e tradizioni differenti, a ogni livello: sociale, culturale e
religioso. La radio riflette queste peculiarità. Anche noi ovviamente siamo
stati obbligati a cambiare e a modeizzarci, però senza mai perdere la nostra
identità».

Anche
a Chiloé e nella Patagonia cilena i progressi della tecnologia hanno portato
internet, i canali televisivi satellitari, le comunicazioni via smartphone. C’è
ancora spazio per la radio?, chiediamo a padre Contreras. «Sì, ne sono sicuro.
La radio continua a essere un mezzo di comunicazione necessario e fondamentale.
La gente dice che “non esiste nulla come la radio”. In altre parole, nonostante
la grande quantità di mezzi di comunicazione esistenti la radio non può essere
sostituita. È uno strumento affidabile, attraverso il quale le persone possono
esprimersi, con interviste, domande, suggerimenti. Essa costituisce anche uno
strumento alla portata di tutti, cosa che non si può dire degli altri mezzi che
risultano disponibili per meno del 30% degli abitanti di Chiloé. In più la
nostra emittente unisce tutto l’arcipelago, arrivando fino alle isole più
remote».

Dalle lotte di mons. Yse

Radio
Estrella del Mar ebbe i natali negli anni della dittatura, quando ricopriva la
carica di vescovo mons. Juan Luis Yse de Arce, personalità di grande forza e
carisma, vincitore di prestigiosi premi. Nel 1976, il prelato aveva creato la «Fondazione
diocesana per lo sviluppo di Chiloé» (Fundechi). L’istituzione entrò presto in
contrasto con il governo militare. Soprattutto quando questo diede il proprio
sostegno a un megaprogetto giapponese (Proyecto
Astillas de Chiloé) che avrebbe voluto sfruttare (e quindi
distruggere) il prezioso bosco nativo dell’arcipelago. Da quella battaglia in
mons. Yse nacque l’idea di fondare un’emittente: Radio Estrella del Mar vide
la luce ad Ancud nell’anno 1982. Oggi è una rete di 8 emittenti: 4
nell’arcipelago di Chiloé (Castro, Ancud, Quellón e Achao), una nel piccolo
arcipelago di Guaitecas (Melinka) e 3 sul continente (Chaitén, Futaleufú e
Palena). Queste ultime in verità sono chiuse dal 2008 a seguito dell’eruzione
del vulcano Chaitén, ma c’è la volontà di riaprirle se si troveranno le
risorse.

Radio
Estrella del Mar è un impegno gravoso anche dal punto di vista economico. Come
sempre accade per le emittenti piccole e non commerciali, l’autofinanziamento
non riesce infatti a coprire le spese.

Lo
conferma mons. Juan María Agurto Muñoz che – nella sua veste di successore di
mons. Yse come vescovo di Ancud – è il proprietario della radio. «In questi
32 anni di vita ci sono stati momenti molto critici dal punto di vista
finanziario. Ancora oggi l’episcopato deve continuare a fare sforzi immensi per
trovare sovvenzioni attraverso iniziative intee e aiuti di organizzazioni
inteazionali, quali Adveniat (Ong
cattolica tedesca, ndr) e la Conferenza episcopale italiana. In ogni
caso, nonostante i problemi, la radio prosegue il suo cammino come mezzo di
informazione, formazione ed evangelizzazione».

Nell’anno 2014

A
Radio Estrella del Mar lavorano circa 20 persone tra annunciatori, giornalisti,
tecnici e amministrativi. Il palinsesto copre le 24 ore, 17 delle quali dal
vivo. Sono previsti programmi comuni (in rete), ma anche alcuni spazi gestiti
autonomamente da ogni singola stazione.

Dato
che il sostegno fondamentale arriva dalla Chiesa, la domanda è conseguente e
non può non essere evitata: in quanto radio cattolica, Estrella del Mar è
libera di esprimersi su qualsiasi argomento o, a volte, dove praticare una
sorta di autocensura? Padre Contreras risponde con decisione: «Alla radio non
si nasconde né si proibisce alcun tema. Noi chiediamo soltanto a giornalisti e
annunciatori di trattare le informazioni senza manipolarle. Dare le
informazioni, però sempre cercando di valorizzae gli aspetti positivi,
evitando morbosità e cattive intenzioni. In questo modo rispettiamo e siamo
rispettati».

Da
anni il Cile è tornato alla democrazia. Chiediamo se i rapporti con la politica
siano tranquilli. «Direi – risponde il direttore di Estrella del Mar – che non
abbiamo problemi particolari con i politici locali. Noi cerchiamo di essere
aperti a tutti e di essere giusti. Quando poi vediamo delle ingiustizie, le
denunciamo. Con chiarezza e con prove argomentate».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua*)

Questa serie


La radio non muore mai

Nei primi mesi del 2014 abbiamo visitato alcune radio
latinoamericane. Tutte legate alle Chiese locali. Tutte piccole, ma fortemente
radicate sui rispettivi territori. Tutte con gli stessi problemi economici (la
mancanza di risorse). Tutte con la stessa forza propulsiva (l’entusiasmo dei
collaboratori). Noi cercheremo di raccontarle attraverso le storie e i volti
delle persone che le animano (inclusa un’intervista a Santiago García Gago,
autore del Manual para radialistas).

Già nel settembre 2009 Missioni Consolata aveva pubblicato
un dossier (Un mondo a misura di Radio) sulla realtà delle emittenti del Sud.

Sono trascorsi soltanto pochi anni, ma il mondo è stato
trasformato dalla rivoluzione digitale. Incluso il mondo delle radio, che oggi
si possono ascoltare anche in streaming, ossia sfruttando la rete internet. Lo
fanno pure le radio da noi visitate, anche se la maggior parte dei loro utenti,
soprattutto quelli che vivono lontani dalle città, le ascoltano nel modo tradizionale,
non avendo alcuna connessione web, ma soltanto un banale apparecchio radio.
Immortale, almeno fino a oggi.

Paolo Moiola

Tags: Cile, radio, media, comunicazione

Paolo Moiola