Migrazioni: mai in crisi

Caritas: presentato
il rapporto immigrazione 2013

La Caritas e
Migrantes presentano il nuovo rapporto sull’immigrazione. Il fenomeno a livello
globale è in aumento. Mentre la crisi economica tocca oggi anche gli stranieri.
Spingendo molti, per questo motivo, a incrementare la migrazione di ritorno. E
le famiglie riprendono a dividersi. Intanto sul fronte dell’integrazione la
strada da fare è ancora molta.

Il 5 febbraio a Torino, Caritas e Migrantes hanno
presentato il XXIII Rapporto immigrazione 2013. Il
tema prescelto quest’anno è: «Tra crisi e diritti umani. Connessione tra crisi
e irrinunciabile rispetto dei diritti umani». Il volume è ricco di dati, molto
utili per chiunque s’interessi di migrazione.

Dopo
aver presentato una sezione che riassume i principali avvenimenti riguardanti
l’immigrazione nel mondo, nel 2013, l’opera analizza il fenomeno migratorio, a
livello mondiale ed europeo, alla luce della crisi economica che ha colpito il
pianeta da ormai sei anni. Un contesto che nel 2012 ha visto oltre 232 milioni
di persone lasciare il proprio paese per andare a vivere in un’altra nazione.

Oltre
ai contributi su temi specifici, vengono presentati anche tematici su questioni
che riguardano i migranti (per esempio: l’acquisto della casa, l’istruzione) e
vari riquadri che illustrano alcune tra le diverse iniziative messe in campo
dalle diocesi in Italia per venire incontro ai bisogni dei migranti.


Non solo Italia

Nell’analisi
delle migrazioni inteazionali, un’attenzione particolare viene prestata alla
situazione nei paesi del Golfo Persico che negli ultimi decenni hanno visto
arrivare moltissimi lavoratori esteri, tanto che i migranti rappresentano in
media oltre un terzo della popolazione locale. Nel piccolo stato del Qatar i
cittadini stranieri sono addirittura oltre i tre quarti della popolazione
residente.

Per
quanto riguarda l’Italia, apprendiamo dal rapporto che proprio grazie agli
immigrati la popolazione italiana è in crescita: all’inizio del 2013, in Italia
risiedevano quasi 60 milioni di persone, di cui 4,4 milioni di cittadini
stranieri (il 7,4%). Grazie alle nascite, i cittadini stranieri sono
incrementati di oltre 334 mila unità.

L’Italia
è un paese in cui le famiglie di cittadini migranti hanno in media più figli di
quelle italiane, ma è anche un territorio di ingresso per nuovi migranti,
soprattutto quelli che si ricongiungono con familiari già presenti. Per molti
cittadini di altri paesi l’Italia è soprattutto luogo di transito per giungere
in altri stati europei in grado di offrire opportunità migliori di lavoro e di
inserimento sociale.

La crisi e i migranti

La
sezione «Leggere l’immigrazione» tratta in profondità la crisi economica in
Italia e la sua ricaduta sul mondo delle famiglie di migranti. Più «allenate»
degli italiani ad affrontare difficoltà e sacrifici, molte famiglie migranti
soffrono tuttavia lo stress della perdita del lavoro, che è solo la prima tappa
per il decadimento progressivo del tenore di vita. Spesso al licenziamento
segue il taglio delle foiture di luce e gas, lo sfratto, la miseria. Di
fronte a questa prospettiva, alcune famiglie decidono di ritentare la fortuna
emigrando nuovamente, possibilmente nei paesi del Centro Nord Europa. In altre famiglie,
i genitori decidono, con molta sofferenza, di separarsi dai propri figli (e
talvolta dai congiunti), anche in tenera età, per rimandarli (o mandare quelli
nati in Italia) nel paese d’origine, perché non sono più in grado di
mantenerli.

Un
altro tema cruciale che il rapporto affronta è quello dei migranti e della
casa. Non sono pochi i cittadini stranieri che si adattano a vivere in alloggi
precari e ristretti, a volte addirittura garage grossolanamente ristrutturati,
con i servizi igienici estei, con riscaldamento assente o insufficiente. Sono
i bambini a soffrire per queste situazioni, soprattutto per l’umidità e il
freddo che ristagnano in questo tipo di abitazioni.

Integrazione?

Importante è anche il discorso relativo all’integrazione
dei cittadini residenti in Italia, nella società che li ospita. Qui entrano in
gioco la scuola e leggiamo nel rapporto, che gli studenti stranieri sono in
genere orientati a una formazione che conduca all’ottenimento di un lavoro in
tempi brevi, per poter aiutare la famiglia. Sono quindi preferite le scuole
tecniche di formazione professionale. Sempre per quanto riguarda
l’integrazione, il rapporto tratta la questione della cittadinanza italiana per
gli stranieri, il cui iter è alquanto lungo e sofferto. Non manca un
approfondimento sui matrimoni cosiddetti misti e interconfessionali e su altri
aspetti che l’arrivo di religioni differenti da quella cattolica e cristiana
comporta per la società italiana.

Il
rapporto affronta anche la questione dei Cie (centri di identificazione ed
espulsione). Dubbi sono espressi sulla loro legalità, come anche sulla loro
ragione di essere. Paiono strumenti, peraltro costosi, elaborati per
tranquillizzare una opinione pubblica timorosa degli arrivi di nuovi migranti.

L’argomento
successivo riguarda la tratta e lo sfruttamento di esseri umani per
l’arricchimento di loro simili: un fenomeno variegato e in continua evoluzione,
che include la prostituzione, lo sfruttamento dell’accattonaggio, ma anche di
lavoratori impiegati in nero in agricoltura, pastorizia, edilizia, domestico.

Cosa succede sul
territorio

La
terza sezione, «La voce del territorio: la rete diocesana al servizio dei
migranti» illustra, per ognuna delle regioni italiane, la storia e la
situazione attuale del fenomeno migratorio. All’inizio di ogni capitolo
riguardante una regione vengono riportati grafici sui principali paesi
d’origine dei migranti e sugli alunni stranieri che frequentano le scuole fino
alle secondarie di secondo grado. Si spazia dalle grosse difficoltà che
l’accoglienza agli immigrati incontra in alcune regioni italiane, legate a
intoppi burocratici o a inefficienze, allo spirito di solidarietà espresso da
organizzazioni di volontariato, che riesce spesso ad attenuare problemi che
risulterebbero altrimenti esplosivi.

Il
rapporto si chiude con una appendice giuridica, che ci aggioa su temi quali
la cittadinanza, l’emersione dal lavoro irregolare, l’assistenza sanitaria,
ecc. È anche incluso un glossario con i principali termini in italiano e in
inglese, di uso comune nei testi che trattano di migrazione. In conclusione, il
Rapporto immigrazione
2013 è uno strumento estremamente utile per operatori, volontari,
studiosi, o semplici cittadini interessati che vogliano essere aggioati su un
tema in veloce evoluzione, come è quello della migrazione.

Paolo Deriu


Paolo Deriu




Nel mondo dei rasta: Le lunghe trecce

Religioni nella Bahia/1.

«Voglio muovere il cuore di ogni uomo nero perché tutti gli
uomini neri sparsi nel mondo si rendano conto che il tempo è arrivato, ora,
adesso, oggi, per liberare l’Africa e gli africani. Uomini neri di tutto il
mondo, unitevi come in un corpo solo e ribellatevi: l’Africa è nostra, è la
nostra terra, la nostra patria (…). Ribellatevi al mondo corrotto di Babilonia,
emancipate la vostra razza, riconquistate la vostra terra». (Bob Marley)

La parola «Rastafari» ci fa venire in mente subito tre immagini: la
musica reggae di Bob Marley, le lunghe trecce, i dreadlock, e le manifestazioni degli anni ’70
per i diritti degli afrodiscendenti nel continente americano.

In
Bahia è molto comune incontrare rasta che
suonano o vendono artigianato nel Pelorinho, il quartiere tipico di Salvador, o
lungo l’Orla marittima. Ci sono diverse comunità anche nei piccoli paesi del
litorale bahiano: si tratta di giovani e adulti che vivono in modo frugale, nel
rispetto dell’ambiente, in case costruite con criteri eco compatibili, come
Gabriel e la sua compagna italiana, a Diogo de Mata de Sâo Joâo; o Carlos,
proprietario di un risto-bar attento ai segnali della natura, ostile al
consumismo e agli sprechi; o Marquinho, che vive nel mezzo del mato,
nella foresta, in una casina di adobe (mattoni
di fango e paglia, ndr), circondato da animali,
piante e sorgenti, dedicandosi a creare magnifiche collane, anelli e bracciali
di metallo incastonato di pietre; o Sidney Rocha, teologo e artista, che passa
molto tempo fuori dal caos di Salvador, a pescare, meditare e a scrivere
poesie.

Per
ognuno di loro, natura, impegno sociale, politico e ambientale sono elementi
che non si disgiungono dalla fede religiosa in Jah
(Jahwé) e in una profonda consapevolezza del proprio posto nel mondo. La loro
lotta contro «Babilonia», il «male», il «sistema oppressore», le «istituzioni»
corrotte in cui non si riconoscono, è realizzata nella quotidianità della realtà
in cui vivono.

Ovviamente,
a fianco dei rasta impegnati e coscienti, ci sono altri che, pur apparentemente
simili – dreadlocks, abbigliamento
colorato, musica – si dedicano ad attività meno educative, ciondolando per le
strade o nelle spiagge, pieni di alcornol e macogna (marijuana,
ndr). «Non sono veri rasta», spiega con una punta di
fierezza e severità Sidney Rocha, «sono emarginati, poveracci che stanno
distruggendo la propria vita, vittime di un sistema sociale e politico che crea
miseria e alienazione».

«In
Brasile, il rastafarismo, ovvero “Legione Rasta”, iniziò a diffondersi tra la
fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 – racconta il teologo -. Siamo
stati molto perseguitati, perché la Chiesa non ha mai accettato la nostra
storia. Dentro il movimento ci sono tante correnti, gruppi: Twelve
Tribes of Israel, i Nyabinghi, i Bobo
Ashanti e gli Ortodossi, sono alcune. La nostra è una religione, ma non nel
senso occidentale del termine. Per noi la religione è vita. Ci si riunisce per
la cerimonia della preghiera comunitaria, con suoni di tamburi e canti, il
Nyabinghi (Ni-uh-bin-gee), per leggere la Bibbia e fumare marijuana, il cui
uso, tuttavia, non è obbligatorio. Quest’ultima è usata come rituale».

Hailé Selassié, il
Leone di Giuda

Anche
nel resto del mondo il rastafarismo è diventato particolarmente famoso negli
anni ’70 -’80, attraverso la musica e la vita di Bob Marley, il grande autore
giamaicano. Ha tuttavia una storia di religione organizzata che risale agli
anni Trenta, con l’ascesa al trono dell’imperatore di Etiopia Hailé Salassié
(al secolo Tafari Makonnen Woldemikael) nel 1930, e una mitologia molto più
antica, che arriva all’epoca del Re Salomone.

Filiazione
sincretica di giudaismo e cristianesimo, e con alcuni aspetti presi, ma anche
foiti, all’islam, questo movimento politico e religioso affonda le radici, la
propria dottrina e fede nelle religioni semitiche monoteistiche e patriarcali
del Vicino e Medio Oriente.

Spiega
ancora Rocha: «Il termine rastafari deriva dal nome proprio dell’imperatore
etiope, Tafari, preceduto da Ras (capo), che, asceso al trono, prese quello di
Hailé Selassié, cioè “Potenza della Trinità”: egli era considerato erede della
dinastia salomonide, originante dall’unione del re Salomone con Makeda, la
regina di Saba, da cui nacque il capostipite Ebna la-Hakim (poi Menelik I), re
d’Etiopia. Tafari salì al potere con il titolo di Re dei Re (Negus Neghesti),
Eletto di Dio, Luce del Mondo, Leone Conquistatore della tribù di Giuda».

Egli è
considerato la seconda incarnazione di Gesù, ma in gloria e potenza, non più
come l’Agnello di Giuda ma come il Leone, secondo una tradizione profetica,
in quanto discendente di Hakim-Malik, e dunque membro della tribù di Giuda.

Dottrina e fondamenti

Una
parte della dottrina del rastafarismo si basa sulla vita e sugli insegnamenti
di Hailé Selassié I, – in quanto la sua figura rappresenta il Cristo
(l’Illuminato) ritornato in Gloria, l’incarnazione di Jah, Dio, sceso sulla
Terra per portare la liberazione alle popolazioni nere -, su quelli teologici e
morali di Gesù, e della tradizione etiopica ortodossa.

Nel
loro credo sono contemplate la divinità di Gesù Cristo, la Trinità, la
resurrezione della carne, l’immortalità dell’anima, tutti i dogmi stabiliti
dalla Chiesa ortodossa etiope, e il millenarismo, la parusia (presenza divina, ndr) di
Cristo e il suo Regno terreno prima della fine dei tempi, e il giudizio
universale, secondo l’Apocalisse di Giovanni. Hailé Selassié I si manifesta nel
mondo per realizzare questa profezia.

I
rastafariani credono che si possa giungere alla salvezza mediante la fede nel
divino e il rispetto della morale naturale, qualunque sia la propria religione
o teologia, per questa ragione rispettano gli altri culti, considerati da
Selassié «vie del Dio vivente», che non è possibile giudicare. Essi, pertanto,
avversano il settarismo religioso.

Inoltre,
credono che l’imperatore Tafari non sia morto, ma si sia volontariamente
occultato – qui mostrando analogie con Mahdismo sciita – agli occhi degli
uomini, in quanto rappresenta il Cristo ritornato glorioso in terra, morto una
sola volta e risorto per sempre. Dunque, la sua seconda discesa nel mondo
rappresenta non più il sacrificio per la redenzione degli uomini, ma il tempo
del Regno glorioso.

Nazionalismo e
africanismo

La
questione dell’Africa, in quanto continente impoverito e sfruttato da secoli di
colonialismo occidentale, per i rastafari è di grande e prioritaria importanza.
«Il rastafari non è solo una religione – aggiunge Rocha -, ma anche un
movimento politico nazionalista, che si ispira ai discorsi di Marcus Mosiah
Garvey». E a quelli dell’etiopismo.

L’etiopismo
è un movimento nazionalista che vede la luce ai primi dell’800, nel tentativo
di organizzare e liberare, sotto l’emblema della monarchia dell’Etiopia, i
popoli neri dell’Africa colonizzata. La liberazione doveva passare attraverso
un percorso di cambiamento spirituale, culturale, economico e politico. Guidati
da Garvey, considerato dai rastafari come una sorta di «precursore» – come
Giovanni Battista – del ritorno del Cristo maestoso nella persona di Hailé
Selassié, i membri del movimento fecero dell’Etiopia il centro del loro
messianismo, in quanto il ritorno del popolo nero alla patria africana
(schiavizzati e loro discendenti) sparsi nella Diaspora è parte integrante
della visione millenarista dell’etiopismo, su cui il rastafari basò il proprio
sviluppo politico.

Tale
movimento, a partire dal 1800, cominciò a diffondersi sia tra le popolazioni
africane sia tra le comunità nere in America, sostenendo la lotta per la dignità
nazionale e culturale avendo come punto di riferimento l’Etiopia.

Fu
dopo l’incoronazione di Selassié che gli etiopisti riconobbero in lui il Messia
che ritornava potente, vittorioso e liberatore.

Il
movimento fece proselitismo in Africa, nel continente americano, nelle Indie
occidentali (le Antille, ndr), in Inghilterra,
espandendosi poi anche in altre parti del mondo, sia attraverso il Kebra
Nagast, il loro libro sacro, sia attraverso la musica, il reggae, che ne
diffonde il messaggio religioso e politico.

Etica
internazionale basata sull’autodeterminazione dei popoli, sull’uguaglianza dei
diritti e sulla non ingerenza, e sul riconoscimento di un ordine sovranazionale
che rigetti guerre e conflitti: questi sono alcuni dei principi politici
inteazionali del rastafarismo, per il quale, insiste il teologo Sidney: «È
anche necessario costruire sistemi “liberali e democratici” che rifiutino ogni
ideologia totalitaria, di destra o sinistra che siano, che deviano il cammino
diretto verso Dio, Jah, dell’essere umano».

Il
loro ideale di stato prevede che esso, seppur laico, debba garantire la libertà
religiosa.

Essi si rifanno al movimento del panafricanismo e
all’esempio di Hailé Selassié I, considerato «Padre dell’Africa Unita» e
fondatore dell’Organizzazione dell’Unità Africana. In tutte le loro canzoni, e
in altre espressioni culturali, i rasta parlano del loro sogno di un continente
unito e libero dal dominio straniero, e del riscatto identitario. Per superare
la propria storia di schiavitù e oppressione, gli africani e i loro fratelli
sparsi nel mondo, devono ricordare e esaltare le proprie origini e dedicarsi a
tale causa. In questa prospettiva Selassié mise a disposizione un vasto
territorio in Etiopia per permettere, a chi volesse, di «ritornare» nella
patria africana.

Il Kebra Nagast, la gloria dei Re

È la «Bibbia
africana». Nel libro Kebra Nagast (la
Gloria dei Re), antico testo etiope, si racconta del trasferimento dell’Arca
dell’Alleanza, per mano di Ebna la-Hakim, da Gerusalemme al Regno di Saba. Tale
trasferimento è interpretato dai rastafari come un passaggio della discendenza
salomonica di Israele all’Etiopia, la cui antica dinastia, che giunge fino a
Hailé Selassié, è così considerata di tradizione «divina». Secondo la
tradizione raccolta nel Kebra Nagast, i rastafari credono che

l’Etiopia
sia la «Nuova Gerusalemme», la nazione destinata a custodire la cristianità
fino al secondo ritorno di Gesù Cristo, avvenuto nella persona dell’imperatore
Selassié.

Spiega
Rocha: «Il libro racconta, tra le altre vicende, l’incontro tra il Re Salomone
e la Regina di Saba (riportato da 1 Re, 10 e 2 Cronache, 9), la quale, colpita
dai racconti sulla grande saggezza del sovrano, va a Gerusalemme. Dalla loro
unione (cui però la Bibbia non fa alcun cenno) nascerà Ebna la-Hakim, poi
Menelik I, capostipite della dinastia regale etiopica. L’Etiopia avrà il
compito di custodire la purezza del cristianesimo, dopo il rifiuto del popolo
d’Israele, e la missione della discendenza davidica sino al ritorno glorioso di
Cristo. Secondo tale tradizione, l’Arca dell’Alleanza, portata da Menelik nel
paese, è la conferma del ruolo e dell’elezione dell’Etiopia».

Il Kebra
Nagast si rifà ai testi biblici ma, nelle redazioni successive, anche a
leggende etiopi, egiziane e copte, e a elementi coranici (la sura
dell’Ape, per esempio) e testi cristiani apocrifi. E, nello stesso tempo,
influenzò, insieme alle tradizioni giudaiche e cristiane, quella islamica.

I dreadlocks e il mito di Sansone

I
rasta sono noti per i dreadlocks, trecce posticce
attaccate ai capelli. «Si tratta di un’usanza diffusa – racconta Sidney Rocha
-, che rappresenta un voto biblico, il nazireato, di cui parla Numeri, 6, 5: “Tutto
il tempo del voto della sua consacrazione, il rasoio non passerà sul suo capo:
finché non sono compiuti i giorni per i quali si è consacrato all’Eteo, sarà
santo; lascerà che i capelli del suo capo crescano lunghi”».

Secondo
il Kebra Nagast, un
angelo apparve alla madre di Sansone, imponendole di non tagliare i capelli al
figlio, e di lasciarlo crescere puro. La storia tragica e coraggiosa di Sansone
la ricordiamo bene, ma la sua immagine di uomo forte, reso cieco e prigioniero,
senza capelli, per i rastafari rappresenta ciò che può capitare a chi esce dal
cammino divino e scende a compromessi con Babilonia, simbolo di male e
corruzione, denaro, avidità, tentazioni e passioni per donne malvagie (come la
filistea Dalila che sedusse Sansone). Dunque, i capelli lunghi sono un simbolo
di morale e di integrità, di cammino nel sentirnero stabilito da Dio.

Tuttavia,
è anche un’usanza che arriva dall’Africa orientale, dove guerrieri e membri di
varie tribù usano portare i dreadlocks.

Le
trecce rasta hanno iniziato a fare la loro comparsa durante le manifestazioni
per la rivendicazione identitaria in Giamaica. Per un rasta essere negro, con dreadlocks e barba,
significa assomigliare di più all’immagine storica di Gesù, Yeshua.

Negli
anni ’70 furono perseguitati in tutto il continente americano: furono
aggrediti, imprigionati, costretti al taglio delle trecce perché
rappresentavano una minaccia per il «sistema».

La donna e il
rastafarismo

Il
rastafari segue la millenaria tradizione delle religioni semitiche patriarcali
(giudaismo e islam), per le quali la femmina riveste un ruolo subordinato al
maschio, è impura e veicolo di tentazioni e peccato. Per i rastafari quindi il
compito principale della donna, appellata come «regina», è di occuparsi del «re»,
cioè del marito; essa è subordinata all’uomo e deve essergli fedele; deve
occuparsi della casa e della prole; non può essere un leader. L’uomo è il capo
spirituale della famiglia.

La
donna, inoltre, non deve indossare abiti o trucchi che la rendano un’attrattiva
sessuale per altri uomini o usare sostanze chimiche nei capelli.

Scrive
l’antropologo Livio Sansone in «Tendencias en blanco y negro: punk y
rastafarianismo», Revista de Estudios de Juventud, n. 30, 1988, Madrid,
pp.73-86: «La sessualità femminile è vista come dipendente: […]. La donna rasta
deve essere coperta dalla testa ai piedi, non deve mai sciogliersi i capelli di
fronte a nessun altro che non sia il suo “re”, poiché ella deve continuare a
essere ciò che il rastafarismo chiama “La Madre Terra Africana”».

Anche per pregare deve coprirsi i capelli, secondo quanto
stabilito nella 1 Corinzi, 11, 5: «E le donne che pregano o proclamano il
messaggio di Dio durante cerimonie pubbliche senza indossare nulla sul capo,
disonorano il proprio capo». E anche Efesini, 5, 22: «Le mogli siano sottomesse
ai loro mariti come al Signore».

Diversamente
dalla società matriarcale giamaicana, dove il rastafarianesimo si è sviluppato,
esso afferma la superiorità gerarchica dell’uomo sulla donna, «primo tra pari»,
perché la donna, come Eva, è causa dell’introduzione del male nel mondo, e
veicolatrice, con la sua sensualità, di tentazioni e peccato. Ella può
purificarsi solo nella relazione con il marito e nella sua fedeltà a esso, e
nella famiglia.

Quanto
a quest’ultima, spiega Sansone nel suo articolo: «Per il rastafari, la famiglia
si rivendica e si riscopre nella forma che essi considerano essere la loro
famiglia africana (basata sulla poligamia, ma praticata in Occidente)».

In
sintesi, nel rapporto uomo-donna, da parte del maschio vi è una ricerca
esplicita della sensualità, mentre quella femminile è repressa e dipendente
dalla relazione di esclusività con il marito.

L’erba del Giardino
dell’Eden

Nei
loro culti, i rastafari fanno uso di ganja-marijuana, in quanto mezzo
spirituale e rituale per ottenere doti di saggezza e chiaroveggenza, e come
erba medicinale. La marijuana è associata all’Albero della Vita e della
Saggezza del Giardino dell’Eden, che stava a fianco dell’Albero della
conoscenza del bene e del male.

«La ganja
– spiega Sansone – rappresenta per i rasta uno strumento per perfezionare la
percezione sensoriale, un dono del loro Dio Negro, qualcosa che i bianchi proibiscono,
precisamente, per impedire la conquista della coscienza da parte della
popolazione Negra».

Il reggae

Dagli
anni ’60, la Giamaica è una fucina di musica che si diffonde in tutto il mondo:
oltre alla sua coinvolgente melodia, il reggae veicola un messaggio religioso,
spirituale e politico.

Un
grande testimone di questa musica è stato Bob Marley, il cui talento e carisma
hanno portato il reggae a essere conosciuto e apprezzato a livello
internazionale, e così pure il rastafarismo.

Roots
reggae è il nome del genere di reggae rastafari: si tratta di un tipo di
musica spirituale, i cui testi elogiano Jah, e invitano alla resistenza contro
l’oppressione. «Nei testi di musica reggae s’incontra il termine “apocalisse” –
afferma Sansone -, ma più spesso la predizione dell’Armageddon: la battaglia
finale del giorno del Giudizio, nella quale senza dubbio, i rastafari usciranno
vincitori e potranno dirigersi con la testa alta verso un futuro radioso,
promossi come Nuovi Israeliti, nuovo Popolo Eletto».

L’abbigliamento. Scrive ancora Sansone: «[…] i vestiti del rasta sono colorati e vivaci; il
rasta vuole sembrare attraente nella sua naturale bellezza africana e
l’attenzione è rivolta a sottolineare armonia […]. Anche i passi di danza sono espressione della ricerca di armonia,
bellezza e plasticità (blu danza). […]
L’armonia della danza è omologa alla melodia della musica reggae, al suo carattere fluido, al suo
timbro basso e al suo insieme conciliante […]».

Un’altra
caratteristica rastafari è il tam,
copricapo con i colori della bandiera etiope.

Angela Lano
 
Il panafricanismo venuto dai Caraibi


Il profeta Marcus

I rasta considerano Marcus Mosiah Garvey un profeta, la cui
ideologia e filosofia ha fortemente influenzato il movimento. Garvey promosse
il «Nazionalismo nero» e il «Panafricanismo». Egli lavorò per la causa dei
popoli neri negli anni ’20 e ’30 e le sue idee influenzarono molto le classi
popolari in Giamaica e il rastafarismo stesso.

Il panafricanismo è un movimento che incoraggia la solidarietà
e l’unità tra i discendenti africani nella diaspora. La sua ideologia si basa
sul concetto che tutti i popoli africani siano interconnessi: «I popoli
africani, sia nel continente sia nella diaspora, non condividono solo una
storia comune ma anche un destino comune» (Minkah Makalani).

L’organizzazione politica panafricana più grande e
conosciuta è l’Unione Africana.

Angela Lano

«The Marcus Garvey and Universal Negro Improvement
Association Papers», vol. IX: Africa for the Africans, June 1921-December 1922.

 

Angela Lano




La nuova via Birmana – 2

A colloquio con Aung San Suu Kyi

 

Idee e progetti della «Signora»

 

Nell’autunno 2013 Aung San Suu Kyi ha concluso il suo tour europeo in Italia, da cui mancava da quarant’anni. L’abbiamo incontrata prima
della sua partenza per il rientro nel Myanmar. Nel 2015 sarà lei il nuovo presidente del paese?


Signora San Suu Kyi, può fare un bilancio del suo viaggio in Europa?

«Ogni viaggio porta con sé dei ricordi indelebili. Sono stata in paesi in cui non ero mai stata, come la Polonia, e in altri, come il vostro, da cui mancavo da decenni. Ho incontrato persone meravigliose, persone che per anni si sono prodigate affinché in Birmania tornasse la democrazia, e persone da profondi principi umani e spirituali».

Quando parla di uomini dai profondi principi umani e spirituali pensa a qualcuno in particolare?

«Sicuramente esistono persone che ti colpiscono per la gentilezza e la spiritualità che sprigionano con la loro voce, il loro sguardo, le loro parole. Il papa, ad esempio, mi ha colpito molto. Con lui mi sono trovata subito in sintonia, in particolare sulla necessità di valorizzare sentimenti come amore e comprensione per fugare le paure che dividono i popoli. Purtroppo non abbiamo avuto molto tempo per approfondire la conversazione, ma gli argomenti toccati, il suo acume e la sua semplicità mi sono rimasti impressi. È una persona con cui mi sono sentita immediatamente in sintonia. Mi piacerebbe incontrarlo ancora».

Lei ha ricevuto tantissime promesse durante la sua visita, specialmente dai parlamentari. Penso sappia che i politici italiani non hanno la fama di mantenere le promesse fatte e l’Italia ha brillato più per la sua assenza piuttosto che per la sua presenza nelle vicende asiatiche. Non vorrei essere pessimista, ma pensa che una volta tornata in Myanmar ci si ricorderà del suo paese nel parlamento italiano?

«Spero vivamente di sì. L’Italia ha appoggiato con forza il movimento democratico e numerose personalità del mondo dello spettacolo, della cultura, della politica si sono esposte in primo piano nella difesa dei diritti umani in Birmania».

A proposito di diritti umani: a che punto siamo nel processo di pacificazione con i gruppi etnici?

«Ci sono alti e bassi: il governo insiste affinché sia il parlamento a discutere la questione etnica. In effetti ci sono diversi membri che rappresentano le etnie nel nostro parlamento ed è per questo che, in questa sede, il dialogo sta già avvenendo. Da parte loro, i gruppi etnici chiedono che la questione sia discussa al di fuori del parlamento e con terze parti che facciano da garanti. Ciò che è venuto a mancare durante gli anni della dittatura militare è la capacità del dialogo e del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle sue richieste e questo porta inevitabilmente a uno stallo dei negoziati».

È ciò che sta avvenendo anche nello stato Rakhine tra musulmani e buddisti?

«In un certo senso sì, anche se lì non direi che si tratti di un conflitto etnico. È un contrasto completamente differente da quello in atto nelle altre parti del paese, alimentato da un senso di terrore che serpeggia in entrambe le comunità».

La paura è, quindi, secondo lei, una delle ragioni per cui nello stato Rakhine la comunità buddista e quella Rohingya musulmana si stanno fronteggiando violentemente. Nega, quindi, che vi siano ragioni più profonde nel conflitto etnico-religioso?

«Prima di tutto vorrei specificare che non siamo di fronte ad un conflitto etnico».

Su questo, organizzazioni che si occupano di diritti umani e di sviluppo umanitario non sono assolutamente d’accordo con  lei e l’hanno anche duramente criticata.

«Ribadisco che è la paura la causa delle violenze in atto tra buddisti e musulmani e non la differenza etnica. La comunità internazionale punta il dito accusatore solo verso i buddisti, ma anche loro hanno subito violenze. Ci sono migliaia di buddisti che sono dovuti fuggire durante il regime militare e ancora oggi vivono in campi profughi».

Associazioni e movimenti che si occupano della questione all’interno dello stato Rakhine l’hanno accusata di non voler difendere i diritti della comunità islamica per un puro calcolo elettorale in vista delle elezioni presidenziali del 2015.

«Posso rispondere dicendo anch’io che le loro accuse sono un’assurdità. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia d’immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi estei possano destabilizzare il paese».

È, però, un dato di fatto che vi sono movimenti buddisti, come il Movimento 969, che istigano alla xenofobia, se non addirittura alla violenza.

«Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo a istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate».

 

Qual è, quindi, la soluzione che propone?

«Il primo punto del mio programma politico è far rispettare le regole. In Birmania, come in altri paesi del mondo, si ha la percezione e la paura che vi sia un potere musulmano globale che possa destabilizzare i paesi in cui questo potere si insinua. Ciò significa che il problema di cui stiamo discutendo non è solo un problema birmano, ma internazionale. Lei mi chiede quale soluzione propongo. È semplice: io la chiamo rispetto della legge e della giustizia. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per decenni i regimi militari birmani non hanno controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano, deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale e garantire la cittadinanza a chi ne ha diritto».

Lei sa bene che è difficile dimostrare, per chi non ha documenti, che risiede in Birmania da più generazioni. Inoltre il governo non riconosce a priori i Rohingya come gruppo etnico, ma li considera bengalesi, quindi cittadini del Bangladesh. Come vede, è una strada a vicolo chiuso.

«È per questo che chiediamo che ci sia un confronto non solo all’interno della Birmania, ma anche con il Bangladesh».

I discorsi enunciati in questo tour sono tutti focalizzati alla necessità di emendare la costituzione del 2008 che vieta a cittadini come lei, che ha parenti con passaporto straniero, di candidarsi alle presidenziali del 2015. Non pensa che ci siano punti ben più importanti da emendare, come il 25% dei seggi riservati ai militari nel parlamento o come la possibilità che il comandante delle Forze Armate possa, in caso di necessità, prendere il comando del governo?

«Sì e no. Per la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso che sia un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente. Non mi preoccupa il 25% dei seggi riservati ai militari nel parlamento quanto, piuttosto, il pericolo che il comandante delle Forze Armate possa arrogarsi il diritto di amministrare l’intero governo; ebbene, quello, invece, è sicuramente un punto di pericolo che rischia di arrestare le riforme. Così come la mancanza di un potere giudiziario indipendente dal potere legislativo ed esecutivo. Capisco anche che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale possa essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo.

Mi permetta anche di evidenziare che l’emendamento della costituzione è solo il terzo punto del mio programma dopo il rispetto delle leggi e la fine delle guerre civili. Sono una politica e come tale ho degli obiettivi. Uno di questi è dare al mio popolo la democrazia. Questo è il senso dell’emendamento da me richiesto: permettere al popolo di decidere chi lo rappresenta».

 

Quale sarà il suo programma nel caso possa candidarsi?

«Non voglio fare promesse che non posso mantenere. Non voglio dire che, se diverrò presidente, il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), porterà pace e benessere per tutti. Abbiamo sempre detto che faremo del nostro meglio e ciò che prometto è esattamente il meglio che posso offrire. I tre punti principali del mio programma sono tre: far rispettare le leggi, porre fine alle guerre civili ed emendare la Costituzione».

Il secondo punto sarà sicuramente il più impegnativo. Neppure il cosiddetto governo democratico che ha retto la Birmania tra il 1947 e il 1962 è riuscito a porre termine alle guerre etniche.

«Il grosso problema è che i regimi militari ci hanno fatto perdere la capacità di dialogare e di mediare. Sotto lo Slorc (State Law and Order Restoration Council, ndr) prima e l’Spdc (State Peace and Development Council, ndr) dopo, non c’è mai stata libertà di parola o di scelta. Tutto veniva imposto dall’alto, anzi, direi da una ristretta cerchia di persone. Oggi, con le riforme in atto, dobbiamo riacquistare la capacità di dialogare. Ma questo significa anche sapere che non si potrà mai ottenere il 100% di ciò che si chiede».

Le riforme in atto dal 2010 hanno già portato a notevoli cambiamenti in Myanmar. Oggi ci sono meno di 100 prigionieri politici nelle prigioni birmane, quando solo tre anni fa erano più di 2.000. Secondo lei c’è ancora la possibilità che i militari possano riprendere il potere e arrestare il processo democratico?

«Certamente. È per questo che ho chiesto anche all’Italia di appoggiarci nella strada verso la democrazia. Penso che vi siano frange all’interno del Tatmadaw (le Forze armate, ndr) che si oppongono alle riforme».

Chi potrebbe essere un partner fidato in questa transizione democratica? La Cina, gli Stati Uniti, l’India, l’Asean?

«La Birmania ha sempre avuto rapporti molto stretti ed amichevoli con la Cina e, personalmente, vedo gli investimenti cinesi come un’opportunità per il mio paese. Naturalmente, come ho sempre detto, bisogna che siano investimenti non finalizzati a esclusivo vantaggio di un solo paese o di una classe sociale. Penso sia questa la sfida che andremo ad affrontare nel futuro».

Lei, sin dal primo comizio tenuto alla Shwedagon nel 1988 (a cui io ero presente), ha sempre dichiarato di avere un immenso affetto per i militari, sostenendo che è indispensabile che il Tatmadaw entri a far parte della vita sociale della nazione. Queste sue dichiarazioni, ripetute oggi, sconvolgono non poche persone che l’hanno sostenuta. Sono loro che non hanno capito nulla delle sue idee o è lei che ha cambiato le idee?

«Direi che siamo più vicini alla prima risposta. Sono sempre stata convinta che i militari devono lavorare stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un sentimento particolare per i militari e chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero. Non ho mai cambiato idee nei confronti dei militari e anch’io mi stupisco di come molta gente inorridisca quando affermo di avere grande affetto per loro. Ma dico semplicemente ciò che ho sempre detto da 25 anni a questa parte. Lo ripeto, ho sempre avuto molto rispetto per chi indossa una divisa. Tranne, ovviamente, per alcune persone. Ma sono un’esigua minoranza».

Piergiorgio Pescali




L’asino muoia, ma il carico arrivi

Ritornare in Tanzania con appena 62 anni di missione sulle spalle.

Ottantasette anni compiuti il 5 febbraio scorso, padre Giovanni Giorda, originario di Piossasco (To), missionario della Consolata, ci conduce in un duplice viaggio: nella storia della Chiesa tanzaniana e nella sua esperienza missionaria iniziata 62 anni fa.

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«Nel 2000 in diocesi vi fu un pellegrinaggio della croce. Nella parrocchia di Tosamaganga era programmato per 14 giorni. Un giovane, come risposta a un mio commento sulla fatica di accompagnare la Croce di Gesù per due settimane attraverso tutte le 17 succursali della parrocchia (avevo 73 anni), mi disse: “Punda afe, mzigo ufike”, “l’asino muoia, ma il carico giunga a destinazione”. Anche la gente aveva capito che quell’asino ero io, e il carico era la Croce di Gesù da portare a destinazione, cioè ai poveri, agli ammalati, agli orfani, ai catecumeni». La sua voce ci accompagna in luoghi e tempi lontani. Ci pare di essere di fronte non a una singola persona, ma a un’intera nazione, la Tanzania, e a un’intera Chiesa, quella locale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento. Ci sembra di stare di fronte alle generazioni che si sono avvicendate - anche a quelle vissute prima del suo arrivo - nelle terre in cui padre Giovanni Giorda ha speso più di 60 anni di sacerdozio. Abbiamo la netta impressione che tutte le esperienze vissute in più di mezzo secolo stiano lì, vivide dietro le sue palpebre, scalpitanti dietro le sue labbra, ansiose di lasciarsi conoscere. Forse per questo padre Giovanni tende ad aggirare le nostre domande per seguire un suo filo. Il suo racconto è irrefrenabile, con un suo formulario ben definito, un suo percorso sicuro, affinato da una probabile consuetudine a proporlo e riproporlo con il medesimo intreccio narrativo. La storia in questo modo assume una dimensione quasi epica, che viene suffragata dal volto solcato da rughe profonde, dagli occhi consumati e brillanti allo stesso tempo, da una gestualità insolitamente contenuta per un italiano. Quello che padre Giovanni Giorda ci trasmette è l’esperienza di un Dio che accompagna il suo popolo, i poveri, gli ammalati, i giovani della Tanzania, nel susseguirsi dei decenni, delle storie personali e famigliari, comunitarie e nazionali.
Padre Giovanni, puoi dirci qualcosa di te?
«Sono stato ordinato sacerdote diocesano il 29 giugno 1950 nel duomo di Torino dal cardinal Fossati insieme ad altri ventidue compagni. Oggi siamo rimasti in cinque, gli altri sono in paradiso che pregano per noi. In seminario ho sempre preso parte ai circoli missionari. Dopo l’ordinazione, com’era consuetudine per i preti giovani, sono andato a stare nel Convitto della Consolata. È stato in quel periodo che mi sono deciso, e il 16 luglio 1951, con altri due preti, uno di Mondovì che è poi diventato vescovo in Colombia, mons. Cuniberti, e padre Franco Cravero, originario di Torino, siamo andati alla Certosa di Pesio (Cn) per fare il noviziato dai missionari della Consolata. Il 16 luglio 1952 abbiamo fatto i voti, e quel giorno padre Cravero e io abbiamo ricevuto la lettera con la destinazione: Tanganika (l’attuale Tanzania). Il 9 dicembre 1952 siamo partiti. In treno fino a Venezia, poi in motonave per 14 giorni fino a Dar es Salaam. Sbarcati la vigilia di Natale, abbiamo proseguito via terra per Tosamaganga, a 500 km. Qui abbiamo cominciato la missione».
Quindi Tosamaganga, che è la missione in cui tutt’ora lavori, è stata la tua prima destinazione?
«No. Appena arrivato lì, sono partito per la missione di Malangali, Itengule, a 150 km a Sud, per tre mesi. Poi un padre della missione di Ujewa si è ammalato, e sono andato lì a sostituirlo: era la Pasqua del 1953. Per visitare i villaggi inizialmente andavo a piedi, poi in bicicletta. La zona di Ujewa appartiene alla tribù dei Wasangu. Si trova a un’altitudine di mille metri, ma fa molto caldo, a differenza della zona di Tosamaganga, che è a 1500 metri. La zona del Tanganika del Sud dove ho trascorso tutta la mia vita missionaria si chiama Southe Mainland Province, la zona degli altipiani del Sud, in cui clima e agricoltura sono molto buoni. Ciò che viene coltivato lì serve anche per le altre regioni che sono più secche. Alla fine del 1953 il vescovo mi ha chiesto di andare a insegnare in seminario. Così sono tornato a Tosamaganga. Questa volta per rimanerci diversi anni insegnando filosofia e teologia. Parecchi miei studenti sono diventati sacerdoti e vescovi. Alcuni sono già in paradiso e pregano anche per me».
Puoi raccontarci qualcosa della chiesa locale?
«Per il Tanzania del Sud, Tosamaganga è stata la base dell’evangelizzazione. La chiesa cattolica in Tanganika è entrata nel 1868 con i padri missionari dello Spirito Santo che, arrivando dalle isole Réunion e passando da Zanzibar, sono sbarcati a Bagamoyo. A loro era stata affidata la parte Nord del paese - ricordo che nel 1968, quando ero a Kilolo, una missione nella regione di Iringa a circa 1800 metri di altitudine, al freddo, abbiamo festeggiato i 100 anni della chiesa cattolica Tanzaniana -. Dieci anni dopo, nel 1878, sono arrivati dall’Uganda i missionari d’Africa, i cosiddetti padri Bianchi. A loro era stato affidato tutto il Tanganika dell’Ovest. Rimaneva scoperto il Tanganika del Sud. Così nel 1888, dalla Germania, sono arrivati i missionari benedettini. La loro prima missione è finita male: arrivati a Dar es Salaam si sono messi a liberare gli schiavi, e gli arabi che facevano affari con il commercio degli schiavi sono saltati loro addosso uccidendone diversi. La seconda spedizione è avvenuta nel 1891. Questa volta è andata meglio, e nel 1896 sono arrivati a Tosamaganga i primi due missionari. Per quella regione del paese il governo colonizzatore tedesco aveva messo il proprio quartier generale a Iringa, che è attualmente la capitale della regione omonima di Iringa. Lì, ai tempi, c’era il sultano dei Wahehe. I due benedettini, arrivati nella zona proprio per evangelizzare i Wahehe si sono stabiliti su una collina, non troppo vicini e nemmeno troppo lontani dal quartier generale dei tedeschi, distante circa 12 km. Il 1° gennaio 1897 la stazione missionaria di Tosamaganga è stata inaugurata. In quello stesso anno ci sono stati i primi otto battesimi - nell’ufficio parrocchiale conserviamo ancora i registri di quei tempi -, e i benedettini hanno anche fondato un’altra missione per evangelizzare i Wasangu a Madibira, a 150 km a Sud. Nel 1898-99 sono arrivate le suore benedettine. Delle prime quattro, morte giovanissime, si conservano ancora le tombe nel cimitero di Tosamaganga. In seguito i benedettini hanno fondato diverse altre missioni anche a Nord e a Est».  
E i Missionari della Consolata quando sono arrivati?
«Poi è iniziata la prima guerra mondiale. Dal Kenya, colonia britannica, gli inglesi sono scesi in Tanganika per attaccare i tedeschi, e li hanno vinti. I missionari dello Spirito Santo e i padri Bianchi non sono stati toccati, perché non erano tedeschi, ma i benedettini nel 1918 sono stati radunati a Dar es Salaam ed espulsi. Il vescovo del vicariato apostolico di Dar es Salaam, che a quei tempi comprendeva anche il territorio di Iringa, sapeva che in Kenya c’erano dei missionari italiani, e ha scritto una lettera a mons. Filippo Perlo, missionario della Consolata, per chiedergli un “prestito” di personale. È stato così che i primi quattro missionari della Consolata sono partiti per il Tanganika, e sono arrivati a Tosamaganga il 26 maggio 1919. Mons. Perlo li aveva mandati senza interpellare il beato Allamano, e nemmeno il papa. Solo a cose fatte ha scritto una lettera in cui diceva: “In genere, quando uno ha bisogno di aiuto, si rivolge ai ricchi, non ai poveri. Si sono rivolti a noi poveri, per un aiuto. E noi abbiamo risposto di sì, cercando di fare un’opera di carità”». Si commuove padre Giorda ricordando la lettera di mons. Filippo Perlo. La voce gli trema. Quelle parole lo toccano. Le sente sue. «Noi missionari della Consolata siamo arrivati in Tanzania in prestito. E ci siamo ancora. Ora siamo una sessantina senza contare le suore, e siamo presenti in diverse diocesi. Sparsi per il mondo ci sono anche una quarantina di missionari della Consolata nativi del Tanzania. La prefettura apostolica di Iringa è stata eretta nel 1922, separandone il territorio dalla prefettura di Dar es Salaam, e in quell’anno è partita la prima spedizione di missionari della Consolata direttamente dall’Italia, non più dal Kenya: preti, fratelli e suore, arrivati a fine gennaio 1923. Il superiore di quella spedizione era mons. Francesco Cagliero, di Castelnuovo don Bosco, che ha retto quella prefettura dal ’23 al ’35, fondando diverse stazioni missionarie. Morto per incidente stradale, gli è subentrato nel ’36 mons. Attilio Beltramino, che ho assistito all’ultima sua messa il 3 ottobre 1965, quando è morto per infarto. Beltramino in 30 anni ha avviato quasi 30 stazioni di missione. Nel frattempo la diocesi di Iringa è stata divisa in due, con la nascita della diocesi di Njombe. Zone in cui la popolazione era pagana e dove il cristianesimo è stato accolto. Dai missionari della Consolata sono nati anche altri istituti religiosi: mons. Cagliero nel 1931 ha fondato l’istituto delle suore africane di Santa Teresa del Bambino Gesù. Oggi sono circa 400 consacrate. Alcune sono missionarie in Sicilia, altre in Haiti. Mons. Beltramino durante la seconda guerra mondiale ha dato inizio, assieme a padre Ghiotti, alla congregazione dei fratelli africani Servi del Cuore Immacolato di Maria. Oggi una congregazione fiorente presente in diverse zone del Tanzania».
Tornando a te. Dopo Itengule e Ujewa nel 1953, sei andato a insegnare al seminario di Tosamaganga. Quanto sei rimasto lì, e cosa hai fatto dopo?
«Dopo la morte di mons. Beltramino nel 1965, ho lasciato Tosamaganga per andare in una missione appena aperta, Kilolo, dove sono stato fino alla fine del 1969, incaricato della parrocchia e dei fratelli africani. Dal ‘70 sono stato parroco a Tosamaganga. Dopo 10 anni sono ritornato nella zona di Ujewa in cui ero stato all’inizio, nella parrocchia di Chosi, 265 Km a Sud di Iringa, dall’80 all’89. Lì ho patito il caldo come mai in vita mia. Nell’89 sono tornato a Tosamaganga, dove sono stato parroco fino al 2007, quando ho compiuto 80 anni! Da allora sono coadiutore del nuovo parroco, p. Giacomo Rabino».  
Ci puoi parlare dell’aspetto spirituale della tua esperienza missionaria?
«Ormai sono più di 60 anni che vivo in Tanzania. Sono più tanzaniano che italiano. In questi anni ci sono stati alcuni punti forti nella mia vita spirituale. Ne vorrei elencare quattro. Il primo è il motto del beato Giovanni XXIII: “Obbedienza e pace”. Con l’obbedienza si acquista la pace del cuore. Un secondo punto l’ho scoperto nel 1987. Ero venuto in Italia per la mia mamma ammalata. Ritornando in Tanzania ho fatto tappa un paio di giorni ad Addis Abeba. La provvidenza ha voluto che in quei giorni Madre Teresa di Calcutta fosse lì. Ricordo ancora l’incontro che ho avuto con lei. Abbiamo parlato un quarto d’ora. Poi lei mi ha dato un’immagine che raffigurava Gesù flagellato, con le parole del Salmo 69: “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati”. E di suo pugno ha scritto: “Be the one”, “Sii tu quello” (che consola Gesù). Terzo punto, nel 1996. Sulla rivista Jesus ho letto il teologo Hans Urs von Balthasar che spiegava la messa: “Abbiamo ridotto il ‘fate questo in memoria di me’ all’invito a ripetere un rito, ma l’eucaristia presenta Gesù che dà la vita, e quindi quando dice ‘fate questo in memoria di me’, dice ‘fatelo anche voi’, ‘date la vita per i vostri fratelli come io l’ho data’”. Con il quarto punto arriviamo al 2000: ero parroco a Tosamaganga, che allora contava 17 succursali distanti anche 15-20 km. La diocesi di Iringa aveva programmato il pellegrinaggio della croce, che a Tosamaganga è durato 14 giorni. Io ho detto ai giovani che per me sarebbe stata una grande fatica girare per due settimane in tutte le succursali, e un ragazzo mi ha risposto: “Padre, non avere paura”. E poi ha aggiunto: “Punda afe, mzigo ufike”, cioè “l’asino muoia, il carico giunga a destinazione”. L’asino ero io. E il carico era la croce di Gesù. Un proverbio africano che non avevo mai sentito. Anche Gesù dice: “Se il chicco di grano muore porta frutto”. Però io non sono ancora morto, nonostante in questi 60 anni ne abbia corso diverse volte il pericolo. Nel 1982, ad esempio, mi hanno portato all’ospedale di Tosamaganga per la malaria. Una suora mi ha assistito per tutta la notte perché era convinta che io “partissi”. Un’altra volta, nel 1958, sono caduto in un burrone con un camion, ma non mi sono fatto niente… Quello che è importante per me, e per tutti i missionari, è far sì che il carico, cioè Gesù, la sua grazia, il suo perdono, la sua misericordia, la sua bontà giungano alla gente. Facendo quello che faceva Gesù stesso: predicare il Vangelo, curare gli ammalati, insegnare».
Qual è lo stato attuale della Tanzania?
«Abbiamo moltissimi orfani. Alcuni di questi sono sieropositivi. Noi cerchiamo di aiutarli con il cibo, con le spese per la scuola. A Tosamaganga seguiamo almeno una ventina di scuole attraverso i nostri catechisti diffusi sul territorio che ci segnalano le situazioni di difficoltà. Riguardo al cibo, aiutiamo attraverso le nostre piantagioni: abbiamo mais, fagioli, girasoli. Dobbiamo dire grazie ai benefattori italiani che, nonostante la crisi, continuano a dare le loro offerte. Pochi giorni fa un giovane tanzaniano che ora è a Dodoma per studiare all’università mi ha scritto una mail. È un ragazzo orfano che riceve un contributo dal governo, ma che deve pagare una parte delle spese. Mi ha chiesto aiuto, e io gliel’ho promesso».
Che differenze ci sono tra la Tanzania del ‘52 e quella di oggi?
«I ragazzi di allora erano addormentati. Oggi sono vivaci quasi come i nostri italiani. Dal punto di vista politico, oggi c’è un sistema con più partiti, nonostante ci sia al potere sempre il vecchio partito, quello di Julius Nyerere che ha portato all’indipendenza nel 1961 e che, dopo l’unione del Tanganika con Zanzibar nel 1964, ha preso il nome di Ccm (Partito della rivoluzione). Questo è ancora al governo nonostante sia pieno di corruzione. Vedremo cosa succederà quando nel 2015 ci saranno le elezioni. La gente del Tanzania è gente calma, che sopporta e sta in silenzio. Negli ultimi anni però non sopporta più. C’è una nuova generazione che ha studiato. Le università sono piene di giovani che capiscono la situazione e iniziano a dimostrare».
Ci sono problemi di radicalismi religiosi.
«Non molti, ma dobbiamo stare all’erta perché, specialmente a Zanzibar, dove la popolazione è quasi tutta musulmana, c’è un gruppo di estremisti denominato Uamsho (Risveglio) che due anni fa ha ucciso un prete cattolico. Ogni tanto si sente di questi gruppi che bruciano le chiese. Un anno fa nella zona di Arusha c’è stato un attentato contro il vescovo e il nunzio apostolico che dovevano inaugurare una chiesa: è passato un uomo in moto e ha gettato una bomba. Ci sono stati tre morti. Dall’ultimo censimento sembra che in Tanzania vivano tra i 42 e i 45 milioni di persone. Tutte le denominazioni cristiane: cattolica, luterana, anglicana, ecc. contano più del 50% della popolazione. I cattolici sono poco meno del 30%. In seguito ai fatti di violenza religiosa che da almeno un anno destabilizzano il Tanzania, tutte le chiese cristiane si sono incontrate per riflettere su cosa fare».
Quindi il dialogo con le altre chiese cristiane è positivo. Ma con i musulmani come va?
«I musulmani sono al massimo il 30%. Sono concentrati soprattutto sulla costa, verso la quale da molti anni c’è una continua migrazione di cristiani dall’interno del paese: Dar es Salaam oramai ha almeno 50-60 parrocchie. Le relazioni tra i fedeli delle due religioni sono buone. Il problema sono gli estremisti che vogliono coinvolgere sempre più persone. Nel territorio di Tosamaganga c’è qualche gruppo di musulmani, ma sono tranquilli. A Iringa ci sono diversi musulmani, e alcuni di questi vanno all’università cattolica».
Come viene percepito il nuovo pontefice nella chiesa tanzaniana?
«Noi missionari siamo molto contenti. Lo Spirito santo ha lavorato per l’elezione di papa Francesco. Qualcuno è preoccupato perché va troppo in mezzo alla gente, e così facendo si prende dei rischi. Ma sopra eventuali malfattori con cattive intenzioni c’è il Signore, c’è lo Spirito Santo che li tiene a bada, e che aiuteranno il papa a portare avanti tutte le riforme che presenta. Noi siamo contenti perché Francesco mostra uno stile di chiesa che noi missionari un pochino avevamo già: andare in mezzo ai poveri, agli ammalati, aiutarli». Parlando del papa e dei poveri padre Giorda si commuove di nuovo. È bello ascoltare la sua voce rotta dall’emozione di un’intera vita dedicata alla missione.

Luca Lorusso

CRONOLOGIA:
  • 9 dicembre 1952: partenza da Venezia
  • 24 dicembre 1952: arrivo a Dar es Salaam e partenza per Tosamaganga
  • Fine 1952-Pasqua 1953: missione di Malangali, Itengule
  • Pasqua 1953-fine 1953: Ujewa
  • 1954-1965: Tosamaganga seminario
  • 1965-1969: a Kilolo parroco
  • 1970-1980: parroco a Tosamaganga
  • 1981-1988: a Chosi
  • 1989-2007: parroco a Tosamaganga
  • 2007-oggi: coadiutore a Tosamaganga.




Minoranza serba sotto attacco

I giorni della spiritualità e del raccoglimento nel Kosovo martoriato.

Chiese ortodosse bruciate, cimiteri serbi vandalizzati,
libertà di movimento limitata, identità e cultura negate. La minoranza serba in
Kosovo, costretta in una condizione di apartheid, vede i propri diritti fondamentali
violati. Segno di un paese che, nonostante l’avallo internazionale, rimane
distante dagli standard minimi della democrazia.

Dopo l’intervento militare della Nato nel 1999, la
regione del Kosovo è stata posta sotto amministrazione Onu (Unmik). Il
controllo è stato assunto dalla maggioranza albanese, e la popolazione serba è
fuggita in gran parte in Serbia. Le minoranze rimaste vivono attualmente in
piccole enclaves protette dalle forze inteazionali. Il 17 febbraio
2008 il Kosovo si è proclamato indipendente ottenendo il riconoscimento da
parte di 106 stati, tra cui gli Usa che vi hanno insediato una importante base
militare (Camp Bondsteel). Il 22 luglio 2010 la Corte internazionale di
Giustizia ha dichiarato che la proclamazione d’indipendenza del Kosovo non era
stata un atto contrario al diritto internazionale. La Serbia non riconosce la
secessione di un territorio che rappresenta la culla della sua cultura. La
dichiarazione della Corte è stata riconosciuta dall’Assemblea Generale dell’Onu
nel settembre del 2010 (Incipit tratto da deagostinigeografia.it).

Un narcostato nel
cuore dell’Europa

Nonostante
siano passati 15 anni dai bombardamenti scatenati dalla Nato e dall’inizio del
processo di secessione e indipendenza della regione kosovara dalla Repubblica
di Serbia, la «questione Kosovo» continua a essere un nodo irrisolto. La
comunità internazionale occidentale pensava che con la cosiddetta «indipendenza»
si sarebbero assopite le forme di resistenza del popolo serbo kosovaro e delle
altre minoranze perseguitate in quel territorio. Ma non è stato così. E lo
dimostrano i quotidiani episodi di violenza e persecuzione, le vessazioni e i
soprusi. Il Kosovo indipendente, scosso da conflittualità e turbolenze, dopo
quindici anni di cosiddetta «democrazia e libertà» è stato definito dalla Dea
(Agenzia Antidroga Usa) un «narcostato nel cuore dell’Europa». Esso si regge su
due stampelle: una militare, cioè la presenza delle forze Nato-Eulex (European
Union Rule of Law Mission in Kosovo
), l’altra economica, cioè la
proliferazione di attività criminose di ogni genere, dal traffico di eroina, a
quello delle donne, degli organi e delle armi.

Feste serbe e apartheid

A cavallo tra la fine di un anno e l’inizio di quello
nuovo in Kosovo Metohija (così viene chiamata la regione del Kosovo dalla
popolazione serba, ndr) i serbi vivono le ricorrenze cristiane, come la
memoria dei morti, a novembre, e il Natale ortodosso, il 7 gennaio, con una
particolare intensità. Nella tradizione e nella cultura slava non c’è molta
differenza tra credenti e laici in quei giorni. Tutti vivono le celebrazioni
con coinvolgimento. Di questo siamo testimoni oculari, avendole vissute insieme
a sacerdoti, ferventi credenti, militanti politici, patrioti, integerrimi
sindacalisti. Diversi tra loro per visioni di società o idee politiche, ma
accomunati dalla medesima situazione. Ciascuno possiede radici spirituali
profonde e salde.

Anche questo, piacendo o non piacendo a taluni esperti
di Serbia virtuale, è il popolo serbo. Ed è probabilmente anche grazie a queste
radici che esso resiste alle aggressioni straniere. E forse in modo ancora più
profondo, le radici culturali e spirituali aiutano la resistenza dei serbi del
Kosovo nella loro tragica realtà: essere prigionieri di una modea forma di apartheid
nelle enclavi in cui nessuno dei diritti fondamentali dell’uomo viene
rispettato, e ancor meno quelli sanciti nei primi dieci articoli della
Convenzione sui diritti dell’infanzia.

Nello stesso momento in cui il Consiglio europeo
discute, minaccia, sanziona circa i diritti umani in Siria, nel Kosovo
Metohija, stato considerato da molti artificiale e illegale, avvengono gravi
violazioni dei diritti fondamentali, tra cui, non ultimo, il diritto di credo,
con quotidiani attacchi, profanazioni, vandalizzazioni, distruzioni di tombe di
famiglia, di luoghi sacri, di monasteri e siti spirituali.

Così è
stato nel novembre scorso, nel giorno dedicato al ricordo dei propri cari scomparsi.


Cimiteri off limits, maiali e profanazioni

La realtà dei cimiteri e dei luoghi sacri nel Kosovo
Metohija è paradigmatica della vita quotidiana dei serbo kosovari.

Il «diritto» per un serbo di visitare le tombe dei
propri cari, dal 2013 è passato da due volte all’anno a una sola volta. Dal
2008 (anno della secessione illegale dalla Serbia) i serbi visitano i propri
cimiteri sotto scorta militare e, spesso, tra le ingiurie dei locali albanesi.
Nell’arco dell’anno vi crescono erbacce e rovi, e vi vengono lasciati pascolare
maiali provocatoriamente. Non è raro che le tombe e le lapidi vengano spaccate
e violate a colpi di mazza.

Nel cimitero del paese di Istok (in cui sono rimaste
alcune famiglie serbe), oltre 100 tombe e lapidi sono state distrutte.

Il cimitero di Peć, uno dei più grandi cimiteri ortodossi
in Kosovo, è stato trasformato in una discarica. I vandali hanno distrutto non
solo le lapidi in marmo, ma anche le bare, e molti corpi e ossa dei defunti
sono stati estratti e portati via.

A Prizren, nel locale cimitero ortodosso, 50 tombe sono
state profanate nel corso degli ultimi mesi. Lo ha denunciato un sacerdote
della diocesi locale, aggiungendo che la profanazione è avvenuta appena una
settimana dopo un fatto simile accaduto nel cimitero ortodosso di Kosovo Polje.
Altre tombe sono state profanate a Klokot, 27 sono state distrutte. A Milosevo,
Plemetina e Priluzje è stato usato dell’esplosivo per far saltare pietre
tombali appartenenti a famiglie serbe locali.

Ferite all’identità e
all’unità

Anche questi avvenimenti fanno parte della realtà dei
serbi resistenti nella propria terra kosovara. Anche queste umiliazioni sono
pane quotidiano. L’obiettivo è quello di ferire, violentare e annientare la
loro identità spirituale e religiosa, che qui più che altrove si fonde con la
loro identità nazionale e culturale.

Nell’ultimo viaggio di solidarietà organizzato dalla
nostra associazione Sos Yugoslavia abbiamo raccolto le denunce dei serbo
kosovari. Nei loro racconti veniva sottolineato il pericolo delle divisioni
intee alla comunità serba in Kosovo. Dopo anni di umiliazioni e vessazioni,
infatti, alcuni hanno deciso di portare i resti dei propri cari in Serbia;
mentre altri ritengono che fare questo significhi la resa totale, la consegna
dei propri luoghi sacri, della propria anima, della propria storia, identità, e
radici, sancendo la resa al terrorismo, all’arroganza, all’ingiustizia.

I piromani a
protezione del patrimonio incendiato

Nel Kosovo Metohija, in quattordici anni di «democrazia e
libertà» oltre 200 chiese, monasteri e luoghi sacri sono stati vandalizzati e
distrutti. Alcuni di essi sono patrimonio dell’Unesco vincolati a precisi
obblighi inteazionali contenuti nella Convenzione sulla protezione del
patrimonio culturale mondiale, adottata alla Conferenza delle Nazioni Unite di
Vancouver nel 1976. L’articolo 9 dice: «Il diritto di ciascun paese è quello di
essere, con la piena sovranità, l’erede dei propri valori culturali che sono il
frutto della sua storia, ed è suo dovere fae tesoro come valori che
rappresentano una parte inseparabile del patrimonio culturale dell’umanità».
Evidentemente per la Serbia questo non vale.

Nel frattempo, ad agosto 2013 il responsabile della
Kosovo Spu (la polizia del Kosovo) ha annunciato che membri di una unità detta
Kosovo Security per il patrimonio culturale e religioso serbo, avrebbe assunto
il ruolo di protezione del Patriarcato di Peć e di altri 24 siti religiosi – il
monastero di Decani è invece ancora protetto dalle forze inteazionali,
essendo ad alto rischio di attacchi -, così, dopo le oltre 200 chiese ortodosse
serbe già ricordate distrutte dal 1999, i piromani vengono messi a proteggere
le case incendiate. Queste Unità speciali della cosiddetta polizia multietnica
in Kosovo conta circa 200 agenti agli ordini del noto criminale di guerra Agim
Ceku (nel periodo 1992-1995 generale dei secessionisti croati, coinvolto nel
genocidio dei serbi della Krajina), grande amico e legato strettamente a Stati
Uniti e Germania.

Il Natale nelle enclave

Così sono state vissute le giornate di novembre dedicate
ai morti in quel lembo di mondo, e in modo simile sono passate le giornate
della Natività.

Va ricordato che la Chiesa serba celebra le sue festività
secondo il calendario giuliano, risalente al 46 a.C., di 14 giorni in ritardo
rispetto a quello Gregoriano (usato dalla Chiesa cattolica). I serbi
festeggiano quindi il Natale il 7 gennaio.

In Kosovo Metohija oggi anche il Natale viene celebrato
in condizioni molto diverse da quelle in cui è festeggiato in qualsiasi altro
luogo del mondo. Esso è inserito nella vita dei ghetti, nella realtà delle enclave,
aree protette e delimitate materialmente, all’interno delle quali si svolge
tutta la vita delle persone. Fuori da lì è territorio ostile e nemico. Chi osa
uscire rischia la vita. In una vita priva di opportunità, dei diritti umani
fondamentali, compreso quello di movimento, i cristiani serbi non possono dare
seguito nemmeno alla loro tradizione, detta badnjak, che prevederebbe di
andare nei boschi per tagliare il loro «albero di Natale», il yule log,
ossia un pezzo di quercia giovane, a forma di tronchetto.

Il badnjak è un elemento centrale nella
tradizionale celebrazione del Natale serbo. È un simbolo che la famiglia
abbatte nel primo mattino della vigilia, porta solennemente in casa e mette sul
fuoco la sera, perché bruci fino al giorno dopo. La combustione del log è
accompagnata da preghiere in cui si domandano per l’anno nuovo felicità, amore,
fortuna, ricchezza e cibo. Poiché oggi molti vivono in città, il badnjak
è simbolicamente rappresentato da ramoscelli di quercia con delle foglie,
acquistati in mercatini o ricevuti nelle chiese. Gli studiosi indicano
l’origine del badnjak in pratiche ereditate dalla vecchia religione
slava.

Sassate, permessi
rifiutati, espulsioni, arresti

Il 6 gennaio un autobus serbo è stato preso a sassate da
manifestanti albanesi. Il mezzo trasportava alcuni serbi kosovari che negli
anni passati erano fuggiti da Djakovica per rifugiarsi in Serbia, e che in
occasione del Natale stavano tornando a visitare il loro paese d’origine e la
locale chiesa dell’Assunzione, in passato anch’essa attaccata e danneggiata.
L’automezzo, con vetri spaccati e passeggeri feriti è dovuto andare sotto scorta
della polizia al monastero di Decani, protetto dalle forze inteazionali.

Questo fatto è solo uno degli ultimi di una lunga serie:
ogni anno la celebrazione del Natale in Kosovo viene usata dai separatisti
albanesi per dimostrare che i serbi non possono sentirsi liberi nel proprio
paese e non hanno diritto di celebrare la più giorniosa festa cristiana.

Quest’anno, se si esclude il fatto di Djakovica, si
potrebbe dire che il Natale sia trascorso bene, senza risse o spari. Ma il
cosiddetto stato di Kosovo ha trovato altri modi, ancora più sottili, per
dimostrare ai serbi e alla Serbia in quale direzione va il loro futuro: prima
hanno rifiutato la richiesta del presidente della Serbia Nikolic di partecipare
il 7 gennaio alla liturgia di Natale nel monastero di Gracanica, poi il giorno
di Natale il responsabile dell’ufficio per il Kosovo Metohija del governo
serbo, Vulin, ha dovuto abbandonare la provincia su richiesta della polizia
kosovara, per l’alto rischio di incidenti. Nel frattempo la stessa polizia kosovara
ha arrestato, dopo la liturgia, dieci giovani serbi che si trovavano con Vulin.
«È chiaro che si tratta di una provocazione, di una grave violenza. Ho saputo
ufficiosamente che stanno tentando di accusarli di disturbo dell’ordine e della
quiete pubblica, addirittura di trasgressione dell’ordinamento costituzionale.
Quando l’accusa è così vaga, e quando tutto è possibile, sapete che si tratta
di pura ingiustizia», ha dichiarato in seguito Vulin.

Forse sarebbe il tempo di rivendicare i temi della libera
celebrazione del Natale, della libera visita ai cimiteri, ai monasteri o alle
proprie terre, perché il Kosovo è l’unico territorio in Europa in cui non
esiste la libertà di movimento. Ma dicono che è democratico.

Bambini invisibili

Tuttavia, nonostante le condizioni disumanizzanti, ai
bambini non manca la gioia per festeggiare il Natale. Essi sono invisibili per
la cosiddetta «Comunità internazionale» occidentale e per la sua opinione
pubblica. A loro basta poco per lenire la barbarie delle loro vite negate
dentro le enclave: è sufficiente una festa, una ricorrenza, un piccolo dono, e
si rafforza la loro voglia di vivere comunque, nonostante terroristi, vandali,
criminali sostenuti dai nostri governi, di qualsiasi colore essi siano. E sono
i bambini, i loro sorrisi, i loro semplici gesti di riconoscenza e affetto che
danno ancora a noi la forza dell’impegno per una solidarietà concreta. Che ci
danno, insieme alle loro famiglie resistenti, il senso della vita, in questo
occidente opulento e perso dietro virtualità e inutilità esistenziali. Sono
loro che ci aiutano a tenere accesa la fiammella della speranza in un mondo
migliore, con le loro famiglie che difendono le proprie radici, i diritti, i
costumi e le tradizioni.

Enrico Vigna
Presidente di SOS Yugoslavia – SOS Kosovo Methoija
www.sosyugoslaviakosovo.com

A quindici anni dalla guerra


Il Kosovo Metohija oggi

Dopo l’intervento Nato del 1999, ecco la situazione del Kosovo di
oggi, secondo le fonti Onu, Osce, Kfor, Unmik, e alcuni mass media
inteazionali:

– 400mila militari Nato e Kfor si
sono avvicendati in quattordici anni. Di essi 150 sono morti, senza
contare quelli deceduti per l’uranio
impoverito (circa 50 italiani). Tutto ciò ha avuto fino a ora un costo di 1,6
miliardi di dollari l’anno;

– dei 461mila abitanti non albanesi
(su 1.378.980) che popolavano la provincia serba, oggi (su una popolazione
stimata per il 2012 in 1.815.606 abitanti) ne sono rimasti circa 100mila, di
cui la stragrande maggioranza concentrata nell’area di Mitrovica, nel Nord. I
profughi di tutte le etnie, compresi migliaia di albanesi, sono circa 250mila
scappati dalle pulizie etniche;

– dei 55mila (su 125mila abitanti)
serbi, rom e altri che vivevano fino al 1999 nel capoluogo Pristina, oggi ne
sono rimasti 38 (di cui 7 bambini); assediati e rinchiusi in un palazzo;

– 70% di disoccupazione;

– scoperte continuamente sedi di
traffici di droga, armi, donne, organi;

– attività produttive quasi
completamente inesistenti;

– agricoltura ridotta del 60% (una
volta vini, frutta, ortaggi andavano in tutta la Jugoslavia);

– miniere ferme o chiuse;

– l’economia «sommersa» però
determina il 96% d’importazioni e il 4% di esportazioni, quella che si
definisce un’economia «drogata»;

– 148 chiese, monasteri, luoghi
sacri ortodossi, distrutti, devastati o bruciati;

– 140mila case di serbi, rom e
altre minoranze bruciate;

– centinaia di attentati o violenze
contro serbi e rom (uno ogni 120 ore);

– secondo fonti della Kfor, vi sono
attualmente in circolazione o depositate nel Kosovo, almeno 400mila armi di
vario tipo, bombe, mine, ecc. (La Stampa, 6 maggio 2013);

– l’Onu ha denunciato che l’82% dei
finanziamenti dati al parlamento di Pristina risulta speso per Bmw, Mercedes,
cellulari satellitari, uffici privati. In otto anni sono stati versati 3
miliardi di euro (di cui 2 dalla Ue);

– la mortalità infantile è del
3,5%, la più alta d’Europa;

– oltre 2.500 serbi rapiti e/o
assassinati (di cui 1.953 civili) dalla pulizia etnica dell’Uck, cui si
aggiungono 361 albanesi pro jugoslavia e centinaia di rom, considerati
collaborazionisti;

– molti dei
diritti fondamentali dell’uomo, sanciti dalla Carta dell’Onu sono negati alle
minoranze non albanesi rimaste: lavoro, casa, studio, sanità, diritti sociali,
acqua, luce, riscaldamento; diritti civili, religiosi, politici;

– la popolazione non albanese in
Kosovo, scampata alla pulizia etnica, vive attualmente in «enclavi», aree circoscritte
assediate e sorvegliate dai militari Kfor: un vero e proprio apartheid;

– i diritti dei bambini, sanciti
dalla Convenzione Onu del 1989, sono negati alle minoranze non albanesi;

– scienziati e fondazioni
ambientaliste inteazionali hanno denunciato il territorio del Kosovo come il
più uranizzato d’Europa;

– 1000 acri di terra
(corrispondenti a circa 400 ettari, 800 campi da calcio) confiscati fino al
2099 per Camp Bondsteel: la più grande base americana dai tempi del Vietnam.
Essa può ospitare fino a 50mila persone; al suo interno ci sono 25 chilometri
di strade, 300 edifici, 14 chilometri di barriere in cemento e terra, 84
chilometri di filo spinato, 11 torrette di controllo. Nel suo perimetro esterno
sono compresi 320 chilometri di strade e 75 ponti. Tutto questo per difendere
cosa?

In questa situazione l’ex mediatore
Onu Athisaari consegnò al Consiglio di Sicurezza Onu un rapporto che arrivava
alla conclusione (su pressioni di Usa e Germania, con l’Italia di supporto) che
nel Kosovo esistevano standard minimi di democrazia e sicurezza, per concedere
l’indipendenza. I paesi che finora hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo
sono 106.

Enrico Vigna

Enrico Vigna




La nuova via Birmana – 1

Reportage: Myanmar in transizione

Con passi incerti, ma in cammino

 

Sorridere non basta

La transizione birmana verso la democrazia non è facile, ma sembra procedere, garantita dal presidente Thein Sein. Della partita è ormai parte pure l’eroina birmana per eccellenza: Aung San Suu Kyi. Anche lei però non è rimasta immune da critiche, soprattutto rispetto agli scontri etnici e religiosi che, negli ultimi due anni, hanno avuto luogo in varie zone del Myanmar. Un paese che è un mosaico di ben 135 gruppi etnici differenti.

 

 

Sono trascorsi tre anni dal giorno in cui il Myanmar ha cominciato a intraprendere un nuovo corso politico, economico e sociale. Il cammino si è dimostrato più lineare e rapido di quanto ci si potesse immaginare, ma, come spesso accade, dopo i primi entusiasmi hanno cominciato ad affacciarsi anche le difficoltà e i primi ostacoli.

Accanto a radicati conflitti etnici e a intolleranze religiose che nel passato non si erano manifestate solo perché represse dalle autorità locali che agivano in stretta collaborazione con la polizia ed il Tatmadaw (l’esercito), ecco che sono insorte anche recriminazioni sociali ed economiche.

I primi decreti libertari, voluti dal nuovo governo civile di Thein Sein – con l’aiuto, bisogna dirlo con onestà, degli stessi militari che siedono al parlamento -, si sono dimostrati più audaci e rivoluzionari di ogni aspettativa. Ma, proprio per questo, hanno già bisogno di essere riveduti e corretti. I rinnovamenti sociali ed economici introdotti con le riforme, accolti con favore dalla popolazione birmana e dai governi democratici occidentali, hanno già reso desuete le leggi che li aveva promossi.

L’inesperienza dei politici, dovuta a decenni di isolamento internazionale e di rifiuto del confronto interno, ha anchilosato un sistema legislativo ed esecutivo che oggi fa fatica a tenere il passo con la richiesta di cambiamenti non solo politici, ma anche tecnologici.

La capacità di adattarsi con elasticità e immediatezza alle esigenze di una nazione e di un popolo in fase di repentino cambiamento, determinerà chi potrà essere la nuova classe dirigente birmana. Sarà questo il campo in cui i principali candidati alle elezioni presidenziali, in programma nel 2015, si confronteranno.

 

Gli scontri tra musulmani e buddisti

Tutto il corso del 2013 è stato caratterizzato da una recrudescenza degli scontri a sfondo religioso ed etnico (vedere mappa a pag. 39, ndr), che ha monopoliato quasi totalmente l’attenzione della comunità internazionale. Nel primo caso, i conflitti tra musulmani e buddisti – iniziati nel maggio del 2012 nello stato Rakhine – si sono estesi, a partire dai primi mesi del 2013, anche in altre regioni del paese. Nel conflitto etnico, invece, Kachin e governo centrale hanno continuato ad alternare negoziati al clamore delle armi.

In entrambe le situazioni le istituzioni governative, il presidente Thein Sein e la stessa Aung San Suu Kyi sono stati duramente criticati dalle organizzazioni inteazionali che si occupano del rispetto dei diritti umani per la pesante responsabilità avuta nelle cruenti vicende o, nel caso della leader dell’opposizione, per non aver criticato con sufficiente forza le violenze settarie. In un’intervista rilasciata durante il suo viaggio in Italia nell’ottobre 2013, Aung San Suu Kyi ha cercato di spiegare il suo atteggiamento: «Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo a istigare altra violenza e se le mie parole fossero fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate» (a pag. 47 del dossier, ndr).

Va comunque detto che le brutalità nel Rakhine e quelle nel Kachin, pur avendo punti in comune, sono espressioni di due malesseri differenti che vanno analizzati in modo opportunamente dettagliato visto che, proprio sulle questioni portate alla luce dai conflitti, si giocherà il futuro della convivenza civile in Myanmar.

Per quanto riguarda gli scontri tra musulmani e buddisti, l’espandersi dei pogrom ai danni delle comunità islamiche ha indotto diversi politici a prendere posizioni molte volte contraddittorie. In particolare, Thein Sein ha incolpato «opportunisti politici ed estremisti religiosi» di aver fomentato e manovrato le proteste, mentre il generale Hla Min ha ipotizzato che gli scontri siano stati voluti e diretti da gruppi contrari alle riforme in atto. Se, in entrambe le accuse, si intravedono elementi che possano giustificare tali dichiarazioni (ad esempio, la conservazione di uno status quo che, anche tramite la dittatura, aveva garantito una sorta di pace sociale), appare improbabile che la destabilizzazione del paese possa favorire una precisa corrente politica.

Da parte dell’opposizione, ancora una volta Aung San Suu Kyi ha rimandato la completa responsabilità al governo: «Per decenni i regimi militari birmani non hanno mai controllato il confine con il Bangladesh lasciando che questo diventasse estremamente poroso e permettendo a migliaia di persone di entrare illegalmente in Birmania. Ora, io chiedo che si rispetti la legge di cittadinanza: chi ha la facoltà di diventare cittadino birmano deve far valere questo diritto. Il governo, da parte sua, deve porre fine a questa immigrazione illegale».

L’United Nations High Commissioner for Refugees (Unhcr) stima che vi siano più di 808.000 Rohingya tra Myanmar e Bangladesh privi di cittadinanza e, quindi, dei diritti che questa comporta. Secondo la Legge di cittadinanza del 1982, il Myanmar concede il titolo ai residenti nel paese che possono dimostrare di aver avuto parenti stabilitisi in Birmania già prima dell’indipendenza, avvenuta nel 1948. In questo caso, però, la domanda deve essere presentata entro la terza generazione documentando la comprovata residenza della propria famiglia. Cosa, naturalmente, pressoché impossibile da dimostrare visto che la maggior parte dei Rohingya sono emigrati durante il periodo coloniale, quando sia Birmania che India erano sotto il dominio britannico e le documentazioni relative al trasferimento da un luogo all’altro della colonia sono difficili da reperire.

Lo stesso termine Rohingya è stato oggetto di aspra discussione: secondo il governo, infatti, non esisterebbe alcuna etnia che possa definirsi tale (e in effetti tra le 135 etnie riconosciute nel Myanmar non esiste nazione che si rifaccia a questo gruppo etnico musulmano). Le fonti ufficiali governative hanno sempre identificato le comunità islamiche del Rakhine come Bengalesi giunti clandestinamente dal Bengala e dal Bangladesh e che, come tali, sarebbero presenti in Myanmar in modo del tutto illegale.

 

Nonostante queste difficoltà, secondo un sondaggio compiuto nel maggio 2012, il 70% dei Rohingya potrebbe avere diritto alla cittadinanza birmana, rivoluzionando la demografia della regione e minacciando la supremazia economica, sociale e politica dei Rakhine buddisti. Il timore che il processo di democratizzazione del regime possa incoraggiare l’integrazione, ha contribuito ad alimentare gli attriti tra i due popoli.

I rapporti delle commissioni di inchiesta inteazionali sono giunti a conclusioni diametralmente opposte a quelle della commissione governativa, voluta dal presidente Thein Sein per investigare sulla situazione del Rakhine. Di essa facevano parte anche membri non simpatetici con il governo, come il comico satirico Zarganar e il leader di Generazione 88, Ko Ko Gyi. Ma nessun Rohingya è stato inserito nella lista.

Il rapporto finale dell’organismo birmano, dopo sette mesi di consulti e interviste sul luogo, individuava nel «rapido incremento della popolazione musulmana» uno dei principali fattori che avrebbe indotto la comunità Rakhine di fede buddista a reagire con violenza contro i Bengalesi (la parola Rohingya non è mai menzionata). La stessa commissione consigliava di implementare una politica di controllo delle nascite per la comunità islamica tenendo separati, nel frattempo, fedeli musulmani e buddisti per evitare che venissero in contatto tra loro.

La relazione è stata recepita positivamente dal governo che, il 25 maggio, ha approvato la legge che vieta ai Bengalesi di avere più di due figli. Inoltre, nel solo 2013, circa 75.000 Rohingya sono stati forzatamente allontanati dai loro villaggi e dislocati in campi e villaggi da cui non possono allontanarsi, a differenza di quanto accade per i Rakhine, senza un permesso speciale.

Di diverso avviso, invece, sono i resoconti delle organizzazioni inteazionali che hanno visitato lo stato Rakhine. Tutti concordano nell’affermare che i Rohingya sono le principali vittime di una politica inaugurata all’indomani dell’indipendenza birmana (quindi ben prima del colpo di stato militare del 1962) e perpetuata ancora oggi dal governo di Nay Pyi Taw. Le commissioni, cui è stato garantito l’accesso alle prigioni in cui sono detenuti gli attivisti musulmani, hanno parlato di condizioni inumane e di torture inflitte ai carcerati. Nei campi profughi le condizioni non sono migliori: Médecins San Frontières (Msf) ha parlato di emergenza umanitaria e di migliaia di persone prive di accesso alle più elementari cure mediche, mentre Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato la stretta collaborazione tra i monaci buddisti, il partito politico Rakhine e le forze del regime birmano nel fomentare le violenze contro i Rohingya.

Queste commistioni hanno creato un senso d’insicurezza tra le comunità musulmane anche al di fuori dello stato Rakhine.

 

Per evitare di alimentare polemiche con i buddisti, i musulmani del Myanmar hanno deciso di cancellare, così come era già stato fatto nel 2012, le celebrazioni dell’Eid al-Adha, durante le quali è consuetudine macellare gli animali secondo l’usanza musulmana dello sgozzamento. Il gesto, apprezzato da alcuni esponenti religiosi buddisti è, però, passato inosservato per la maggioranza dei fedeli e non ha impedito che gli scontri si espandessero in gran parte delle province centrali e meridionali del paese.

Tutti gli episodi hanno seguito lo stesso copione, definito da Vijay Nambiar, consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Myanmar, di «brutale efficienza»: un incidente, che in condizioni normali sarebbe passato inosservato e che coinvolgeva componenti delle due comunità, innescava una violenta protesta di gruppi buddisti i quali, per vendicare il presunto affronto, attaccavano e incendiavano negozi e case di famiglie musulmane arrivando, a volte, a saccheggiare le moschee. In tutti i casi, la polizia, non è ancora chiaro se per complicità o per evitare ulteriori provocazioni, è rimasta impassibile.

L’attivismo religioso-politico dei gruppi buddisti è sfociato nel «Movimento 969», un’organizzazione fondata dal monaco U Wirathu all’inizio del 2013 e nelle cui file milita anche Wimala, un monaco molto popolare tra i fedeli del monastero Masoeyein di Mandalay. Prendendo il nome dalla numerologia astronomica associata ad alcuni attributi del Buddha storico e al suo dharma, il 969 si contrapporrebbe al numero 786, popolarmente associato ai musulmani perché da questi utilizzato per individuare le insegne dei negozi halal (dove si vende rispettando le norme islamiche, ndr).

Nelle sue focose prediche, U Wirathu, oltre ad incitare i fedeli a boicottare le attività commerciali condotte da islamici, ha più volte proposto alle autorità birmane un disegno di legge per vietare i matrimoni misti paventando lo spauracchio di un complotto jihadista per conquistare il potere nel Myanmar e trasformare la nazione in un avamposto islamico per la successiva avanzata religiosa nell’intera regione del Sudest Asiatico.

L’estremismo del Movimento 969 ha portato la sangha (la comunità buddista allargata, ndr) buddista birmana a dividersi nel suo interno: diversi monaci, avversi alla politica intollerante di U Wirathu, hanno, quindi, deciso di fondare un cornordinamento che contrastasse questa insofferenza, creando Pray for Myanmar.

 

Guerra e pace nello stato Kachin

Sugli altri fronti, il governo Thein Sein è riuscito, invece, a raggiungere apprezzabili traguardi, in particolare con i Kachin. Dopo una serie di sanguinose battaglie che hanno portato le truppe del Tatmadaw alla periferia di Laiza, dove ha sede il quartier generale della Kachin Independence Organization (Kio) con la conseguente fuga di migliaia di abitanti dalla città, la guerra si è fatta strada fin negli uffici del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che il 2 gennaio 2013 ha chiesto al regime birmano di «desistere da ogni azione» che avrebbe messo in pericolo la vita di civili. Alle preoccupazioni espresse dalle Nazioni Unite, si sono aggiunte quelle degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione Europea. La Cina, direttamente coinvolta nel conflitto sia per la condivisione del confine con lo stato Kachin, sia perché alcuni colpi d’artiglieria erano caduti sul suo territorio, ha chiesto al governo birmano e al Kio di intervenire per evitare l’intensificarsi della guerra.

I negoziati, già difficili e complicati, sono stati resi più faticosi dalla riluttanza di Pechino a coinvolgere anche gli Stati Uniti e le organizzazioni di assistenza umanitaria. Persino la presenza di Ha Yawnghwe, in quanto direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles (che la Cina considerava alla stregua di una organizzazione non governativa), è stata in forse fino all’ultimo. Solo l’insistenza del governo birmano è riuscita a convincere la delegazione di Pechino a togliere il veto alla sua partecipazione.

La riluttanza cinese nel condividere il tavolo delle discussioni con altri membri inteazionali, specie se legati ai governo occidentali, è dovuta principalmente a due fattori: la volontà di non entrare nel merito delle lotte etniche per non dare adito a velleità indipendentiste nel vicino Yunnan e gli enormi interessi economici che il paese ha nella regione.

I Kachin, a differenza dei Wa e dei Kokang, non hanno affinità etniche con gli Han cinesi. Hanno, inoltre, abbracciato per la maggior parte la religione cristiana e questo, sommato agli stretti rapporti che il Kio ha tessuto con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, li ha resi molto ambigui agli occhi di Pechino.

Al tempo stesso, però, l’economia cinese ha necessità di sfruttare le enormi ricchezze che offre questa provincia birmana. L’annullamento della costruzione della diga di Myitsone ha creato un pericoloso buco energetico nell’industria dello Yunnan e delle limitrofe regioni meridionali. Il deficit è stato ripianato con l’entrata in funzione del gasdotto Kyaukpyu-Kunming, inaugurato nell’ottobre 2013, che ha cominciato a rifornire la Cina di 12 milioni di metri cubi di gas naturale ogni anno. Risulta, quindi, chiaro che la dirigenza di Pechino ha tutto l’interesse nel trasformare il Kachin in un’area stabile, allontanando i venti di guerra che, sino a poco tempo fa, impedivano il sicuro passaggio di fonti energetiche di primaria importanza per la sua economia.

 

Dopo numerosi incontri preliminari tenutisi a Chiang Mai, in Thailandia, e a Ruili, in Cina, l’accordo finale è stato raggiunto il 30 maggio a Myitkyina. Le due controparti in causa, il Kio e il governo di Nay Pyi Taw, hanno firmato un documento d’intesa che prevedeva la continuazione del dialogo su via politica; il graduale disimpegno militare nella regione sino alla completa cessazione delle ostilità; il monitoraggio della situazione con gruppi di controllo misti; il rimpatrio e l’insediamento dei profughi attualmente all’interno e all’esterno dei confini dello stato Kachin; il riposizionamento delle truppe del Kachin Independence Army (Kia) e del Tatmadaw; la presenza e la formazione di una squadra del Kio a Myitkyina che collabori con le autorità governative per riportare la pace; la presenza di osservatori internazionali nei successivi colloqui di verifica.

Tutte le tre principali richieste del Kio, vale a dire l’indipendenza delle forze militari Kachin dal Tatmadaw, il continuo monitoraggio della situazione e il dialogo politico, sono state accolte dalla delegazione birmana.

Gli incontri tra i Kachin e il governo birmano sono continuati per tutto il resto dell’anno giungendo a ratificare un nuovo trattato all’inizio di ottobre. È importante notare, infine, che negli accordi non è stata inserita in alcuna parte la dicitura di «cessate il fuoco», fortemente osteggiata dal Kio perché già presente nel testo dell’accordo siglato nel 1994 e causa di diverse interpretazioni che avevano portato al fallimento dei negoziati.

Le intese raggiunte a maggio e ribadite con il nuovo trattato di ottobre, non hanno, però, riportato la pace nello stato. Il Kio ha più volte denunciato il disinteresse dei politici Bamar nei confronti della situazione nello stato. Particolarmente risentiti sono stati i rimbrotti verso Aung San Suu Kyi accusata, allo stesso modo di quanto avvenuto per i Rohingya, di non difendere i diritti Kachin. Numerosi scontri, seppure di minore intensità rispetto a quelli monitorati negli anni passati, si sono continuati a registrare in tutto il territorio. Lo stesso Thein Sein è stato costretto a intervenire più volte chiedendo ai comandanti delle forze armate birmane di evitare ingaggi con le truppe del Kia. La scarsa attenzione mostrata dai comandanti locali alle parole del presidente ha sollevato parecchi dubbi sull’effettivo controllo che il governo centrale possa avere sui vertici militari.

 

I militari: tra vecchio e nuovo corso

La galassia Tatmadaw, abituata a comandare per sessant’anni senza opposizione, è sempre più divisa tra la vecchia guardia e la nuova generazione di ufficiali, più propensa ad accettare un ruolo di subordine anche nella vita politica della nazione.

L’articolo della Costituzione che garantisce ai militari il 25% dei seggi nel parlamento è sempre stato visto come un impedimento al raggiungimento della democrazia nel paese. In linea di principio la considerazione è esatta, ma occorre notare che senza un consenso esplicito dei rappresentanti delle forze armate, nessuna riforma avrebbe potuto essere varata dal nuovo governo. Inoltre il gruppo militare si è dimostrato sorprendentemente libero da strettoie ideologiche durante le votazioni parlamentari. Solo in questioni considerate importanti per la sicurezza e l’unità nazionale si sono riscontrate votazioni unanimi tra i deputati appartenenti al Tatmadaw. Per tutte le altre decisioni in cui sono stati chiamati a esprimere il proprio voto, si è osservata una libertà di scelta e di opinione.

La stessa Aung San Suu Kyi, sebbene per principio sia contraria all’articolo costituzionale in questione, ha dichiarato che per quanto riguarda «la percentuale dei seggi riservati ai militari non penso rappresenti un problema. Ho sempre detto che i militari devono essere inseriti nel contesto esecutivo e legislativo del paese. Nei limiti di una democrazia, naturalmente».

Il timore dei generali, in particolare di coloro che sono stati pesantemente coinvolti nelle passate giunte (che hanno governato la nazione fino al 2010), è che la ventata di democrazia sul Myanmar possa trasformarsi in un’ondata di protesta dirompente e fatale per la salvaguardia del loro ruolo e delle fortune economiche familiari. Per questi gerarchi del vecchio potere, i continui proclami di Aung San Suu Kyi nel rassicurare che «non vogliamo vendetta, ma solo giustizia, verità e democrazia» hanno poco senso perché non rispecchiano un clima popolare che, per alcuni versi, è apparso tutt’altro che sereno. L’ombra dei militari è, dunque, ancora ossessivamente presente nella vita politica ed economica del paese.

Del resto il Tatmadaw è l’unica organizzazione transnazionale presente in Myanmar capace di mantenere unito il mosaico etnico. La stessa Aung San Suu Kyi, in odore di campagna elettorale e in cerca di appoggi anche tra le forze armate, ha detto di essere «sempre stata convinta che i militari devono lavorare a stretto contatto con la legislatura e l’esecutivo. Io ho sempre avuto un affetto particolare per i militari e a chi si scandalizza quando mi sente dire questo, rispondo che non ha capito nulla del mio pensiero» (vedi pag. 49, ndr).

È anche per la paura di una disgregazione nazionale che il budget di spesa per il 2013-2014 ha evitato drastici tagli alla Difesa, che per il biennio ha a disposizione 2,5 miliardi di dollari, pari al 17,2% del bilancio totale nazionale (4,2% del Pil).

La spesa, giustificata dal fatto che il paese doveva far fronte a nuove minacce intee (come i conflitti negli stati Rakhine, Kachin, Shan e nelle regioni delle minoranze etniche), contrastava pesantemente con il magro bilancio destinato alla sanità (3,8% del bilancio; 0,9% del Pil) e alla pubblica istruzione (7,5% del bilancio; 1,8% del Pil).

Degno infine di un certo interesse è il fatto che, conformemente al nuovo indirizzo economico e alla tendenza del governo birmano di sganciarsi dall’orbita di Pechino, nel 2012 il principale fornitore di armamenti per il Tatmadaw è stata la Russia, scalzando non solo il predominio cinese nel settore, ma anche la concorrenza indiana.

 

Le riforme di Thein Sein, gli investimenti inteazionali e il «Triangolo d’Oro»

Come già evidenziato, il governo Thein Sein ha continuato a varare nuove riforme che hanno interessato vari campi della vita quotidiana, da quella sociale a quella economica.

Il famigerato Ordine 2/88, che vietava ogni riunione pubblica che radunasse più di quattro persone, è stato abrogato così come le norme restrittive in materia di censura di stampa, libertà di espressione e di movimento, già abolite negli anni precedenti.

Tutto questo ha permesso a una grossa fetta di popolazione, in particolare ai contadini che erano stati privati – negli anni della dittatura militare – dei loro terreni, di unirsi in associazioni per richiedere la restituzione delle loro proprietà. Nel corso dell’anno il comitato parlamentare istituito per indagare sulle confische illegali ha ricevuto circa 4.000 domande di risarcimento. Così come avvenuto per i Rohingya, indagare a ritroso sulla consistenza delle vertenze sarà, in molti casi, impossibile e questo genererà ulteriore scontento che dovrà essere, in qualche modo, veicolato affinché non sfoci in dimostrazioni violente. Il caso dei contadini sfrattati dai loro villaggi nei pressi della miniera di Monywa è emblematico. Le famiglie della regione, a cui erano stati espropriati i terreni per permettere l’ampliamento della miniera di rame, si sono coalizzate occupando l’intero sito.

La commissione d’investigazione – presieduta da Aung San Suu Kyi – è stata costretta a sfoggiare tutta la sua retorica nello stilare il contorto rapporto finale consegnato a marzo. Il gruppo parlamentare, se da una parte ha verificato che il giacimento non avrebbe creato nuovi posti di lavoro e, anzi, avrebbe causato un danno ambientale rilevante, dall’altra ha suggerito che lo sfruttamento minerario procedesse al fine di non creare tensioni con il principale investitore, la Cina. Infine, la richiesta fatta ai contadini di accettare il trasferimento in cambio di una ricompensa in denaro (la proposta di risarcimento avanzata da Aung San Suu Kyi era di 1.730 dollari Usa per ogni acro) si è scontrata con la ferma condanna delle famiglie, che hanno continuato la protesta.

Contestazioni simili si sono ripetute in più parti della nazione, prendendo come spunto anche manifestazioni che esulavano dal tema economico. Durante i XXVII Giochi del Sudest Asiatico, quest’anno ospitati dal Myanmar, i tifosi della nazionale di calcio si sono più volte scontrati con reparti di polizia, evidenziando un crescente malessere che serpeggia tra la popolazione.

 

La bocciatura dello schema protezionista, proposto dal parlamento all’inizio del 2013, per far fronte a eventuali ribassi troppo accentuati del prezzo del riso, ha esacerbato ulteriormente gli animi. Nonostante gli economisti abbiano accolto con favore l’esito negativo della votazione che proponeva al governo di intervenire comprando il cereale dai contadini a un prezzo superiore da quello proposto dal mercato, il pericolo di accaparramenti artificiali da parte di speculatori, così come è già accaduto nel passato, è reale e ancora regolarmente utilizzato nelle campagne birmane.

In effetti il governo è più preoccupato di attirare nuovi investimenti che di soddisfare le richieste dei propri cittadini. I grandi sovvenzionamenti, elargiti dagli istituti di credito internazionali, sono stati quasi tutti diretti alla macroeconomia. La Banca Mondiale e l’Asian Development Bank hanno fatto la parte del leone elargendo un mutuo totale di quasi un miliardo di dollari per progetti socio economici e il miglioramento della gestione pubblica.

La fine delle sanzioni economiche ha portato numerosi uomini d’affari a visitare il Myanmar per cercare nuove soluzioni d’investimento.

Il Giappone, alla ricerca di un rilancio per la sua stagnante economia, è stato il più attivo. Una folta delegazione composta da 40 amministratori d’azienda e guidata dal primo ministro Shinzo Abe è stata accolta con tutti gli onori dalle principali autorità dello stato. I successivi colloqui hanno portato Tokyo a cancellare il debito di 1,85 miliardi di dollari che Nay Pyi Taw aveva contratto con il governo nipponico e al tempo stesso ad investire 500 milioni di dollari per la costruzione di strade e, con rammarico della Cina, centrali elettriche.

Il decrepito e fatiscente network di telecomunicazioni per cellulari, invece, sarà rinnovato dalla qatariota Ooredoo e della norvegese Telenor. La concessione è stata oggetto di un lungo e, a tratti, drammatico braccio di ferro tra il presidente Thein Sein, favorevole alla liberalizzazione del traffico telefonico, e il blocco militare, a cui si rifacevano le tre società che in precedenza controllavano il mercato (la Myanmar Post Telecommunication, la Yatanarpon e la Myanmar Economic Corporation).

Gli investimenti stranieri sono stati messi, però, a rischio dalla maggiore instabilità del paese e dalla complicata macchina burocratica che, in realtà, negli ultimi due anni si sia spogliata di numerosi orpelli che la appesantivano.

La società Maplecroft, specializzata in analisi di rischio d’investimenti, ha posto il Mynamar al quinto posto come paese a rischio su una classifica che tiene conto di 197 economie mondiali.

Peggiore ancora è la gestione delle risorse del territorio: il Revenue Watch Institute ha relegato la nazione asiatica all’ultimo posto. La pessima reputazione del governo birmano nel settore è confermata anche dal rapporto dell’United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), che nel suo resoconto ha evidenziato che in dieci anni (dal 2002 al 2012) la superficie destinata alla coltivazione di papavero d’oppio è cresciuta del 26%. Il 92% dei campi coltivati si trova nello stato Shan, dove sono presenti numerosi gruppi armati nazionalisti direttamente finanziati dai signori della droga. Il leggendario «Triangolo d’Oro» – l’area che include territori a cavallo fra i confini di Laos, Myanmar e Thailandia – è tornato ad essere l’area dove si concentrano maggiormente le piantagioni di papaver somniferum, raggiungendo il 18% della produzione mondiale, secondo solo all’Afghanistan. Il Tatmadaw, in un tentativo di analisi troppo azzardato, ha commentato i dati rilasciati dall’Unodc per evidenziare lo stretto legame esistente tra le aree a forte produzione d’oppio e la mancanza di uno stretto controllo sul territorio da parte dell’esercito birmano.

Ciò che dovrebbe preoccupare maggiormente il governo è la forte crescita del consumo interno di stupefacenti, in particolare tra la popolazione più giovane.

 

I contendenti per le presidenziali del 2015

Tutti questi problemi non potranno essere risolti in breve tempo e, quindi, passeranno al successore dell’attuale presidente. Thein Sein, infatti, ha già fatto sapere che non intende presentarsi alle prossime elezioni presidenziali, anche se, più recentemente, il suo portavoce, Ye Htut, ha ipotizzato un possibile ripensamento.

Da parte sua, Aung San Suu Kyi ha già avanzato la sua candidatura per le file del National League for Democracy (Nld). L’unico ostacolo che si frappone alla sua designazione è la Costituzione, il cui articolo 59 prevede che il presidente non sia sposato con stranieri (Aung San Suu Kyi, in quanto vedova di un britannico, non rientrerebbe in questa categoria) e non abbia figli stranieri (i figli avuti dal matrimonio con Michael Aris hanno passaporto britannico e questo potrebbe pregiudicare la candidatura).

Per perorare le sue ragioni e cercare alleanza tra gli stati occidentali che tanto hanno contribuito alla sua causa mentre era agli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi, per tutto il 2013, ha viaggiato negli Stati Uniti, in Oceania, Giappone ed Europa con il dichiarato scopo di chiedere l’emendamento della Costituzione birmana.

Un gesto sicuramente interessato e opinabile, come lei stessa ha indirettamente ammesso: «Capisco (…) che la mia insistenza sull’emendamento per la candidatura presidenziale può essere intesa come una battaglia personale. Ma non sono io che l’ho iniziata: è stata la precedente giunta militare che ha disegnato una Costituzione nazionale prendendo come misura la necessità di allontanare la mia persona da ogni forma di governo. Io mi batto non per la mia candidatura, ma perché il popolo abbia il diritto costituzionale di scegliere liberamente la persona che andrà a rappresentarlo» (a pag. 48, ndr).

Se, come è molto probabile che sia, l’articolo che impedisce la candidatura della leader dell’Nld verrà rimosso, la popolarità che gode tra i Bamar, l’etnia alla quale lei stessa appartiene e che rappresenta il 68% della popolazione del Myanmar, le garantirà il seggio presidenziale.

Non è ancora chiaro, invece, chi sarà il candidato del partito che attualmente detiene la maggioranza nel parlamento, l’Union Solidarity and Development Party (Usdp), anche se voci sempre più insistenti indicano che potrebbe essere Shwe Mann, potente portavoce sia della Camera bassa che della Camera alta. Shwe Mann, che durante il regime di Than Shwe superava in scala gerarchica anche Thein Sein, ha trasformato le legislature da semplici luoghi di ritrovo in cui si approvavano ciecamente i decreti proposti dal governo, a vivaci centri di dibattito.

Con la staffetta Thein Sein-Shwe Mann i militari si assicurerebbero ancora per un quinquennio una certa tranquillità, sufficiente per completare il loro ritiro dalla scena politica, ma non è escluso che i dissapori che da qualche mese stanno allontanando i due uomini forti del governo birmano, possano creare una spaccatura insanabile portando entrambe alla corsa presidenziale.

Nel frattempo la liberazione di prigionieri politici continua a essere presentata dal governo come motivo di miglioramento dei diritti umani nel paese: a fronte di 1.141 detenuti per reati d’opinione liberati dal 2011 all’11 dicembre 2013.

 

 

La situazione dei diritti umani, anche se in via di miglioramento, rimane, comunque, una spina nel fianco per il governo birmano. Reporters sans Frontières ha continuato a denunciare la repressione dei media, nonostante vi sia una decreto che abbia cancellato ogni forma di controllo preventivo. In realtà, in mancanza di una legge che possa garantire l’incolumità dei giornalisti, questi – per evitare conseguenze finanziarie o, peggio, fisiche – si censurano da soli.

Il Child Soldiers International, invece, ha continuato a segnalare il reclutamento di minori tra le file del Tatmadaw e degli eserciti etnici che combattono il regime di Nay Pyi Taw. Secondo il Csi alcuni gruppi di guerriglia, in particolare le coalizioni Karen National Union/Karen National Liberation Army (Knu/Knla) e Karenni National Progressive Party/Karenni Army  (Knpp/Ka) avrebbero avviato un programma con le Nazioni Unite per cessare l’assoldamento di combattenti minorenni, mentre in giugno l’Unicef ha avviato un piano di azione simile con il Tatmadaw, che include il «congedo» dei militari bambini.

Saranno tutti questi problemi, sommati a quelli già elencati, il pesante fardello che Thein Sein trasmetterà al suo successore.

Piergiorgio Pescali

 




Consumarsi fino all’ultimo 

«Famiglie». Questa è l’ultima parola
che ha scritto. Poi basta. Non aveva più niente da dare. Consumata fino all’ultimo.
Prima in Africa e poi in Italia, ha registrato pensieri, conferenze, prediche,
interventi, emozioni, critiche e arrabbiature, pensieri santi e programmi di
lavoro, numeri e parole. In quest’epoca digitale non capita spesso di assistere
a una fine così, dopo chilometri di parole scritte fino all’esaurimento totale.
La fine della mia penna biro. Gli ultimi giorni di carnevale, vigilia di
quaresima.

Quaresima, il tempo che si conclude con un
soffio: «Tutto è compiuto»! (Gv 19,30). Consummatum est! Le ultime
parole di Uno che ha dato tutto per amore. Non vogliatemene se oso mettere
vicini una vecchia biro e il Figlio di Dio in croce. Ma mi sento in buona
compagnia. «Io non sono che una piccola matita nelle mani di Dio», aveva
scritto Madre Teresa. La fine della mia penna, che ha servito fino all’ultimo,
mi ha un po’ emozionato e fatto pensare.

• All’Allamano, il beato che noi vorremmo presto
santo – come non lo fosse già -, che nel suo testamento ha scritto ai
missionari e alle missionarie: «Per voi ho dato tutto: impegno, salute, denaro,
vita. Spero, morendo di diventare vostro protettore in Cielo».

• Al mio compagno di noviziato, amico e fratello
in Italia e in Kenya, padre Giuseppe Ettorri, consumato dalla malattia a
sessant’anni, il 23 febbraio di quattro anni fa. Il tutto era esploso solo
pochi giorni prima, proprio il 16, giorno anniversario della morte del beato
Allamano.

• A suor Paolita, di cui a metà gennaio di
quest’anno ho benedetto il funerale, mia immancabile compagna di banco durante
la preghiera del mattino nella chiesa del beato Allamano, che è andata in cielo
a «esultare di gioia indicibile e gloriosa» avendo conseguito la Meta di tutta
una vita di fede e dedizione (cfr. 1 Pt 1,8-9 e Eb 12,2).

• A padre Giorda, di cui scriviamo questo mese, ripartito per il
Tanzania alla bella età di 87 anni, con in cuore un motto: «Punda afe, mizigo
afike!» (muoia l’asino, [purché] il carico [la Buona Notizia di Gesù] arrivi».

Pensieri arruffati. Molti i volti che
si affollano nel cuore. Persone che non hanno ancora finito di consumare il
loro inchiostro e persone che hanno dato tutto raggiungendo la Meta dopo una
corsa gagliarda, guardando in avanti. Questi ultimi mi ispirano una gioia
profonda perché sono giunti là dove avevano tanto desiderato arrivare, liberandosi
nel lungo viaggio di tutto il superfluo per acquistare il solo Tesoro (cfr. Mc
10, 21) per cui vale spendere la vita. Persone che nel loro cammino hanno
irradiato speranza, comunicato serenità, condiviso amore. Non «facce da
quaresima», ma piccole umili luci della Pasqua.

La Pasqua, memoriale dell’avvenimento centrale della nostra fede senza
il quale il Cristianesimo sarebbe solo una religione come tante, è ormai
imminente. Guardiamo a Colui che ha vinto la morte e il male consumandosi sino
all’ultimo per far trionfare la vita e l’amore. Ricarichiamoci di luce per
continuare a tracciare segni – seppur piccoli – di speranza, di coraggio, di
gratuità, di gioia e di frateità in un mondo avvolto dall’oscurità della
disperazione, della violenza, del sopruso e dell’avidità. Buona Pasqua.

Gigi Anataloni