Cari Missionari

Esistono orfani in Africa?

Ho l’impressione
che si dicano un sacco di esagerazioni sulla vicenda degli orfani che non
vengono fatti partire dal Congo insieme ai genitori adottivi italiani. Per quel
che ne so, non esistono orfani nell’Africa nera, in quanto quando muore il
padre, oppure quando muoiono ambedue i genitori, i bambini non sono
abbandonati, ma vengono adottati dallo «zio», e pure da tutto il clan. Nel 1966
volevo adottare una bambina orfana di tre anni, Hélène, ma lo «zio» si oppose,
pur ringraziando, poiché in Congo non esistevano gli orfani. Ciò è stato
confermato sere fa in un dibattito pubblico a Corridonia da un missionario
della Consolata, da anni in Congo a Kinshasa.

Se le
autorità congolesi si oppongono, oppure ci vanno caute, è perché americani e
canadesi si stanno portando via i bambini congolesi senza alcun controllo. Ciò
sempre secondo quel missionario. Esiste, allora, una «tratta» dei bambini
congolesi, fatti passare per «orfani» da una organizzazione missionaria o
laica, o da burocrati governativi? Quanto è costato ai futuri genitori italiani
adottare un bambino congolese?

I bambini sono una ricchezza per l’Africa nera e in tale
maniera vengono considerati da quelle popolazioni. In questo caso gli Africani
si dimostrano più civili e umani di noi Occidentali.

Certe cose il ministro Kyenge dovrebbe
conoscerle; a meno che, stando nel mondo civilizzato, abbia dimenticato come la
pensano dalle sue parti.

Giorgio Rapanelli
Corridonia (Mc), 1/1/2014

Premesso che provo grande empatia e dispiacere per le coppie che si
trovano bloccate con le loro     
adozioni in Congo, anche perché ho avuto modo di vederle e sentire la
loro situazione. E che nell’incontro tenutosi a Corridonia, a cui fa
riferimento l’amico Giorgio, si è parlato di altri temi, e solo di sfuggita di
adozioni. Voglio qui condividere alcuni punti che ritengo importanti come
contributo alla riflessione:

1. È vero, almeno secondo la mia esperienza, che nella cultura africana è
inconcepibile affidare un bambino orfano a estranei, perché esiste la realtà
della famiglia
allargata, per cui
anche il parente più lontano ha una serie di diritti/doveri sul bambino, tanto
da rendere praticamente impossibile, per qualsiasi tribunale, dichiarare
l’adottabilità di un minore senza suscitare forte malcontento nella famiglia.
Purtroppo, a causa della povertà e delle guerre che assediano l’Africa, oggi
assistiamo anche a delle degenerazioni della questione, per cui c’è il caso, ad
esempio, degli orfani di guerra e dei bambini-stregoni. In quest’ultimo caso
essi sono considerati dei veri e propri rifiuti da parte delle famiglie che
addossano ai bambini tutte le colpe della loro triste situazione.

2. Le adozioni inteazionali sono disciplinate dalla Convenzione dell’Aja, cui hanno aderito quasi tutti gli stati
del mondo tranne quelli africani e musulmani. Anche il Congo non ha
sottoscritto tale convenzione e non ha neppure un trattato bilaterale con
l’Italia in merito. Perciò le poche pratiche che si fanno in Congo dipendono
dai giudici locali che cercano più di spillare soldi che di aiutare e sistemare
i bambini. L’ideale sarebbe sempre che uno possa fiorire dove è stato seminato.
Anche la Convenzione
dell’Aja vede
l’adozione come una scelta estrema e sostiene la volontà di garantire al
bambino la possibilità di rimanere nel suo mondo culturale. Un’associazione che
coinvolga una coppia nell’adozione di un bambino in uno stato che non abbia
aderito alla Convenzione
dell’Aja o che
non abbia sottoscritto un trattato bilaterale compie un atto temerario, assai
rischioso sia per i bambini che per gli aspiranti genitori. Non ci si dovrebbe
fidare facilmente.

3. Inoltre, per finire, l’intervento del governo Congolese, non è
direttamente contro le coppie italiane. è
dovuto al fatto che vogliono vederci chiaro su una situazione critica da anni
che ha favorito il commercio dei bambini da parte di funzionari, compagnie e
associazioni senza scrupoli. Per una volta che un governo si assume le sue
responsabilità lo facciamo passare come antiumano e crudele.

Grazie, auguri e buona riflessione! Coraggio e avanti in Domino!

P. Stefano
Camerlengo
Roma 09/01/2014

 

Caro Signor Giorgio,
ho scomodato il nostro padre generale per questa risposta, perché ha avuto una
lunga esperienza in Congo ed è anche suo compaesano. Da parte mia posso solo
aggiungere che la situazione degli orfani in Africa si è aggravata, oltre che
per le ragioni sopra riportate – povertà, guerre e malattie -, paradossalmente
anche grazie agli effetti positivi di quello che impropriamente chiamiamo
sviluppo: miglioramento degli standard di vita, diminuzione della mortalità
infantile e scolarizzazione. Un tempo, nella società pastorale o agricola, un
orfano era sì una bocca in più da sfamare, ma ben presto diventava anche un
soggetto che poteva contribuire alla vita della famiglia e del clan attraverso
il lavoro nei campi o nella cura del bestiame. Ora invece moltissime famiglie
sono impoverite, vivono nelle periferie delle grandi città senza campi né
bestiame; in più i bambini devono essere mandati a scuola. E la scuola non è
gratuita, ma costa, e tanto. E in città il cibo è caro, non si raccoglie nel
campo, si compra. E non bastano più le medicine tradizionali quando uno è
malato, le medicine si pagano. Per questo, nonostante la grande solidità della
famiglia allargata africana, gli orfani aumentano.

Oltre all’adozione vera e propria, che è una delle
risposte a questi problemi, c’è anche un altro modo di aiutare: l’adozione (o,
meglio, il sostegno) a distanza o a progetto, che permette ai bambini di
restare nel loro ambiente e aiuta una comunità a prendersi cura dei propri
figli.

Noi come missionari, da oltre un secolo stiamo seguendo
questa strada, per altro proposta oggi da tantissime organizzazioni, alcune
molto serie, altre anche fraudolente. Il dramma degli orfani è così grave da
esigere la collaborazione di tutti, senza sterili polemiche.

 
Verità sulla Siria

Se Natale è la festa della luce che scaccia le tenebre e
della verità che sconfigge la menzogna, quindi anche la cattiva informazione,
un regalo migliore dell’articolo sulla Siria, pubblicato proprio nel mese di
dicembre, non potevate farcelo.

Mi sembra superfluo aggiungere che condivido le critiche
da voi fatte ai grandi mezzi di comunicazione. Anche la nostra Rai, che molti
definiscono la maggiore industria culturale italiana, con pochissimi eguali in
Europa, poteva fare di più e di meglio: quella che ci ha raccontato finora
sulla Siria è una storia che lascia un po’ a desiderare. Eppure proprio la Rai,
con l’enfasi data a certi grandi eventi come la Fiera Aeronautica di Dubai di
metà novembre, ha confermato quanto pesino Arabia Saudita, Emirati Arabi e
Qatar nello scacchiere globale e quali ripercussioni abbiano le loro mosse
sull’economia, sulla finanza e, di riflesso, sulla politica.

Sono proprio i paesi arabi del Golfo, quegli stessi che
voi giustamente avete indicato come responsabili della catastrofe siriana, a
comprare le grandi società di calcio, a dare lavoro alle grandi imprese
dell’edilizia e dell’arredo, a ospitare i Gran Premi di Formula Uno, ad
acquistare compagnie aeree o parti di esse, e soprattutto a dare sbocchi di
mercato altrimenti introvabili ai grandi e costosissimi (anche in termini di
impronta ecologica e impatto ambientale…) consorzi dell’industria aeronautica
– l’americano Boeing e l’europeo Airbus -, dei quali è partner, specie per quel
che riguarda la realizzazione delle fusoliere, la nostra Alenia Aeronautica.

Quando, in appena due giorni, tre compagnie aeree arabe
riescono, da sole, ad acquistare duecento grandi aerei, tra cui i Boeing 787
Dreamliner («aereo dei sogni»…) e Airbus 380, facendo finire nelle casse di
Seattle, Tolosa, Amburgo, Londra, Madrid, Grottaglie e Nola la bellezza di
cento miliardi di dollari, possiamo farci un’idea di quale sia il potere
contrattuale degli Arabi e del grado di dipendenza del Pil mondiale dallo
shopping degli sceicchi. Possiamo farci un’idea però anche di quanto sia
urgente procedere a una drastica correzione dell’attuale modello di sviluppo,
affinché quello con gli Arabi non diventi un abbraccio mortale, per noi e per
loro.

La pace non può non essere il primo degli obbiettivi e il
primo dei sogni di paesi che si dicono civili, democratici, evoluti,
progrediti: pazienza se questo significherà qualche affare in meno con i
nababbi del Golfo Persico, pazienza se ci sarà qualche punto di Pil in meno e
qualche mugugno in più di industriali e sindacati.

Se poi anche Papa Francesco dice che «la pace è
artigianale» e quindi né industriale, né petrolchimica, né avionica, né
imprenditorial-finanziaria, né agrobusiness… Buon Natale e Buon Anno.

Francesco Rondina
Fano, 25/12/2013

L’età di Gesù

Alle pagine 30-32 della rivista del dicembre scorso ho
letto con grande interesse l’articolo di don Paolo Farinella. Ho una domanda:
che età poteva avere il Cristo quando è morto? Là trovo scritto 36 anni circa,
mentre ci hanno sempre insegnato che ne aveva 33. Posso contare su una risposta
sia pur telegrafica? Grazie

cav. Sergio
Gentilini
Roveredo in Piano (Pn)

A che età è
morto Gesù? A 33 anni o a 36? La questione è dibattuta da due mila anni e ancor
a oggi non ne veniamo a capo. Si possono solo fare ipotesi con i pochi dati che
abbiamo a disposizione. Non sappiamo quando Gesù sia nato perché la data del 25
dicembre è puramente convenzionale, come spiegammo nel numero di MC di
dicembre. Sappiamo che nel redigere un computo temporale Dionigi l’Aeropagita
fece un errore di calcolo, in base al quale considerò l’«anno 0» come data di
nascita, mentre oggi sappiamo, e tutti gli studi lo confermano, che Gesù nacque
tra il 7 e il 5 a.C. Ma cambiare il calendario, spostandolo indietro sarebbe
un’impresa ormai impossibile. Le notizie che abbiamo dai Vangeli e da altre
fonti non sono decisive a riguardo. I Vangeli affermano che Gesù morì un venerdì
sera antecedente la Pasqua ebraica, la quale cade nel mese di Nisan,
corrispondente al nostro metà marzo, metà aprile (dipende dalla luna). Per gli
Ebrei, il giorno comincia al tramonto del sole del giorno prima, quindi venerdì
sera, dopo il tramonto è già il giorno Sabato. Per Mc, Mt e Lc (Vangeli
sinottici), infatti, Gesù morì il giorno di Pasqua (Pesach, il sabato 15 del
mese di Nisan), mentre per Giovanni la morte sarebbe avvenuta la vigilia del
Sabato, cioè prima del tramonto. Lo scopo di Giovanni è fare coincidere la
morte di Gesù con l’ora (le ore 16,00) del sacrificio nel tempio di Gerusalemme
per presentare Gesù come «Agnello di Dio» sgozzato sulla croce.

Da tutta una serie di computi, confronti e studi, le date possibili
sono tre: il 7 aprile dell’anno 30, oppure il 27 aprile dell’anno successivo o
il 3 aprile dell’anno 33. Sia i Vangeli che lo storico ebreo Giuseppe Flavio ci
dicono che Gesù morì durante l’amministrazione del procuratore romano Ponzio
Pilato che gli studiosi fissano tra il 26 e il 36 dC. I Vangeli dal canto loro
aggiungono che Gesù fu condannato a morte durante il sommo sacerdozio di Caifa,
che era manovrato dal suocero Anna (a sua volta ex sommo sacerdote). Il
pontificato di Caifa si colloca tra l’anno 18 e il 36 dC, in concomitanza con
il procuratore Ponzio Pilato. Secondo Lc, Pilato per un atto politico inviò Gesù
a Erode Antipa che regnò per conto dei Romani sulla Galilea tra il 4 aC e il 39
dC. Da tutta questa ubriacatura di date, di anni e di nomi, la conclusione è
che la morte di Gesù deve essere avvenuta tra il 26 e il 36, logicamente dC. Se
fosse stato l’anno 26, tenuto conto che è nato circa 6 anni prima di quanto
crediamo noi, sarebbe morto all’età di 32/33 anni circa; se invece fosse stato
l’anno 36, tenuto conto dello stesso motivo, Gesù sarebbe morto dieci anni
dopo.

Come si vede
non possiamo chiedere ai Vangeli una «precisione» cronologica che non possono
darci, perché il loro scopo è catechetico e teologico, non storico (come
intendiamo noi questa valenza). Noi sappiamo che i primi cristiani hanno identificato
Gesù con Isacco, il figlio di Abramo che stava per essere sacrificato dal padre
sul monte Moria. Secondo la tradizione ebraica, Isacco incitava il padre a
compiere fino in fondo il suo dovere di obbedienza a Dio e quindi si offrì
liberamente al sacrificio. La stessa tradizione parla di Isacco «legato» alla
legna come Gesù fu «legato/inchiodato» alla croce. Poiché si suppone che
l’episodio del sacrificio d’Isacco sia avvenuto quando questi aveva 36 anni,
applicando a Gesù un’età simile, non si è lontani dalla realtà perché si resta
perfettamente tra i 32/33 anni e i 42/43. Ciò che conta per i Vangeli è che Gesù
nacque, visse e morì, offrendo la sua vita in dono e senza chiedere in cambio
nulla. Sì, tutta la sua vita fu un atto permanente di amore a perdere.

Paolo Farinella


Un brindisi
a padre Egidio (Crema)

In data 2 Gennaio 2014 padre Egidio Crema ha festeggiato
il suo 90esimo compleanno qui al Consolata Hospital di Ikonda dove si trova
ospitato. Vi inviamo due fotografie della cena conviviale a cui hanno
partecipato padre Sandro Nava, la dottoressa Manuela, la dottoressa Virginia
Quaresima, il dottor Gianpaolo Zara, il dottor Giuseppe Vasta e la sua badante
Rosy. Sarebbe bello che queste foto fossero pubblicate
per rendere onore a un missionario che dal
1950 ha lavorato in Tanzania e ora si è ritirato al Consolata Hospital che
funge anche da casa di riposo e cure per i missionari anziani e ammalati in
Tanzania.

Un saluto cordiale.

p. Sandro Nava e dott.ssa Manuela Buzzi
Ikonda, Tanzania

Risponde il Direttore




Sant’Isidoro e la beata Maria Toribia

Isidoro nacque nei pressi di Madrid verso il 1070. In
giovane età lasciò la casa patea per andare a lavorare nei campi al servizio
di alcuni proprietari terrieri. In quel periodo parte della Spagna era soggetta
agli Almoravidi, musulmani berberi originari del Marocco. Quando questi
conquistarono Madrid, Isidoro si rifugiò a Torrelaguna dove conobbe e sposò la
giovane Maria Toribia. La loro unione fu caratterizzata dall’attenzione verso i
poveri, con i quali condividevano la loro casa, il loro cibo, i loro averi.
Isidoro morì il 15 maggio 1130 e venne canonizzato il 12 marzo 1622 da Papa
Gregorio XV, mentre Maria Toribia venne proclamata Beata nel 1697 da Papa
Innocenzo XII.


La vita di questi due sposi, laici illetterati dalla fede
adamantina, elevati agli onori degli altari e dichiarati – a furor di popolo –
patroni dei raccolti e della gente dei campi, si può riassumere in tre verbi:
lavorare, pregare, donare. Un programma di vita attualissimo ancora oggi.

Fa un po’ meraviglia
vedere due semplici laici – per giunta marito e moglie – con l’aureola della
santità, dato che da secoli siamo abituati a vedere figure di santi che sono
per lo più suore, monache, frati, sacerdoti, Vescovi e Papi. In genere i laici
venerati come santi lo sono in quanto martiri. Spiegateci come avete guadagnato
questa fama di santità pur vivendo come degli umili contadini?

Isidoro
e Maria Toribia:
La santità non consiste nel fare
grandi cose, ma nel fare in modo grande le piccole cose di ogni giorno. Noi
abbiamo cercato di fare sempre la volontà di Dio, vivendo con gioia la fede in
Cristo nella vita quotidiana.

A me risulta che
pregavate molto durante le vostre giornate.

Isidoro: È
vero, io passavo molto tempo in preghiera, non saprei quantificare le ore e i
minuti in quanto durante la mia epoca ci si regolava, specialmente nel lavoro
dei campi, con la luce del sole. Questo mio modo di fare ha suscitato l’invidia
degli altri lavoratori, i quali sono andati a dire al padrone bugie e
maldicenze sul mio conto: che avevo poca voglia di lavorare, che perdevo tempo
e guadagnavo il pane alle spalle delle loro fatiche.

Maria Toribia: Io ero piuttosto tiepida nella preghiera, ma vedendo il fervore di
Isidoro, ho capito che era mio dovere imitarlo. E devo dire che proprio
cominciando a pregare insieme abbiamo superato tante avversità, la più grande è
stata la perdita dell’unica creatura nata dalla nostra unione. Quando nostro
figlio è morto in tenera età, la sola consolazione l’abbiamo trovata proprio
nella preghiera.

Ai vostri tempi la
Spagna era in gran parte occupata dagli Almoravidi che erano di religione
islamica. I proprietari terrieri per i quali lavoravate erano anch’essi
musulmani?

Isidoro e Maria Toribia: Abbiamo lavorato sotto diversi padroni, quindi anche con dei padroni
che appartenevano a un’altra religione. Nella mia epoca, come dici tu, gli
Almoravidi dominavano la Spagna, essi erano una dinastia musulmana nordafricana
nata nell’undicesimo secolo ed era all’origine un movimento religioso di tipo
riformista che si era propagato fra le tribù berbere conquistando in pochi
decenni il Nord Africa e parte della Spagna. Il vasto impero almoravide però è
durato meno di un cinquantennio, fino all’apparizione degli Almohadi, che nel
1147 hanno conquistato parte dell’Africa mediterranea e i domini iberici.

Sotto di loro non
avevate problemi per la vostra vita cristiana, il culto o la pratica religiosa?

Isidoro e Maria Toribia: Assolutamente no, c’era da parte di tutti una grande tolleranza. Come
sempre, le cause delle guerre che si sono succedute, checché se ne dica, erano
più legate a conquiste territoriali per ampliare i propri possedimenti e
presentarsi così come dei grandi sovrani con molta terra e con molti popoli al
loro servizio.

Come praticavate la
vostra fede?

Isidoro
e Maria Toribia:
Ogni giorno partecipavamo alla
Messa mattutina e durante la giornata, in casa come nei campi, spesso
lasciavamo il lavoro per passare qualche momento di intimità con il Signore in
preghiera. Nonostante queste pause il risultato della nostra fatica era né più
né meno consistente di quello dei nostri compagni: tanti campi aravano loro,
tanti ne aravamo noi, tanti covoni mietevano loro, tanti ne mietevamo noi.
Qualcuno addirittura azzarda che grazie alla nostra vita di preghiera gli
angeli si sostituissero a noi nel lavoro dei campi.

Ho letto su di voi
queste cose: eravate molto caritatevoli verso i più poveri, ma i risultati
ottenuti non si spiegavano con la sola vostra capacità di lavoro. Attraverso la
vostra vita umile e semplice avvenivano dei miracoli.

Isidoro: Dicono anche che mentre trasportavo sulle spalle un sacco di
grano con il fondo bucato, i chicchi cadevano sulla neve, una vera manna per
gli uccellini nella stagione invernale. Arrivato al mulino, chissà come, il
sacco non aveva buchi ed era prodigiosamente pieno.

La
vostra epoca era caratterizzata da grandi condottieri come Alfonso VI il Bravo,
Re di Castiglia e di Leon che conquistò tante città; come Yusuf ibn Tashufin,
capo degli Almoravidi musulmani che sconfisse Alfonso incorporando ampie zone
della Spagna nel suo impero Nordafricano; come il condottiero dei condottieri,
Ruiz Diaz de Bivar, detto el Cid Campeador.

Isidoro
e Maria Toribia:
Noi non avevamo né spada né
cavallo. Quando aravamo la terra utilizzavamo i buoi del padrone e vicino casa
avevamo gli animali da cortile, come tutti i contadini. Quando vedevamo passare
questi cavalieri per andare a combattere, ci prendeva lo sconforto al pensiero
di quanti giovani avrebbero lasciato la loro vita sui campi di battaglia per
gli interessi di qualche potente.

Voi avevate un
rapporto ideale, quasi mistico con la terra. Ed è proprio questo amore
viscerale alla vita dei campi che fa di voi persone con molte cose da dire agli
uomini d’oggi.

Isidoro
e Maria Toribia:
Pur essendo dei semplici salariati,
contadini cioè che lavoravano la terra di un padrone, ricavavamo dalla terra ciò
che era necessario per vivere. Non come voi modei che avete inventato
addirittura il land grabbing impoverendo ancora di più i contadini dei paesi del Sud del
mondo.

Voi sapete cos’è il
land grabbing?

Isidoro
e Maria Toribia:
Dove siamo adesso vediamo delle
cose, è proprio il caso di dirlo, che non stanno né in cielo né in terra, come
appunto il fenomeno del land grabbing, ovvero l’accaparramento della terra per sfruttare intere zone di
paesi poveri, a favore dei paesi ricchi che non hanno spazio sufficiente per le
necessità alimentari delle loro popolazioni.

Infatti questo è un
problema serio, in molte parti del mondo i frutti della terra non restano alla
popolazione che li ha coltivati ma vengono dirottati a nazioni ricche come
l’Arabia Saudita o potenze industriali emergenti come l’India e la Cina che per
avere risorse alimentari per la loro gente non esitano a sfruttare e impoverire
i paesi già poveri.

Isidoro e Maria Toribia: E pensare che una migliore ridistribuzione dei beni darebbe cibo
sufficiente a tutto il pianeta.

Isidoro muore nel 1130 e lo seppelliscono
con una semplice cerimonia nel cimitero del villaggio in cui era sempre
vissuto. Qualche anno dopo la moglie lo raggiunge in paradiso. La loro tomba
diventa subito meta di pellegrinaggi e qualche decennio dopo, a furor di
popolo, il corpo di Isidoro viene esumato per essere sepolto nella chiesa
madrilena di Sant’Andrea. Inspiegabilmente lo trovano incorrotto. La sua fama
si diffonde subito in tutta la Spagna e in seguito nelle colonie spagnole.
Isidoro viene elevato alla gloria degli altari insieme a quattro stelle della
santità di ogni tempo: San Filippo Neri, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di
Loyola e San Francesco Saverio. Gente con cui, di sicuro, Isidoro e Maria
Toribia si sarebbero trovati in difficoltà a parlare durante la loro vita.
Questa santità di coppia è poco conosciuta perché la
devozione popolare ha fatto prevalere l’aspetto prodigioso e miracolistico del
marito. La popolarità che Isidoro si è guadagnato come patrono dei raccolti e
dei contadini ha finito per oscurare quella di lei che pure si è fatta santa
condividendo gli stessi ideali di generosità e laboriosità del marito,
conquistando la perfezione spirituale tra casseruole, bucati e lavori nei
campi.

Mario
Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




L’umanitario, che noia. Ma se arriva il VIP… 

Dal concerto Live Aid del 1985 in poi, la
raccolta fondi e la sensibilizzazione passano anche attraverso la musica, il
cinema e i testimonial eccellenti. I Vip riescono a focalizzare l’attenzione su
temi spesso percepiti come noiosi e tristi: tragedie e situazioni di difficoltà
dei paesi del Sud del mondo. Una delle soluzioni più in voga per avvicinare il
grande pubblico sembra essere quella di rendere l’aiuto umanitario qualcosa di
cornol. E oggi sono tanti i Vip che fanno ottenere più visibilità alle campagne
per le quali s’impegnano. Ma a quale prezzo?

«Non andate al pub stasera, restate a casa e dateci il vostro denaro. Ci
sono persone che stanno morendo in questo preciso momento, perciò dateci i
soldi!». Era il 13 luglio del 1985 quando ai microfoni della Bbc Bob Geldof, il
musicista irlandese noto per la sua scarsa propensione a usare mezzi termini,
prorompeva rabbiosamente in questo accorato appello a favore dell’Etiopia in
emergenza carestia. In sottofondo, il bornato delle settantaduemila persone che formavano
il pubblico dello stadio londinese di Wembley accompagnava le esibizioni dei
mostri sacri del rock che si avvicendavano sul palco del Live Aid, il
concerto organizzato dallo stesso Geldof e da Midge Ure, musicista e attivista
scozzese. Il Live Aid era in qualche modo l’approdo di un percorso le
cui tappe precedenti erano state le canzoni Do They Know It’s Christmas
(sempre di Geldof e Ure) e We Are The World, del gruppo di star
statunitensi Usa for Africa.

L’unico precedente di portata e dimensioni comparabili
al Live Aid era stato il concerto per il Bangladesh organizzato dall’ex
Beatle George Harrison e dal musicista indiano Ravi Shankar nel 1971 al Madison
Square Garden di New York, al quale assistette un pubblico di quarantamila
persone e che portò donazioni iniziali per duecentoquarantamila dollari, salite
poi a quattro milioni di dollari con i proventi della vendita dell’album del
concerto.

Ma il Live Aid oscurò di gran lunga il risultato
ottenuto dal pioniere Harrison, imponendosi come uno dei momenti musicalmente
più memorabili del secolo scorso e, dal punto di vista delle donazioni,
raggiungendo nell’immediato circa cinquanta milioni di sterline, e un totale di
centocinquanta milioni aggiungendo i proventi della successiva campagna.

Una cifra colossale destinata ad aiuti umanitari alle
popolazioni del Nord dell’Etiopia afflitte da una carestia che, combinata alle
politiche agricole del governo locale, avrebbe provocato circa quattrocentomila
vittime. Le polemiche non si fecero attendere: cinque mesi dopo l’evento, un
articolo del Washington Post elencava una lunga serie di episodi di
disorganizzazione e incomprensioni fra la Fondazione Live Aid che
gestiva i fondi e le organizzazioni impegnate sul campo per alleviare le
sofferenze degli etiopi. Nel 2005, mentre Geldof stava preparando il Live 8,
un altro mega concerto di sensibilizzazione ai problemi della povertà a
vent’anni dall’illustre precedente, l’opinionista americano David Rieff scrisse
per il Guardian un articolo durissimo in cui spiegava che forse il Live
Aid
aveva permesso, come affermavano i suoi sostenitori, di dimezzare le
vittime della carestia, ma al tempo stesso aveva fornito al governo etiope – il
Derg di Menghistu Hailè Mariam – un sostegno economico che Menghistu usò
per deportare circa seicentomila persone dal Nord al Sud del paese e «villaggizzae»
(cioè riunire forzatamente in villaggi) altri tre milioni. Ufficialmente le
deportazioni e risistemazioni avevano avuto l’obiettivo di salvare la
popolazione da quella carestia che aveva ricevuto ampia attenzione dai media
inteazionali proprio grazie all’iniziativa di Geldof e Ure. In realtà, affermò
Rieff, lo scopo principale del Derg era stato quello di creare un
meccanismo di controllo capillare della popolazione e di contrastare i
movimenti di opposizione intea.

Oltre alle considerazioni riguardanti le conseguenze del
Live Aid sulla popolazione etiope, Rieff avanzava una serie di critiche
che, a ben guardare, possono essere estese anche oggi a tutti gli eventi di cui
la kermesse del 1985 è la madre. Innanzitutto, si chiedeva il
giornalista nel 2005, come si spiegava che l’Africa stesse peggio di vent’anni
prima nonostante le tante iniziative benefiche promosse da personaggi illustri?
E ancora: perché le cause della carestia etiope, che era imputabile non solo
alla natura ma a precise scelte umane (del governo di Menghistu), erano state
totalmente ignorate dagli organizzatori che avevano privilegiato, invece, una
comunicazione basata su semplicismi relativi ai concetti di bisogno, aiuto e
dovere morale?

Le campagne di successo in rete

L’avvento della rete ha offerto ulteriori strumenti alla
mobilitazione e alla sensibilizzazione. Si pensi al caso di Kony 2012.
La campagna contro il sanguinario leader del Lord Resistance Army in
Uganda, Joseph Kony, e le atrocità da lui commesse a danno della popolazione
civile e in particolare dei bambini ha mostrato come un prodotto ben
confezionato dal punto di vista video e altrettanto ben promosso attraverso i social
networks
e i testimonial d’eccezione (due fra tutti: Angelina Jolie e
George Clooney) può ottenere in breve tempo una grande esposizione mediatica.

Anche in quel caso i critici hanno insistito sul
pressappochismo delle informazioni – le operazioni dell’esercito di Kony non si
svolgevano più in Uganda da anni all’epoca della diffusione del video -, sul
fuorviante ricorso a immagini e termini che, pur in grado di coinvolgere
emotivamente lo spettatore, restituivano una visione distorta della realtà e su
come la campagna indicasse come atto umanitario l’invio di truppe statunitensi
in Uganda per «fermare Kony». Eppure, il video è arrivato nel giro di sei
giorni a cento milioni di click fra YouTube e Vimeo, due fra i
principali siti di condivisione dei video.

Italia, il «caso» Mission

Che anche nel mondo della cooperazione italiana stiano
prendendo piede in modo deciso la caccia al testimonial e la conquista
del grande pubblico attraverso una comunicazione spettacolarizzata non è una
novità. Ma Mission, il programma trasmesso in due serate lo scorso
dicembre da RaiUno, è probabilmente l’esempio che più di tutti ha generato
polemiche e sollevato dubbi tutto sommato inediti. Mission, che nelle
parole del direttore della rete Giancarlo Leone è stato «un progetto di social
tv
e non un reality show», ha portato alcuni volti noti della tv e
del giornalismo italiani (Al Bano e le sue figlie, Paola Barale, Emanuele
Filiberto di Savoia, Barbara De Rossi, Michele Cucuzza e altri) per due
settimane nei campi profughi di Giordania, Repubblica Democratica del Congo,
Sud Sudan, Ecuador e Mali allo scopo di prendere parte alle attività delle
organizzazioni umanitarie e di raccontare poi la loro esperienza in studio
commentando le riprese effettuate sul campo. Alla preparazione del programma,
alle riprese e alla trasmissione stessa hanno partecipato funzionari dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) e cooperanti dell’Ong
Intersos, il cui ruolo è stato quello di fornire ai Vip e alla Rai le
informazioni necessarie per evitare di cadere in quella che molti critici, fin
dall’annuncio dell’inizio delle riprese, avevano definito «pornografia
umanitaria». La trasmissione ha ottenuto circa due milioni e duecentomila
spettatori a puntata: un flop per la Rai, ma una mole di persone comunque
irraggiungibile per qualunque campagna di sensibilizzazione di una Ong italiana
di medie o piccole dimensioni.

Se, da un lato, c’è chi ha dato un giudizio positivo su Mission
perché ha acceso le luci su temi che i programmi di prima serata di RaiUno di
solito non affrontano, dall’altro lato molto più numerosi sono stati i critici.
Eugenio Melandri del Coordinamento Iniziative Popolari di Solidarietà
Internazionale (Cipsi) ha parlato di «marchettone natalizio». Luciano
Scalettari di Famiglia Cristiana lo ha definito «il trionfo del dilettantismo e
della noia», «un’occasione sprecata» che ha reso «protagonisti i personaggi
famosi anche se non sanno di cosa stanno parlando». Non così negativa, invece,
l’opinione espressa dal blog Info-cooperazione, punto di riferimento per
gli operatori della cooperazione in Italia, che ha definito Mission un «reportage
compassionevole, il trionfo dell’aiuto assistenziale condito da una televendita
continuativa dell’agenzia Onu per i rifugiati» ma, complessivamente, «nei limiti
della decenza».

Un bilancio

Al di là dei giudizi sulle singole iniziative, ciò che
emerge da una loro analisi è una serie di domande: ottenuta l’attenzione di
milioni di persone, che cosa ne hanno fatto i promotori degli eventi? Quali
messaggi, quali informazioni hanno veicolato? Hanno effettivamente comunicato i
temi dello sviluppo e contribuito a cambiare la percezione del grande pubblico
su di essi? L’impressione è che se l’obiettivo era raccogliere fondi da mettere
poi nelle mani di esperti e tecnici della cooperazione o della risposta alle
emergenze, il bilancio è tutto sommato positivo. Ma se lo scopo era invece
creare consapevolezza nel pubblico, i grandi eventi hanno fallito miseramente.
Il continuo ricorso a termini, immagini e ricostruzioni emotivamente
coinvolgenti ma approssimative e semplicistiche spinge a dubitare che anche
solo uno dei fruitori di queste iniziative sia oggi davvero più informato.
Sarebbe stato necessario mettere in evidenza nel programma televisivo quali
sono gli interessi e i fattori economici, politici e geostrategici che
scatenano conflitti e causano l’esodo in massa di milioni di profughi.

«L’assenza di un’analisi di questo tipo (sulle cause, ndr.)
non ha affatto aiutato i telespettatori a capire come le guerre nei vari paesi
toccati dal reality show facciano guadagnare i commercianti di armi, chi
le produce, le banche che si prestano alle transazioni della compravendita di
armi e i paesi interessati a tener vivo questo business».

«Senza questa essenziale informazione, il programma Mission
ha sollecitato il pubblico a gesti di carità ma ha ridotto l’impegno a un
buonismo sterile che serve solo a superare il nostro senso di colpa. Non è
stato capace, invece, di invitare i telespettatori a un impegno di pace, a individuare
le cause e le complicità che protraggono questi conflitti». Così ha commentato
la Federazione della stampa missionaria italiana di cui MC fa parte.

Che fare?

Resta da capire la parte più importante: perché questa
scelta di comunicazione? Il sospetto è che questo genere di messaggi ed eventi
sia preferito, semplicemente, perché è il più rapido ed efficace per la
raccolta fondi. Esso infatti non richiede un grande lavoro di analisi dei
contesti, e nemmeno uno sforzo di traduzione di quelle analisi in un linguaggio
adatto ai non addetti ai lavori capace di descrivere, spiegare e coinvolgere
senza banalizzare.

La sfida non è quella di raggiungere milioni di persone.
La vera sfida è raccontare storie comprensibili. Coinvolgenti perché più simili
alle loro di quanto non si pensi, o perché riguardano problemi che oggi non
appartengono più a una parte sola del globo, ma a tutti, seppure in misura
diversa da un paese all’altro.

Vengono in mente provocazioni come quella del «meme»
recentemente apparso su Inteet, un’immagine di un panorama africano
accompagnato dalla scritta: «Ogni sessanta secondi, in Africa, è passato un
minuto», in evidente polemica con il modo in cui spesso vengono esposti i dati
sulla mortalità e sulle malattie nel sud del mondo (i vari «Ogni sessanta
secondi in Africa la malaria uccide un bambino» e simili). Oppure ancora lo
spassosissimo video realizzato dal Fondo per l’assistenza internazionale
degli studenti e accademici norvegesi
in cui un paffuto bambino africano
che fa da protagonista per uno spot dal titolo «Salviamo l’Africa!» consola una
giovane donna europea dalle lacrime facili e discute con il regista dello spot
che lo esorta a rispettare il copione. «Dobbiamo creare impegno costruito sulla
conoscenza, non sugli stereotipi», recita la didascalia del video.

Forse, a trent’anni dal Live Aid e considerando i
risultati fin qui ottenuti dalla spettacolarizzazione della comunicazione sullo
sviluppo, gli operatori della solidarietà internazionale, che in definitiva
sono quasi sempre gli attori a cui Vip, media e pubblico in generale  devono appoggiarsi per raggiungere le realtà
di crisi, dovrebbero concentrarsi su strumenti e messaggi più simili a questi
nel ripensare le loro strategie di comunicazione.

Chiara Giovetti

3 DOMANDE A:

Elias Gerovasi,
ideatore e curatore di Info-cooperazione,
il blog degli operatori della cooperazione.

Elias, Info-cooperazione è stato una bella novità degli ultimi anni
nel panorama dell’informazione in Italia, utile non solo per tenere d’occhio i
bandi ma anche per informarsi e partecipare al dibattito sulla cooperazione.
Come è nata l’idea del tuo blog e per quali interlocutori lo hai concepito?

L’idea del blog nasce da alcune esigenze di chi lavora
nella cooperazione, conosciute attraverso il confronto con colleghi che, come
me, operano nel settore per una Ong. Tenersi informati in tempo reale sulle
opportunità di finanziamento è infatti fondamentale per chi deve trovare
quotidianamente le risorse per i progetti. Eppure le informazioni vengono
spesso riservate a cerchie ristrette per interesse sia dei finanziatori che dei
possibili beneficiari. Questo in passato ha limitato molto la competizione tra
Ong e associazioni, e ha anche ristretto le opportunità di partenariato. Poi
c’era una questione di trasparenza che ci stava a cuore: si tratta quasi sempre
di risorse pubbliche, e quindi ci deve essere massima pubblicità e trasparenza.
Fino a pochi anni fa, e forse anche oggi, era difficilissimo sapere come
venissero spesi i soldi, quali fossero, per esempio, gli esiti dei bandi
pubblici. Con il blog abbiamo voluto dare una risposta a questi bisogni e
questo è stato fortemente gradito soprattutto dagli operatori e dai volontari
di Ong e associazioni che non hanno capacità di lobby presso i donatori e le
istituzioni. Certo, abbiamo anche reso la vita più difficile a qualcun altro:
mi viene in mente l’esempio di una Fondazione che normalmente riceveva una
trentina di proposte progettuali da finanziare ogni anno e se ne è viste
arrivare oltre 600 dopo la pubblicazione del bando su Info-cooperazione.

Col passare dei mesi ci siamo resi conto che la
limitazione d’informazioni non riguardava solo le opportunità finanziarie.
Qualche migliaio di operatori del settore, infatti, sentiva una mancanza di
rappresentanza e la necessità di uno spazio di discussione. La rete ha dato
questa opportunità con lo strumento banale e semplice di un blog. Tanti
colleghi hanno iniziato a contribuire mandando suggerimenti su temi da trattare
o articoli con opinioni sugli argomenti caldi che la cooperazione si trova ad
affrontare in un periodo come quello odierno definito ormai da tutti di «crisi
di identità». Il resto si è fatto grazie al tempo e all’interesse dei lettori
che non ci aspettavamo assolutamente potessero arrivare alle cifre attuali.
Tieni conto che il blog si fa nei ritagli di tempo e nel weekend, ed è basato
sul contributo volontario, in tutti i sensi. 

Live Aid, Live 8, star di Hollywood come testimonial; qui
da noi, Lorella Cuccarini a Goma nel 2006 con Trenta ore per la vita e,
più di recente, l’esperienza di Mission. Qual è il tuo bilancio su
questo ruolo, negli ultimi trent’anni, dei grandi eventi e dei grandi
personaggi per comunicare la solidarietà internazionale?

Purtroppo anche questa dinamica è già arrivata alla sua
esasperazione. I testimonial si trovano sui cataloghi delle agenzie di Pr (Public
relations
, ndr) e comunicazione. Trovare testimonial veri e impegnati come
ai tempi di Live Aid è oggi quasi impossibile. Non credo si debba
condannare il coinvolgimento di testimonial in sé. Quando è stato fatto in modo
genuino l’ho trovato anche utile e interessante.

Ma oggi non è più così, le Ong per garantirsi un impatto
forte in termini di visibilità e raccolta fondi si affidano al marketing
e ai comunicatori che replicano su questo settore logiche commerciali molto
raffinate incontrando gli interessi dello show business e dei personaggi
noti alla ricerca di una charity da aiutare. Nel settore ambientale gli
inglesi lo chiamano green-wash, quando un’azienda inquinante sostiene
attività «verdi» per ripulire la propria immagine. Qui in molti casi si tratta
di charity-wash (ripulire la propria immagine attraverso gesti di «carità»).

Purtroppo trattandosi di una simbiosi perfetta credo che
il fenomeno sia destinato a un’ulteriore esasperazione, tanto che alcuni Vip
faranno solo questo di mestiere e alcune Ong avranno più testimonial che
volontari.

Molti, fuori dal «recinto» degli addetti ai
lavori, trovano la solidarietà e lo sviluppo temi noiosi, o tristi, o troppo
impegnativi. Secondo te è un dato di fatto che si tratti di argomenti non
facilmente comunicabili? O siamo noi operatori della cooperazione che sbagliamo
strategia e, in questo caso, che cosa dovremmo cambiare?

Che si tratti di temi tristi e impegnativi non c’è
dubbio. Ma non è vero che non siano comunicabili. Credo che il «problema madre»
del nostro settore in fatto di comunicazione sia solo uno: pretendere di
sensibilizzare l’opinione pubblica e contemporaneamente di raccogliere fondi .
O meglio, in molti casi, sensibilizzare al solo fine di raccogliere fondi.

Hai fatto l’esempio di Mission, la trasmissione
di RaiUno che ritengo abbia rappresentato in pieno questo modello diventando
un’occasione persa. Il mondo dei rifugiati è stato raccontato in modo melenso,
pietista e superficiale al solo fine di veicolare una campagna di raccolta
fondi e di fare il charity-wash della Rai. Eppure in passato mi è
capitato di vedere film o documentari e sentire canzoni che mi hanno fortemente
sensibilizzato su diversi temi legati alla povertà e alla giustizia sociale, ma
non avevano uno scopo di raccolta fondi e credo abbiano raggiunto il loro
obiettivo, quello di aprire gli occhi dell’opinione pubblica su drammi e
ingiustizie del mondo. Ritengo che la sfida di comunicare al grande pubblico,
seppur difficile, sia possibile affrontarla e vincerla soprattutto se si sta
alla larga dal fund raising.

E poi non c’è solo la Tv, pensa ai milioni di email e
lettere che ogni mese le nostre Ong recapitano ad altrettanti italiani: anche
questa è comunicazione e potrebbe essere utilizzata per veicolare qualche
contenuto.

Se ti mando una lettera con una gigantografia di un
bambino denutrito morente accompagnata da un bollettino postale dicendoti che
solo tu potrai salvare quel bimbo, voglio sensibilizzarti sulla malnutrizione
infantile in Africa o semplicemente scucirti soldi raccontandoti una storia
semplice, parziale e volontariamente drammatizzata? Anche queste sono occasioni
perse e perpetuano una comunicazione errata della povertà e dello sviluppo
globale.

Ma prepariamoci al peggio, in futuro questo capiterà
anche con la politica con l’avvento della raccolta fondi dei partiti a seguito
della progressiva abolizione dei finanziamenti pubblici. Pensa ai partiti che
dovranno convincere i cittadini a donare e firmare il 2×1000 dell’Irpef nelle
dichiarazioni dei redditi, non voglio pensare a cosa manderanno nelle nostre
caselle postali!

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Francia. Il velo e gli altri simboli

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 17


Belgin Dogru, 11 anni, musulmana, viene esclusa dalla scuola per
il suo rifiuto di partecipare alle lezioni di ginnastica in cui è obbligatorio
togliere il velo. Dal suo caso nasce un forte dibattito che porta alla nota
legge francese sul divieto di esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici. I
numerosi ricorsi presentati dalla famiglia di Belgin vengono respinti. L’ultima
opzione è quella di rivolgersi alla Corte europea per i diritti umani che
vigila sulla libertà religiosa, la cui sentenza finale, emessa nel dicembre
2008, non è per nulla scontata.

Molti ricorderanno la questione del
velo islamico scoppiata anni addietro in Francia. In una città del Nord, un
giorno del 1989, due ragazze di origine marocchina si erano presentate nel loro
liceo con un foulard in testa. La cosa forse non avrebbe destato alcun problema
se il preside non avesse impedito loro di seguire le lezioni finché non se lo
fossero tolte. I mezzi di informazione fecero il resto e la notizia si diffuse
rapidamente un po’ in tutta Europa.

Una dozzina di anni dopo, altri casi
del genere hanno scatenato accese discussioni nel paese transalpino. Indossare
il velo si è trasformato da questione privata in fatto politico. Per molti
islamici, infatti, è diventato un simbolo di resistenza contro la cultura
occidentale. Sempre più frequentemente giovani figlie di immigrati maghrebini,
di nazionalità francese, hanno inteso affermare la loro appartenenza all’Islam
indossando un foulard che ne nascondesse la capigliatura.

Il caso di Belgin Dogru: a scuola senza velo

Il caso di Belgin Dogru, di cui si è
occupata la Cedu (la Corte europea dei diritti umani), è sorto in questo
contesto. Dogru, nata nel 1987 e residente a Flers, un centro di circa 16.000
abitanti della Bassa Normandia, al tempo dei fatti aveva 11 anni. Musulmana,
frequentava una scuola pubblica del paese. A partire dal gennaio 1999 ha
iniziato a presentarsi alle lezioni con i capelli coperti da un velo.
L’insegnante di educazione fisica l’ha ripetutamente richiamata, invitandola a
toglierselo perché quella tenuta era incompatibile con la pratica della sua
disciplina. La ragazza ha sempre rifiutato di obbedirgli ed è stata ogni volta
esclusa dalle lezioni. Il docente, alla fine, si è rivolto all’autorità
scolastica che, alcuni giorni dopo, ha escluso dalla scuola l’alunna per non
aver rispettato l’obbligo della frequenza.

Ricorsi respinti fino all’ultima opzione: la Cedu

Il ricorso dei genitori contro questa
decisione è stato respinto dalla commissione accademica d’appello e la ragazza
ha dovuto proseguire i suoi studi frequentando corsi per corrispondenza. Nel
frattempo, però, i genitori hanno presentato ricorso anche al tribunale
amministrativo di Caen e, dopo il rigetto di questo, alla corte d’appello di
Nantes, che lo ha respinto a sua volta. In entrambi i casi il tribunale ha
ritenuto che il comportamento di Belgin Dogru avesse creato un clima di
tensione all’interno dell’istituto e che, nonostante la ragazza avesse a suo
tempo proposto di sostituire il velo con una cuffia, l’insieme delle
circostanze avesse giustificato la sua esclusione definitiva dalla scuola. La
giovane, è stato affermato, ha oltrepassato i limiti del diritto di esprimere e
manifestare il suo credo religioso all’interno dell’istituto. Il Consiglio di
Stato, cui i genitori di Belgin hanno presentato alla fine ricorso, ha dato
loro definitivamente torto, dichiarandolo inammissibile.

A questo punto essi si sono rivolti
alla Cedu, ritenendo violata la propria libertà religiosa.

La questione, come appare chiaro,
riveste una notevole importanza. Chiama in causa infatti il valore della laicità
dello stato e quindi il rapporto tra questo e le confessioni religiose presenti
sul suo territorio. Tale questione, di primaria portata in Europa, assume un
valore tutto particolare in Francia.

Per imparare, non per fare proselitismo

Il paese transalpino, infatti, è
l’unico ad avere realizzato fin dal 1905 una piena separazione tra Chiesa e
stato. La questione del velo è stata presa come una minaccia contro tale
separazione e una negazione della laicità.

Di fronte all’estendersi delle
polemiche nel paese, e prima che il caso Dogru arrivasse alla Cedu, il
parlamento nel 2004 ha approvato una legge che bandisce i simboli religiosi
dalle scuole statali francesi. La decisione è stata presa a larghissima
maggioranza, perché hanno votato a favore sia la maggioranza (allora di
centrodestra) sia l’opposizione socialista. Il governo ha più volte
sottolineato che essa non mirava a colpire alcuna religione, ma intendeva
difendere, appunto, la laicità dello stato. «Si tratta di affermare con
chiarezza che la scuola pubblica è un luogo dove si va per imparare e non per
fare attività militante o proselitismo», ha proclamato il presidente
dell’Assemblea legislativa in occasione dell’approvazione della legge.

Dalla rivoluzione del 1789 al 1905 a oggi

Occorre tener presente che la
repubblica francese è stata costruita attorno al principio di laicità, derivato
da una lunga tradizione. È nato infatti dalla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789, in piena rivoluzione. In seguito è stato
richiamato nelle leggi di riforma della scuola del 1882 e del 1886, che hanno
istituito la scuola primaria obbligatoria, pubblica e, appunto, laica. Ma la
vera chiave di volta della laicità francese è stata, come accennato, la legge
del 9 dicembre 1905, che ha separato in modo netto la Chiesa e lo stato.
Nell’articolo 1 vi si afferma: «La repubblica assicura la libertà di coscienza.
Essa garantisce il libero esercizio del culto sotto le sole restrizioni di seguito
decretate nell’interesse dell’ordine pubblico». E nell’articolo 2 la
separazione è definita in modo preciso: «La repubblica – vi si legge – non
riconosce, né stipendia, né sovvenziona alcun culto».

Una legge, in sostanza, che ha
stabilito un vero e proprio «patto di laicità», da cui sono derivate e derivano
varie conseguenze sia per i servizi pubblici sia per i cittadini che ne
usufruiscono. Lo stato, da una parte, riconosce il pluralismo religioso e la
propria neutralità nei confronti dei culti. I cittadini, dall’altra, come
contropartita di tale «protezione» della loro libertà religiosa, devono
rispettare i luoghi pubblici condivisi da tutti. La laicità dello stato è stata
poi consacrata dall’articolo 1 della Costituzione del 4 ottobre 1958, che dispone:
«La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa
assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge di ogni cittadino senza distinzione
di origine, razza o religione. Essa rispetta ogni credo». Non c’è chi non veda
l’affinità di tale formulazione, fin nell’uso delle stesse espressioni, con
quella dell’articolo 3 della Costituzione italiana. In Italia, tuttavia, dagli
stessi principi non sono seguiti gli stessi comportamenti legislativi. Non c’è
mai stato, in particolare, un problema di uso del velo nelle scuole statali. Lo
stesso è accaduto nel resto d’Europa. Là dove la questione si è posta, come in
Germania, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Spagna, Svezia e Danimarca, è stata
risolta in modi diversi, ma senza particolari conflitti. Problemi invece si
sono avuti – e ci sono ancora – in Turchia, dopo l’avvento al governo di
Erdogan che ha rimesso in discussione quanto stabilito agli inizi del ’900 dal
regime laico di Ataturk, il primo a impedire alle donne di portare il velo
nelle istituzioni pubbliche.

Uno scontro ideologico

In Francia, invece, l’uso del velo ha
suscitato un vero scontro ideologico. Indossarlo ha assunto per i musulmani –
non per tutti, in verità: vi sono state infatti associazioni islamiche che
hanno appoggiato la legge – un significato preciso: rifiutare la laicità,
rifiutando la scuola pubblica, di seguire le lezioni di ginnastica, le lezioni
di biologia, le lezioni di musica, le lezioni di disegno e così via.

Le ragazze che vogliono indossare il
velo partono dal principio che la donna occidentale non è rispettata dall’uomo
e che loro stesse parteciperebbero a questa mancanza di rispetto se
accettassero appunto di non metterlo.

La polemica è cresciuta ancor più
dopo l’approvazione della legge. La maggioranza dei musulmani in Francia e
quelli all’estero, infatti, l’hanno intesa come un’aggressione e un rifiuto
dell’Islam, anche se la legge in realtà tratta dei simboli di ogni religione,
compresi il crocefisso e la kippah ebraica.

Si sono accese discussioni violente e
confuse. Per gli estremisti musulmani è stata l’occasione per designare la
Francia e l’Occidente come «nemici dell’Islam».

Insomma: il caso è diventato
l’emblema del confronto/scontro del modello francese di laicità con
l’integrazione dei musulmani negli spazi pubblici e, in primis, nella scuola.
Per molti cittadini francesi, l’aumento della presenza islamica minaccia i
valori dello stato, per cui occorre restaurare l’autorità repubblicana. La
scuola è diventata il terreno privilegiato di tale «risposta». La presenza
visibile in essa di segni religiosi è avvertita da molti come contraria alla
sua missione (di essere cioè uno spazio di neutralità e un luogo di risveglio
della coscienza critica), nonché una minaccia ai valori che deve insegnare, a
partire dall’uguaglianza tra uomini e donne.


Condizioni di coabitazione

Con il caso di Belgin Dogru la Cedu
si è dunque trovata a risolvere un problema giuridico, sconfinato però nel
campo politico e ideologico e gravato da implicazioni di grandissimo rilievo.
In ballo c’è la convivenza in Europa con una popolazione musulmana ormai
quantitativamente consistente. L’Islam costituisce la seconda religione del
vecchio continente. È importante rendersi conto di questo e ammettere che
l’Europa vive e continuerà a vivere con una parte della propria popolazione di
religione musulmana. Solo così si potranno definire sempre meglio l’ambito e le
condizioni di tale coabitazione.

La legge francese contro
l’ostentazione dei simboli religiosi nelle scuole, concepita con questo
spirito, è stata tuttavia raffazzonata e votata in un clima di forte tensione e
contrapposizione sociale. Così non si è riusciti a portare il confronto sui
problemi veri che si volevano affrontare: la laicità dello stato, appunto, e la
condizione della donna, la libertà della quale è tutelata e promossa
dall’ordinamento europeo. Questo secondo aspetto è a sua volta di primaria
importanza. Alcuni immigrati infatti vorrebbero che le loro donne, le loro
figlie e le loro sorelle vivessero nelle medesime condizioni dei loro
concittadini rimasti in patria, rifiutando i diritti di cui godono le donne
occidentali.

I rischi dei simboli

Di fronte alla Cedu il governo
francese ha ammesso che le restrizioni imposte alla giovane Dogru
nell’indossare il velo islamico all’interno della scuola costituivano una
limitazione del suo diritto di manifestare la propria religione. Tuttavia, ha
sostenuto, tale limitazione rispettava quanto previsto dall’articolo 9 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Essa infatti, oltre a rispondere a
necessità pratiche, come quella di dotarsi di un abbigliamento adatto
all’esercizio dell’educazione fisica a scuola, era necessaria per rispettare i
principi costituzionali di laicità e di uguaglianza tra i sessi.

Il governo tuttavia si è spinto più
in là, proprio per la forte concezione di laicità che viene sostenuta dalle
leggi francesi. Occorre anche tener conto – ha infatti osservato – delle
ripercussioni del comportamento di Belgin Dogru sugli altri alunni della sua
classe, che al tempo dei fatti avevano, come lei, undici anni, e valutare
l’impatto che un simbolo esteriore, quale il portare un velo, poteva avere
sulla libertà di coscienza e di religione di alunni in giovane età, facilmente
influenzabili. Si sarebbe potuto avere, in altri termini, un effetto di
proselitismo. Insomma, e questo è il senso della posizione del governo francese
nel dibattito di fronte alla Corte, lo stato, e le sue istituzioni come la
scuola, devono rimanere rigidamente neutrali in fatto di religione e dei suoi simboli.

La sentenza della Corte europea

La Corte, con la sentenza del 4
dicembre 2008 ha dato all’unanimità ragione al governo, condividendone le
ragioni. In più ha ricordato che la giovane Dogru e i suoi genitori, all’atto
dell’iscrizione alla scuola, avevano sottoscritto il regolamento interno
dell’istituto, impegnandosi così a rispettarlo. Esso vietava espressamente
l’uso di «simboli ostentatori che costituiscono in se stessi elemento di
proselitismo e di discriminazione». La giovane e i suoi genitori, dunque,
potevano ragionevolmente prevedere che il rifiuto di togliere il velo durante
il corso di educazione fisica e sportiva avrebbe potuto portare alla esclusione
dall’istituto per il mancato rispetto dell’obbligo di frequenza. In questo
caso, dunque, non è stata violata la Convenzione europea, e la restrizione alla
manifestazione della libertà religiosa, nei termini in cui è avvenuta, è stata
legittima, proprio perché ha avuto la finalità di preservare gli imperativi
della laicità negli spazi pubblici scolastici.

Al di là della sentenza, una questione aperta

La Francia, dove secondo le stime
ufficiali, su una popolazione di religione musulmana stimata tra i 4 e i 6
milioni, le donne che indossano il velo sono circa 2000, ha approvato nel 2011
un’altra legge che vieta l’uso del velo islamico in pubblico. Anche questa ha
suscitato la reazione della comunità islamica. La Cedu è stata nuovamente
interpellata da donne condannate in base alla nuova legge, perché ritengono che
violi la loro libertà religiosa. Entro quest’anno la Corte europea dovrebbe
esprimersi in merito. Ma al di là di questo rimane aperto il problema, che è
politico, culturale e sociale, del rapporto degli stati democratici europei con
le nuove religioni presenti oggi nel vecchio continente e, in particolare con
l’Islam. Quale sia la strada migliore per realizzare convivenza, integrazione,
dialogo, rispetto reciproco, non è certamente facile stabilirlo. L’Europa
dispone di un patrimonio preziosissimo di valori sociali, civili, liberali e
democratici, in base ai quali il problema di cui si è detto deve essere gestito
e risolto. Non si tratta di una questione solo «formale», né si può affrontarla
in termini ideologici o manichei. La laicità appartiene a tutti, «vecchi» e «nuovi»
europei, e permette a tutti di esercitare la libertà di religione. È
importante, tuttavia, rendere il più possibile omogenea, nei vari paesi, la sua
traduzione nella vita concreta delle istituzioni e della società. Quanto sarà
possibile, infatti, il perdurare di una situazione che vede il medesimo
principio di separazione tra stato, Chiesa e religioni affermato nell’Unione
europea, tradursi nelle istituzioni dei vari paesi in livelli diversi di
tolleranza nei confronti del crescente pluralismo della società contemporanea? È
una situazione in cui la Cedu ha un compito notevole da svolgere. Ma certo non
può risolverlo da sola.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Una plastica apparenza Allattamento e seno femminile (terza parte)

Nei paesi ricchi si sta diffondendo la chirurgia plastica per
recuperare l’aspetto fisico antecedente la gravidanza. Il mercato impone i suoi
diktat estetici, facendo passare l’idea che il non bello e il non giovane siano
errori da riparare. Correlato a questo fenomeno ce n’è un altro, anch’esso in
rapidissima crescita: quello del turismo medico. Così, mentre in troppi paesi
mancano medici e ospedali pubblici, in altri si profila una nuova vittoria
dell’«apparire» sull’«essere».

Anche i media ritenuti – a torto o a
ragione – più seri, sempre più spesso ci propongono immagini e servizi sulle
neomamme vip che – trascorso pochissimo tempo dal parto e dall’allattamento –
tornano in una forma fisica smagliante. Di solito vengono riportate le
dichiarazioni delle dirette interessate che dicono di passare ore e ore in
palestra e di seguire diete ferree. Non viene invece detto che molte di loro
fanno ricorso al cosiddetto Mommy
makeover («rifacimento della mamma»), una combinazione di
interventi chirurgici per rimediare ad alcuni difetti lasciati dal parto e
dall’allattamento.

Il
fenomeno del Mommy makeover è
nato negli Stati Uniti
, ma sta diffondendosi anche in Europa, Italia compresa.
Secondo un’indagine compiuta dall’American
Society of Plastic Surgeons su 1.000 neomamme il 62% si
sottoporrebbe volentieri a qualche intervento di chirurgia plastica per
recuperare l’aspetto fisico antecedente la gravidanza se i costi fossero meno
elevati. Tra gli interventi più richiesti figurano la mastoplastica additiva
(aumento del seno), la mastopessi (sollevamento del seno), la liposuzione
(rimozione del grasso in eccesso) unita all’addominoplastica (tensione della
parete addominale), e sempre più spesso la chirurgia estetica intima, la cui
richiesta è raddoppiata negli ultimi cinque anni. La pratica di quest’ultima si
è diffusa a tal punto che l’American College of
Obstetricians and Gynecologist è intervenuto indicando tali procedure
come raramente appropriate sul piano medico, e potenzialmente dannose per la
salute. Questo fenomeno rientra nella estrema diffusione, a livello mondiale,
della chirurgia plastica e della medicina estetica. Ovviamente si deve
riconoscere a questa branca della chirurgia il grande merito di permettere il
recupero estetico a persone che hanno subito gravi traumi o interventi
chirurgici distruttivi per curare tumori, o che sono state colpite da patologie
deturpanti. Tuttavia ormai ci troviamo di fronte sempre di più alla
medicalizzazione consumistica della salute, con il mercato globale che si pone
come difensore dei valori della bellezza e della giovinezza, e impone i suoi
diktat estetici. Viene fatta passare l’idea che il non bello, il non giovane ed
efficiente siano assimilabili al male, quindi da correggere. Ecco allora il
boom della elective surgery, cioè
dell’insieme degli interventi chirurgici non necessari in senso clinico, di cui
è soprattutto il paziente a sentire la necessità, e la sostituzione del
rapporto medico-malato con quello medico-persona sana. È presente in questo
fenomeno il rischio di sfruttamento del disagio psichico e sociale delle
persone più fragili, con scarso equilibrio interiore, che spesso trasferiscono
sul corpo un malessere di origine diversa. È stata infatti osservata un’elevata
rilevanza statistica di disordini mentali fra i candidati alla chirurgia
estetica, colpiti spesso da dismorfofobia corporea: malattia psichiatrica
consistente in una sensazione soggettiva di deformità fisica. Questa patologia,
secondo uno studio condotto da Hodgkinson nel 2005, viene riscontrata nel 20%
delle persone che si rivolgono a un chirurgo estetico e si manifesta con una
vera e propria dipendenza da chirurgia plastica. Secondo un altro studio
condotto da A. Napoleon su un gruppo di pazienti della Carolina del Sud,
ricoverati per un intervento di chirurgia plastica, il 25% di loro soffriva di
disturbo narcisistico, il 12% di disturbo dipendente, il 9,75% di disturbo
istrionico, il 9% di disturbo borderline
della personalità, il 4% di disturbo ossessivo-compulsivo, il 3% di altri
disturbi della personalità (antisociale, paranoide, schizotipico, ecc.). Solo
il 29% non presentava alcun disturbo della personalità. Secondo il DSM-IV (Diagnostic
and Statistical Manual of Mental Disorders), il disturbo narcisistico
di personalità si presenta con un quadro di grandiosità, mancanza di empatia,
richiesta di ammirazione, fantasie illimitate di successo, potere, bellezza e
con un comportamento arrogante e superbo. Tra le maggiori preoccupazioni di
questi pazienti ci sono i difetti legati all’avanzare dell’età e questo li
porta spesso a richiedere interventi di lifting.

Il
disturbo dipendente di personalità si presenta con una eccessiva necessità di
essere accuditi, con un comportamento sottomesso e dipendente, timore della
separazione, percezione di sé stessi come incapaci di realizzare qualcosa senza
l’aiuto degli altri. Pazienti di questo tipo ricorrono più frequentemente di
altri alla mastoplastica additiva.

Nel
disturbo istrionico è presente emotività eccessiva con ricerca di attenzione,
comportamenti seducenti, teatralità, autodrammatizzazione ed espressione
esagerata delle emozioni. Questi pazienti richiedono interventi di
mastoplastica additiva, di ingrossamento delle labbra e rimodellamento degli
occhi per allontanare la possibilità di un rifiuto.

Il disturbo borderline della personalità è
caratterizzato da instabilità delle relazioni interpersonali e dell’umore,
dall’alternanza tra gli estremi dell’idealizzazione e della svalutazione, da
un’immagine di sé perennemente instabile, da rabbia immotivata e ricorrenti
minacce, da comportamenti automutilanti. Questi pazienti separano le parti del
proprio corpo in buone e cattive, attribuendo al chirurgo il compito di
rimuovere queste ultime. Il disturbo ossessivo-compulsivo si presenta con una
eccessiva preoccupazione per l’ordine, il perfezionismo, il controllo mentale e
interpersonale, con un’attenzione estrema ai dettagli, alle regole, agli
schemi, e un’organizzazione così elevata da mettere quasi in secondo piano il
fine delle proprie azioni. Inoltre sono presenti esagerata coscienziosità,
scrupolosità e inflessibilità in tema di moralità, etica e valori. Questi
pazienti concentrano le loro richieste di interventi estetici su labbra, seno e
occhi.

Sulla
base dei dati scientifici è possibile affermare che tra i pazienti della
chirurgia estetica, quelli con qualche disturbo della personalità sono compresi
tra il 30% e il 70%. Questi dati dimostrano la necessità di una stretta
collaborazione tra chirurghi estetici e psicologi o psicoterapeuti.

La chirurgia estetica ha dimostrato di avere
effetti positivi sull’autostima dei pazienti ansiosi, mentre è risultata
inefficace nel caso dei pazienti depressi. Ed è addirittura stato riscontrato
un aumento del rischio di suicidio, soprattutto tra donne che richiedono la
mastoplastica additiva (rischio 2 o 3 volte maggiore della norma). Oltre a
questo è stato rilevato un maggior numero di casi di cancro del polmone
rispetto alla norma.

Secondo
uno studio di Koot, Peters e altri, apparso sul British
Medical Joual, che valutava il tasso di mortalità nelle donne
svedesi operate di mastoplastica additiva tra il 1965 e il 1993, le donne che
scelgono questo tipo d’intervento sembrerebbero differire dalla popolazione
generale, o dalle donne che si sottopongono ad altri interventi estetici, per
alcune caratteristiche quali lo stile di vita, l’uso o l’abuso di alcornol, il
fumo e lo stato civile, elementi che potrebbero influire sia sul rischio di
suicidio che sul cancro polmonare.

Accettare
di operare soggetti con qualche disturbo della personalità è rischioso per i
chirurghi, perché, a prescindere dal risultato ottenuto, l’intervento può
generare insoddisfazione nel paziente che non ha una percezione corretta del
proprio aspetto fisico. Non sono pochi i casi di azioni legali contro i chirurghi
che hanno effettuato gli interventi. Secondo i dati delle compagnie di
assicurazione, le richieste di risarcimento nei confronti dei chirurghi
estetici, con scarsa o nulla motivazione relativa all’esito dell’opeazione
chirurgica eseguita, si aggirano intorno al 30% degli interventi, un dato in
linea con quello relativo alla porzione di pazienti emotivi. Considerando che
in Italia, a eccezione della mastoplastica riduttiva nei casi in cui l’eccesso
di seno genera gravi difetti posturali, nessuno dei più diffusi interventi
chirurgici estetici è coperto dal sistema sanitario nazionale, se i pazienti
problematici venissero rifiutati dai chirurghi, il fatturato della chirurgia
estetica si ridurrebbe notevolmente. Si calcola che ci sarebbero mancate
entrate comprese tra i 215 ed i 502 milioni di euro all’anno solo per
interventi di addominoplastica, liposuzione e mastoplastica additiva e
riduttiva.

Secondo il più recente rapporto della «Società
internazionale di chirurgia plastica estetica» (Isaps), i paesi in cui viene
realizzato il più alto numero d’interventi di chirurgia estetica all’anno sono:
Stati Uniti (3,31 milioni), Brasile (2,52 milioni), Cina (1,27 milioni),
Giappone (1,18 milioni) e India (1,15 milioni). Tuttavia, se il numero
d’interventi viene calcolato non come valore assoluto, ma in rapporto alla
popolazione, tra i primi quattro paesi troviamo la Corea del Sud, la Grecia,
l’Italia ed il Brasile, mentre Cina ed India finiscono nelle ultime posizioni.
Gli interventi chirurgici in Asia restano i più economici in assoluto. Per una
mastoplastica additiva nel 2011 si spendevano 3.600 dollari negli Stati Uniti,
2.900 in Brasile, 2.800 in Giappone, 2.660 in Cina e 2.400 in India. Un lifting
al viso costava 3.690 dollari a New Delhi, 4.000 a Pechino, 4.700 a Brasilia e
6.450 a Washington. I paesi asiatici detengono il record delle rinoplastiche.
Tutto questo ha generato una forte espansione del turismo medico, favorito
anche dai voli low cost. A partire dal 2008,
gli incassi dei chirurghi estetici italiani hanno subito una flessione legata
non solo alla crisi economica attuale, ma anche alla tendenza sempre maggiore
degli italiani, come anche di altri pazienti europei e di quelli statunitensi,
di recarsi all’estero per sottoporsi agli interventi chirurgici più svariati,
tra cui quelli di tipo estetico e odontorniatrico. I paesi più gettonati per il
turismo medico sono Tunisia, Slovenia, Ucraina, Ungheria, Brasile, Polonia,
Romania, Argentina, Indonesia, Colombia e Repubblica Ceca. In questi paesi il
costo degli interventi chirurgici è molto ridotto, rispetto a quello di casa
nostra e si può arrivare a risparmiare fino a 2.500 euro. Spesso le cliniche
del posto contattano le agenzie di viaggio dei paesi europei più ricchi e degli
Stati Uniti per organizzare pacchetti-vacanza all
inclusive, che prevedono il volo, il soggiorno in albergo (solitamente di una
settimana) e l’intervento chirurgico. Ad esempio, nel 2011 un pacchetto
comprendente una mastoplastica additiva effettuata in Tunisia, il volo e il
soggiorno per una settimana costava 2.600 euro. Attualmente in Italia un
intervento del genere ha un costo compreso tra i 4.500 e i 6.500 euro. La
scelta di recarsi all’estero per subire interventi chirurgici estetici,
tuttavia non è sempre sicura perché, sebbene le cliniche del settore
pubblicizzino i loro interventi come privi di complicazioni, nella realtà
queste possono verificarsi, come in qualsiasi operazione chirurgica. In tal
caso è necessario un pronto intervento, che diventa difficile effettuare, se la
clinica di riferimento è all’estero e il paziente è già rientrato nel proprio
paese. E intervenire con ritardo può pregiudicare l’esito dell’operazione. Non
bisogna dimenticare che in chirurgia estetica il 50% di un intervento è
rappresentato dal post-operatorio, in cui le medicazioni sono essenziali. Le
corse al ribasso nella medicina e chirurgia estetica possono essere molto
pericolose, perché nelle offerte non si risparmia sulla parcella del medico che
esegue l’intervento, ma sulla struttura e sulle attrezzature utilizzate. Può
capitare ad esempio che certi interventi, che necessiterebbero della sala
operatoria, vengano eseguiti in ambulatori non chirurgici. Attualmente
purtroppo tre interventi su dieci in chirurgia estetica sono eseguiti per
rimediare a interventi estetici precedenti (patologia secondaria alla chirurgia
estetica).

Negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale
anche il numero di persone che acquistano i cosiddetti coupon di offerte
per interventi di chirurgia estetica a prezzi scontati, i quali si trovano
solitamente sui siti di acquisti on line. Oltre a questo tipo di offerte, sul
web si trovano sempre più facilmente fiale di filler
(sostanze usate come riempitivo) e di tossina botulinica a prezzi stracciati e
del tutto prive di controlli. Queste sostanze dovrebbero sempre essere
controllate e inoculate da uno specialista nel settore, invece chi le acquista
on line ricorre spesso al fai da te con gravi rischi sia per la propria salute,
sia per il risultato estetico.

L’American
Society for Aestetich Plastic Surgery ha rilevato un aumento dal
2002 a oggi del 12% del ricorso alla chirurgia estetica e del 22% dell’uso
della medicina estetica. Tra gli interventi in aumento ci sono la mastoplastica
additiva (+17%), la blefaroplastica, cioè il lifting delle palpebre (+17%), la
rinoplastica o rimodellamento del naso (+10%) e la mastoplastica riduttiva
(+17%). Secondo i dati Eurispes, in Italia sono aumentati gli interventi
di blefaroplastica (+22%), di mastoplastica additiva (+42%), anche se è molto
diffusa pure quella riduttiva, e del 31% i trattamenti di medicina estetica, i
più diffusi dei quali sono a base di acido ialuronico, e il lipofilling
(trapianto autologo del proprio grasso). 
Nel mondo l’intervento più richiesto è la liposuzione (19,9% di tutti
gli interventi chirurgici estetici), seguito dalla mastoplastica additiva
(18,9%) e dalla blefaroplastica (11%). Mentre, per quanto riguarda la medicina
estetica, al primo posto c’è l’iniezione di tossina botulinica (38,1%), seguita
dall’acido ialuronico (23,2%) e dalla epilazione con laser (10,9%).

L’età
delle giovani, che si sottopongono alla chirurgia estetica si abbassa
progressivamente, tanto che in Italia, nel giugno 2012, la Commissione affari
sociali del Senato ha approvato un disegno di legge che vieta gli interventi al
seno per motivi estetici su minorenni, e multa i chirurghi che non rispettano
la legge con una sanzione fino a 20.000 euro e la sospensione dalla professione
per 3 mesi.

In
tempi di crisi economica, secondo la «Società italiana di chirurgia plastica
estetica», nel 2011 in Italia, nonostante l’aumento di alcune tipologie
d’interventi chirurgici estetici di cui si è detto, c’è stato un calo
complessivo del 40% rispetto ai due anni precedenti. Sono invece aumentati i
meno costosi trattamenti di medicina estetica, oltre alle richieste di
finanziamenti per rifarsi il seno o il naso da parte di persone con scarsa
disponibilità economica che probabilmente ripongono grandi attese nel loro
aspetto esteriore.

Se il
settore della chirurgia estetica tradizionale pare avere subito una contrazione
legata alla crisi economica, non conosce crisi il settore degli interventi
chirurgici intimi, tra cui la ricostruzione dell’imene per il recupero della
verginità (1.200-2.500 euro). Questo tipo di chirurgia plastica è in costante
aumento.

Mentre nel Sud del mondo mancano medici e medicine
per curare malattie che falcidiano intere popolazioni, nel Nord del mondo si
spendono fiumi di denaro per ricostruirsi. Sorge spontanea la domanda se sia
così dignitoso apparire piuttosto che essere. Come se la vita fosse solo una
recita.

Rosanna Novara Topino
 
Chirurgia estetica / 1


La rimonta degli uomini

A ricorrere agli interventi di chirurgia plastica sono
sempre più spesso anche gli uomini. È in aumento la richiesta per interventi
contro la ginecomastia (l’eccessivo sviluppo delle mammelle del maschio, ndr),
che è spesso causata da fattori estei alteranti l’equilibrio ormonale, come i
farmaci antidepressivi o a base di digitale, la cannabis, le sostanze dopanti e
certi integratori alimentari, o che è legata a problemi di sovrappeso e di
obesità. In Italia sono inoltre richiesti anche dagli uomini interventi di
chirurgia estetica intima. Il 25% delle operazioni richieste è collegato a un
cambiamento del proprio stato civile, che si tratti di matrimonio, separazione
o divorzio. Inoltre il settore della medicina e della chirurgia estetiche è
molto soggetto a mode e tendenze passeggere capaci di condizionare l’aspetto
fisico dei pazienti, che spesso chiedono interventi per assomigliare a qualche
personaggio pubblico. Il problema di questo tipo di pazienti è che non vogliono
solo assomigliare al loro idolo, ma ne vorrebbero lo stesso stile di vita,
desiderio quasi impossibile da realizzarsi, da cui la conseguente frustrazione.

 
Chirurgia estetica / 2


Occhi a mandorla?

Già da alcuni anni è aumentata in tutto il mondo la
chirurgia estetica «etnica» per modificare i tratti esteriori distintivi e
caratterizzanti l’etnia di origine. Queste esigenze estetiche, che si rifanno
sempre al modello occidentale, non sono sentite solo dai ceti sociali più
elevati, ma anche da quelli meno abbienti, in particolare da persone che
intendono inserirsi in un paese diverso da quello di origine. Gli interventi più
richiesti sono la cantoplastica (rimodellamento degli occhi a mandorla), la
rinoplastica (la tecnica detta slump implant mira a rimpicciolire la base del
naso ed affinae la punta), la cheiloplastica (riduzione del volume delle
labbra) e le liposuzioni per il rimodellamento corporeo. Questi soggetti
purtroppo dopo l’intervento rischiano di ritrovarsi in un limbo culturale: non
riescono a inserirsi appieno nel nuovo paese e nel contempo vengono rifiutati
dalle persone della loro etnia, a cui sembrano non volere più appartenere.

Rosanna Novara Topino




Isaac & Cristina oggi sposi

Portfolio:


Matrimonio coreano tra tradizione e modeità


(Clicca su una delle due foto qui sotto per vedere la fotogallery completa)


Anyong, Corea del Sud,
9 ottobre 2013

Amici cari, il 9 ottobre 2013 ho partecipato al
matrimonio (foto 1) di
Kim Soo-jong Cristina e Park Da-un Isaac. Cristina è figlia di una coppia di
amici molto impegnati a sostegno della nostra presenza missionaria in Corea.

La mamma di Cristina, Gloria, mi ha chiesto di fare alcune foto
stile freelance e così è stato. Vi lascio le migliori. Il momento più
bello da fotografare è stato quello della cerimonia tradizionale. Vedrete perché…

Il matrimonio religioso è stato celebrato nella chiesa del
convento dei Francescani a Seul. Prima del matrimonio, in una saletta
riservata, la sposa, seduta come una regina, aveva accolto tutti gli invitati
alla celebrazione. Eccola allora con i suoi genitori e il fratello (foto 2) e con lo sposo,
i suoceri e il cognato (foto 3).

Poi è cominciata la messa. È usanza che le mamme degli sposi entrino assieme indossando i
vestiti tradizionali (foto 4). Di seguito entra la sposa con il papà. La cerimonia è stata
semplice e sobria. Presieduta da padre Lee Seung-yon Pedro, responsabile degli
scout nella diocesi di Seul (foto
5
). Sia Cristina che Isaac, infatti, sono scout.

Prima della preghiera finale, lo sposo ha cantato una canzone
romantica alla sposa… seguito da alcuni amici che ci hanno deliziati con una
musica vivace e con tanto buon umore. Gli sposi sono usciti dalla chiesa tra
due ali festanti di scout (foto
6-8
).

Ci siamo quindi recati nel wedding hall, una stanza del
convento attrezzata per le feste di matrimonio (tutte le parrocchie cattoliche
ne hanno una). Lì è iniziata la cerimonia tradizionale alla quale hanno
partecipato solo i familiari più stretti: nonni, zii, genitori e fratelli. La
sposa è stata preparata con i vestiti di una volta, quelli dei tempi degli
imperatori, e per lo sposo è stato lo stesso, naturalmente (foto 9 e 10).

Una volta pronti per la cerimonia, si sono seduti di fronte a un
tavolino (foto 11) sul quale era stato preparato tutto il necessario: i frutti di tetchu
(un frutto secco agrodolce) ben ordinati, castagne, pasticcini e frutta secca,
e il contenitore e le tazzine per il tjong-jong, il tipico liquore di
riso simile al sakè giapponese.

Tradizionalmente i primi a ricevere l’omaggio sono i genitori
dello sposo. C’è prima una riverenza solenne (foto 12).

Poi gli sposi servono il liquore. I genitori di lui (foto 13) a loro volta
fanno un bel brindisi non senza prima dispensare buoni consigli (foto 14).

E qui arriva la parte più interessante: i genitori lanciano castagne
e tetchu come augurio di
fertilità alla coppia.

La raccolta, in un bellissimo drappo di seta, è stata in questo
caso fruttuosa e benaugurante (foto
15
). è poi la
volta della nonna dello sposo con alcune zie (foto 16), che non risparmiano i loro severi
consigli.

Seguono i genitori della sposa: si ripete con loro il rito, dopo
la riverenza solenne (foto 17), dell’ascolto dei consigli e dell’offerta del liquore. La
tradizione vuole che solo i genitori dello sposo lancino i frutti secchi della
fertilità. Ed eccoli tutti felici e contenti (foto 18).

I fratelli di entrambi, più giovani degli sposi, hanno concluso le
visite. Si sono scambiati le tazze con il liquore e hanno brindato alla salute
e felicità degli sposi novelli. Anche loro hanno detto parole di auguri (foto 19).

Finalmente tutti se ne vanno e gli sposi terminano il rituale da
soli.

Si servono liquore e lo bevono in allegria (foto 20 e 21) … e
poi mangiano i tetchu, i frutti secchi che, con le castagne,
simboleggiano fertilità. Ogni frutto raccolto, un figlio! Per fortuna i
genitori di lei non hanno preso parte al lancio (foto 22).

La cerimonia conclusiva è simpatica. Lo sposo prende la sposa
sulle spalle e fa un giro nella sala (foto 23)… senza lasciarla cadere,
chiaramente (dopo tutto quel tjong-jong!).

Mi è già capitato di assistere a un matrimonio nel quale per poco
la sposa non «volava».

Prima di uscire, gli sposi fan vedere a tutti le buste che i
parenti più vicini hanno offerto loro, belle piene, perché sono i soldi per la
luna di miele. A giudicare dai sorrisi, sarà un’ottima luna di miele!

Una ultima foto ai due sposi novelli (foto 24) e ditemi un po’
se questi costumi tradizionali non sono uno splendore!

E perché non succeda come nelle storie di una volta nelle quali
tutti si divertono e il raccontastorie rimane dimenticato dietro l’uscio, ecco
una foto in cui ci sono anch’io (foto 25).

Il giorno dopo Isaac e Cristina sono partiti per la Thailandia in
luna di miele. I migliori auguri a loro e a tutti gli sposi novelli.

Alvaro Pacheco

Alvaro pacheco




Ogni giorno è Ashura

La ricorrenza sciita


Ogni anno gli sciiti ricordano
l’eccidio di Ashura del 680 nel quale Hussein, nipote di Maometto, e altri 72
furono uccisi a Karbala, nell’attuale Iraq. La ricorrenza è occasione di
manifestazioni di popolo, in cui la commemorazione raggiunge altissimi livelli
di partecipazione. Il coinvolgimento emotivo delle folle è stato cavalcato più
di una volta per i propri fini politici dal clero sciita iraniano, che oggi
teme di perdere il controllo.

Sulla tribuna installata in un sobborgo di Teheran alcuni
rappresentanti delle autorità osservano la processione di uomini in nero che si
battono il petto in ricordo dei tragici fatti di Karbala, città dell’attuale
Iraq, a 100 km a Sud Ovest di Baghdad, in cui nel 680 Hussein, nipote di
Maometto, e altri 72 suoi familiari e compagni furono uccisi dalle truppe del
califfo Yazid. In tutto il mondo sciita i primi dieci giorni del mese arabo di muharram
sono dedicati alla commemorazione di quell’eccidio. La ricorrenza segue il
calendario lunare, quindi si sposta a ritroso lungo quello solare, che ha più
giorni. Nel 2013 ha avuto luogo tra il 5 e il 14 novembre; nel 2014 si terrà
tra il 25 ottobre e il 3 novembre.

Dalla tribuna si leva una voce che tenta di sovrastare il clamore
dei canti e dei tamburi con cui i fedeli accompagnano il proprio cordoglio: «In
questi giorni di lutto un pensiero particolare va ai nostri fratelli in Siria e
in Palestina. E ora riuniamoci tutti quanti per la preghiera». Un piccolo
gruppo si stacca dalla tribuna e marcia verso la moschea, guidato da alcuni mullah. Tuttavia, le migliaia di persone
radunate non si muovono, nessuno raccoglie quell’invito e gli uomini continuano
a sfilare, battendosi il petto, o fustigandosi con grappoli di catenelle. Tra
la folla non si vedono turbanti. Né bianchi, né neri. Il clero è completamente
assente dalla commemorazione. È un sentimento profondo e autenticamente
popolare quello che fa uscire gli iraniani nelle strade in questi giorni. Le
autorità temono simili manifestazioni spontanee, cercano di guidarle e
controllarle, sanno quale forza rivoluzionaria si può sprigionare da milioni di
persone radunate nelle piazze di città e villaggi a piangere la morte del loro
terzo santo Imam, quali sentimenti di emulazione, quale desiderio di martirio
la ricorrenza può suscitare. Basterebbe che d’improvviso si cominciassero a
scandire slogan diversi dal solito.


Lotte intestine nel nascente islam e l’eccidio di Ashura

Hussein era figlio di Fatima, figlia di Maometto, e di Ali, uno
dei primi e più fedeli compagni del Profeta. Ali sarebbe stato designato dallo
stesso Maometto, prima che questi morisse, a essere il suo successore, khalaf in arabo (da cui califfo). Ciò almeno
è quanto sostennero i suoi seguaci, in seguito definiti sciiti perché
costituivano il partito – in arabo shi’a – di Ali. Una successione che Ali aspettò per ventiquattro anni,
perché la maggioranza dei musulmani non gli riconosceva tale prerogativa e
altri tra i compagni del Profeta erano nel frattempo stati designati a guidare
la comunità islamica. Dopo l’uccisione del terzo califfo, Osman, nel 656, la
scelta cadde finalmente su Ali, ma il suo breve governo fu tormentato da
continue lotte intestine, che in parte riflettevano le divisioni claniche
esistenti all’interno della società araba. Tra i contendenti stava emergendo il
potente clan omayyade, cui appartenevano lo stesso Osman e Moawiya, il governatore
della Siria, cui la carica di califfo passò dopo la breve parentesi in cui
l’aveva esercitata Ali, ucciso nel 661.

Una volta morto Ali, i suoi seguaci riconobbero nel figlio
maggiore, Hassan, il proprio imam, o guida spirituale, e alla morte misteriosa
di questi – gli sciiti affermano che fu avvelenato dalla moglie su istigazione
di Moawiya – si rivolsero al secondogenito Hussein.

Nel 680 morì Moawiya, dopo aver designato a succedergli il figlio
Yazid, una successione da molti contestata perché avvenuta per discendenza e
non per elezione, com’era uso nella società araba. Insediatosi al governo di
Damasco, Yazid chiese a Hussein un giuramento di alleanza che questi si rifiutò
di fare, ritenendo il nuovo califfo un usurpatore che, con il suo
comportamento, corrompeva i valori dell’islam. Temendo rappresaglie, Hussein,
con la famiglia e alcune decine di compagni a lui fedeli, si mosse dalla Mecca
verso Kufa, città a Sud dell’odiea Baghdad, i cui abitanti gli avevano
promesso appoggio.

Giunta in prossimità di Karbala, località sulle rive dell’Eufrate,
ai primi di muharram dell’anno 58 dall’Egira, la carovana fu circondata da un numeroso
esercito mandato da Yazid per costringere Hussein e i suoi a giurargli fedeltà.
Sebbene privati di acqua e viveri, tormentati dalla sete che non tardò a farsi
sentire nel caldo soffocante del deserto, gli assediati non cedettero alle
richieste e il decimo giorno di muharram la carovana fu finalmente attaccata. Hussein, due dei suoi figli,
di cui uno di appena sei mesi, il fratello Abbas e tutti gli uomini che erano
con lui furono uccisi. Le donne e uno dei figli, che, gravemente malato, era
rimasto nella tenda e non si era presentato al combattimento, furono fatti
prigionieri e portati a Damasco.

Poiché l’uccisione di Hussein e dei suoi avvenne il decimo giorno
di muharram, l’intero episodio è ricordato col nome di Ashura («decimo», in
arabo).

La frattura: sciiti e sunniti

L’uccisione di Hussein approfondì la frattura all’interno
dell’islam tra coloro che si riferivano all’autorità spirituale degli imam e
coloro che riconoscevano nei califfi le proprie guide. Questa frattura non si è
più ricomposta e si perpetua fino ai nostri giorni nella divisione tra gli
sciiti (circa il 10% dei musulmani) e i sunniti. Questi ultimi considerano i
primi eretici e, quindi, meritevoli di morte, alla stregua degli infedeli. I più
intransigenti tra i sunniti ritengono che l’uccisione di uno sciita sia azione
meritoria, che aiuta a guadagnare il paradiso. Le cronache odiee, purtroppo,
registrano numerosi attacchi terroristici a comunità e moschee sciite, con
particolare frequenza in concomitanza con ricorrenze religiose nelle quali i
fedeli affollano i luoghi di culto. Ashura è una di queste e anche lo scorso
novembre le comunità sciite nel Sud dell’Iraq e in Pakistan hanno subito
attacchi sanguinosi.

Gli sciiti sono rimasti sempre una branca minoritaria dell’islam
assoggettata alla maggioranza sunnita, tranne che in Iran, ma anche in quest’ultimo
paese solo a partire dall’insediamento della dinastia safavide nel XVI secolo.

All’interno dell’islam sciita si sono originati diversi gruppi che
si differenziano principalmente per il numero di santi imam venerati. Gli
zaiditi si fermano ai primi cinque, gli ismailiti ne riconoscono sette e gli
sciiti duodecimani, i più numerosi, dodici. A differenza dei sunniti per i
quali il termine «imam» (come è comunemente conosciuto anche nel nostro paese)
indica colui che dirige la preghiera rituale in comune, nello sciismo imam
designa i diretti discendenti di Ali, e, quindi, del Profeta. La successione
degli imam sciiti si è interrotta nell’874 con la scomparsa del dodicesimo,
che, secondo la tradizione, non sarebbe mai morto, e si sarebbe «nascosto»,
occultato agli occhi degli uomini, per tornare alla fine dei tempi in compagnia
di Gesù e Maometto. Egli, tuttavia, non farebbe mai mancare la propria guida
spirituale a coloro che lo cercano con cuore sincero, gli unici ai quali
continuerebbe a manifestarsi.

Non potendo occupare cariche politiche, il ruolo degli imam era
rimasto eminentemente religioso. La loro missione era di guidare i credenti
sulla via della fede, interpretando correttamente le parole del Corano. Come i
primi tre, nessuno di loro morì di morte naturale, tranne il dodicesimo, come
si è detto. Morirono in prigionia, avvelenati, uccisi da emissari dei califfi.
Per gli sciiti furono tutti martiri che pagarono col sangue la propria fedeltà
al Corano e alla missione loro affidata: conservare intatta nel popolo la fede
ricevuta per tramite del Profeta. Si può dire che lo sciismo si fonda sul
sangue dei martiri, tra i quali Ali e Hussein sono senz’altro i più venerati.

La figura di Hussein

Il martirio di Hussein è diventato una storia esemplare che, da più
di mille e trecento anni, non solo è ricordata, ma è rivissuta dai fedeli. Il
racconto di Ashura parla di una straziante agonia e di una morte affrontate per
non tradire la verità della fede e per resistere al tentativo di asservire
l’islam a un interesse politico. I testi sciiti affermano che Hussein
conoscesse in anticipo quale sarebbe stata la propria sorte a Karbala, e che le
sia andato consapevolmente incontro. Venire a patti con Yazid, un despota
crudele che era stato indegnamente posto a capo della comunità islamica,
avrebbe voluto dire approvae il comportamento e, quindi, creare scandalo e
disorientamento tra i fedeli. Prima di morire Hussein avrebbe dichiarato: «Preferisco
che il mio corpo sia fatto a pezzi, purché la fede sia salva». Gli sciiti
sottolineano la natura tutta morale della sua opposizione a Yazid. Egli non
volle muovergli guerra con le armi, ma vincere il male resistendogli,
conservando la propria libertà interiore. Volle, così, indicare alle
generazioni successive quale fosse la strada da percorrere. Per questo Hussein è
diventato l’esempio del santo che offre la propria vita perché, attraverso il
sacrificio, gli uomini possano capire quale sia la vera fede e, quindi,
arrivare alla salvezza. A un cristiano la storia della sua morte riporta alla
mente la passione di Cristo e il suo sacrificio redentore.

Migliaia di versi sono stati scritti per ricordare l’eccidio di
Karbala. Nel tempo intorno al fatto storico sono fioriti racconti che avevano
lo scopo di suscitare negli ascoltatori commozione e rendere più intenso il
cordoglio. Le diverse comunità sciite hanno trovato modi diversi di commemorare
l’evento, ma ciò che accomuna tutti i credenti è che, nel mese di muharram, il loro strazio si rinnova, come se
si trattasse di fatti appena avvenuti. Lacrime di vero dolore scorrono sui loro
volti quando sentono narrare, non importa se per la centesima volta, la storia
del martirio; s’immedesimano a tal punto con le parole del racconto che la
distanza nel tempo si annulla e tutto riaccade davanti ai loro occhi.

La rappresentazione del martirio

Uno dei modi per far memoria dei tragici fatti di Karbala è la
sacra rappresentazione, proprio come nelle nostrane messe in scena della
passione di Cristo. Nelle piazze e nelle strade attori – improvvisati o
professionisti – fanno rivivere i diversi episodi che la tradizione associa
all’evento. Le storie sono tante e sono incentrate sui vari personaggi storici:
oltre a Hussein, i figli, il fratello Abbas, la sorella Zeinab, con le altre
donne testimoni impotenti della battaglia. I cattivi sono Moawiya, Yazid, con i
suoi ministri e comandanti, ma il cattivo che suscita maggiore ripugnanza nei
fedeli è Shemr, colui che avrebbe finito Hussein, decapitandolo. L’attore che
impersona questo personaggio deve essere pronto al peggio, perché accade alcune
volte che qualcuno tra il pubblico si lanci su di lui per impedirgli di
uccidere Hussein. Ogni anno si sente di uomini che, interpretando Shemr,
vengono presi a sassate, picchiati, finiscono all’ospedale. Abbiamo assistito a
tali rappresentazioni a Teheran, e in più occasioni abbiamo sentito gli
spettatori gemere, o addirittura singhiozzare, nei momenti di maggiore tensione
del racconto. Siamo stati indotti a distogliere gli occhi dalla scena per
osservare volti addolorati, rigati dalle lacrime. Durante i 10 giorni di lutto
gli uomini non si radono, c’è chi spalma di fango la propria automobile, o
scrive sulla carrozzeria frasi inneggianti ai santi imam. L’unica forma di
musica che non è bandita nei luoghi pubblici, nei negozi, o che giunge dai
finestrini abbassati delle auto, sono le litanie di Ashura, cantate da una voce
maschile e accompagnate dal suono ritmato di mani che battono i petti.

Quella del battersi il petto è la forma più comune per esprimere
la partecipazione al lutto. Uomini e donne, separatamente, si ritrovano in
luoghi prestabiliti e praticano questa forma di cordoglio collettivo, ma solo
quella degli uomini assume visibilità. Gli uomini, che indossano abiti neri, si
riuniscono in un salone, o sfilano per le vie, battendo all’unisono i palmi
delle mani contro i propri petti, con ritmi e movimenti che possono variare da
luogo a luogo, ma che sono rigorosamente sincronizzati, in una specie di danza.
Queste manifestazioni di dolore assumono a volte anche forme estreme. Alcuni si
battono a sangue, lacerandosi la pelle a forza di colpi, o fustigandosi con
pesanti catene. A mezzogiorno del decimo giorno, l’ora in cui Hussein fu
ucciso, c’è chi si procura ferite sul capo con armi da taglio, nel tentativo di
rendersi il più possibile simile a lui e in una sorta di anacronistico bisogno
di punirsi per non averlo difeso a Karbala. Tali pratiche sono ora vietate in
Iran, ma continuano clandestinamente. Per tutto il periodo di lutto, e in
particolar modo nei due giorni conclusivi, è molto diffusa l’usanza di
preparare cibo e bevande da distribuire alla gente: poveri, vicini di casa, o
semplici passanti. Lo si fa per impetrare una grazia, o in segno di
riconoscenza per una grazia ricevuta. I più organizzati preparano un vero e
proprio pasto: riso e stufato di carne, offerto in contenitori monouso, facili
da portar via.

«Morte allo scià»

Hussein riteneva proprio dovere di musulmano impedire che un
governante iniquo prevalesse sulla comunità dei fedeli, e tra gli sciiti il suo
martirio è assurto a simbolo della lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione.
Riportiamo un discorso da lui pronunciato in opposizione a Yazid: «Al credente
che non interviene con parole o azioni quando vede un governante tirannico
violare le leggi di Allah e del suo Messaggero e opprimere il popolo, il
Profeta dell’islam assicura che Dio riserverà il meritato castigo. Non vedete
come tutto è corrotto, non vedete che la verità è tradita e la menzogna non ha
limiti? Per me la morte è solo la via per il martirio. Vivere tra i peccatori
sarebbe tormento e pena».

L’ayatollah Ruhollah Khomeini fece leva sul potenziale
rivoluzionario di queste parole quando il 3 giugno 1963 trasformò le
celebrazioni di Ashura in un’imponente manifestazione anti-scià. Nel sermone
pronunciato in quel giorno per ricordare la tragedia di Karbala egli equiparò
lo scià a Yazid, il nemico dell’islam, cui il popolo-Hussein avrebbe chiesto
conto del suo operato iniquo. Cosicché quando nelle piazze si cominciò a
gridare «morte a Yazid», tutti capivano quale fosse il vero significato di
quelle parole. Il giorno dopo Khomeini fu arrestato, ma l’effetto del
sentimento che era riuscito a destare nel popolo non tardò a farsi sentire:
Teheran e altre città entrarono in rivolta e lo scià fu costretto a intervenire
con l’esercito per ristabilire l’ordine. Il bilancio fu pesantissimo.

«Ogni giorno è Ashura, ogni terra è Karbala». È una frase rimasta
famosa, che intende indicare il valore sempre attuale del martirio di Hussein:
un vero musulmano deve essere pronto in ogni momento e circostanza a
sacrificare la propria vita per preservare la purezza della fede e resistere al
male. Khomeini e il clero sciita seppero rendere questo dovere religioso presente alla coscienza di ogni buon credente e
associarlo alla lotta contro il regime dello scià. L’operazione riuscì anche
grazie al sociologo Ali Shariati, che in quegli stessi anni predicava la forza
rivoluzionaria del martirio. «Muharram è il trionfo del sangue sulla spada»,
diceva Khomeini, «i martiri muovono la storia», faceva eco Shariati: non
importa se si è in pochi e disarmati contro un tiranno potente e crudele. Basta
non avere paura di morire per una causa giusta e, alla fine, la vittoria
arriverà.

Si arrivò, difatti, al 10 e 11 dicembre del
1978, il nono e decimo giorno di muharram, giorni
in cui milioni di persone sfilarono per le strade del paese battendosi e
gridando «morte allo scià». Erano disarmati, è vero, ma non erano più il
piccolo resto di Karbala. Erano in tanti, e pronti a morire. Il 16 gennaio del
1979 lo scià abbandonò l’Iran.

L’astuzia di Khomeini

La storia «politica» di Ashura in Iran, però, non finisce qui. La
rivoluzione aveva trionfato, ma perché essa fosse anche «islamica» Khomeini
dovette affrontare il dissenso interno di chi non vi aveva preso parte, e una
difficile guerra contro l’Iraq, che aveva improvvisamente invaso il Sud del
paese. Ashura ora gli serviva per consolidare la vittoria del suo islam, e
tutti quelli che gli si opposero divennero tanti Yazid: gli alleati di un
tempo, le potenze occidentali e, naturalmente, Saddam Hussein, che, indegno di
portare quel nome (tra l’altro assai scomodo da scandire quando se ne invocava
la morte nelle processioni di muharram), era stato prontamente ribattezzato «Saddam Yazid, l’infedele».
Khomeini aveva già sperimentato quale formidabile strumento di aggregazione
fossero le commemorazioni di Ashura, quando la gente si riuniva a piangere i
martiri di Karbala. Attraverso quelle adunanze si poteva mobilitare un intero
popolo intorno a un obiettivo: il male da combattere erano, ora, le forze che
intendevano distruggere il clero e la repubblica islamica. Il popolo doveva
essere incitato a versar lacrime sul sangue di Hussein, perché «da quei pianti
collettivi escono i giovani che vanno volontari al fronte in cerca di martirio,
e che si sentono infelici se non lo raggiungono… escono le madri che spingono i
figli ad andare in guerra e che, se poi questi non tornassero, desidererebbero
avee altri da mandare, o manderebbero quelli che hanno». Per Khomeini la
lezione di Karbala era chiara: in battaglia i numeri non contano, né si deve
temere il martirio quando si è dalla parte giusta. Anche se si avesse tutto il
mondo contro, la verità alla fine trionferà. Yazid era tutto il resto del
mondo, Hussein l’Iran di Khomeini.

Questo messaggio, diffuso da un clero opportunamente istruito, fu
così ben recepito dagli iraniani che, nonostante il grosso svantaggio iniziale
e l’isolamento internazionale, questi riuscirono in meno di due anni a
ricacciare l’esercito di Saddam oltre i confini. Ciò ebbe, com’è noto, un
grosso prezzo in vite umane. A questo punto, non sazio di vittoria, Khomeini
chiese al suo popolo di continuare a combattere e lo lanciò alla conquista
delle terre irachene, incitandolo ad arrivare fino a Karbala, fino a Israele… E
la guerra durò altri sei anni.

Ashura si ritorce contro la Guida Suprema?

E arriviamo alla più recente Ashura del 2009.
Anno in cui la controversa vittoria di Ahmadinejad alle elezioni presidenziali
di giugno aveva dato origine all’interno della società civile a un ampio
movimento di protesta, denominato Movimento Verde, che era sceso in piazza in
una serie di grandi dimostrazioni duramente represse dalle autorità. I leader
del movimento non si lasciarono sfuggire l’occasione di sfruttare il forte
significato simbolico di Ashura. In quel giorno, il 27 dicembre, le persone che
avevano accolto il loro appello marciarono scandendo slogan mai uditi prima: «Morte
a Khamenei», «morte al dittatore». Si era verificata un’inaspettata inversione
di ruoli: al posto del califfo Yazid c’èra la massima autorità dell’islam
sciita in Iran, la Guida Suprema della rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei,
succeduto nel frattemo a Khomeini: il popolo-Hussein sfilava disarmato contro
di lui e il regime che rappresentava.

Quel giorno a Teheran e in altre città quindici vittime restarono
sulle strade dell’Iran-Karbala.

Maria Chiara Parenzo*

* Maria Chiara Parenzo, nome di fantasia,
vive tra l’Iran e l’Italia.

Archivio MC: Angela Lano, L’Ayatollah e
il presidente, Dossier, agosto-settembre 2013
.

            L’accordo sul nucleare              


Una vittoria di tutti

Quando l’attuale presidente dell’Iran, Hassan Rohani, è
stato eletto, il 14 giugno 2013, la gente si è messa a ballare per le strade.
Esprimeva, così, sia un senso di liberazione per essersi messi alle spalle gli
otto cupi anni della presidenza di Mahmud Ahmadinejad, sia la speranza che il
neoeletto presidente avrebbe portato l’Iran fuori dall’isolamento cui l’aveva
relegato la politica del suo predecessore. Tali, infatti, erano state le
promesse elettorali. Da anni una delle maggiori preoccupazioni degli iraniani
era il continuo peggioramento della situazione economica e uno dei mezzi per
invertire questa tendenza – lo sapevano tutti – era riaprire un dialogo con
l’Occidente sulla spinosa questione del nucleare.

Dal 2002, anno in cui era venuta alla luce l’esistenza di un
programma nucleare segreto, l’Iran è per l’Occidente un sorvegliato speciale.
Sebbene Teheran ne abbia sempre negato i fini militari, le sue reticenze nel
far conoscere gli effettivi progressi e l’entità del programma nucleare, le
reciproche diffidenze, alimentate da decenni d’inimicizia, hanno portato la
comunità internazionale a formulare un verdetto di presunta colpevolezza. Per
convincere la Repubblica Islamica a sospendere il processo di arricchimento
dell’uranio, tra il 2006 e il 2012 sono state adottate contro di essa diverse
misure sanzionatorie. Le sanzioni si sono inasprite dal 2010, causando in questi
ultimi anni una drammatica contrazione dell’economia. 

L’intenzione espressa da Rohani di cercare un dialogo con
l’Occidente ha trovato da subito conferma nella nomina a ministro degli esteri
di Mohammad Javad Zarif, formatosi nelle università americane, ambasciatore
dell’Iran alle Nazioni Unite dal 2002 al 2007 e abile negoziatore. Dallo scorso
agosto, data d’insediamento del nuovo governo, gli avvenimenti si sono
succeduti velocemente. A settembre c’è stata la storica telefonata tra Obama e
Rohani e a ottobre si sono aperti a Ginevra i negoziati tra l’Iran e i 5+1, i
paesi membri del Consiglio di Sicurezza, più la Germania. L’accordo è arrivato
il 24 novembre. Esso prevede la sospensione del programma nucleare iraniano per
sei mesi a fronte di un parziale alleggerimento delle sanzioni economiche
contro Teheran. Più che per la sua portata, come si vede alquanto circoscritta,
l’accordo è importante perché, come si auspica, prepara il terreno per più
consistenti trattative future. In Iran la riapertura del negoziato ha già avuto
ripercussioni positive sull’economia, con un abbassamento dell’inflazione e una
ripresa degli investimenti nel paese.

Ma anche la comunità internazionale ha tutto da guadagnare
dall’avvio di un vero processo di distensione. Solo i tradizionali alleati di
Washington in Medio Oriente: Israele, l’Arabia Saudita e gli altri stati arabi
del Golfo Persico, guardano con apprensione al fatto che Iran e Stati Uniti
abbiano ricominciato a parlarsi dopo anni di gelo, perché ciò potrebbe essere
foriero di un rimescolamento di equilibri nella regione.

M.C.P.
 

Maria Chiara Parenzo




Pillole «Allamano» 2: Elevatevi sopra le idee ristrette dell’ambiente


Stacco dalla parete e riprendo in mano, per sfogliarlo con calma, il calendario che quest’anno la rivista MC ha dedicato al beato Allamano. Riguardo le immagini del volto del Fondatore, vecchie fotografie che i moderni strumenti della tecnica hanno saputo ripulire dalle inevitabili tracce del tempo. Vi è ritratto Giuseppe Allamano da giovane, coi chierici, con i primi missionari partenti per l’Africa, poi uomo maturo e, infine, anziano. I dodici mesi dell’anno ripercorrono la storia di una vita sacerdotale. Io la contemplo filtrandola attraverso i suoi sguardi, tentando di mettere a fuoco il volto buono e paterno che tante testimonianze di chi l’ha conosciuto riportano con insistente piacere.

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A ben guardare, però, scorgo nelle immagini anche il piglio risoluto, deciso, di colui che è buono con sincerità, non per debolezza o convenienza. Il volto del Beato Allamano non ha nulla di debole e comunica serenità e determinazione. Non so se altri lettori siano stati attratti, sfogliando il calendario, da questa caratteristica del suo viso. Forse sono io che ci ricamo sopra eccessivamente, lasciandomi guidare dalla mia sensibilità. Può darsi, non lo posso escludere. Mi sembra in ogni caso che lo sguardo del fondatore lasci intravedere qualcosa di lui, del suo modo di essere e di intendere la vita. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, recita un antico adagio.

La pillola di questo mese non fa riferimento a una frase di Giuseppe Allamano, semmai a un atteggiamento da lui tenuto nei confronti della vita e della realtà nelle quali si è trovato a operare. A una certa fragilità fisica, cosa che gli impedì a suo tempo di essere missionario sul campo, e alle difficoltà di ogni tipo incontrate nel suo lungo ministero sacerdotale, l’Allamano opponeva una volontà di ferro, alimentata da una fiducia incrollabile nella provvidenza divina e nella presenza consolatrice e matea della Madonna. I suoi occhi trasmettono tenerezza, ma allo stesso tempo acutezza e determinazione. Se le fotografie che lo ritraggono, nel loro complesso ne collocano la figura in un tempo e in un contesto preciso, lo sguardo sembra bucare le immagini e proiettarsi al di là di esse, verso spazi che trascendono gli ambienti del torinese da cui, salvo per pochi ed eccezionali viaggi, l’Allamano non si è mai mosso. I suoi sono occhi che viaggiano, perché seguono le rotte di un cuore costantemente orientato verso luoghi da consolare, lungo tragitti mai scontati. Giuseppe Allamano ha lo sguardo profondo, vive la sua fede e il suo ministero in un’obbedienza matura e responsabile, rispettando la tradizione e l’autorità in un modo dinamico e creativo, senza mai sottomettersi alla legge del «si è sempre fatto così». Sono tantissimi gli episodi in cui prende posizione e con «delicata fermezza» va avanti per la sua strada, pronto, se lo vede necessario, a dare uno scossone allo status quo. Oggi, questo sguardo si rivolge a noi, chiamati a vivere la missione in Europa. Mi sembra di scorgere la presenza del volto dell’Allamano mentre leggo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, celebrata il 19 gennaio scorso. «La Chiesa, rispondendo al mandato di Cristo “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, è chiamata ad essere il Popolo di Dio che abbraccia tutti i popoli, e porta a tutti i popoli l’Annuncio del Vangelo, poiché nel volto di ogni persona è impresso il volto di Cristo». Che bella immagine ampia e inclusiva della missione. Missione che oggi ci spinge non soltanto ad andare, ma anche a ricevere e a essere accoglienti. Il volto di Giuseppe Allamano riflette il volto di Cristo e il suo sguardo tradisce il desiderio di farlo emergere con forza dal volto di chi incontra, vicino o lontano… anche del migrante o del rifugiato. Mi sembra di poter dire che papa Francesco sarebbe piaciuto al nostro fondatore… e viceversa. Se si fossero incontrati si sarebbero probabilmente scambiati due battute in piemontese, giusto per fare conoscenza, e poi avrebbero cercato di capire come far brillare il volto di Cristo impresso in ogni persona, partendo dalla realtà concreta in cui essa vive, ma senza lasciarsi imbrigliare. I primi mesi del pontificato di Francesco sono una testimonianza viva della bontà della pillola allamaniana di questo mese, prescritta con continuità in quasi tutti i suoi interventi, nel tentativo di plasmare una cristianità matura e responsabile, un popolo di Dio che cammina in uscita. Scrive papa Francesco nella sua recente esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano […]. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Francesco, EG n. 24). Prendere l’iniziativa senza paura può voler dire, a volte, scrollarsi di dosso l’opinione dominante. La notizia, per essere tale, è novità, e la buona notizia non sfugge a questa regola. Ecco perché, rivolgendosi ai giovani universitari la prima domenica di Avvento, papa Francesco ha ricordato loro l’impegno di essere testimoni coraggiosi di una diversa narrativa del mondo: «Se non vi lascerete condizionare dall’opinione dominante, ma rimarrete fedeli ai principi etici e religiosi cristiani, troverete il coraggio di andare anche contro corrente». Concetto chiaro, questo, anche nel pensiero spirituale di Giuseppe Allamano. L’idea dominante diventa un’idea ristretta, anche quando si certifica come figlia della globalizzazione. È il grande paradosso in cui l’umanità si dibatte e che trova i suoi accenti più acuti nella nostra cara Europa. In un mondo in cui sembra valere tutto e il contrario di tutto, in cui a livello di valori si sopravvive bene grazie al più smaccato relativismo, in realtà campa bene solo e soltanto chi si adegua a una cultura che privilegia ciò che è esteriore, facilmente e immediatamente conseguibile, veloce, apparente, provvisorio. Le logiche che, al contrario, propongono narrative differenti, impostate sul locale, sul partecipativo, sul lento ma sicuro procedere, sulla libertà di poter scegliere, sul discernimento comunitario vengono ostacolate, cassate, a volte irrise e perseguitate. La missione è ciò che aiuta il cristiano ad alzare la testa, a elevarsi sopra le mentalità ristrette e a esprimere qualcosa di inedito. La missione nasce dalla novità del Vangelo e lo porta con sé per costruire un mondo nuovo, migliore. La missione non sopporta idee dominanti perché vive sotto il dominio dello Spirito di Dio. La missione offre volti nuovi alla nostra teologia, che cessa di ristagnare quando si concede al confronto con l’altro. La missione rinnova e rafforza la fede, attraverso il dono della propria esperienza di Cristo a chi ancora non ne ha mai sentito parlare o l’ha completamente smarrito dai propri orizzonti. La missione vivifica la nostra spiritualità, perché la mette a confronto con la realtà, per non farla viaggiare a quote siderali mentre la gente cammina a lato delle strade. Quale missione, allora, in questa Europa che cambia? Quale progetto missionario per orientare la nostra azione? Quale pista da percorrere ci attende? Il dove, il come e il quando lo diranno il contesto e il discernimento che ciascuno farà alla luce della Parola di Dio e del proprio carisma. Questo discernimento sfida particolarmente proprio noi missionari, chiamati a trovare un modo significativo e attuale di essere autentici religiosi e testimoni di evangelizzazione. Ci troviamo di fronte a domande scomode che ci obbligano a una riflessione che potrà forse chiederci precise scelte di vita. Quali sono le idee ristrette che oggi condizionano i nostri ambienti e costringono noi, le nostre comunità, le nostre famiglie a vivere «imbrigliati», incapaci di essere persone «in uscita»? Quali sono queste idee ristrette che impediscono di incontrarsi con gli altri con un messaggio vero, che dica qualcosa, che abbia un minimo di senso, che susciti qualche domanda e, magari, apra uno spiraglio verso il futuro e la salvezza promessa? Cosa dobbiamo fare per elevarci al di sopra di esse, per propoe di alternative e liberanti? L’uomo che riuscì a fondare due Istituti missionari, pur restando rettore del Santuario a lui affidato e senza mai mettere piede in missione, avrebbe senz’altro qualcosa da dire. Merita ancora ritornare al calendario e provare a vedere se riusciamo a farci ispirare ancora un po’ dallo sguardo di Giuseppe Allamano. Se riuscissimo poi a vedere dove punta, noteremmo come quegli occhi dimorino a lungo sul quadro della Madonna Consolata e sul tabernacolo. Non ci conviene precorrere i tempi; queste sono altre pillole che Giuseppe Allamano ci consiglierà di prendere e, ben lo sappiamo, ogni cura deve rispettare la giusta posologia.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Nel nome della libertà

In povertà e in ricchezza / 2
«Lo chiedono i mercati», «Non ci sono soldi», «Lo stato sociale
è un lusso», e poi – per chiudere la discussione – «La questione è molto più
complessa». In un’epoca dominata dall’iperinformazione, l’economia vive di
bugie vendute come dogmi. I risultati sono drammatici e vengono pagati con l’erosione
quotidiana della democrazia. Esistono alternative a un sistema sempre più
ingiusto? Una cosa è certa: così non si può proseguire. «L’infelicità degli
altri ci riguarda», anche perché – ragionando egoisticamente – «il tuo
malessere minaccia la mia tranquillità».

Anno 2001: al culmine della
crisi argentina, Buenos Aires è percorsa giorno e notte da 40mila cartoneros,
che recuperano cartoni e qualsiasi rifiuto utile alla loro sopravvivenza.

Anno 2014: l’Italia, nona potenza
mondiale1, vive il settimo anno di una crisi che pare senza fine. Di questi
tempi il fatto che la grande maggioranza degli italiani continui a non
praticare la raccolta differenziata2 diventa una fortuna. In tal modo, tra l’immondizia, si trovano più
rifiuti da recuperare: cibo, materiali riciclabili (plastica, alluminio, legno,
carta, vetro), cose riutilizzabili (vestiti, oggetti, giochi).

A tutte le ore del giorno e della
notte, donne e uomini setacciano con cura i cassonetti delle nostre città.
Difficile non accorgersi del loro numero in aumento anno dopo anno. Le persone
più organizzate girano con attrezzi utili allo scopo: un uncino di ferro per
aprire i sacchetti o agganciare qualcosa, una torcia per vedere meglio
all’interno dei cassonetti, un carrellino con le rotelle per trasportare ciò
che viene recuperato, oppure una vecchia bicicletta con un cestino capiente.

Un tempo la pratica era esclusiva di
rom e stranieri, oggi non è più così: ci sono anche gli italiani, nella maggior
parte dei casi persone anziane, quasi sempre sole. D’altra parte le statistiche
fanno rabbrividire. Nel 2012 la povertà relativa ha riguardato il 15,8% della
popolazione italiana (pari a 9 milioni 563 mila persone), quella assoluta l’8%
(4 milioni 814 mila persone)3. La disoccupazione ha superato il 12%, quella giovanile
addirittura il 40%.

«Un italiano su sei – scrive Sbilanciamoci!
nel suo rapporto 2014 – non trova lavoro e, tra chi lavora, uno su quattro ha
un lavoro precario. […] Con il degrado sociale crescono le spinte razziste e
xenofobe, aumentano i reati, si allarga l’economia criminale»4. La situazione italiana è ormai
insostenibile e potenzialmente esplosiva5. Anche per l’assenza di uno
strumento d’emergenza quale il «reddito minimo garantito» e la presenza di «problemi
genetici» (evasione fiscale, economia criminale e corruzione; vedere box),
molto gravi e apparentemente insolubili.

Le tasse (non progressive) e
la fuga dei capitali

L’economia – la «scienza triste»6 – ci spiega che le crisi sono
cicliche. Nessuna obiezione al riguardo. Tuttavia, essa evade (almeno) tre
domande: perché a pagare sono sempre gli stessi soggetti? Perché, nelle crisi,
a salvarsi o spesso a guadagnarci sono sempre i soliti? Perché, in presenza di
una crescita della ricchezza complessiva, le diseguaglianze crescono, nel Nord
come nel Sud del mondo? Le contraddizioni del sistema economico vigente sono
diventate talmente palesi (e pericolose) che hanno iniziato ad ammetterlo
addirittura le organizzazioni economiche inteazionali (come l’Fmi7) e i media allineati con l’ortodossia
della globalizzazione neoliberista.

«È tristemente facile – ha scritto ad
esempio lo statunitense Time – imbattersi in statistiche secondo cui i
ricchi stanno diventando sempre più ricchi mentre la classe media e i poveri
stanno a guardare»8. E l’inglese The Economist: «Ci hanno pensato le
privatizzazioni (ma non erano la panacea di tutti i mali?, ndr) a
indebolire ulteriormente la ricchezza dei lavoratori».

In questo desolante panorama c’è
dunque qualcosa di buono: finalmente anche in alto si è iniziato a mettere in
discussione il sistema. Una volta a farlo erano soltanto i movimenti
altermondialisti9, spesso demonizzati.

Le libertà economiche «divinizzate»
dalla globalizzazione neoliberista stanno riducendo o compromettendo i diritti
della grande maggioranza della popolazione mondiale: dal diritto a un lavoro
dignitoso ai diritti sociali (sanità, educazione, previdenza) fino ai diritti
ambientali delle generazioni future.

«Nel nome della libertà – ha scritto
Ronald Dore della London School of Economics -, non vi è solo più
diseguaglianza, ma anche una maggiore tolleranza delle diseguaglianze»10. Secondo Joseph Stiglitz, la stessa
democrazia è in pericolo, perché i governi non sono più liberi di usare il
fisco, strumento prioritario per ridurre le diseguaglianze. Scrive il premio
Nobel per l’economia: «Quella che viene chiamata competizione fiscale – la gara
tra i diversi sistemi politici per la minore imposizione fiscale – limita
infatti le possibilità di una tassazione progressiva. Le imprese minacciano di
andarsene se le tasse sono troppo alte. E lo stesso fanno gli individui ricchi»11.

Per inquadrare la situazione, è
sufficiente un dato sui movimenti di capitali «non produttivi», una vergogna
mondiale cui il sistema non vuole porre rimedio. Secondo Tax Justice Network,
almeno 21 mila miliardi di dollari sarebbero depositati in paradisi fiscali, un
valore quasi pari al Pil di Stati Uniti e Giappone12.

Concentrazione versus
distribuzione

Dagli Stati Uniti alla Cina, il mondo
è stato unificato sotto un’unica filosofia economica, quella della
globalizzazione neoliberista. Tuttavia, a dispetto di questo denominatore
comune, i paesi – come vedremo – non sono tutti eguali.

La disparità nella distribuzione dei
redditi (e della ricchezza) è misurabile con l’«indice Gini»: si tratta di un
indice di concentrazione il cui valore può variare tra zero e uno (o tra 0 e
100 se si ragiona in termini di percentuale). Valori bassi indicano una
distribuzione abbastanza omogenea, valori alti una distribuzione più disuguale,
con il valore 1 (o 100) che corrisponderebbe alla concentrazione di tutto il
reddito del paese nelle mani di una sola persona.

Nella classifica dell’indice Gini
(calcolato negli anni tra il 2004 e il 2011), tra i paesi con la peggiore
distribuzione dei redditi troviamo la gran parte dei paesi africani, tre paesi
latinoamericani (Haiti con un valore pari a 59,2, la Colombia con 58,5 e il
Guatemala con 55,1), e ben tre grandi potenze mondiali (la Cina con 47,4, gli
Stati Uniti – in progressivo peggioramento13 – con 45, e la Gran Bretagna con 40,
anch’essa in peggioramento e ultima tra i paesi europei). Alcuni paesi
latinoamericani, conosciuti per le loro diseguaglianze, negli ultimi anni sono
migliorati, pur rimanendo molto diseguali: il Brasile (passato da 55,3 a 51,9),
la Bolivia (da 57,9 a 53), il Messico (da 53,1 a 48,3) e soprattutto il
Venezuela (da 49,5 a 39). Infine, i paesi del mondo con la migliore
distribuzione sono tutti europei: la Svezia (23), la Norvegia (25), la Finlandia
(26,8), l’Austria (26,3) e la Germania (27).

Quanto
all’Italia – con un indice di 34 (era 27) – è al secondo posto nell’Unione
europea per livello di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi,
preceduta soltanto dalla Gran Bretagna14.

Si tratta di numeri soggetti a
interpretazioni e contestazioni, ma sono significativi e disegnano un mondo in
linea con la realtà quotidiana15.

I meccanismi sacralizzati del
sistema

Tra le tante analisi sulla situazione economica
mondiale, c’è quella di papa Francesco. Si trova nella Evangelii Gaudium,
l’esortazione apostolica uscita nel novembre 2013. «Non è compito del papa –
scrive Bergoglio – offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà
contemporanea», ma in realtà, l’analisi del pontefice è tanto chiara nelle
parole quanto esplicita nelle critiche al sistema.

«La maggior parte degli uomini e delle donne del nostro
tempo – si legge nel capitolo secondo – vivono una quotidiana precarietà, con
conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si
impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi
ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di
rispetto e la violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare
per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità».

Le
parole del papa nascono (anche) dall’esperienza diretta. Durante la devastante
crisi argentina il cardinale Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires e in
quella veste aveva avuto parole di fuoco contro il sistema, parlando di un «vero
terrorismo economico finanziario»16.

«Oggi
– prosegue la Evangelii Gaudium – tutto entra nel gioco della
competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più
debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si
vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di
uscita». «In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta
favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero
mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale
nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime
una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere
economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel
frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare». Parole tanto forti da
provocare la reazione (risentita) dell’Economist, che accusa il papa di
riflettere una posizione ideologica di sinistra17.

«Mentre i
guadagni di pochi crescono esponenzialmente – si legge ancora nell’esortazione
apostolica al numero 56 -, quelli della maggioranza si collocano sempre più
distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da
ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione
finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli stati, incaricati di
vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia
invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le
sue leggi e le sue regole».

Sono affermazioni sorprendenti per un
papa? Non proprio. Già nella Caritas in Veritate, l’enciclica del 2009
di papa Benedetto XVI, si affrontavano con chiarezza i temi imposti
dall’economia globalizzata: lo sviluppo, le disparità crescenti, la precarietà,
i diritti dei lavoratori18.

Nel capitolo secondo si legge, ad
esempio: «L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene
comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà».

Si parla dei «nuovi poveri», della
riduzione dell’intervento redistributivo dello stato e dei sindacati: «Cresce
la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei paesi
ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono nuove povertà. […]
le politiche di bilancio, con i tagli alla spesa sociale, spesso anche promossi
dalle istituzioni finanziarie inteazionali, possono lasciare i cittadini
impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi; tale impotenza è accresciuta dalla
mancanza di protezione efficace da parte delle associazioni dei lavoratori».

Ancora più forte – siamo nell’ambito
di un’enciclica papale – risulta essere l’affermazione successiva: «L’insieme
dei cambiamenti sociali ed economici fa sì che le organizzazioni sindacali
sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il loro compito di rappresentanza
degli interessi dei lavoratori, anche per il fatto che i governi, per ragioni
di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali o la capacità
negoziale dei sindacati stessi».

Tutto ciò si riflette negativamente
sulla condizione dei lavoratori: «Quando l’incertezza circa le condizioni di
lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione,
diviene endemica, si creano forme di instabilità psicologica, di difficoltà a
costruire propri percorsi».

Felicità privata e infelicità pubblica

In un’epoca dominata dalla filosofia
(e dalla pratica) individualista, risulta (ancora) più difficile parlare di
interessi collettivi, etica pubblica, solidarietà. Diventa così indispensabile
far leva sull’interesse personale per raggiungere (almeno) l’obiettivo minimo
della convivenza civile. «Il tuo malessere minaccia la mia
tranquillità», sintetizza Ronald Dore19.

Il professor Bruni amplia il
ragionamento. «C’è oggi – scrive – troppa ricerca di felicità private, che,
come tutti i beni privati, sono rivali e a “somma zero” (cioè la maggiore
felicità dell’uno è a scapito di quella degli altri). […] La pubblica felicità
ci dice invece qualcosa di diverso e di opposto: non si può essere felici da
soli, e l’infelicità degli altri ci riguarda, soprattutto l’infelicità civile,
come quella dovuta alla disoccupazione, che non è mai faccenda privata ma
sempre pubblica essendo il lavoro al centro del patto sociale. Se riduciamo
questa infelicità pubblica, aumentiamo la felicità di tutti e di ciascuno»20.

Un altro professore di economia
politica, Leonardo Becchetti, conclude affermando che «il progresso dell’uomo
sta nella capacità di accettare limiti alla “libertà di” quando questa rischia
di provocare danni ai propri simili»21. Limiti che la globalizzazione neoliberista – introdotta dagli
Stati Uniti negli anni Settanta – ha via via ridotto o cancellato (deregulation,
si chiama in inglese), per lasciare spazio – è stato spiegato – alla libera
espressione del mercato, foriero di maggiore benessere per tutti. I risultati
di questa scelta sono davanti agli occhi di chi vuole vedere.

Paolo Moiola
 
        Italia / Vita da Call centers                        
La linea è precaria

Manca poco alle 20,00. Sono appena tornato dal lavoro e sto
per mettermi a tavola. Squilla il telefono. Vado a rispondere di malavoglia.
Dall’altra parte risuona una voce femminile con inflessione straniera. «No,
ancora un call center», penso subito tra me e me.

– In famiglia chi si occupa della linea telefonica?, mi
chiede la donna.

– Guardi, non voglio essere antipatico, anche perché
immagino che nel suo lavoro sia costretta a sentire molti insulti senza neppure
poter replicare. Però non voglio cambiare operatore. Mi spiace.

– Mi dica soltanto – continua la telefonista -, qual è la
velocità della sua linea internet?

– Non ricordo, ma mi basta perché io non scarico film dalla
rete.

– Questa è un’offerta unica! Non può perderla, insiste la
donna.

– No, mi spiace. Mi lasci andare a mangiare, per favore. So
che questo mio rifiuto le farà perdere una provvigione, ma la proposta non mi
interessa.

– È sicuro, sicuro? La chiamo tra qualche giorno?
– Faccia lei. Adesso però la saluto. Buon lavoro.

Buon lavoro? Mi rendo conto che possa sembrare una presa in
giro. Le indagini raccontano che i dipendenti dei call centers sono in
maggioranza donne, che quasi tutti posseggono un diploma o addirittura una
laurea e che guadagnano – a seconda del contratto, quand’esso esista e sia
veritiero (di solito le ore contrattuali sono inferiori a quelle reali) – tra i
250 e i 600 euro al mese più una percentuale a seconda dei contratti che
riescono a far sottoscrivere ai clienti (le cosiddette «attivazioni»). Un
settore che occupa almeno 100mila persone, ma che è sempre a rischio «delocalizzazione».
Già oggi molti call centers italiani sono stati spostati in Albania, Romania,
Tunisia. Là i salari costano ancora meno e in più non si rischia un controllo
della Guardia di finanza. Eccola la competizione esasperata imposta dal sistema
neoliberista e soprattutto giocata sulle spalle dei più deboli.

A volte penso che potrei chiedere di essere liberato
dall’invadenza dei call centers. C’è una via facile e legale per impedire che
venga chiamato il proprio numero. Tuttavia, subito dopo questo pensiero, mi
ricredo. Se si togliessero tutti, è probabile che molte persone rimarrebbero anche
senza questa occupazione, pur precaria e malpagata. No, meglio continuare a
farsi disturbare. Forse un giorno risponderò di sì a una proposta. Magari
soltanto per sentirmi meno colpevole.

Paolo Moiola
Note
1 – Nel 2013 l’Italia è stata superata dalla Russia. Questa la classifica: Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Francia, Brasile, Gran Bretagna, Russia, Italia.
2 – Nel 2012 la percentuale di raccolta differenziata ha raggiunto la misera cifra del 39,9%. E probabilmente il dato è sovrastimato. Fonte: rapporto Ispra 2013.
3 – Fonte: dati Istat del 17 luglio 2013 (www.istat.it).
4 – «Rapporto Sbilanciamoci! Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente, 2014», a cura di Sbilanciamoci!, pag. 12. Il sito da cui scaricare il pregevole rapporto: www.sbilanciamoci.info.
5 – La cosiddetta «rivolta dei forconi» del dicembre 2013 ne è un esempio.
6 – Si attribuisce la definizione – the dismal science – allo storico inglese Thomas Carlyle (1795-1881). Da più parti sono stati sollevati dubbi anche sul fatto che l’economia sia una scienza.
7 – Nel suo report Fiscal Monitor, Taxing Times dell’ottobre 2013, il Fondo monetario internazionale (Fmi) arriva a suggerire una maggiore tassazione dei redditi più alti e dei patrimoni, una cosa impensabile fino a qualche anno fa.
8 – Si legga: Marx’s revenge: how class struggle is shaping the world (La vendetta di Marx: come la lotta di classe sta plasmando il mondo), Time, 25 marzo 2013. Riprodotto anche dal settimanale Internazionale, n. 1027 del 22 novembre 2013.
9 – Si intende la galassia dei movimenti inteazionali per i quali «un altro mondo è possibile».
10 – Ronald Dore, Il lavoro nel mondo che cambia, Il Mulino, Bologna 2005.
11 – Joseph E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino 2013, pag. 227.
12 – Il sito dell’organizzazione: www.taxjustice.net.
13 – Secondo il prof. Emmanuel Saez, dell’Università di Berkeley, nel periodo 2009-2012 l’1% degli statunitensi ha visto il proprio reddito aumentare del 31,4% contro lo 0,4% degli altri cittadini (3 settembre 2013).
14 – In Italia l’indice Gini è peggiorato sensibilmente nel corso degli anni. Era pari a 27,3 fino al 1995. Fonte: Barbara Bisazza, Distribuzione dei redditi, Italia seconda in Europa per disparità, in Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2013. Per le indagini più recenti si veda: www.gini-research.org.
15 – Per evitare possibili contestazioni (del tipo «queste sono considerazioni ideologiche»), abbiamo ricavato questi dati da una pubblicazione di un’istituzione ufficiale, appartenente cioè al sistema e non a esso alternativa: The World Factbook della Central Investigation Agency (Cia), i servizi segreti statunitensi (www.cia.gov).
16 – Si legga l’intervista concessa al mensile 30 Gioi nel 2002. E soprattutto la Lettera della Conferenza episcopale argentina del 17 novembre 2001 (Carta al pueblo de Dios), un mese prima delle rivolte di piazza e delle dimissioni del presidente Feando De La Rua.
17 – «But the same cannot be said about the sections of the document which deal with global economics. In these sections, the ideological position is clear. The passages reflect a particular school of left-wing thought, and they are full of left-wing insights and left-wing blind spots». La frase si può leggere nell’articolo Left, right, left, left del 28 novembre 2013 (www.economist.com).
18 – Caritas in Veritate, Libreria editrice vaticana, giugno 2009. Si veda, in particolare, il capitolo secondo Lo sviluppo umano nel nostro tempo (pag. 29 e seguenti). L’enciclica è facilmente reperibile in rete.
19 – Ronald Dore, Il lavoro nel mondo che cambia, Il Mulino, Bologna 2005, pag. 15.
20 – Luigino Bruni, Economia con l’anima, Emi, Bologna 2013, pagg. 146-147.
21 – Leonardo Becchetti, C’era una volta la crisi, Emi, Bologna 2013, pag. 91.

 

FONTI BIBLIOGRAFICHE
Rapporti:

• Sbilanciamoci!, Rapporto
Sbilanciamoci! Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente
/ 2014
, Roma, 10 novembre 2013.

• Censis, 47° Rapporto
sulla situazione sociale del Paese / 2013
, Roma, dicembre 2013.

Rapporti Caritas:

• Caritas italiana, Dati
e politiche sulla povertà in Italia
, Roma, 17 ottobre 2013.

• Caritas italiana, Rapporto
2012 sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia. I ripartenti. Povertà
croniche e inedite. Percorsi di risalita nella stagione della crisi
, Roma,
17 ottobre 2012.

Saggi recenti:

• Zygmunt Bauman, «La
ricchezza di pochi avvantaggia tutti». Falso!,
Laterza 2013.

• Luciano Gallino, Il
colpo di stato di banche e governi
, Einaudi 2013.

• Federico Rampini, Banchieri.
Storie dal nuovo banditismo globale
, Mondadori 2013.

• Joseph E. Stiglitz, Il
prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro
futuro
, Einaudi 2013.

• Alessandro Volpi, La
globalizzazione dalla culla alla crisi. Una nuova biografia del mercato globale
,
Altreconomia 2013.

• Maurizio Franzini, Ricchi
e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili
, Università Bocconi
Editore 2010.

• Maurizio Franzini, Disuguaglianze
inaccettabili. L’immobilità economica in Italia
, Laterza 2013.

Saggi recenti della
Emi:

• Leonardo Becchetti, C’era
una volta la crisi
, Emi, Bologna 2013.

• Luigino Bruni, Economia
con l’anima
, Emi, Bologna 2013.

Papa Francesco:

• Papa Francesco, Guarire
dalla corruzione
, Emi, Bologna 2013.

• Papa Francesco, Evangelii
Gaudium
, 6 novembre 2013 (esortazione apostolica scaricabile – in formato Pdf – dal sito www.vatican.va).

Paolo Moiola




Finanza etica: È possibile?

Papa Francesco denuncia l’economia che fa aumentare le
disuguaglianze. Il mercato che si sostituisce allo stato. Il trionfo
dell’individualismo. La crisi dovrebbe modificare il concetto di sviluppo. E la
finanza etica acquista terreno.

Non è un caso che i grandi mezzi di comunicazione
abbiano dato così poco risalto all’esortazione apostolica di Papa Francesco «Evangelii
Gaudium
». Essa contiene, infatti, una lucida denuncia del sistema economico
contemporaneo, alquanto indigesta per chi da questo sistema è blandito e
foraggiato.

Papa
Francesco esorta i cristiani a rifiutare l’economia che accresce le
disuguaglianze, che sfrutta l’essere umano invece di servirlo, che provoca
sofferenze: «L’economia che uccide».

Ci
sollecita a non credere alle teorie che presuppongono una crescita economica,
favorita dal libero mercato, capace di produrre di per sé una maggiore equità e
inclusione sociale nel mondo.

«Questa
opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia
grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e
nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante».

Negli
ultimi venti anni, chiunque abbia osato mettere in discussione le teorie che
hanno orientato la globalizzazione economica è stato oggetto di accuse spesso
deliranti, persino da parte degli stessi che oggi si stracciano le vesti di
fronte alla crisi finanziaria: siete contrari al progresso, nostalgici del
comunismo, partigiani del pauperismo.

Intanto,
ovunque nel mondo ha preso piede una sorta di nuova ideologia secondo la quale
il mercato può sostituirsi allo stato, il fisco è una rapina, i servizi
pubblici vanno smantellati, la ricchezza non deve avere obblighi, il lavoro
umano è solo un costo e la finanza va svincolata da ogni controllo.

Un
modo di pensare che non ha riguardato solo l’economia, ma è penetrato nella
mente e nel cuore delle persone, producendo quel pericoloso individualismo che
scandalizza oggi Papa Francesco e che causa tanto dolore.

Sono
stati minati i valori che, se ci si pensa bene, hanno favorito lo sviluppo
delle economie in Europa: la percezione dell’interesse collettivo, il senso del
bene comune, il concetto di mutualismo.

Con la crisi queste deleterie convinzioni hanno
cominciato a vacillare e da più parti oggi viene invocata una nuova visione
dello sviluppo, un nuovo pensiero economico.

Si
dimentica, tuttavia, che alcuni questo pensiero lo custodiscono da tempo, senza
farsi scoraggiare dalla supponenza dominante, ma avendo la tenacia di
coltivarlo e incarnarlo in pratiche economiche generatrici di sviluppo sociale,
occupazione, tutela dei territori, valorizzazione delle persone e delle comunità.

Parliamo
delle iniziative messe in campo dalla finanza etica, che non solo operano bene,
ma sono anche solide.

Da poco è stata pubblicata una ricerca, commissionata
dalla Gabv (Global Alliance for banking of values) che dimostra come le
banche eticamente orientate sono più robuste dal punto di vista delle riserve
patrimoniali e, in proporzione al bilancio, prestano più denaro.

Queste banche, presenti in vari paesi (dalla Triodos
olandese al Banco Sol in Bolivia, dal Credit Cooperatif francese
alla Banca Popolare Etica in Italia) hanno fatto quasi il doppio dei crediti
rispetto alle banche tradizionali: il 75,9% contro il 40,1%.

L’indagine mette a confronto le banche della Gabv
con quelle associate al Gsif, Global Systemically Important Financial
Istitutions
, cioè i 28 principali istituti censiti dal Financial
Stability Board
, tra i quali Bank of America, Bank of China,
Unicredit.

Negli
anni della crisi, mentre le banche tradizionali hanno diminuito il credito
erogato mediamente del 2% (il cosiddetto credit crunch), le banche
etiche lo hanno aumentato di circa il 3%.

Queste
ultime hanno anche una raccolta molto più solida e mantengono un miglior
livello di capitalizzazione, addirittura sono migliori anche sotto il profilo
della redditività del capitale investito che risulta dello 0,53%, più elevata
di quella delle grandi banche (0,37%).

Le
ragioni del loro successo, spiega Peter Blom direttore della Gabv vanno
ricercate in un comportamento più
rigoroso, che non cerca il profitto a ogni costo, non fa scelte spericolate e,
soprattutto, non scarica sullo stato e sui risparmiatori i misfatti dei
manager.

Le
banche etiche sono premiate da una clientela che mette al centro delle proprie
scelte economiche il rispetto delle persone e dell’ambiente, insomma sono
banche nelle quali oggi si può riporre la propria fiducia.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi