problemi generati dalla guerra civile sono ancora insoluti. In queste pagine
Piergiorgio Pescali parla della situazione siriana con padre Pizzaballa, francescano,
«custode di Terrasanta» dal maggio 2004. L’intervista è parte di un libro in
via di pubblicazione.
«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il meno
possibile. Quindi io, ora, davanti a lei, sto contravvenendo a questa stessa
scelta».
Padre Pierbattista Pizzaballa sorride mentre si aggiusta il
saio francescano. Lui, «custode di Terrasanta», è impegnato a mantenere viva
l’attenzione verso la Siria. Lo abbiamo incontrato per porgli alcune domande*.
Dopo l’accordo per la distruzione delle armi chimiche di
Assad (settembre 2013), si è arrivati a scongiurare il pericolo di un
intervento militare internazionale diretto da parte dell’Europa e degli Usa
(che forse non erano neppure troppo convinti). Si è però assistito anche a un
allontanamento della Siria dall’attenzione mediatica. Questo da una parte ha
favorito l’incancrenirsi del conflitto, dall’altra ha permesso ai paesi
coinvolti – Turchia, Arabia Saudita, Qatar – di avere mano libera nelle loro
politiche di intervento. Padre Pizzaballa, cosa sta accadendo in Siria?
«In realtà in Siria non è cambiato molto rispetto ai
tempi in cui se ne parlava. Cambia sul territorio la forza dei vari movimenti a
seconda dei periodi, ma la situazione generale è immutata. Parte del territorio
è sotto controllo governativo, parte sotto quello dei ribelli. E i ribelli sono
una galassia indefinita di movimenti e sigle. A volte sono semplici bande
criminali che utilizzano varie coperture per compiere scorrerie e ruberie.
Risulta sempre più evidente che tra questi ribelli ci
sono frange di stampo fondamentalista, che creano problemi a tutto ciò che si
differenzia da loro. Ci sono, infine, milioni di profughi all’esterno e
all’interno del paese».
Le frange fondamentaliste sono formate da siriani o da
stranieri?
«In gran parte si tratta di stranieri. Provengono da
Cecenia, Pakistan, Egitto, Libia, Afghanistan. Sono persone abbruttite dalla
guerra, che hanno partecipato a tutti i conflitti di questi ultimi anni. Sono
persone abituate alla violenza, che è divenuta il loro pane quotidiano. Sono
persone che devono vivere, quindi saccheggiano; che devono fare sesso, quindi
stuprano.
All’inizio la rivolta non era questa: era una rivolta più
popolare, pacifica, politica. Poi è degenerata in violenza».
Chi sostiene, finanzia, appoggia queste frange
estremiste?
«Non posso dire con sicurezza chi siano le organizzazioni
e i governi che le appoggiano, ma possiamo sicuramente vedere da dove entrano:
dal Libano, forse anche dalla Giordania, ma soprattutto dal Nord, Turchia ed
Iraq.
Certamente godono dell’appoggio di Turchia, Arabia
Saudita, Qatar, ma anche di alcuni paesi occidentali, in particolare quelli che
hanno adottato la politica dell’anti-Assad a tutti i costi».
Come
sempre è il popolo che subisce le conseguenze di questi giochi politici. Come
vivono i siriani?
«Il
popolo è la prima vittima di una guerra entro la quale saranno ridefiniti gli
equilibri non solo della Siria, ma di tutta la regione mediorientale. Esiste,
certamente, una divisione anche tra la gente: c’è chi sta da una parte, chi sta
dall’altra. La maggioranza della popolazione vuole vivere tranquillamente la
propria vita quotidiana. Spesso, però, a causa della guerra si trova a dover
scegliere da che parte stare. Volente o nolente deve comunque fare una scelta.
Questa è la violenza della guerra siriana».
La separazione tra alauiti pro Assad da una parte e
salafiti-sunniti dall’altra rispecchia effettivamente l’attuale scacchiere
della guerra civile siriana?
«La
realtà siriana, come tutte quelle mediorientali, è una realtà complessa.
Possiamo, anzi, affermare che la complessità è ciò che caratterizza la vita di
tutti i mediorientali e, oggi in particolare, dei siriani. Quindi, tutte le
semplificazioni che, per vari motivi, vengono fatte hanno poco senso e
contengono imprecisioni e ingiustizie. È anche vero, però, che quando devi
presentare la complessità sei costretto a semplificare, altrimenti non riesci
più a farti capire. Diciamo, quindi, che grosso modo è così, anche se tra gli
alauiti ci sono persone che contrastano il regime e, viceversa, tra i sunniti
ci sono coloro che appoggiano Assad. Non è, come si può capire, facile
distinguere nettamente chi è da una parte e chi dall’altra».
Un embargo contro la Siria esiste di già, ma Europa e
Stati Uniti vorrebbero rafforzarlo. I francescani, così come la Chiesa
cattolica, sono sempre stati contrari all’embargo, e non solo della Siria.
Quale altro tipo di pressione è possibile fare?
«In genere l’embargo colpisce la popolazione povera, non
certo chi ha i mezzi e il potere. Siamo sicuramente favorevoli all’embargo
delle armi: se c’è gente che spara è perché qualcuno produce le armi, le vende
e le distribuisce. Siamo, invece, contrari all’embargo su alimentari,
medicinali, energia. Cos’altro si può fare, onestamente, non lo so. Non vedo
delle soluzioni semplici. La situazione è talmente degenerata, le ferite sono
talmente profonde che attualmente non vedo alcuna possibilità di pacificazione.
Spero, comunque, di sbagliare».
Israele
in questo contesto dove sta, cosa fa, cosa spera di ottenere?
«Credo che per Israele cambi poco. Chiunque andrà al
potere in Siria sarà comunque anti-israeliano».
Assad, comunque, al di là dei proclami, non ha mai dato
problemi a Israele. Quindi potrebbe, alla fin fine, rappresentare il male
minore.
«Assad è, per Israele, una bestia conosciuta. Penso che
qualcuno in Israele speri di continuare a confrontarsi con ciò che già conosce,
piuttosto che trovarsi a dover affrontare una nuova realtà».
E i cristiani in tutto questo dove stanno e come vivono?
«I
cristiani non sono un popolo a parte. Lo dico sempre. I cristiani sono siriani
come lo sono gli alauiti, i sunniti, i salafiti, gli sciiti. E, quindi, anche i
cristiani sono coinvolti nella guerra con tutte le sue sfaccettature. Ci sono
cristiani pro-Assad e cristiani contro Assad».
I cristiani sono comunque una minoranza all’interno della
Siria e sono concentrati in regioni, quelle settentrionali, dove i gruppi
estremisti di cui parlava in precedenza, sono più attivi. Sono, quindi, più
esposti alla violenza.
«Bisogna fare attenzione a non generalizzare. La guerra
distrugge tutto: chiese come moschee».
«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il
meno possibile (quindi io, ora, davanti
a lei, sto contravvenendo a questa stessa scelta). Non perché abbiamo paura.
Noi non abbiamo paura di niente e di nessuno, ma solo perché siamo di fronte a
una situazione talmente complessa che fare dichiarazioni, specie se di parte,
serve a poco. Abbiamo fatto semplicemente la scelta di stare con la nostra
gente e aiutarla nei bisogni quotidiani. In questa guerra non c’è una parte
giusta e una sbagliata. Abbiamo, quindi, scelto di stare al nostro posto: con
la popolazione. Non potremo forse portare la pace, ma potremo consolare
qualcuno».
Ci sono diversi religiosi nelle mani dei ribelli, tra cui
il vescovo ortodosso di Aleppo, Boulos al-Yazigi, il siriaco ortodosso Youhanna
Ibrahim e padre Paolo Dall’Oglio. Si sa qualcosa di loro?
«No, non sappiamo nulla di preciso. Quello dei ribelli
non è un gruppo omogeneo, ma una galassia indefinita ed è molto probabile che
si passino i prigionieri da un gruppo all’altro».
Il vescovo siro cattolico di Damasco, Ignace II Younan,
prima del rapimento, aveva criticato Paolo Dall’Oglio per le sue dichiarazioni
anti Assad, dicendo che – senza il partito Ba’ath (il partito del
presidente, ndr) -, Mar Musa (il monastero di Dall’Oglio, ndr) non
sarebbe mai potuto esistere.
«Sono questioni complicate in cui è difficile entrare e
giudicare. Credo che ciascuno debba fare la sua parte. I religiosi devono fare
i religiosi. Il nostro compito non è quello di entrare in questioni politiche
perché verremmo trattati da politici. Il nostro ruolo è, l’ho già detto, stare
con la gente: aiutarla, sostenerla. Naturalmente non puoi essere cieco rispetto
a ciò che sta accadendo. Devi sempre parlare di rispetto, di giustizia… ma alla
fine in momenti così gravi qualunque cosa tu dica è sbagliata».
Tra il 2011 e il 2013 le organizzazioni umanitarie
cattoliche hanno raccolto 72 milioni di euro da mandare in Siria. Come è
possibile, in una situazione così caotica, gestire questi aiuti? Come possono i
donatori essere sicuri che questi aiuti raggiungano effettivamente le
popolazioni a cui sono diretti?
«I bisogni sono tanti e in questo momento di guerra non
puoi pensare al futuro, ma al presente, a come aiutare la gente a continuare a
esistere. Uno dei problemi principali è quello dei profughi sia all’interno del
paese sia all’esterno, nei campi, soprattutto in Giordania e Libano. Lì c’è
bisogno di tutto. Occorre provvedere per l’assistenza immediata: medicinali, cure
mediche, viveri, vestiti. All’interno della Siria i soldi vanno a tutte quelle
famiglie che, a causa della guerra, debbono spostarsi. Bisogna cercare loro il
luogo in cui andare, trovare nuove scuole, spesso i prezzi esplodono e c’è chi
ne approfitta. Le chiese sono impegnate a dare un aiuto a queste famiglie nella
maniera più cornordinata possibile. Uno dei principali problemi è quello di unire
e cornordinare i vari gruppi all’interno della Chiesa, ma anche tra le varie
organizzazioni umanitarie, tra le Ong. Altro non si può fare. Io, come
francescano, posso garantire che, per quanto riguarda noi, siamo abbastanza
precisi e ferrei tenendo presente che, prima o poi, qualcuno ci chiederà di
rendere conto di quello che è stato fatto».
«Tutti i luoghi sono stati colpiti; non solo quelli
cristiani, ma anche quelli musulmani. Al Nord in maniera molto più pesante che
al Sud. Non possiamo dire se siano stati colpiti intenzionalmente o no. Di
conseguenza è molto difficile dare un’interpretazione».
Un possibile scenario potrebbe prevedere la divisione
della Siria in un Sud alauita pro-Assad e un Nord sunnita-salafita filo-turco.
Se questa ipotesi si avverasse, lo spazio geopolitico della regione sarebbe
diviso nettamente in due: un Sud filo-iraniano confinante con Israele (e quindi
possibile teatro di scontro tra Tel Aviv e Teheran) e un Nord più radicale, ma
più vicino all’Europa e filo-turco.
«Non posso prevedere come evolverà la guerra. Si parla,
effettivamente, di questa possibile divisione e della creazione di una Grande
Turchia, ma è ancora presto per dirlo. Anche i programmi più cinici devono fare
i conti con il territorio. Quindi, in qualunque direzione si vada, non sarà mai
una soluzione facile e pacifica».
Tags: Siria, pace, guerra, ecumenismo, jihad, fondamentalismo, cristiani
Piergiorgio Pescali