«Voglio muovere il cuore di ogni uomo nero perché tutti gli
uomini neri sparsi nel mondo si rendano conto che il tempo è arrivato, ora,
adesso, oggi, per liberare l’Africa e gli africani. Uomini neri di tutto il
mondo, unitevi come in un corpo solo e ribellatevi: l’Africa è nostra, è la
nostra terra, la nostra patria (…). Ribellatevi al mondo corrotto di Babilonia,
emancipate la vostra razza, riconquistate la vostra terra». (Bob Marley)
La parola «Rastafari» ci fa venire in mente subito tre immagini: la
musica reggae di Bob Marley, le lunghe trecce, i dreadlock, e le manifestazioni degli anni ’70
per i diritti degli afrodiscendenti nel continente americano.
In
Bahia è molto comune incontrare rasta che
suonano o vendono artigianato nel Pelorinho, il quartiere tipico di Salvador, o
lungo l’Orla marittima. Ci sono diverse comunità anche nei piccoli paesi del
litorale bahiano: si tratta di giovani e adulti che vivono in modo frugale, nel
rispetto dell’ambiente, in case costruite con criteri eco compatibili, come
Gabriel e la sua compagna italiana, a Diogo de Mata de Sâo Joâo; o Carlos,
proprietario di un risto-bar attento ai segnali della natura, ostile al
consumismo e agli sprechi; o Marquinho, che vive nel mezzo del mato,
nella foresta, in una casina di adobe (mattoni
di fango e paglia, ndr), circondato da animali,
piante e sorgenti, dedicandosi a creare magnifiche collane, anelli e bracciali
di metallo incastonato di pietre; o Sidney Rocha, teologo e artista, che passa
molto tempo fuori dal caos di Salvador, a pescare, meditare e a scrivere
poesie.
Per
ognuno di loro, natura, impegno sociale, politico e ambientale sono elementi
che non si disgiungono dalla fede religiosa in Jah
(Jahwé) e in una profonda consapevolezza del proprio posto nel mondo. La loro
lotta contro «Babilonia», il «male», il «sistema oppressore», le «istituzioni»
corrotte in cui non si riconoscono, è realizzata nella quotidianità della realtà
in cui vivono.
Ovviamente,
a fianco dei rasta impegnati e coscienti, ci sono altri che, pur apparentemente
simili – dreadlocks, abbigliamento
colorato, musica – si dedicano ad attività meno educative, ciondolando per le
strade o nelle spiagge, pieni di alcornol e macogna (marijuana,
ndr). «Non sono veri rasta», spiega con una punta di
fierezza e severità Sidney Rocha, «sono emarginati, poveracci che stanno
distruggendo la propria vita, vittime di un sistema sociale e politico che crea
miseria e alienazione».
«In
Brasile, il rastafarismo, ovvero “Legione Rasta”, iniziò a diffondersi tra la
fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 – racconta il teologo -. Siamo
stati molto perseguitati, perché la Chiesa non ha mai accettato la nostra
storia. Dentro il movimento ci sono tante correnti, gruppi: Twelve
Tribes of Israel, i Nyabinghi, i Bobo
Ashanti e gli Ortodossi, sono alcune. La nostra è una religione, ma non nel
senso occidentale del termine. Per noi la religione è vita. Ci si riunisce per
la cerimonia della preghiera comunitaria, con suoni di tamburi e canti, il
Nyabinghi (Ni-uh-bin-gee), per leggere la Bibbia e fumare marijuana, il cui
uso, tuttavia, non è obbligatorio. Quest’ultima è usata come rituale».
Hailé Selassié, il
Leone di Giuda
Anche
nel resto del mondo il rastafarismo è diventato particolarmente famoso negli
anni ’70 -’80, attraverso la musica e la vita di Bob Marley, il grande autore
giamaicano. Ha tuttavia una storia di religione organizzata che risale agli
anni Trenta, con l’ascesa al trono dell’imperatore di Etiopia Hailé Salassié
(al secolo Tafari Makonnen Woldemikael) nel 1930, e una mitologia molto più
antica, che arriva all’epoca del Re Salomone.
Filiazione
sincretica di giudaismo e cristianesimo, e con alcuni aspetti presi, ma anche
foiti, all’islam, questo movimento politico e religioso affonda le radici, la
propria dottrina e fede nelle religioni semitiche monoteistiche e patriarcali
del Vicino e Medio Oriente.
Spiega
ancora Rocha: «Il termine rastafari deriva dal nome proprio dell’imperatore
etiope, Tafari, preceduto da Ras (capo), che, asceso al trono, prese quello di
Hailé Selassié, cioè “Potenza della Trinità”: egli era considerato erede della
dinastia salomonide, originante dall’unione del re Salomone con Makeda, la
regina di Saba, da cui nacque il capostipite Ebna la-Hakim (poi Menelik I), re
d’Etiopia. Tafari salì al potere con il titolo di Re dei Re (Negus Neghesti),
Eletto di Dio, Luce del Mondo, Leone Conquistatore della tribù di Giuda».
Egli è
considerato la seconda incarnazione di Gesù, ma in gloria e potenza, non più
come l’Agnello di Giuda ma come il Leone, secondo una tradizione profetica,
in quanto discendente di Hakim-Malik, e dunque membro della tribù di Giuda.
Dottrina e fondamenti
Una
parte della dottrina del rastafarismo si basa sulla vita e sugli insegnamenti
di Hailé Selassié I, – in quanto la sua figura rappresenta il Cristo
(l’Illuminato) ritornato in Gloria, l’incarnazione di Jah, Dio, sceso sulla
Terra per portare la liberazione alle popolazioni nere -, su quelli teologici e
morali di Gesù, e della tradizione etiopica ortodossa.
Nel
loro credo sono contemplate la divinità di Gesù Cristo, la Trinità, la
resurrezione della carne, l’immortalità dell’anima, tutti i dogmi stabiliti
dalla Chiesa ortodossa etiope, e il millenarismo, la parusia (presenza divina, ndr) di
Cristo e il suo Regno terreno prima della fine dei tempi, e il giudizio
universale, secondo l’Apocalisse di Giovanni. Hailé Selassié I si manifesta nel
mondo per realizzare questa profezia.
I
rastafariani credono che si possa giungere alla salvezza mediante la fede nel
divino e il rispetto della morale naturale, qualunque sia la propria religione
o teologia, per questa ragione rispettano gli altri culti, considerati da
Selassié «vie del Dio vivente», che non è possibile giudicare. Essi, pertanto,
avversano il settarismo religioso.
Inoltre,
credono che l’imperatore Tafari non sia morto, ma si sia volontariamente
occultato – qui mostrando analogie con Mahdismo sciita – agli occhi degli
uomini, in quanto rappresenta il Cristo ritornato glorioso in terra, morto una
sola volta e risorto per sempre. Dunque, la sua seconda discesa nel mondo
rappresenta non più il sacrificio per la redenzione degli uomini, ma il tempo
del Regno glorioso.
Nazionalismo e
africanismo
La
questione dell’Africa, in quanto continente impoverito e sfruttato da secoli di
colonialismo occidentale, per i rastafari è di grande e prioritaria importanza.
«Il rastafari non è solo una religione – aggiunge Rocha -, ma anche un
movimento politico nazionalista, che si ispira ai discorsi di Marcus Mosiah
Garvey». E a quelli dell’etiopismo.
L’etiopismo
è un movimento nazionalista che vede la luce ai primi dell’800, nel tentativo
di organizzare e liberare, sotto l’emblema della monarchia dell’Etiopia, i
popoli neri dell’Africa colonizzata. La liberazione doveva passare attraverso
un percorso di cambiamento spirituale, culturale, economico e politico. Guidati
da Garvey, considerato dai rastafari come una sorta di «precursore» – come
Giovanni Battista – del ritorno del Cristo maestoso nella persona di Hailé
Selassié, i membri del movimento fecero dell’Etiopia il centro del loro
messianismo, in quanto il ritorno del popolo nero alla patria africana
(schiavizzati e loro discendenti) sparsi nella Diaspora è parte integrante
della visione millenarista dell’etiopismo, su cui il rastafari basò il proprio
sviluppo politico.
Tale
movimento, a partire dal 1800, cominciò a diffondersi sia tra le popolazioni
africane sia tra le comunità nere in America, sostenendo la lotta per la dignità
nazionale e culturale avendo come punto di riferimento l’Etiopia.
Fu
dopo l’incoronazione di Selassié che gli etiopisti riconobbero in lui il Messia
che ritornava potente, vittorioso e liberatore.
Il
movimento fece proselitismo in Africa, nel continente americano, nelle Indie
occidentali (le Antille, ndr), in Inghilterra,
espandendosi poi anche in altre parti del mondo, sia attraverso il Kebra
Nagast, il loro libro sacro, sia attraverso la musica, il reggae, che ne
diffonde il messaggio religioso e politico.
Etica
internazionale basata sull’autodeterminazione dei popoli, sull’uguaglianza dei
diritti e sulla non ingerenza, e sul riconoscimento di un ordine sovranazionale
che rigetti guerre e conflitti: questi sono alcuni dei principi politici
inteazionali del rastafarismo, per il quale, insiste il teologo Sidney: «È
anche necessario costruire sistemi “liberali e democratici” che rifiutino ogni
ideologia totalitaria, di destra o sinistra che siano, che deviano il cammino
diretto verso Dio, Jah, dell’essere umano».
Il
loro ideale di stato prevede che esso, seppur laico, debba garantire la libertà
religiosa.
Essi si rifanno al movimento del panafricanismo e
all’esempio di Hailé Selassié I, considerato «Padre dell’Africa Unita» e
fondatore dell’Organizzazione dell’Unità Africana. In tutte le loro canzoni, e
in altre espressioni culturali, i rasta parlano del loro sogno di un continente
unito e libero dal dominio straniero, e del riscatto identitario. Per superare
la propria storia di schiavitù e oppressione, gli africani e i loro fratelli
sparsi nel mondo, devono ricordare e esaltare le proprie origini e dedicarsi a
tale causa. In questa prospettiva Selassié mise a disposizione un vasto
territorio in Etiopia per permettere, a chi volesse, di «ritornare» nella
patria africana.
È la «Bibbia
africana». Nel libro Kebra Nagast (la
Gloria dei Re), antico testo etiope, si racconta del trasferimento dell’Arca
dell’Alleanza, per mano di Ebna la-Hakim, da Gerusalemme al Regno di Saba. Tale
trasferimento è interpretato dai rastafari come un passaggio della discendenza
salomonica di Israele all’Etiopia, la cui antica dinastia, che giunge fino a
Hailé Selassié, è così considerata di tradizione «divina». Secondo la
tradizione raccolta nel Kebra Nagast, i rastafari credono che
l’Etiopia
sia la «Nuova Gerusalemme», la nazione destinata a custodire la cristianità
fino al secondo ritorno di Gesù Cristo, avvenuto nella persona dell’imperatore
Selassié.
Spiega
Rocha: «Il libro racconta, tra le altre vicende, l’incontro tra il Re Salomone
e la Regina di Saba (riportato da 1 Re, 10 e 2 Cronache, 9), la quale, colpita
dai racconti sulla grande saggezza del sovrano, va a Gerusalemme. Dalla loro
unione (cui però la Bibbia non fa alcun cenno) nascerà Ebna la-Hakim, poi
Menelik I, capostipite della dinastia regale etiopica. L’Etiopia avrà il
compito di custodire la purezza del cristianesimo, dopo il rifiuto del popolo
d’Israele, e la missione della discendenza davidica sino al ritorno glorioso di
Cristo. Secondo tale tradizione, l’Arca dell’Alleanza, portata da Menelik nel
paese, è la conferma del ruolo e dell’elezione dell’Etiopia».
Il Kebra
Nagast si rifà ai testi biblici ma, nelle redazioni successive, anche a
leggende etiopi, egiziane e copte, e a elementi coranici (la sura
dell’Ape, per esempio) e testi cristiani apocrifi. E, nello stesso tempo,
influenzò, insieme alle tradizioni giudaiche e cristiane, quella islamica.
I
rasta sono noti per i dreadlocks, trecce posticce
attaccate ai capelli. «Si tratta di un’usanza diffusa – racconta Sidney Rocha
-, che rappresenta un voto biblico, il nazireato, di cui parla Numeri, 6, 5: “Tutto
il tempo del voto della sua consacrazione, il rasoio non passerà sul suo capo:
finché non sono compiuti i giorni per i quali si è consacrato all’Eteo, sarà
santo; lascerà che i capelli del suo capo crescano lunghi”».
Secondo
il Kebra Nagast, un
angelo apparve alla madre di Sansone, imponendole di non tagliare i capelli al
figlio, e di lasciarlo crescere puro. La storia tragica e coraggiosa di Sansone
la ricordiamo bene, ma la sua immagine di uomo forte, reso cieco e prigioniero,
senza capelli, per i rastafari rappresenta ciò che può capitare a chi esce dal
cammino divino e scende a compromessi con Babilonia, simbolo di male e
corruzione, denaro, avidità, tentazioni e passioni per donne malvagie (come la
filistea Dalila che sedusse Sansone). Dunque, i capelli lunghi sono un simbolo
di morale e di integrità, di cammino nel sentirnero stabilito da Dio.
Tuttavia,
è anche un’usanza che arriva dall’Africa orientale, dove guerrieri e membri di
varie tribù usano portare i dreadlocks.
Le
trecce rasta hanno iniziato a fare la loro comparsa durante le manifestazioni
per la rivendicazione identitaria in Giamaica. Per un rasta essere negro, con dreadlocks e barba,
significa assomigliare di più all’immagine storica di Gesù, Yeshua.
Negli
anni ’70 furono perseguitati in tutto il continente americano: furono
aggrediti, imprigionati, costretti al taglio delle trecce perché
rappresentavano una minaccia per il «sistema».
La donna e il
rastafarismo
Il
rastafari segue la millenaria tradizione delle religioni semitiche patriarcali
(giudaismo e islam), per le quali la femmina riveste un ruolo subordinato al
maschio, è impura e veicolo di tentazioni e peccato. Per i rastafari quindi il
compito principale della donna, appellata come «regina», è di occuparsi del «re»,
cioè del marito; essa è subordinata all’uomo e deve essergli fedele; deve
occuparsi della casa e della prole; non può essere un leader. L’uomo è il capo
spirituale della famiglia.
La
donna, inoltre, non deve indossare abiti o trucchi che la rendano un’attrattiva
sessuale per altri uomini o usare sostanze chimiche nei capelli.
Scrive
l’antropologo Livio Sansone in «Tendencias en blanco y negro: punk y
rastafarianismo», Revista de Estudios de Juventud, n. 30, 1988, Madrid,
pp.73-86: «La sessualità femminile è vista come dipendente: […]. La donna rasta
deve essere coperta dalla testa ai piedi, non deve mai sciogliersi i capelli di
fronte a nessun altro che non sia il suo “re”, poiché ella deve continuare a
essere ciò che il rastafarismo chiama “La Madre Terra Africana”».
Anche per pregare deve coprirsi i capelli, secondo quanto
stabilito nella 1 Corinzi, 11, 5: «E le donne che pregano o proclamano il
messaggio di Dio durante cerimonie pubbliche senza indossare nulla sul capo,
disonorano il proprio capo». E anche Efesini, 5, 22: «Le mogli siano sottomesse
ai loro mariti come al Signore».
Diversamente
dalla società matriarcale giamaicana, dove il rastafarianesimo si è sviluppato,
esso afferma la superiorità gerarchica dell’uomo sulla donna, «primo tra pari»,
perché la donna, come Eva, è causa dell’introduzione del male nel mondo, e
veicolatrice, con la sua sensualità, di tentazioni e peccato. Ella può
purificarsi solo nella relazione con il marito e nella sua fedeltà a esso, e
nella famiglia.
Quanto
a quest’ultima, spiega Sansone nel suo articolo: «Per il rastafari, la famiglia
si rivendica e si riscopre nella forma che essi considerano essere la loro
famiglia africana (basata sulla poligamia, ma praticata in Occidente)».
In
sintesi, nel rapporto uomo-donna, da parte del maschio vi è una ricerca
esplicita della sensualità, mentre quella femminile è repressa e dipendente
dalla relazione di esclusività con il marito.
L’erba del Giardino
dell’Eden
Nei
loro culti, i rastafari fanno uso di ganja-marijuana, in quanto mezzo
spirituale e rituale per ottenere doti di saggezza e chiaroveggenza, e come
erba medicinale. La marijuana è associata all’Albero della Vita e della
Saggezza del Giardino dell’Eden, che stava a fianco dell’Albero della
conoscenza del bene e del male.
«La ganja
– spiega Sansone – rappresenta per i rasta uno strumento per perfezionare la
percezione sensoriale, un dono del loro Dio Negro, qualcosa che i bianchi proibiscono,
precisamente, per impedire la conquista della coscienza da parte della
popolazione Negra».
Dagli
anni ’60, la Giamaica è una fucina di musica che si diffonde in tutto il mondo:
oltre alla sua coinvolgente melodia, il reggae veicola un messaggio religioso,
spirituale e politico.
Un
grande testimone di questa musica è stato Bob Marley, il cui talento e carisma
hanno portato il reggae a essere conosciuto e apprezzato a livello
internazionale, e così pure il rastafarismo.
Roots
reggae è il nome del genere di reggae rastafari: si tratta di un tipo di
musica spirituale, i cui testi elogiano Jah, e invitano alla resistenza contro
l’oppressione. «Nei testi di musica reggae s’incontra il termine “apocalisse” –
afferma Sansone -, ma più spesso la predizione dell’Armageddon: la battaglia
finale del giorno del Giudizio, nella quale senza dubbio, i rastafari usciranno
vincitori e potranno dirigersi con la testa alta verso un futuro radioso,
promossi come Nuovi Israeliti, nuovo Popolo Eletto».
L’abbigliamento. Scrive ancora Sansone: «[…] i vestiti del rasta sono colorati e vivaci; il
rasta vuole sembrare attraente nella sua naturale bellezza africana e
l’attenzione è rivolta a sottolineare armonia […]. Anche i passi di danza sono espressione della ricerca di armonia,
bellezza e plasticità (blu danza). […]
L’armonia della danza è omologa alla melodia della musica reggae, al suo carattere fluido, al suo
timbro basso e al suo insieme conciliante […]».
Un’altra
caratteristica rastafari è il tam,
copricapo con i colori della bandiera etiope.
I rasta considerano Marcus Mosiah Garvey un profeta, la cui
ideologia e filosofia ha fortemente influenzato il movimento. Garvey promosse
il «Nazionalismo nero» e il «Panafricanismo». Egli lavorò per la causa dei
popoli neri negli anni ’20 e ’30 e le sue idee influenzarono molto le classi
popolari in Giamaica e il rastafarismo stesso.
Il panafricanismo è un movimento che incoraggia la solidarietà
e l’unità tra i discendenti africani nella diaspora. La sua ideologia si basa
sul concetto che tutti i popoli africani siano interconnessi: «I popoli
africani, sia nel continente sia nella diaspora, non condividono solo una
storia comune ma anche un destino comune» (Minkah Makalani).
L’organizzazione politica panafricana più grande e
conosciuta è l’Unione Africana.
«The Marcus Garvey and Universal Negro Improvement
Association Papers», vol. IX: Africa for the Africans, June 1921-December 1922.
Angela Lano