Prime impressioni
dopo anni di assenza.
Dopo sette anni di
assenza, a gennaio sono tornato brevemente in Ecuador. Mi è sembrato di essere
arrivato in un paese che non conoscevo, ben lontano dai ricordi che portavo
dentro di me. Con la gente invece è stato diverso. Mi sono incontrato con
persone che giorniosamente mi hanno scoperto ancora presente nella memoria e nel
cuore. Alla contentezza di ritrovarci si aggiungeva la pressione del richiamo
che mi animava «a tornare a casa», a stare con la gente che mi voleva bene.
Indigeni: una grande
storia, ma forestieri in casa propria
Sono tornato a rivedere le comunità indigene in cui avevo
prestato il mio servizio missionario fino al 2005 (da là ero poi andato per due
anni a Guayaquil, sulla costa, prima di rientrare in Italia). È stato un colpo
duro per me vedere che si sono svuotate e che gli anziani sembrano soltanto
guardiani di ricordi. A Naubug ai miei tempi c’erano 2500 persone. Ne sono
rimaste 500. A Guantul il numero arrivava a 1500, adesso è 300. Ogni comunità
aveva la sua scuola, che avevamo voluto come luogo di incontro tra maestri,
alunni, genitori e dirigenti, con l’obiettivo di riflettere sul vissuto per
trovare insieme modi nuovi per mantenere la propria cultura e affrontare, senza
evasioni e fughe e senza perdere la propria identità, il futuro. Mi ha dato una
grande pena vedere come sono state modificate. Sono pochissime le scuole con più
di 30 alunni. Licto contava 28 comunità e Flores 26, con un uguale numero dei
centri educativi. Ho avuto la sensazione che sia stata attuata una
cancellazione sistematica riducendo le comunità a luoghi disabitati, come dopo
una guerra.
La parola chiave del cambiamento è «rivoluzione». È
scritta sui tanti cartelli che abbondano lungo le strade. Questi gli slogan più
comuni:
Queste frasi tapezzano ogni cosa. Si vedono edifici
rimessi a nuovo con un cartellone in evidenza che recita: «La rivoluzione
cittadina ha finanziato questa opera».
Neanche le chiese sono risparmiate. Anche i lavori per
dare un aspetto nuovo alla chiesa di Licto mettono in risalto l’aiuto della
rivoluzione cittadina.
Anche le strade sono state rimesse a nuovo, belle larghe
e asfaltate. Frequenti cartelloni ricordano che «Abbiamo strade di prima qualità.
Abbiamo ponti che ci uniscono».
La parola «rivoluzione» è definita come la «promozione
della vera libertà». «La rivoluzione promuove case degne e educazione gratuita.
Le vie della rivoluzione portano a opere integrali, complete».
I cartelloni sono davvero promotori di vita nuova e bella
e incoraggiano anche a essere vigilanti per il bene comune. «Se i bambini sono
ben nutriti, anche i loro sogni lo sono». «Se dai soldi per la strada, aiuti
soltanto ad aumentare l’accattonaggio». «Lo sviluppo equo è vera libertà».
Uno mostra un bimbo: «Il mio futuro è nelle tue mani,
paga le tasse».
Frequenti sono i quelli che invitano a responsabilizzarsi
per sradicare atteggiamenti socialmente pericolosi sulla strada:
• Se vedi che l’autista ha bevuto, requisisci la
macchina.
• Se vedi che carica gente per la strada, non lasciarlo
proseguire.
Si insiste molto sulla parola patria: «Patria è il meglio
che c’è nel mio paese. Siamo la generazione che ricuperò la patria». Poi,
immancabile, lo slogan ufficiale: «Patria, andiamo avanti».
Cosa è diventato
l’Ecuador?
I governanti dicono di volere l’Ecuador come una patria
con piena libertà. Due parole che diventano sinonimi inscindibili per far
credere a persone e comunità che la libertà della patria si raggiunge solo col
progresso gestito da governanti garanti del potere sovrano (del popolo,
ovviamente). Tale progresso, sostengono, si raggiunge con organizzazione e
centralizzazione. Solo così, tutti insieme, si può costruire un paese bello,
moderno e davvero presentabile alla ribalta nazionale e internazionale, che
abbia infrastrutture atte a incrementare il turismo e gli scambi commerciali a
livello mondiale. Allora la loro retorica arriva ad affermare che è
indispensabile una classe dirigente stabile e capace, in grado di attuare e
mantenere i traguardi previsti per il bene di tutti, disposta anche a
modificare la costituzione per permettere al suo presidente di essere rieletto
per la terza volta e vicina a paesi come Cuba, Venezuela, Bolivia e Argentina,
paesi che cercano di affrancarsi dal dominio nordamericano.
A dispetto di questi limiti politici, in realtà l’Ecuador
è un paese meraviglioso.
Conseguenze
drammatiche
Mons. Leonidas Proaño, un grande vescovo dell’Ecuador,
diceva di aver creduto nell’uomo e nella comunità. La persona indigena è
essenzialmente ubicata nella comunità, che vive unita e compatta in un
territorio ben definito dove la terra ha confini e limiti che non possono
essere modificati da invasioni.
Il progetto di efficienza e centralizzazione propugnato
dal governo ha inciso drammaticamente nel vissuto degli indigeni. Anzitutto è
stata travolta la comunità educativa. Sono scomparse le scuole comunitarie per
creare nuove scuole centralizzate, complete dall’asilo all’università. È la «scuola
del millennio» che tutti devono frequentare in un luogo centrale. Gli indigeni
hanno allora dovuto abbandonare le loro case per permettere ai figli di andare
a scuola. Così le città di Riobamba e Quito si sono riempite di indigeni che
cercano di sopravvivere aprendo una miriade di piccoli negozi.
Incontro
indimenticabile
Mi ha fatto impressione l’accoglienza della gente. Dopo
nove anni di assenza mi riconoscevano ancora. La commozione era visibile e
piena di tenerezza. Come quando tornai a casa e non trovi niente delle cose che
avevi lasciato, ma ci sono le persone che ti vogliono bene. E ti ricordano che
la missione non è la costruzione, ma la gente con cui hai camminato, diventata
capace di vivere bene nonostante i guai e i cambiamenti. È questo che da
speranza: crollano i monumenti ma le persone ci sono e hanno voglia di vivere
la propria vita nonostante le macerie e oltre le macerie.
Sono andato in Ecuador come addormentato nei ricordi di
tanti anni e di tante opere; intorpidito da una abitudine missionaria che aveva
dato senso e significato a un certo percorso, perché la credibilità
tradizionale del missionario doveva avere la sua visibilità
nelle opere.
Un cartello mi ha commosso: «Mi sono svegliato e ho
voglia di sognare l’incredibile».
Giuseppe Ramponi