Minoranza serba sotto attacco
Chiese ortodosse bruciate, cimiteri serbi vandalizzati,
libertà di movimento limitata, identità e cultura negate. La minoranza serba in
Kosovo, costretta in una condizione di apartheid, vede i propri diritti fondamentali
violati. Segno di un paese che, nonostante l’avallo internazionale, rimane
distante dagli standard minimi della democrazia.
Dopo l’intervento militare della Nato nel 1999, la
regione del Kosovo è stata posta sotto amministrazione Onu (Unmik). Il
controllo è stato assunto dalla maggioranza albanese, e la popolazione serba è
fuggita in gran parte in Serbia. Le minoranze rimaste vivono attualmente in
piccole enclaves protette dalle forze inteazionali. Il 17 febbraio
2008 il Kosovo si è proclamato indipendente ottenendo il riconoscimento da
parte di 106 stati, tra cui gli Usa che vi hanno insediato una importante base
militare (Camp Bondsteel). Il 22 luglio 2010 la Corte internazionale di
Giustizia ha dichiarato che la proclamazione d’indipendenza del Kosovo non era
stata un atto contrario al diritto internazionale. La Serbia non riconosce la
secessione di un territorio che rappresenta la culla della sua cultura. La
dichiarazione della Corte è stata riconosciuta dall’Assemblea Generale dell’Onu
nel settembre del 2010 (Incipit tratto da deagostinigeografia.it).
Un narcostato nel
cuore dell’Europa
Nonostante
siano passati 15 anni dai bombardamenti scatenati dalla Nato e dall’inizio del
processo di secessione e indipendenza della regione kosovara dalla Repubblica
di Serbia, la «questione Kosovo» continua a essere un nodo irrisolto. La
comunità internazionale occidentale pensava che con la cosiddetta «indipendenza»
si sarebbero assopite le forme di resistenza del popolo serbo kosovaro e delle
altre minoranze perseguitate in quel territorio. Ma non è stato così. E lo
dimostrano i quotidiani episodi di violenza e persecuzione, le vessazioni e i
soprusi. Il Kosovo indipendente, scosso da conflittualità e turbolenze, dopo
quindici anni di cosiddetta «democrazia e libertà» è stato definito dalla Dea
(Agenzia Antidroga Usa) un «narcostato nel cuore dell’Europa». Esso si regge su
due stampelle: una militare, cioè la presenza delle forze Nato-Eulex (European
Union Rule of Law Mission in Kosovo), l’altra economica, cioè la
proliferazione di attività criminose di ogni genere, dal traffico di eroina, a
quello delle donne, degli organi e delle armi.
A cavallo tra la fine di un anno e l’inizio di quello
nuovo in Kosovo Metohija (così viene chiamata la regione del Kosovo dalla
popolazione serba, ndr) i serbi vivono le ricorrenze cristiane, come la
memoria dei morti, a novembre, e il Natale ortodosso, il 7 gennaio, con una
particolare intensità. Nella tradizione e nella cultura slava non c’è molta
differenza tra credenti e laici in quei giorni. Tutti vivono le celebrazioni
con coinvolgimento. Di questo siamo testimoni oculari, avendole vissute insieme
a sacerdoti, ferventi credenti, militanti politici, patrioti, integerrimi
sindacalisti. Diversi tra loro per visioni di società o idee politiche, ma
accomunati dalla medesima situazione. Ciascuno possiede radici spirituali
profonde e salde.
Anche questo, piacendo o non piacendo a taluni esperti
di Serbia virtuale, è il popolo serbo. Ed è probabilmente anche grazie a queste
radici che esso resiste alle aggressioni straniere. E forse in modo ancora più
profondo, le radici culturali e spirituali aiutano la resistenza dei serbi del
Kosovo nella loro tragica realtà: essere prigionieri di una modea forma di apartheid
nelle enclavi in cui nessuno dei diritti fondamentali dell’uomo viene
rispettato, e ancor meno quelli sanciti nei primi dieci articoli della
Convenzione sui diritti dell’infanzia.
Nello stesso momento in cui il Consiglio europeo
discute, minaccia, sanziona circa i diritti umani in Siria, nel Kosovo
Metohija, stato considerato da molti artificiale e illegale, avvengono gravi
violazioni dei diritti fondamentali, tra cui, non ultimo, il diritto di credo,
con quotidiani attacchi, profanazioni, vandalizzazioni, distruzioni di tombe di
famiglia, di luoghi sacri, di monasteri e siti spirituali.
Così è
stato nel novembre scorso, nel giorno dedicato al ricordo dei propri cari scomparsi.
La realtà dei cimiteri e dei luoghi sacri nel Kosovo
Metohija è paradigmatica della vita quotidiana dei serbo kosovari.
Il «diritto» per un serbo di visitare le tombe dei
propri cari, dal 2013 è passato da due volte all’anno a una sola volta. Dal
2008 (anno della secessione illegale dalla Serbia) i serbi visitano i propri
cimiteri sotto scorta militare e, spesso, tra le ingiurie dei locali albanesi.
Nell’arco dell’anno vi crescono erbacce e rovi, e vi vengono lasciati pascolare
maiali provocatoriamente. Non è raro che le tombe e le lapidi vengano spaccate
e violate a colpi di mazza.
Nel cimitero del paese di Istok (in cui sono rimaste
alcune famiglie serbe), oltre 100 tombe e lapidi sono state distrutte.
Il cimitero di Peć, uno dei più grandi cimiteri ortodossi
in Kosovo, è stato trasformato in una discarica. I vandali hanno distrutto non
solo le lapidi in marmo, ma anche le bare, e molti corpi e ossa dei defunti
sono stati estratti e portati via.
A Prizren, nel locale cimitero ortodosso, 50 tombe sono
state profanate nel corso degli ultimi mesi. Lo ha denunciato un sacerdote
della diocesi locale, aggiungendo che la profanazione è avvenuta appena una
settimana dopo un fatto simile accaduto nel cimitero ortodosso di Kosovo Polje.
Altre tombe sono state profanate a Klokot, 27 sono state distrutte. A Milosevo,
Plemetina e Priluzje è stato usato dell’esplosivo per far saltare pietre
tombali appartenenti a famiglie serbe locali.
Ferite all’identità e
all’unità
Anche questi avvenimenti fanno parte della realtà dei
serbi resistenti nella propria terra kosovara. Anche queste umiliazioni sono
pane quotidiano. L’obiettivo è quello di ferire, violentare e annientare la
loro identità spirituale e religiosa, che qui più che altrove si fonde con la
loro identità nazionale e culturale.
Nell’ultimo viaggio di solidarietà organizzato dalla
nostra associazione Sos Yugoslavia abbiamo raccolto le denunce dei serbo
kosovari. Nei loro racconti veniva sottolineato il pericolo delle divisioni
intee alla comunità serba in Kosovo. Dopo anni di umiliazioni e vessazioni,
infatti, alcuni hanno deciso di portare i resti dei propri cari in Serbia;
mentre altri ritengono che fare questo significhi la resa totale, la consegna
dei propri luoghi sacri, della propria anima, della propria storia, identità, e
radici, sancendo la resa al terrorismo, all’arroganza, all’ingiustizia.
I piromani a
protezione del patrimonio incendiato
Nel Kosovo Metohija, in quattordici anni di «democrazia e
libertà» oltre 200 chiese, monasteri e luoghi sacri sono stati vandalizzati e
distrutti. Alcuni di essi sono patrimonio dell’Unesco vincolati a precisi
obblighi inteazionali contenuti nella Convenzione sulla protezione del
patrimonio culturale mondiale, adottata alla Conferenza delle Nazioni Unite di
Vancouver nel 1976. L’articolo 9 dice: «Il diritto di ciascun paese è quello di
essere, con la piena sovranità, l’erede dei propri valori culturali che sono il
frutto della sua storia, ed è suo dovere fae tesoro come valori che
rappresentano una parte inseparabile del patrimonio culturale dell’umanità».
Evidentemente per la Serbia questo non vale.
Nel frattempo, ad agosto 2013 il responsabile della
Kosovo Spu (la polizia del Kosovo) ha annunciato che membri di una unità detta
Kosovo Security per il patrimonio culturale e religioso serbo, avrebbe assunto
il ruolo di protezione del Patriarcato di Peć e di altri 24 siti religiosi – il
monastero di Decani è invece ancora protetto dalle forze inteazionali,
essendo ad alto rischio di attacchi -, così, dopo le oltre 200 chiese ortodosse
serbe già ricordate distrutte dal 1999, i piromani vengono messi a proteggere
le case incendiate. Queste Unità speciali della cosiddetta polizia multietnica
in Kosovo conta circa 200 agenti agli ordini del noto criminale di guerra Agim
Ceku (nel periodo 1992-1995 generale dei secessionisti croati, coinvolto nel
genocidio dei serbi della Krajina), grande amico e legato strettamente a Stati
Uniti e Germania.
Così sono state vissute le giornate di novembre dedicate
ai morti in quel lembo di mondo, e in modo simile sono passate le giornate
della Natività.
Va ricordato che la Chiesa serba celebra le sue festività
secondo il calendario giuliano, risalente al 46 a.C., di 14 giorni in ritardo
rispetto a quello Gregoriano (usato dalla Chiesa cattolica). I serbi
festeggiano quindi il Natale il 7 gennaio.
In Kosovo Metohija oggi anche il Natale viene celebrato
in condizioni molto diverse da quelle in cui è festeggiato in qualsiasi altro
luogo del mondo. Esso è inserito nella vita dei ghetti, nella realtà delle enclave,
aree protette e delimitate materialmente, all’interno delle quali si svolge
tutta la vita delle persone. Fuori da lì è territorio ostile e nemico. Chi osa
uscire rischia la vita. In una vita priva di opportunità, dei diritti umani
fondamentali, compreso quello di movimento, i cristiani serbi non possono dare
seguito nemmeno alla loro tradizione, detta badnjak, che prevederebbe di
andare nei boschi per tagliare il loro «albero di Natale», il yule log,
ossia un pezzo di quercia giovane, a forma di tronchetto.
Il badnjak è un elemento centrale nella
tradizionale celebrazione del Natale serbo. È un simbolo che la famiglia
abbatte nel primo mattino della vigilia, porta solennemente in casa e mette sul
fuoco la sera, perché bruci fino al giorno dopo. La combustione del log è
accompagnata da preghiere in cui si domandano per l’anno nuovo felicità, amore,
fortuna, ricchezza e cibo. Poiché oggi molti vivono in città, il badnjak
è simbolicamente rappresentato da ramoscelli di quercia con delle foglie,
acquistati in mercatini o ricevuti nelle chiese. Gli studiosi indicano
l’origine del badnjak in pratiche ereditate dalla vecchia religione
slava.
Sassate, permessi
rifiutati, espulsioni, arresti
Il 6 gennaio un autobus serbo è stato preso a sassate da
manifestanti albanesi. Il mezzo trasportava alcuni serbi kosovari che negli
anni passati erano fuggiti da Djakovica per rifugiarsi in Serbia, e che in
occasione del Natale stavano tornando a visitare il loro paese d’origine e la
locale chiesa dell’Assunzione, in passato anch’essa attaccata e danneggiata.
L’automezzo, con vetri spaccati e passeggeri feriti è dovuto andare sotto scorta
della polizia al monastero di Decani, protetto dalle forze inteazionali.
Questo fatto è solo uno degli ultimi di una lunga serie:
ogni anno la celebrazione del Natale in Kosovo viene usata dai separatisti
albanesi per dimostrare che i serbi non possono sentirsi liberi nel proprio
paese e non hanno diritto di celebrare la più giorniosa festa cristiana.
Quest’anno, se si esclude il fatto di Djakovica, si
potrebbe dire che il Natale sia trascorso bene, senza risse o spari. Ma il
cosiddetto stato di Kosovo ha trovato altri modi, ancora più sottili, per
dimostrare ai serbi e alla Serbia in quale direzione va il loro futuro: prima
hanno rifiutato la richiesta del presidente della Serbia Nikolic di partecipare
il 7 gennaio alla liturgia di Natale nel monastero di Gracanica, poi il giorno
di Natale il responsabile dell’ufficio per il Kosovo Metohija del governo
serbo, Vulin, ha dovuto abbandonare la provincia su richiesta della polizia
kosovara, per l’alto rischio di incidenti. Nel frattempo la stessa polizia kosovara
ha arrestato, dopo la liturgia, dieci giovani serbi che si trovavano con Vulin.
«È chiaro che si tratta di una provocazione, di una grave violenza. Ho saputo
ufficiosamente che stanno tentando di accusarli di disturbo dell’ordine e della
quiete pubblica, addirittura di trasgressione dell’ordinamento costituzionale.
Quando l’accusa è così vaga, e quando tutto è possibile, sapete che si tratta
di pura ingiustizia», ha dichiarato in seguito Vulin.
Forse sarebbe il tempo di rivendicare i temi della libera
celebrazione del Natale, della libera visita ai cimiteri, ai monasteri o alle
proprie terre, perché il Kosovo è l’unico territorio in Europa in cui non
esiste la libertà di movimento. Ma dicono che è democratico.
Tuttavia, nonostante le condizioni disumanizzanti, ai
bambini non manca la gioia per festeggiare il Natale. Essi sono invisibili per
la cosiddetta «Comunità internazionale» occidentale e per la sua opinione
pubblica. A loro basta poco per lenire la barbarie delle loro vite negate
dentro le enclave: è sufficiente una festa, una ricorrenza, un piccolo dono, e
si rafforza la loro voglia di vivere comunque, nonostante terroristi, vandali,
criminali sostenuti dai nostri governi, di qualsiasi colore essi siano. E sono
i bambini, i loro sorrisi, i loro semplici gesti di riconoscenza e affetto che
danno ancora a noi la forza dell’impegno per una solidarietà concreta. Che ci
danno, insieme alle loro famiglie resistenti, il senso della vita, in questo
occidente opulento e perso dietro virtualità e inutilità esistenziali. Sono
loro che ci aiutano a tenere accesa la fiammella della speranza in un mondo
migliore, con le loro famiglie che difendono le proprie radici, i diritti, i
costumi e le tradizioni.
Dopo l’intervento Nato del 1999, ecco la situazione del Kosovo di
oggi, secondo le fonti Onu, Osce, Kfor, Unmik, e alcuni mass media
inteazionali:
– 400mila militari Nato e Kfor si
sono avvicendati in quattordici anni. Di essi 150 sono morti, senza
contare quelli deceduti per l’uranio
impoverito (circa 50 italiani). Tutto ciò ha avuto fino a ora un costo di 1,6
miliardi di dollari l’anno;
– dei 461mila abitanti non albanesi
(su 1.378.980) che popolavano la provincia serba, oggi (su una popolazione
stimata per il 2012 in 1.815.606 abitanti) ne sono rimasti circa 100mila, di
cui la stragrande maggioranza concentrata nell’area di Mitrovica, nel Nord. I
profughi di tutte le etnie, compresi migliaia di albanesi, sono circa 250mila
scappati dalle pulizie etniche;
– dei 55mila (su 125mila abitanti)
serbi, rom e altri che vivevano fino al 1999 nel capoluogo Pristina, oggi ne
sono rimasti 38 (di cui 7 bambini); assediati e rinchiusi in un palazzo;
– scoperte continuamente sedi di
traffici di droga, armi, donne, organi;
– attività produttive quasi
completamente inesistenti;
– agricoltura ridotta del 60% (una
volta vini, frutta, ortaggi andavano in tutta la Jugoslavia);
– l’economia «sommersa» però
determina il 96% d’importazioni e il 4% di esportazioni, quella che si
definisce un’economia «drogata»;
– 148 chiese, monasteri, luoghi
sacri ortodossi, distrutti, devastati o bruciati;
– 140mila case di serbi, rom e
altre minoranze bruciate;
– centinaia di attentati o violenze
contro serbi e rom (uno ogni 120 ore);
– secondo fonti della Kfor, vi sono
attualmente in circolazione o depositate nel Kosovo, almeno 400mila armi di
vario tipo, bombe, mine, ecc. (La Stampa, 6 maggio 2013);
– l’Onu ha denunciato che l’82% dei
finanziamenti dati al parlamento di Pristina risulta speso per Bmw, Mercedes,
cellulari satellitari, uffici privati. In otto anni sono stati versati 3
miliardi di euro (di cui 2 dalla Ue);
– la mortalità infantile è del
3,5%, la più alta d’Europa;
– oltre 2.500 serbi rapiti e/o
assassinati (di cui 1.953 civili) dalla pulizia etnica dell’Uck, cui si
aggiungono 361 albanesi pro jugoslavia e centinaia di rom, considerati
collaborazionisti;
– molti dei
diritti fondamentali dell’uomo, sanciti dalla Carta dell’Onu sono negati alle
minoranze non albanesi rimaste: lavoro, casa, studio, sanità, diritti sociali,
acqua, luce, riscaldamento; diritti civili, religiosi, politici;
– la popolazione non albanese in
Kosovo, scampata alla pulizia etnica, vive attualmente in «enclavi», aree circoscritte
assediate e sorvegliate dai militari Kfor: un vero e proprio apartheid;
– i diritti dei bambini, sanciti
dalla Convenzione Onu del 1989, sono negati alle minoranze non albanesi;
– scienziati e fondazioni
ambientaliste inteazionali hanno denunciato il territorio del Kosovo come il
più uranizzato d’Europa;
– 1000 acri di terra
(corrispondenti a circa 400 ettari, 800 campi da calcio) confiscati fino al
2099 per Camp Bondsteel: la più grande base americana dai tempi del Vietnam.
Essa può ospitare fino a 50mila persone; al suo interno ci sono 25 chilometri
di strade, 300 edifici, 14 chilometri di barriere in cemento e terra, 84
chilometri di filo spinato, 11 torrette di controllo. Nel suo perimetro esterno
sono compresi 320 chilometri di strade e 75 ponti. Tutto questo per difendere
cosa?
In questa situazione l’ex mediatore
Onu Athisaari consegnò al Consiglio di Sicurezza Onu un rapporto che arrivava
alla conclusione (su pressioni di Usa e Germania, con l’Italia di supporto) che
nel Kosovo esistevano standard minimi di democrazia e sicurezza, per concedere
l’indipendenza. I paesi che finora hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo
sono 106.
Enrico Vigna