Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 18
Vignette satiriche in
Inghilterra e pillola del giorno dopo negli Usa. Due casi recenti che mettono
al centro il tema della laicità delle istituzioni. Da un lato c’è chi, per
difendere la fede, chiede una maggiore presenza dello stato. Dall’altro c’è
chi, sempre per garantire la libertà di credo, ne chiede una presenza minore. Come
sciogliere un nodo così centrale nella vita delle democrazie costituzionali?
Fino a che punto può spingersi la
libertà di critica e di satira nei confronti della religione? Nella società
secolarizzata esiste infatti anche questo problema che, tra gli altri, riguarda
la laicità dello stato. Lo stato laico non può avere una propria confessione
religiosa, né creare condizioni favorevoli per una a dispetto delle altre. Esso
deve garantire la libertà religiosa e di coscienza a tutti: credenti e non
credenti.
Per assicurare il rispetto di questi
principi ci sono le costituzioni, le leggi e le apposite istituzioni (come, in
Europa, la Cedu, di cui abbiamo scritto nei numeri scorsi). Rimangono tuttavia
aperti diversi problemi, tra i quali quello cui abbiamo accennato all’inizio:
la libertà, in questo caso di coscienza e di espressione, trova un limite nella
libertà degli altri? Se uno non è credente, fino a che punto può criticare la
religione senza offendere la coscienza dei credenti? È una questione emersa in
questi ultimi anni proprio nel campo dell’umorismo e della satira.
Tutti ricordiamo il caso delle
caricature di Maometto pubblicate il 30 settembre 2005 sul quotidiano danese Jyllands-Posten,
considerate blasfeme dai musulmani, che avevano prodotto reazioni molto
violente, morti e feriti.
Un episodio analogo ma, per fortuna,
del tutto pacifico, è accaduto qualche mese fa in Inghilterra. La mattina del 3
ottobre scorso Chris Moos e Abhishek Phadnis, studenti della London School
of Economics, famosa università privata di Londra, si sono presentati in
aula con una maglietta che riproduceva un’immagine di «Jesus and Mo», un
fumetto umoristico celebre nel paese d’oltremanica. I due giovani, che si
dichiaravano atei, l’hanno indossata per scherzo. Il fumetto rappresenta Gesù e
Maometto come due grandi amici che si parlano dandosi del tu, e prendono in giro
in modo sarcastico il mondo religioso rappresentato da ciascuno dei due. C’è
addirittura un sito internet molto seguito che riporta tutte le vignette via
via prodotte dagli autori (jesusandmo.net *).
Lo scherzo dei due non è stato preso
bene da altri studenti, rappresentanti di associazioni e forze politiche
studentesche, che lo hanno considerato «non politicamente corretto». Hanno
ritenuto, infatti, che la vignetta fosse offensiva per cristiani e musulmani.
Cris Moos e Abhishek Phadnis sono stati quindi costretti a nascondere le loro
magliette sotto una giacca.
Il giornalista del quotidiano
londinese The Guardian, che ha raccontato l’episodio, ha criticato
pesantemente il comportamento degli studenti contrari alle magliette,
considerandolo «un altro esempio di repressione nelle nostre università». Egli
infatti lamenta che quanto accaduto nella London School non sia un fatto
isolato e che, quindi, il problema stia diventando preoccupante in Inghilterra.
Le università, sostiene, sono l’ultimo posto dove la censura dovrebbe essere
ammessa. Egli non difende i due studenti per principio, ma perché la vignetta
riprodotta sulle loro magliette non era, a suo avviso, affatto offensiva.
Questo è l’aspetto che suscita la sua preoccupazione. Per il giornalista,
infatti, non è la «provocazione» dei due amici a essere stata sproporzionata,
ma la reazione inaccettabile degli altri giovani.
Dall’altra parte dell’oceano, negli
Usa, si manifesta un problema che non riguarda la libertà di espressione e di
satira, ma in modo direttamente più esplicito la libertà religiosa e la laicità
dello stato. In questo caso la domanda potrebbe essere: fino a che punto le
comunità religiose possono ritenere che alcune leggi dello stato non siano
valide al loro interno?
Ne ha parlato il primo novembre
scorso il quotidiano francese Le Monde in un articolo dal titolo
emblematico: Le ambiguità della libertà religiosa americana. Vi si
racconta che il 24 ottobre Richard Mourdock, candidato repubblicano al senato
nell’Indiana, ha affermato che «la vita è un dono di Dio anche quando inizia in
una terribile condizione di violenza». Si riferiva a una questione molto
dibattuta, legata alla riforma sanitaria del presidente Barak Obama.
Quest’ultima infatti prevede l’obbligo per i datori di lavoro di offrire ai
propri dipendenti assicurazioni mediche che coprano anche le spese per la
contraccezione. E le parole di Mourdock erano indirizzate alla cosiddetta «pillola
del giorno dopo», la quale sarebbe compresa nell’assicurazione sanitaria
offerta obbligatoriamente ai propri dipendenti anche dalle università e
istituzioni religiose contrarie all’uso della pillola stessa.
Può essere certamente, come sostiene
l’autrice dell’articolo, che ci si trovi di fronte a una forzatura polemica che
trasferisce sul piano della libertà religiosa un problema, in realtà, politico.
La riforma sanitaria ha infatti scatenato negli Usa forti contrapposizioni tra
repubblicani e democratici, facendo muovere numerose associazioni, consistenti
forze economiche e sociali, e istituzioni religiose. Resta il fatto che negli
Stati Uniti, dall’11 settembre 2001 in poi, nella «destra religiosa» si sono
rafforzate le paure nei confronti di una perdita dell’«identità cristiana»
americana, minacciata, da una parte, dagli islamici e, dall’altra, dalla
secolarizzazione. Questi pericoli, da quando siede alla Casa Bianca, vengono
ricondotti al presidente Obama e alle sue politiche.
Nel numero di marzo 2012 del mensile
conservatore First Things era stata pubblicata una dichiarazione
congiunta di esponenti religiosi protestanti e cattolici in cui si afferma che «i
difensori dei diritti dell’uomo, ivi compresi i governanti, hanno cominciato a
definire la libertà religiosa in un modo sempre più riduttivo, riconducendola a
una semplice libertà di culto». La religione biblica, invece, secondo la
dichiarazione, ha un carattere essenzialmente pubblico e non può essere ridotta
a un fatto privato. «Non è affatto esagerato» prosegue il documento «vedere in
questi sviluppi un movimento che cerca di spingere la fede religiosa, e
soprattutto le convinzioni religiose e morali cristiane ortodosse, fuori dalla
vita pubblica». Dentro questo quadro espresso sul periodico conservatore, il
fatto che lo stato renda obbligatoria, anche da parte delle istituzioni
religiose, l’offerta gratuita di contraccezione, diventa un attentato alla
costituzione e ai diritti che essa riconosce. In particolare alla libertà
religiosa, dato che tali imposizioni entrano nel campo della liceità della
contraccezione rispetto alla quale cattolici e protestanti, pur non
condividendo la stessa valutazione generale, concordano quando ci sia da
ritenere abortivo, e quindi moralmente inaccettabile, il ricorso alla «pillola
del giorno dopo».
Cosa lega tra loro il dibattito
statunitense appena riferito e l’episodio della London School of Economics?
Apparentemente nulla. In realtà
entrambi riguardano la concezione di laicità dello stato e la libertà di
espressione. Nel caso londinese viene stigmatizzata una ingerenza «confessionale»
nella libertà di espressione personale. Nel secondo una ingerenza «laica» dello
stato nella libertà di adesione alle convinzioni religiose di alcune
istituzioni private. In tutti e due i casi è in gioco anche un altro aspetto:
quello del cosiddetto «spazio pubblico».
In esso si devono poter manifestare
liberamente le proprie convinzioni. Nessuno, ovviamente, mette in discussione
la libertà di farlo in privato. Ciò che costituisce problema è, invece, la
dimensione pubblica della propria fede religiosa o della propria valutazione,
anche critica, della fede stessa.
Non c’è dubbio, inoltre, che la fede
biblica abbia un carattere pubblico, come sostiene la dichiarazione pubblicata
dal First Things. Lo stesso vale anche, e forse ancora di più, per
l’islam. Ma tale «carattere pubblico» della fede può spingere una religione a
pretendere che la propria concezione morale entri tout court nello «spazio
pubblico» rappresentato dalle norme dello stato?
Probabilmente no. Si violerebbe,
altrimenti, la sua laicità. Ma si violerebbe la laicità dello stato anche se,
al contrario, lo «spazio pubblico» diventasse un luogo in cui la «religione non
c’è», uno spazio religiosamente vuoto (cosa che occorrerebbe verificare se
possibile, oltreché giusta), o un luogo in cui fosse possibile realizzare un’«etica
irreligiosa»: sia sotto forma di satira irrispettosa, sia sotto forma di norme
contrarie alle convinzioni religiose.
Non si tratta di un nodo semplice da
sciogliere.
Ci sono casi in cui le norme
contrarie alle convinzioni religiose vengono considerate legittime anche dalla «destra
religiosa», quando queste concordano con i suoi obiettivi.
Per rimanere negli Usa, dove i
problemi si presentano spesso in modo più evidente e, a volte, anche più acuto
che in Europa, dal 2010 alcuni stati come il Tennessee, la Louisiana, l’Arizona
– ma in molti altri si sta procedendo nella stessa direzione -, hanno
introdotto norme che pongono restrizioni significative alla libertà religiosa
delle comunità musulmane ed ebraiche. In queste comunità infatti operano «tribunali»
che applicano ai propri fedeli le leggi religiose, la sharia islamica e
la halakhah ebraica. Quando tali «tribunali» non garantiscono gli stessi
diritti previsti dalla Costituzione, le parti interessate possono ricorrere a
un tribunale laico. Perché in questi casi è considerata legittima l’«ingerenza»
dello stato e la restrizione della libertà religiosa?
La risposta è chiara: la restrizione
del diritto alla libertà religiosa è possibile quando questa eviti la
violazione di altri diritti costituzionali.
Sono le norme costituzionali, dunque
– naturalmente delle costituzioni democratiche che riconoscono e proteggono
tutti i diritti civili e di libertà -, che debbono prevalere, perché
garantiscono a tutti i cittadini pari diritti e pari libertà. Questo deve
valere anche quando si invoca uno «spazio pubblico» in cui esprimere la propria
fede religiosa. Tale spazio dev’essere regolato dalle norme costituzionali che
valgono per tutti. È questo, propriamente, che caratterizza lo stato laico e
non confessionale.
Se dalle istituzioni
e dalle comunità si passa a considerare la persona, per difenderla
dall’ingerenza dello stato nelle sue convinzioni religiose e nella sua
coscienza, rimane fondamentale il diritto all’obiezione di coscienza. Ha
costituito un grande progresso civile il suo ingresso da qualche decennio tra
le leggi degli stati. Uno stato laico deve sempre prevederla quando sono in
gioco norme che possono contrastare le convinzioni morali e religiose di una
persona.
In Italia non è
stato facile raggiungere questo risultato. Molti hanno pagato prezzi elevati
perché tale diritto fosse riconosciuto. Ricordiamo il caso degli obiettori di
coscienza al servizio militare, esploso negli anni ‘70, costretti in carcere
perché non volevano indossare la divisa. La loro scelta ha reso possibile la
legalizzazione di quella forma di obiezione di coscienza. In seguito, come
noto, in Italia ne sono state riconosciute altre: ad esempio l’obiezione dei
medici alla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.
Per quanto
riguarda la riforma di Obama, alla fine di giugno 2012, la Corte suprema
americana l’ha dichiarata costituzionale, in particolare dove prevede l’obbligo
per tutti i cittadini di dotarsi di un’assicurazione sanitaria. Rimane però
aperta la questione che contrappone il presidente e le istituzioni religiose.
Obama ha fatto un passo indietro, cercando un accordo: «Le organizzazioni
religiose non dovranno pagare per questi servizi o provvedervi direttamente»,
ha affermato ancora nel febbraio del 2012, precisando che le istituzioni
affiliate a organizzazioni religiose non avrebbero più avuto l’obbligo di
coprire la spesa sanitaria dei dipendenti per gli anticoncezionali. Questo non
ha impedito che le arcidiocesi di New York e Washington, insieme a una
quarantina di altre istituzioni e gruppi cattolici, avviassero alcuni mesi dopo
una causa contro la riforma, sostenendo che «i progressi nella modifica della
norma non erano stati incoraggianti».
* Per correttezza abbiamo
riportato questo sito, ma se la sua qualità è rappresentata da alcune delle
vignette che abbiamo visto, non vale davvero il nostro tempo; è più frutto di
goliardia e d’ignoranza in malafede che d’intelligenza; il fatto che se la
prenda sia con Islam e Cristianesimo non contribuisce certo a renderlo almeno
dignitoso, ndr.
Paolo Bertezzolo