l’eccidio di Ashura del 680 nel quale Hussein, nipote di Maometto, e altri 72
furono uccisi a Karbala, nell’attuale Iraq. La ricorrenza è occasione di
manifestazioni di popolo, in cui la commemorazione raggiunge altissimi livelli
di partecipazione. Il coinvolgimento emotivo delle folle è stato cavalcato più
di una volta per i propri fini politici dal clero sciita iraniano, che oggi
teme di perdere il controllo.
Sulla tribuna installata in un sobborgo di Teheran alcuni
rappresentanti delle autorità osservano la processione di uomini in nero che si
battono il petto in ricordo dei tragici fatti di Karbala, città dell’attuale
Iraq, a 100 km a Sud Ovest di Baghdad, in cui nel 680 Hussein, nipote di
Maometto, e altri 72 suoi familiari e compagni furono uccisi dalle truppe del
califfo Yazid. In tutto il mondo sciita i primi dieci giorni del mese arabo di muharram
sono dedicati alla commemorazione di quell’eccidio. La ricorrenza segue il
calendario lunare, quindi si sposta a ritroso lungo quello solare, che ha più
giorni. Nel 2013 ha avuto luogo tra il 5 e il 14 novembre; nel 2014 si terrà
tra il 25 ottobre e il 3 novembre.
Dalla tribuna si leva una voce che tenta di sovrastare il clamore
dei canti e dei tamburi con cui i fedeli accompagnano il proprio cordoglio: «In
questi giorni di lutto un pensiero particolare va ai nostri fratelli in Siria e
in Palestina. E ora riuniamoci tutti quanti per la preghiera». Un piccolo
gruppo si stacca dalla tribuna e marcia verso la moschea, guidato da alcuni mullah. Tuttavia, le migliaia di persone
radunate non si muovono, nessuno raccoglie quell’invito e gli uomini continuano
a sfilare, battendosi il petto, o fustigandosi con grappoli di catenelle. Tra
la folla non si vedono turbanti. Né bianchi, né neri. Il clero è completamente
assente dalla commemorazione. È un sentimento profondo e autenticamente
popolare quello che fa uscire gli iraniani nelle strade in questi giorni. Le
autorità temono simili manifestazioni spontanee, cercano di guidarle e
controllarle, sanno quale forza rivoluzionaria si può sprigionare da milioni di
persone radunate nelle piazze di città e villaggi a piangere la morte del loro
terzo santo Imam, quali sentimenti di emulazione, quale desiderio di martirio
la ricorrenza può suscitare. Basterebbe che d’improvviso si cominciassero a
scandire slogan diversi dal solito.
Lotte intestine nel nascente islam e l’eccidio di Ashura
Hussein era figlio di Fatima, figlia di Maometto, e di Ali, uno
dei primi e più fedeli compagni del Profeta. Ali sarebbe stato designato dallo
stesso Maometto, prima che questi morisse, a essere il suo successore, khalaf in arabo (da cui califfo). Ciò almeno
è quanto sostennero i suoi seguaci, in seguito definiti sciiti perché
costituivano il partito – in arabo shi’a – di Ali. Una successione che Ali aspettò per ventiquattro anni,
perché la maggioranza dei musulmani non gli riconosceva tale prerogativa e
altri tra i compagni del Profeta erano nel frattempo stati designati a guidare
la comunità islamica. Dopo l’uccisione del terzo califfo, Osman, nel 656, la
scelta cadde finalmente su Ali, ma il suo breve governo fu tormentato da
continue lotte intestine, che in parte riflettevano le divisioni claniche
esistenti all’interno della società araba. Tra i contendenti stava emergendo il
potente clan omayyade, cui appartenevano lo stesso Osman e Moawiya, il governatore
della Siria, cui la carica di califfo passò dopo la breve parentesi in cui
l’aveva esercitata Ali, ucciso nel 661.
Una volta morto Ali, i suoi seguaci riconobbero nel figlio
maggiore, Hassan, il proprio imam, o guida spirituale, e alla morte misteriosa
di questi – gli sciiti affermano che fu avvelenato dalla moglie su istigazione
di Moawiya – si rivolsero al secondogenito Hussein.
Nel 680 morì Moawiya, dopo aver designato a succedergli il figlio
Yazid, una successione da molti contestata perché avvenuta per discendenza e
non per elezione, com’era uso nella società araba. Insediatosi al governo di
Damasco, Yazid chiese a Hussein un giuramento di alleanza che questi si rifiutò
di fare, ritenendo il nuovo califfo un usurpatore che, con il suo
comportamento, corrompeva i valori dell’islam. Temendo rappresaglie, Hussein,
con la famiglia e alcune decine di compagni a lui fedeli, si mosse dalla Mecca
verso Kufa, città a Sud dell’odiea Baghdad, i cui abitanti gli avevano
promesso appoggio.
Giunta in prossimità di Karbala, località sulle rive dell’Eufrate,
ai primi di muharram dell’anno 58 dall’Egira, la carovana fu circondata da un numeroso
esercito mandato da Yazid per costringere Hussein e i suoi a giurargli fedeltà.
Sebbene privati di acqua e viveri, tormentati dalla sete che non tardò a farsi
sentire nel caldo soffocante del deserto, gli assediati non cedettero alle
richieste e il decimo giorno di muharram la carovana fu finalmente attaccata. Hussein, due dei suoi figli,
di cui uno di appena sei mesi, il fratello Abbas e tutti gli uomini che erano
con lui furono uccisi. Le donne e uno dei figli, che, gravemente malato, era
rimasto nella tenda e non si era presentato al combattimento, furono fatti
prigionieri e portati a Damasco.
Poiché l’uccisione di Hussein e dei suoi avvenne il decimo giorno
di muharram, l’intero episodio è ricordato col nome di Ashura («decimo», in
arabo).
L’uccisione di Hussein approfondì la frattura all’interno
dell’islam tra coloro che si riferivano all’autorità spirituale degli imam e
coloro che riconoscevano nei califfi le proprie guide. Questa frattura non si è
più ricomposta e si perpetua fino ai nostri giorni nella divisione tra gli
sciiti (circa il 10% dei musulmani) e i sunniti. Questi ultimi considerano i
primi eretici e, quindi, meritevoli di morte, alla stregua degli infedeli. I più
intransigenti tra i sunniti ritengono che l’uccisione di uno sciita sia azione
meritoria, che aiuta a guadagnare il paradiso. Le cronache odiee, purtroppo,
registrano numerosi attacchi terroristici a comunità e moschee sciite, con
particolare frequenza in concomitanza con ricorrenze religiose nelle quali i
fedeli affollano i luoghi di culto. Ashura è una di queste e anche lo scorso
novembre le comunità sciite nel Sud dell’Iraq e in Pakistan hanno subito
attacchi sanguinosi.
Gli sciiti sono rimasti sempre una branca minoritaria dell’islam
assoggettata alla maggioranza sunnita, tranne che in Iran, ma anche in quest’ultimo
paese solo a partire dall’insediamento della dinastia safavide nel XVI secolo.
All’interno dell’islam sciita si sono originati diversi gruppi che
si differenziano principalmente per il numero di santi imam venerati. Gli
zaiditi si fermano ai primi cinque, gli ismailiti ne riconoscono sette e gli
sciiti duodecimani, i più numerosi, dodici. A differenza dei sunniti per i
quali il termine «imam» (come è comunemente conosciuto anche nel nostro paese)
indica colui che dirige la preghiera rituale in comune, nello sciismo imam
designa i diretti discendenti di Ali, e, quindi, del Profeta. La successione
degli imam sciiti si è interrotta nell’874 con la scomparsa del dodicesimo,
che, secondo la tradizione, non sarebbe mai morto, e si sarebbe «nascosto»,
occultato agli occhi degli uomini, per tornare alla fine dei tempi in compagnia
di Gesù e Maometto. Egli, tuttavia, non farebbe mai mancare la propria guida
spirituale a coloro che lo cercano con cuore sincero, gli unici ai quali
continuerebbe a manifestarsi.
Non potendo occupare cariche politiche, il ruolo degli imam era
rimasto eminentemente religioso. La loro missione era di guidare i credenti
sulla via della fede, interpretando correttamente le parole del Corano. Come i
primi tre, nessuno di loro morì di morte naturale, tranne il dodicesimo, come
si è detto. Morirono in prigionia, avvelenati, uccisi da emissari dei califfi.
Per gli sciiti furono tutti martiri che pagarono col sangue la propria fedeltà
al Corano e alla missione loro affidata: conservare intatta nel popolo la fede
ricevuta per tramite del Profeta. Si può dire che lo sciismo si fonda sul
sangue dei martiri, tra i quali Ali e Hussein sono senz’altro i più venerati.
Il martirio di Hussein è diventato una storia esemplare che, da più
di mille e trecento anni, non solo è ricordata, ma è rivissuta dai fedeli. Il
racconto di Ashura parla di una straziante agonia e di una morte affrontate per
non tradire la verità della fede e per resistere al tentativo di asservire
l’islam a un interesse politico. I testi sciiti affermano che Hussein
conoscesse in anticipo quale sarebbe stata la propria sorte a Karbala, e che le
sia andato consapevolmente incontro. Venire a patti con Yazid, un despota
crudele che era stato indegnamente posto a capo della comunità islamica,
avrebbe voluto dire approvae il comportamento e, quindi, creare scandalo e
disorientamento tra i fedeli. Prima di morire Hussein avrebbe dichiarato: «Preferisco
che il mio corpo sia fatto a pezzi, purché la fede sia salva». Gli sciiti
sottolineano la natura tutta morale della sua opposizione a Yazid. Egli non
volle muovergli guerra con le armi, ma vincere il male resistendogli,
conservando la propria libertà interiore. Volle, così, indicare alle
generazioni successive quale fosse la strada da percorrere. Per questo Hussein è
diventato l’esempio del santo che offre la propria vita perché, attraverso il
sacrificio, gli uomini possano capire quale sia la vera fede e, quindi,
arrivare alla salvezza. A un cristiano la storia della sua morte riporta alla
mente la passione di Cristo e il suo sacrificio redentore.
Migliaia di versi sono stati scritti per ricordare l’eccidio di
Karbala. Nel tempo intorno al fatto storico sono fioriti racconti che avevano
lo scopo di suscitare negli ascoltatori commozione e rendere più intenso il
cordoglio. Le diverse comunità sciite hanno trovato modi diversi di commemorare
l’evento, ma ciò che accomuna tutti i credenti è che, nel mese di muharram, il loro strazio si rinnova, come se
si trattasse di fatti appena avvenuti. Lacrime di vero dolore scorrono sui loro
volti quando sentono narrare, non importa se per la centesima volta, la storia
del martirio; s’immedesimano a tal punto con le parole del racconto che la
distanza nel tempo si annulla e tutto riaccade davanti ai loro occhi.
Uno dei modi per far memoria dei tragici fatti di Karbala è la
sacra rappresentazione, proprio come nelle nostrane messe in scena della
passione di Cristo. Nelle piazze e nelle strade attori – improvvisati o
professionisti – fanno rivivere i diversi episodi che la tradizione associa
all’evento. Le storie sono tante e sono incentrate sui vari personaggi storici:
oltre a Hussein, i figli, il fratello Abbas, la sorella Zeinab, con le altre
donne testimoni impotenti della battaglia. I cattivi sono Moawiya, Yazid, con i
suoi ministri e comandanti, ma il cattivo che suscita maggiore ripugnanza nei
fedeli è Shemr, colui che avrebbe finito Hussein, decapitandolo. L’attore che
impersona questo personaggio deve essere pronto al peggio, perché accade alcune
volte che qualcuno tra il pubblico si lanci su di lui per impedirgli di
uccidere Hussein. Ogni anno si sente di uomini che, interpretando Shemr,
vengono presi a sassate, picchiati, finiscono all’ospedale. Abbiamo assistito a
tali rappresentazioni a Teheran, e in più occasioni abbiamo sentito gli
spettatori gemere, o addirittura singhiozzare, nei momenti di maggiore tensione
del racconto. Siamo stati indotti a distogliere gli occhi dalla scena per
osservare volti addolorati, rigati dalle lacrime. Durante i 10 giorni di lutto
gli uomini non si radono, c’è chi spalma di fango la propria automobile, o
scrive sulla carrozzeria frasi inneggianti ai santi imam. L’unica forma di
musica che non è bandita nei luoghi pubblici, nei negozi, o che giunge dai
finestrini abbassati delle auto, sono le litanie di Ashura, cantate da una voce
maschile e accompagnate dal suono ritmato di mani che battono i petti.
Quella del battersi il petto è la forma più comune per esprimere
la partecipazione al lutto. Uomini e donne, separatamente, si ritrovano in
luoghi prestabiliti e praticano questa forma di cordoglio collettivo, ma solo
quella degli uomini assume visibilità. Gli uomini, che indossano abiti neri, si
riuniscono in un salone, o sfilano per le vie, battendo all’unisono i palmi
delle mani contro i propri petti, con ritmi e movimenti che possono variare da
luogo a luogo, ma che sono rigorosamente sincronizzati, in una specie di danza.
Queste manifestazioni di dolore assumono a volte anche forme estreme. Alcuni si
battono a sangue, lacerandosi la pelle a forza di colpi, o fustigandosi con
pesanti catene. A mezzogiorno del decimo giorno, l’ora in cui Hussein fu
ucciso, c’è chi si procura ferite sul capo con armi da taglio, nel tentativo di
rendersi il più possibile simile a lui e in una sorta di anacronistico bisogno
di punirsi per non averlo difeso a Karbala. Tali pratiche sono ora vietate in
Iran, ma continuano clandestinamente. Per tutto il periodo di lutto, e in
particolar modo nei due giorni conclusivi, è molto diffusa l’usanza di
preparare cibo e bevande da distribuire alla gente: poveri, vicini di casa, o
semplici passanti. Lo si fa per impetrare una grazia, o in segno di
riconoscenza per una grazia ricevuta. I più organizzati preparano un vero e
proprio pasto: riso e stufato di carne, offerto in contenitori monouso, facili
da portar via.
Hussein riteneva proprio dovere di musulmano impedire che un
governante iniquo prevalesse sulla comunità dei fedeli, e tra gli sciiti il suo
martirio è assurto a simbolo della lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione.
Riportiamo un discorso da lui pronunciato in opposizione a Yazid: «Al credente
che non interviene con parole o azioni quando vede un governante tirannico
violare le leggi di Allah e del suo Messaggero e opprimere il popolo, il
Profeta dell’islam assicura che Dio riserverà il meritato castigo. Non vedete
come tutto è corrotto, non vedete che la verità è tradita e la menzogna non ha
limiti? Per me la morte è solo la via per il martirio. Vivere tra i peccatori
sarebbe tormento e pena».
L’ayatollah Ruhollah Khomeini fece leva sul potenziale
rivoluzionario di queste parole quando il 3 giugno 1963 trasformò le
celebrazioni di Ashura in un’imponente manifestazione anti-scià. Nel sermone
pronunciato in quel giorno per ricordare la tragedia di Karbala egli equiparò
lo scià a Yazid, il nemico dell’islam, cui il popolo-Hussein avrebbe chiesto
conto del suo operato iniquo. Cosicché quando nelle piazze si cominciò a
gridare «morte a Yazid», tutti capivano quale fosse il vero significato di
quelle parole. Il giorno dopo Khomeini fu arrestato, ma l’effetto del
sentimento che era riuscito a destare nel popolo non tardò a farsi sentire:
Teheran e altre città entrarono in rivolta e lo scià fu costretto a intervenire
con l’esercito per ristabilire l’ordine. Il bilancio fu pesantissimo.
«Ogni giorno è Ashura, ogni terra è Karbala». È una frase rimasta
famosa, che intende indicare il valore sempre attuale del martirio di Hussein:
un vero musulmano deve essere pronto in ogni momento e circostanza a
sacrificare la propria vita per preservare la purezza della fede e resistere al
male. Khomeini e il clero sciita seppero rendere questo dovere religioso presente alla coscienza di ogni buon credente e
associarlo alla lotta contro il regime dello scià. L’operazione riuscì anche
grazie al sociologo Ali Shariati, che in quegli stessi anni predicava la forza
rivoluzionaria del martirio. «Muharram è il trionfo del sangue sulla spada»,
diceva Khomeini, «i martiri muovono la storia», faceva eco Shariati: non
importa se si è in pochi e disarmati contro un tiranno potente e crudele. Basta
non avere paura di morire per una causa giusta e, alla fine, la vittoria
arriverà.
Si arrivò, difatti, al 10 e 11 dicembre del
1978, il nono e decimo giorno di muharram, giorni
in cui milioni di persone sfilarono per le strade del paese battendosi e
gridando «morte allo scià». Erano disarmati, è vero, ma non erano più il
piccolo resto di Karbala. Erano in tanti, e pronti a morire. Il 16 gennaio del
1979 lo scià abbandonò l’Iran.
La storia «politica» di Ashura in Iran, però, non finisce qui. La
rivoluzione aveva trionfato, ma perché essa fosse anche «islamica» Khomeini
dovette affrontare il dissenso interno di chi non vi aveva preso parte, e una
difficile guerra contro l’Iraq, che aveva improvvisamente invaso il Sud del
paese. Ashura ora gli serviva per consolidare la vittoria del suo islam, e
tutti quelli che gli si opposero divennero tanti Yazid: gli alleati di un
tempo, le potenze occidentali e, naturalmente, Saddam Hussein, che, indegno di
portare quel nome (tra l’altro assai scomodo da scandire quando se ne invocava
la morte nelle processioni di muharram), era stato prontamente ribattezzato «Saddam Yazid, l’infedele».
Khomeini aveva già sperimentato quale formidabile strumento di aggregazione
fossero le commemorazioni di Ashura, quando la gente si riuniva a piangere i
martiri di Karbala. Attraverso quelle adunanze si poteva mobilitare un intero
popolo intorno a un obiettivo: il male da combattere erano, ora, le forze che
intendevano distruggere il clero e la repubblica islamica. Il popolo doveva
essere incitato a versar lacrime sul sangue di Hussein, perché «da quei pianti
collettivi escono i giovani che vanno volontari al fronte in cerca di martirio,
e che si sentono infelici se non lo raggiungono… escono le madri che spingono i
figli ad andare in guerra e che, se poi questi non tornassero, desidererebbero
avee altri da mandare, o manderebbero quelli che hanno». Per Khomeini la
lezione di Karbala era chiara: in battaglia i numeri non contano, né si deve
temere il martirio quando si è dalla parte giusta. Anche se si avesse tutto il
mondo contro, la verità alla fine trionferà. Yazid era tutto il resto del
mondo, Hussein l’Iran di Khomeini.
Questo messaggio, diffuso da un clero opportunamente istruito, fu
così ben recepito dagli iraniani che, nonostante il grosso svantaggio iniziale
e l’isolamento internazionale, questi riuscirono in meno di due anni a
ricacciare l’esercito di Saddam oltre i confini. Ciò ebbe, com’è noto, un
grosso prezzo in vite umane. A questo punto, non sazio di vittoria, Khomeini
chiese al suo popolo di continuare a combattere e lo lanciò alla conquista
delle terre irachene, incitandolo ad arrivare fino a Karbala, fino a Israele… E
la guerra durò altri sei anni.
E arriviamo alla più recente Ashura del 2009.
Anno in cui la controversa vittoria di Ahmadinejad alle elezioni presidenziali
di giugno aveva dato origine all’interno della società civile a un ampio
movimento di protesta, denominato Movimento Verde, che era sceso in piazza in
una serie di grandi dimostrazioni duramente represse dalle autorità. I leader
del movimento non si lasciarono sfuggire l’occasione di sfruttare il forte
significato simbolico di Ashura. In quel giorno, il 27 dicembre, le persone che
avevano accolto il loro appello marciarono scandendo slogan mai uditi prima: «Morte
a Khamenei», «morte al dittatore». Si era verificata un’inaspettata inversione
di ruoli: al posto del califfo Yazid c’èra la massima autorità dell’islam
sciita in Iran, la Guida Suprema della rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei,
succeduto nel frattemo a Khomeini: il popolo-Hussein sfilava disarmato contro
di lui e il regime che rappresentava.
Quel giorno a Teheran e in altre città quindici vittime restarono
sulle strade dell’Iran-Karbala.
* Maria Chiara Parenzo, nome di fantasia,
vive tra l’Iran e l’Italia.
Archivio MC: Angela Lano, L’Ayatollah e
il presidente, Dossier, agosto-settembre 2013.
Quando l’attuale presidente dell’Iran, Hassan Rohani, è
stato eletto, il 14 giugno 2013, la gente si è messa a ballare per le strade.
Esprimeva, così, sia un senso di liberazione per essersi messi alle spalle gli
otto cupi anni della presidenza di Mahmud Ahmadinejad, sia la speranza che il
neoeletto presidente avrebbe portato l’Iran fuori dall’isolamento cui l’aveva
relegato la politica del suo predecessore. Tali, infatti, erano state le
promesse elettorali. Da anni una delle maggiori preoccupazioni degli iraniani
era il continuo peggioramento della situazione economica e uno dei mezzi per
invertire questa tendenza – lo sapevano tutti – era riaprire un dialogo con
l’Occidente sulla spinosa questione del nucleare.
Dal 2002, anno in cui era venuta alla luce l’esistenza di un
programma nucleare segreto, l’Iran è per l’Occidente un sorvegliato speciale.
Sebbene Teheran ne abbia sempre negato i fini militari, le sue reticenze nel
far conoscere gli effettivi progressi e l’entità del programma nucleare, le
reciproche diffidenze, alimentate da decenni d’inimicizia, hanno portato la
comunità internazionale a formulare un verdetto di presunta colpevolezza. Per
convincere la Repubblica Islamica a sospendere il processo di arricchimento
dell’uranio, tra il 2006 e il 2012 sono state adottate contro di essa diverse
misure sanzionatorie. Le sanzioni si sono inasprite dal 2010, causando in questi
ultimi anni una drammatica contrazione dell’economia.
L’intenzione espressa da Rohani di cercare un dialogo con
l’Occidente ha trovato da subito conferma nella nomina a ministro degli esteri
di Mohammad Javad Zarif, formatosi nelle università americane, ambasciatore
dell’Iran alle Nazioni Unite dal 2002 al 2007 e abile negoziatore. Dallo scorso
agosto, data d’insediamento del nuovo governo, gli avvenimenti si sono
succeduti velocemente. A settembre c’è stata la storica telefonata tra Obama e
Rohani e a ottobre si sono aperti a Ginevra i negoziati tra l’Iran e i 5+1, i
paesi membri del Consiglio di Sicurezza, più la Germania. L’accordo è arrivato
il 24 novembre. Esso prevede la sospensione del programma nucleare iraniano per
sei mesi a fronte di un parziale alleggerimento delle sanzioni economiche
contro Teheran. Più che per la sua portata, come si vede alquanto circoscritta,
l’accordo è importante perché, come si auspica, prepara il terreno per più
consistenti trattative future. In Iran la riapertura del negoziato ha già avuto
ripercussioni positive sull’economia, con un abbassamento dell’inflazione e una
ripresa degli investimenti nel paese.
Ma anche la comunità internazionale ha tutto da guadagnare
dall’avvio di un vero processo di distensione. Solo i tradizionali alleati di
Washington in Medio Oriente: Israele, l’Arabia Saudita e gli altri stati arabi
del Golfo Persico, guardano con apprensione al fatto che Iran e Stati Uniti
abbiano ricominciato a parlarsi dopo anni di gelo, perché ciò potrebbe essere
foriero di un rimescolamento di equilibri nella regione.
Maria Chiara Parenzo