La lotta della
minoranza uigura.
Uiguro di famiglia musulmana,
professore universitario e blogger molto critico verso Pechino, Ilham Tohti è
imprigionato con l’accusa di «separatismo». Il suo caso dimostra (una volta di
più) che la Cina non si è ancora dotata di un sistema efficace per gestire il
dissenso. L’Occidente tuttavia non può dirsi esente da colpe, non avendo a sua
volta capito come trattare con il gigante asiatico.
Il 15 gennaio scorso una ventina di poliziotti fa
irruzione nel piccolo appartamento in cui Ilham Tohti, professore di economia
all’Università Minzu, vive con la moglie e due
figli piccoli, poco fuori dal campus universitario. Tohti viene prelevato e
scortato verso una destinazione ignota. Moglie, figli e anziana madre non hanno
più notizie. Dall’abitazione vengono portati via pc, cellulari, agende e 38
sacchi di appunti, tesi di laurea, compiti degli studenti e quant’altro. Sei
tra gli studenti a lui più vicini vengono portati in questura per essere
interrogati. Un documento rilasciato dal Dipartimento di pubblica sicurezza
della municipalità di Urumqi, che descrive il professore come una figura
pubblica che approfitta della sua posizione accademica per avvicinare studenti
e conoscenti a istanze separatiste e sovversive, è l’unica comunicazione
ufficiale sul caso. Tohti, che – in uno scritto del 2011 – aveva dichiarato di
aver dedicato la sua vita (e sacrificato quella della sua famiglia) alla lotta
per la libertà religiosa, la tutela della cultura, della lingua e del popolo
uiguro, è noto in Cina e all’estero per i suoi scritti e le sue attività di
sensibilizzazione sul Xinjiang. La notizia del suo arresto rimbalza da un sito
all’altro, si cominciano a raccogliere firme per la sua liberazione immediata.
Circola una petizione che, alla data del 18 febbraio, nonostante la
problematicità del caso, era già stata firmata da quasi 2.000 persone, cinesi e
straniere1.
Il 5
luglio 2009, durante gli scontri scoppiati nel corso di una grande
manifestazione a Urumqi, la capitale del Xinjiang, quasi 200 persone rimangono
uccise, moltissime ferite. Le vittime sono per la maggior parte cinesi di etnia
han colpiti a morte da gruppi di uiguri. Altre manifestazioni e scontri
scuotono in quei giorni la regione, la attraversano da Nord a Sud e infiammano
Kashgar, zona di confine tra le più problematiche del Xinjiang. La regione
viene isolata, chiusa a giornalisti e stranieri, internet e telefonate
inteazionali vengono immediatamente bloccati. Comincia un passaparola
frenetico, un proliferare di voci sulle possibili cause di quello che viene
considerato il sommovimento potenzialmente più destabilizzante per la
Repubblica popolare dopo il 1989. Nur Bekri, presidente della regione autonoma,
appare sulla Cctv (China Central Television) facendosi portatore della
linea ufficiale: la causa delle rivolte va cercata all’estero, nelle attività
separatiste e terroriste del gruppo di Rebiya Kadeer (leggere MC, gennaio
2010, ndr), e in quelle sovversive di alcune figure che operano entro i
confini cinesi, tra cui Ilham Tohti. Il suo blog Uighurbiz viene identificato
come una delle principali piattaforme online responsabili di aver istigato e
aiutato a organizzare la rivolta. Il sito viene chiuso, Nur Bekri e Wang Lequan
– l’allora segretario del partito del Xinjiang (che verrà sostituito un anno
dopo da Zhang Chunxian) – puntano il dito contro Ilham Tohti che, prima viene
arrestato, poi rilasciato ma confinato nei 50 metri quadrati del suo
appartamento nel campus universitario con la moglie e i due figli piccoli.
Nonostante
il supporto e l’affetto di studenti e amici, dal 2009 in poi l’esistenza di
Tohti si trasforma in un vero e proprio «calvario» fatto di visite e
interrogatori della polizia nei momenti più inaspettati, problemi per i
familiari a Pechino e in Xinjiang, beni e proprietà congelate (e lo stipendio
da professore che arriva solo saltuariamente), telefonate, email e lezioni
controllate e registrate. Più le maglie del controllo si stringono intorno a
lui, più le sue lezioni diventano popolari: aule in cui più di 200 studenti,
per la maggior parte uiguri provenienti da tutta la città, lo aspettano ogni
venerdì pomeriggio. Il tono delle sue analisi e dei suoi messaggi diventa
sempre più critico e tagliente. Il suo atteggiamento di sfida alle autorità non
passa però inosservato: il corso viene interrotto nel settembre 2011, «perché
non si raggiunge il numero di studenti necessari».
Infaticabile,
nonostante una forte depressione, i ripetuti ed estenuanti interrogatori, e una
serie di difficoltà per lui e la sua famiglia, Tohti continua a lottare, a fare
rete con amici e intellettuali a lui vicini e a sensibilizzare la comunità
internazionale attraverso le interviste che appaiono sui maggiori media (New
York Times, The Guardian, Wall Street Joual). Ha in testa un progetto:
istituire un’università online dove raccogliere tutte quelle informazioni,
opere, materiale relativi al Xinjiang fino a quel momento sparsi nella rete. Il
governo cinese sostiene che Tohti si adopera per coinvolgere sempre più uiguri
a portare avanti azioni violente contro Pechino. Il suo carattere combattivo,
ma sempre più provato da anni di arresti domiciliari e di malattia, lo portano
a commentare le ormai frequenti esplosioni di violenza nel Xinjang con toni a
tratti discutibili, a volte acclamando l’attacco terrorista, altre
semplicemente individuando le politiche di Pechino e del governo regionale come
prime responsabili dell’escalation. Più i toni si surriscaldano, più
Tohti viene controllato, minacciato e intimidito.
Ormai
non c’è più spazio per le analisi lucide e attente sui cambiamenti sociali in
Xinjiang, sulle trasformazioni del mercato del lavoro e sulla transizione da
una società tradizionale a una modea, sulla situazione dei giovani in
Xinjiang e sulle aspirazioni delle comunità uigure, che erano state una sua
peculiarità. Quello che rimane è un uomo sempre più arrabbiato, rancoroso, e,
forse, sempre più solo.
Nel
febbraio 2013 viene prelevato all’aeroporto di Pechino, mentre – con la figlia
Jewher Ilham (nata da un precedente matrimonio) – è in procinto di imbarcarsi
per gli Stati Uniti per un incarico temporaneo presso l’Indiana University a
Bloomington. Jewher parte, lui viene messo ad arresti domiciliari ancora più
severi. Nonostante questo, continuano ad apparire interviste sui media
stranieri. Al telefono Tohti critica il governo, commenta l’attentato
dell’ottobre 2013 (vedere MC, gennaio-febbraio 2014) a Piazza Tiananmen
sostenendo che non ne è provata la matrice uigura e, allo stesso tempo, che non
si possano escludere in futuro «metodi estremi» utilizzati da gruppi di uiguri
per «proteggere i propri diritti».
Tutto
si ferma il 15 gennaio. Il professore viene scortato fuori dal suo appartamento
del campus dell’Università Minzu. Il luogo dove è detenuto è ancora
sconosciuto, le accuse che gli si muovono consistono in «separatismo» e «istigazione
alla violenza». Un coro di voci si alza in sua difesa: la blogger tibetana
Woeser, Wang Lixiong, giornalisti, avvocati e intellettuali cinesi e stranieri,
e tanti altri. Ma la figura di Tohti rimane controversa: i toni estremi e quasi
forzati delle dichiarazioni degli ultimi tempi non hanno prodotto il consenso
sperato. I suoi paragoni con altre situazioni, per esempio con quella dei
ceceni, erano spesso fuori luogo, e portavano alla luce una psiche provata.
Il caso Tohti rimane aperto. Si tende a spiegare il suo
arresto con campagne anticorruzione che coinvolgono alti funzionari in
Xinjiang, e che avrebbero come obiettivo ultimo i fedelissimi di Zhou Yongkang,
con il tentativo di altri funzionari di spostare l’attenzione o di un ennesimo
giro di vite sulle voci critiche in Cina da parte della nuova amministrazione
Xi, e con molto altro. Quello che resta da vedere è se la società civile
cinese, la comunità internazionale e il governo del Stati Uniti siano pronti a
sostenere una persona che, prima di essere un dissidente, è un uomo provato.
Pechino e la
«gestione del dissenso»
A
questo punto può essere utile comprendere la tragedia umana del prof. Tohti
alla luce del sistema politico cinese. Tutto ciò di cui è accusato è vero:
istigazione al terrorismo (durante le lezioni dichiarava apertamente, di fronte
a un gruppetto di poliziotti seduti tra gli studenti, che gli uiguri dovrebbero
ispirarsi ai ceceni); collegamenti con governi esteri (è appoggiato, e forse
anche finanziato, dal Consiglio di stato americano); incitazione alla violenza
(nelle sue interviste ha spesso sostenuto che l’unico modo per difendere i
diritti degli uiguri è la violenza). Nello stesso tempo, il modo in cui il suo
caso è stato trattato, almeno dal 2009, ha solo contribuito a peggiorare la
situazione. Lo stato mentale di Ilham si è compromesso, poiché viveva in un
piccolo appartamento senza poter più veramente lavorare, e per i continui
interrogatori e le intimidazioni. Se da un lato, quindi, la sua vicenda
personale può suscitare sentimenti di compassione e rispetto, dall’altro non si
può dire che il governo cinese, dal suo punto di vista, sbagli in toto. Del
resto, se in Italia una figura pubblica incoraggiasse a utilizzare metodi
terroristici, per realizzare – ad esempio – la separazione del Nord dal Sud,
sicuramente non passerebbe inosservata.
Il
governo cinese è attaccato da molti fronti: uno di questi è costituito dagli
oppositori interni. Esso non riesce a gestire il dissenso, perché in Cina manca
completamente un meccanismo che faccia da «regolatore» nei casi in cui gli
interessi del governo divergano da quelli di parti della popolazione, se si
esclude quello che si basa sull’intimidazione e la minaccia. Ci sarebbe bisogno
di maggiore democrazia, cioè di un coinvolgimento
delle voci dissidenti in una piattaforma di dialogo, che toerebbe molto utile
per evitare un’escalation dei problemi.
Nel frattempo, il 26 febbraio, si è appreso2 che a Ilham Tohti,
in carcere a Urumqi, è stata ufficializzata l’accusa di separatismo. Rischia
l’ergastolo o addirittura la pena di morte.
2
– Cfr. la Bbc: www.bbc.com/news/world-asia-china-26333583.
* Già collaboratrice di MC, Alessandra Cappelletti è esperta
di questioni identitarie e minoranze etniche. Sinologa, ha un dottorato di
ricerca in studi sulla Cina contemporanea alla «University of China» e
all’Università degli studi di Napoli «L’Orientale». È editor di un nuovo sito
dedicato a Pechino: www.cinaforum.net.
Un ritratto di Ilham
Tohti:
Professore e
attivista
Nato e cresciuto in una famiglia benestante di mercanti di Artush,
villaggio del Xinjiang ai confini col Kyrgyzstan, nelle sue conversazioni con
gli amici Tohti ricorda spesso il padre, musulmano praticante, in partenza con
lunghe carovane di cammelli per oltrepassare i valichi montuosi alla volta di
Osh, centro commerciale kyrgyzo, e Samarcanda, in Uzbekistan. Una famiglia
allargata, un padre con mogli in diversi luoghi dell’Asia Centrale, commerci e
interessi nell’area, e una considerevole quantità di beni espropriati durante
la Rivoluzione culturale. Cresciuto dalla madre in un ambiente molto religioso,
negli anni ‘80 è un brillante studente di lingue all’Università Minzu, nel
nuovo clima di dialogo e apertura promosso dall’amministrazione di Hu Yaobang.
Tohti dimostra una notevole propensione agli studi, è sufficientemente
eclettico da cominciare un percorso interdisciplinare a cavallo tra l’economia
e la sociologia – con un occhio sempre attento a quello che succede nella sua
regione d’origine, che lo porterà a occupare velocemente una cattedra presso il
Dipartimento di economia dell’Università Minzu. Gli anni ‘90 e la prima metà
del 2000 rappresentano un periodo di formazione politica, un lavoro condiviso
con intellettuali cinesi e stranieri con formazioni e posizioni diverse,
attraverso lunghe discussioni sulle trasformazioni della società, dibattiti, e
un rapporto molto stretto con il gruppo di studenti che più lo segue. Tohti
comincia così a spostarsi dagli studi accademici all’attività politica: membro
del Pcc, è l’unico intellettuale uiguro che va oltre i confini dell’etnia,
confrontandosi e interagendo soprattutto con cinesi han, giornalisti,
intellettuali, artisti. Il suo lavoro diventa un’attività di sensibilizzazione
rispetto alle diseguaglianze economiche e sociali in Xinjiang, portato avanti
con studenti, amici, conoscenti e colleghi. Personalità carismatica e generosa,
gode di molto rispetto tra studenti e amici han, e non esita a parlare e
rilasciare interviste ai giornalisti stranieri.
Alessandra
Cappelletti
Pechino: L’Università
Minzu
Una casa per le minoranze
etniche
L’Università delle Minoranze etniche di Pechino, chiamata Università
Minzu (in seguito a una delibera degli organi accademici volta a evitare che il
termine minzu 民族,
«gruppo etnico», venisse tradotto con il politicamente connotato «nazionalità»),
è nuovamente sotto i riflettori. Istituzione accademica prestigiosa che
raccoglie la créme dei giovani appartenenti alle 55 minoranze etniche cinesi,
formandoli, insieme a una parte di studenti han, secondo una rigorosa
educazione di partito per prepararli a occupare posti più o meno rilevanti
nell’amministrazione pubblica e nel governo, il campus del quartiere di Haidian
ospita tibetani, uiguri, mongoli, hui, kazaki, kyrgyzi, e membri di quasi tutte
le altre minoranze. Inoltre è l’unica, a Pechino, a disporre di numerose mense
per gli studenti musulmani. Almeno due le occasioni recenti in cui questa
università ha fatto notizia in Occidente: le manifestazioni degli studenti
tibetani (marzo 2008 e ottobre 2010), e l’arresto di Ilham Tohti nel luglio del
2009. Docente di dinamiche economiche nelle aree abitate da minoranze,
all’epoca Tohti fu rilasciato grazie alla sua notorietà tra intellettuali e
studiosi cinesi e stranieri, e, soprattutto, grazie all’intercessione
dell’amministrazione Obama.
Alessandra Cappelletti