L’umanitario, che noia. Ma se arriva il VIP…
Dal concerto Live Aid del 1985 in poi, la
raccolta fondi e la sensibilizzazione passano anche attraverso la musica, il
cinema e i testimonial eccellenti. I Vip riescono a focalizzare l’attenzione su
temi spesso percepiti come noiosi e tristi: tragedie e situazioni di difficoltà
dei paesi del Sud del mondo. Una delle soluzioni più in voga per avvicinare il
grande pubblico sembra essere quella di rendere l’aiuto umanitario qualcosa di
cornol. E oggi sono tanti i Vip che fanno ottenere più visibilità alle campagne
per le quali s’impegnano. Ma a quale prezzo?
«Non andate al pub stasera, restate a casa e dateci il vostro denaro. Ci
sono persone che stanno morendo in questo preciso momento, perciò dateci i
soldi!». Era il 13 luglio del 1985 quando ai microfoni della Bbc Bob Geldof, il
musicista irlandese noto per la sua scarsa propensione a usare mezzi termini,
prorompeva rabbiosamente in questo accorato appello a favore dell’Etiopia in
emergenza carestia. In sottofondo, il bornato delle settantaduemila persone che formavano
il pubblico dello stadio londinese di Wembley accompagnava le esibizioni dei
mostri sacri del rock che si avvicendavano sul palco del Live Aid, il
concerto organizzato dallo stesso Geldof e da Midge Ure, musicista e attivista
scozzese. Il Live Aid era in qualche modo l’approdo di un percorso le
cui tappe precedenti erano state le canzoni Do They Know It’s Christmas
(sempre di Geldof e Ure) e We Are The World, del gruppo di star
statunitensi Usa for Africa.
L’unico precedente di portata e dimensioni comparabili
al Live Aid era stato il concerto per il Bangladesh organizzato dall’ex
Beatle George Harrison e dal musicista indiano Ravi Shankar nel 1971 al Madison
Square Garden di New York, al quale assistette un pubblico di quarantamila
persone e che portò donazioni iniziali per duecentoquarantamila dollari, salite
poi a quattro milioni di dollari con i proventi della vendita dell’album del
concerto.
Ma il Live Aid oscurò di gran lunga il risultato
ottenuto dal pioniere Harrison, imponendosi come uno dei momenti musicalmente
più memorabili del secolo scorso e, dal punto di vista delle donazioni,
raggiungendo nell’immediato circa cinquanta milioni di sterline, e un totale di
centocinquanta milioni aggiungendo i proventi della successiva campagna.
Una cifra colossale destinata ad aiuti umanitari alle
popolazioni del Nord dell’Etiopia afflitte da una carestia che, combinata alle
politiche agricole del governo locale, avrebbe provocato circa quattrocentomila
vittime. Le polemiche non si fecero attendere: cinque mesi dopo l’evento, un
articolo del Washington Post elencava una lunga serie di episodi di
disorganizzazione e incomprensioni fra la Fondazione Live Aid che
gestiva i fondi e le organizzazioni impegnate sul campo per alleviare le
sofferenze degli etiopi. Nel 2005, mentre Geldof stava preparando il Live 8,
un altro mega concerto di sensibilizzazione ai problemi della povertà a
vent’anni dall’illustre precedente, l’opinionista americano David Rieff scrisse
per il Guardian un articolo durissimo in cui spiegava che forse il Live
Aid aveva permesso, come affermavano i suoi sostenitori, di dimezzare le
vittime della carestia, ma al tempo stesso aveva fornito al governo etiope – il
Derg di Menghistu Hailè Mariam – un sostegno economico che Menghistu usò
per deportare circa seicentomila persone dal Nord al Sud del paese e «villaggizzae»
(cioè riunire forzatamente in villaggi) altri tre milioni. Ufficialmente le
deportazioni e risistemazioni avevano avuto l’obiettivo di salvare la
popolazione da quella carestia che aveva ricevuto ampia attenzione dai media
inteazionali proprio grazie all’iniziativa di Geldof e Ure. In realtà, affermò
Rieff, lo scopo principale del Derg era stato quello di creare un
meccanismo di controllo capillare della popolazione e di contrastare i
movimenti di opposizione intea.
Oltre alle considerazioni riguardanti le conseguenze del
Live Aid sulla popolazione etiope, Rieff avanzava una serie di critiche
che, a ben guardare, possono essere estese anche oggi a tutti gli eventi di cui
la kermesse del 1985 è la madre. Innanzitutto, si chiedeva il
giornalista nel 2005, come si spiegava che l’Africa stesse peggio di vent’anni
prima nonostante le tante iniziative benefiche promosse da personaggi illustri?
E ancora: perché le cause della carestia etiope, che era imputabile non solo
alla natura ma a precise scelte umane (del governo di Menghistu), erano state
totalmente ignorate dagli organizzatori che avevano privilegiato, invece, una
comunicazione basata su semplicismi relativi ai concetti di bisogno, aiuto e
dovere morale?
L’avvento della rete ha offerto ulteriori strumenti alla
mobilitazione e alla sensibilizzazione. Si pensi al caso di Kony 2012.
La campagna contro il sanguinario leader del Lord Resistance Army in
Uganda, Joseph Kony, e le atrocità da lui commesse a danno della popolazione
civile e in particolare dei bambini ha mostrato come un prodotto ben
confezionato dal punto di vista video e altrettanto ben promosso attraverso i social
networks e i testimonial d’eccezione (due fra tutti: Angelina Jolie e
George Clooney) può ottenere in breve tempo una grande esposizione mediatica.
Anche in quel caso i critici hanno insistito sul
pressappochismo delle informazioni – le operazioni dell’esercito di Kony non si
svolgevano più in Uganda da anni all’epoca della diffusione del video -, sul
fuorviante ricorso a immagini e termini che, pur in grado di coinvolgere
emotivamente lo spettatore, restituivano una visione distorta della realtà e su
come la campagna indicasse come atto umanitario l’invio di truppe statunitensi
in Uganda per «fermare Kony». Eppure, il video è arrivato nel giro di sei
giorni a cento milioni di click fra YouTube e Vimeo, due fra i
principali siti di condivisione dei video.
Che anche nel mondo della cooperazione italiana stiano
prendendo piede in modo deciso la caccia al testimonial e la conquista
del grande pubblico attraverso una comunicazione spettacolarizzata non è una
novità. Ma Mission, il programma trasmesso in due serate lo scorso
dicembre da RaiUno, è probabilmente l’esempio che più di tutti ha generato
polemiche e sollevato dubbi tutto sommato inediti. Mission, che nelle
parole del direttore della rete Giancarlo Leone è stato «un progetto di social
tv e non un reality show», ha portato alcuni volti noti della tv e
del giornalismo italiani (Al Bano e le sue figlie, Paola Barale, Emanuele
Filiberto di Savoia, Barbara De Rossi, Michele Cucuzza e altri) per due
settimane nei campi profughi di Giordania, Repubblica Democratica del Congo,
Sud Sudan, Ecuador e Mali allo scopo di prendere parte alle attività delle
organizzazioni umanitarie e di raccontare poi la loro esperienza in studio
commentando le riprese effettuate sul campo. Alla preparazione del programma,
alle riprese e alla trasmissione stessa hanno partecipato funzionari dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) e cooperanti dell’Ong
Intersos, il cui ruolo è stato quello di fornire ai Vip e alla Rai le
informazioni necessarie per evitare di cadere in quella che molti critici, fin
dall’annuncio dell’inizio delle riprese, avevano definito «pornografia
umanitaria». La trasmissione ha ottenuto circa due milioni e duecentomila
spettatori a puntata: un flop per la Rai, ma una mole di persone comunque
irraggiungibile per qualunque campagna di sensibilizzazione di una Ong italiana
di medie o piccole dimensioni.
Se, da un lato, c’è chi ha dato un giudizio positivo su Mission
perché ha acceso le luci su temi che i programmi di prima serata di RaiUno di
solito non affrontano, dall’altro lato molto più numerosi sono stati i critici.
Eugenio Melandri del Coordinamento Iniziative Popolari di Solidarietà
Internazionale (Cipsi) ha parlato di «marchettone natalizio». Luciano
Scalettari di Famiglia Cristiana lo ha definito «il trionfo del dilettantismo e
della noia», «un’occasione sprecata» che ha reso «protagonisti i personaggi
famosi anche se non sanno di cosa stanno parlando». Non così negativa, invece,
l’opinione espressa dal blog Info-cooperazione, punto di riferimento per
gli operatori della cooperazione in Italia, che ha definito Mission un «reportage
compassionevole, il trionfo dell’aiuto assistenziale condito da una televendita
continuativa dell’agenzia Onu per i rifugiati» ma, complessivamente, «nei limiti
della decenza».
Al di là dei giudizi sulle singole iniziative, ciò che
emerge da una loro analisi è una serie di domande: ottenuta l’attenzione di
milioni di persone, che cosa ne hanno fatto i promotori degli eventi? Quali
messaggi, quali informazioni hanno veicolato? Hanno effettivamente comunicato i
temi dello sviluppo e contribuito a cambiare la percezione del grande pubblico
su di essi? L’impressione è che se l’obiettivo era raccogliere fondi da mettere
poi nelle mani di esperti e tecnici della cooperazione o della risposta alle
emergenze, il bilancio è tutto sommato positivo. Ma se lo scopo era invece
creare consapevolezza nel pubblico, i grandi eventi hanno fallito miseramente.
Il continuo ricorso a termini, immagini e ricostruzioni emotivamente
coinvolgenti ma approssimative e semplicistiche spinge a dubitare che anche
solo uno dei fruitori di queste iniziative sia oggi davvero più informato.
Sarebbe stato necessario mettere in evidenza nel programma televisivo quali
sono gli interessi e i fattori economici, politici e geostrategici che
scatenano conflitti e causano l’esodo in massa di milioni di profughi.
«L’assenza di un’analisi di questo tipo (sulle cause, ndr.)
non ha affatto aiutato i telespettatori a capire come le guerre nei vari paesi
toccati dal reality show facciano guadagnare i commercianti di armi, chi
le produce, le banche che si prestano alle transazioni della compravendita di
armi e i paesi interessati a tener vivo questo business».
«Senza questa essenziale informazione, il programma Mission
ha sollecitato il pubblico a gesti di carità ma ha ridotto l’impegno a un
buonismo sterile che serve solo a superare il nostro senso di colpa. Non è
stato capace, invece, di invitare i telespettatori a un impegno di pace, a individuare
le cause e le complicità che protraggono questi conflitti». Così ha commentato
la Federazione della stampa missionaria italiana di cui MC fa parte.
Resta da capire la parte più importante: perché questa
scelta di comunicazione? Il sospetto è che questo genere di messaggi ed eventi
sia preferito, semplicemente, perché è il più rapido ed efficace per la
raccolta fondi. Esso infatti non richiede un grande lavoro di analisi dei
contesti, e nemmeno uno sforzo di traduzione di quelle analisi in un linguaggio
adatto ai non addetti ai lavori capace di descrivere, spiegare e coinvolgere
senza banalizzare.
La sfida non è quella di raggiungere milioni di persone.
La vera sfida è raccontare storie comprensibili. Coinvolgenti perché più simili
alle loro di quanto non si pensi, o perché riguardano problemi che oggi non
appartengono più a una parte sola del globo, ma a tutti, seppure in misura
diversa da un paese all’altro.
Vengono in mente provocazioni come quella del «meme»
recentemente apparso su Inteet, un’immagine di un panorama africano
accompagnato dalla scritta: «Ogni sessanta secondi, in Africa, è passato un
minuto», in evidente polemica con il modo in cui spesso vengono esposti i dati
sulla mortalità e sulle malattie nel sud del mondo (i vari «Ogni sessanta
secondi in Africa la malaria uccide un bambino» e simili). Oppure ancora lo
spassosissimo video realizzato dal Fondo per l’assistenza internazionale
degli studenti e accademici norvegesi in cui un paffuto bambino africano
che fa da protagonista per uno spot dal titolo «Salviamo l’Africa!» consola una
giovane donna europea dalle lacrime facili e discute con il regista dello spot
che lo esorta a rispettare il copione. «Dobbiamo creare impegno costruito sulla
conoscenza, non sugli stereotipi», recita la didascalia del video.
Forse, a trent’anni dal Live Aid e considerando i
risultati fin qui ottenuti dalla spettacolarizzazione della comunicazione sullo
sviluppo, gli operatori della solidarietà internazionale, che in definitiva
sono quasi sempre gli attori a cui Vip, media e pubblico in generale devono appoggiarsi per raggiungere le realtà
di crisi, dovrebbero concentrarsi su strumenti e messaggi più simili a questi
nel ripensare le loro strategie di comunicazione.
3 DOMANDE A:
Elias Gerovasi,
ideatore e curatore di Info-cooperazione,
il blog degli operatori della cooperazione.
Elias, Info-cooperazione è stato una bella novità degli ultimi anni
nel panorama dell’informazione in Italia, utile non solo per tenere d’occhio i
bandi ma anche per informarsi e partecipare al dibattito sulla cooperazione.
Come è nata l’idea del tuo blog e per quali interlocutori lo hai concepito?
L’idea del blog nasce da alcune esigenze di chi lavora
nella cooperazione, conosciute attraverso il confronto con colleghi che, come
me, operano nel settore per una Ong. Tenersi informati in tempo reale sulle
opportunità di finanziamento è infatti fondamentale per chi deve trovare
quotidianamente le risorse per i progetti. Eppure le informazioni vengono
spesso riservate a cerchie ristrette per interesse sia dei finanziatori che dei
possibili beneficiari. Questo in passato ha limitato molto la competizione tra
Ong e associazioni, e ha anche ristretto le opportunità di partenariato. Poi
c’era una questione di trasparenza che ci stava a cuore: si tratta quasi sempre
di risorse pubbliche, e quindi ci deve essere massima pubblicità e trasparenza.
Fino a pochi anni fa, e forse anche oggi, era difficilissimo sapere come
venissero spesi i soldi, quali fossero, per esempio, gli esiti dei bandi
pubblici. Con il blog abbiamo voluto dare una risposta a questi bisogni e
questo è stato fortemente gradito soprattutto dagli operatori e dai volontari
di Ong e associazioni che non hanno capacità di lobby presso i donatori e le
istituzioni. Certo, abbiamo anche reso la vita più difficile a qualcun altro:
mi viene in mente l’esempio di una Fondazione che normalmente riceveva una
trentina di proposte progettuali da finanziare ogni anno e se ne è viste
arrivare oltre 600 dopo la pubblicazione del bando su Info-cooperazione.
Col passare dei mesi ci siamo resi conto che la
limitazione d’informazioni non riguardava solo le opportunità finanziarie.
Qualche migliaio di operatori del settore, infatti, sentiva una mancanza di
rappresentanza e la necessità di uno spazio di discussione. La rete ha dato
questa opportunità con lo strumento banale e semplice di un blog. Tanti
colleghi hanno iniziato a contribuire mandando suggerimenti su temi da trattare
o articoli con opinioni sugli argomenti caldi che la cooperazione si trova ad
affrontare in un periodo come quello odierno definito ormai da tutti di «crisi
di identità». Il resto si è fatto grazie al tempo e all’interesse dei lettori
che non ci aspettavamo assolutamente potessero arrivare alle cifre attuali.
Tieni conto che il blog si fa nei ritagli di tempo e nel weekend, ed è basato
sul contributo volontario, in tutti i sensi.
Live Aid, Live 8, star di Hollywood come testimonial; qui
da noi, Lorella Cuccarini a Goma nel 2006 con Trenta ore per la vita e,
più di recente, l’esperienza di Mission. Qual è il tuo bilancio su
questo ruolo, negli ultimi trent’anni, dei grandi eventi e dei grandi
personaggi per comunicare la solidarietà internazionale?
Purtroppo anche questa dinamica è già arrivata alla sua
esasperazione. I testimonial si trovano sui cataloghi delle agenzie di Pr (Public
relations, ndr) e comunicazione. Trovare testimonial veri e impegnati come
ai tempi di Live Aid è oggi quasi impossibile. Non credo si debba
condannare il coinvolgimento di testimonial in sé. Quando è stato fatto in modo
genuino l’ho trovato anche utile e interessante.
Ma oggi non è più così, le Ong per garantirsi un impatto
forte in termini di visibilità e raccolta fondi si affidano al marketing
e ai comunicatori che replicano su questo settore logiche commerciali molto
raffinate incontrando gli interessi dello show business e dei personaggi
noti alla ricerca di una charity da aiutare. Nel settore ambientale gli
inglesi lo chiamano green-wash, quando un’azienda inquinante sostiene
attività «verdi» per ripulire la propria immagine. Qui in molti casi si tratta
di charity-wash (ripulire la propria immagine attraverso gesti di «carità»).
Purtroppo trattandosi di una simbiosi perfetta credo che
il fenomeno sia destinato a un’ulteriore esasperazione, tanto che alcuni Vip
faranno solo questo di mestiere e alcune Ong avranno più testimonial che
volontari.
Molti, fuori dal «recinto» degli addetti ai
lavori, trovano la solidarietà e lo sviluppo temi noiosi, o tristi, o troppo
impegnativi. Secondo te è un dato di fatto che si tratti di argomenti non
facilmente comunicabili? O siamo noi operatori della cooperazione che sbagliamo
strategia e, in questo caso, che cosa dovremmo cambiare?
Che si tratti di temi tristi e impegnativi non c’è
dubbio. Ma non è vero che non siano comunicabili. Credo che il «problema madre»
del nostro settore in fatto di comunicazione sia solo uno: pretendere di
sensibilizzare l’opinione pubblica e contemporaneamente di raccogliere fondi .
O meglio, in molti casi, sensibilizzare al solo fine di raccogliere fondi.
Hai fatto l’esempio di Mission, la trasmissione
di RaiUno che ritengo abbia rappresentato in pieno questo modello diventando
un’occasione persa. Il mondo dei rifugiati è stato raccontato in modo melenso,
pietista e superficiale al solo fine di veicolare una campagna di raccolta
fondi e di fare il charity-wash della Rai. Eppure in passato mi è
capitato di vedere film o documentari e sentire canzoni che mi hanno fortemente
sensibilizzato su diversi temi legati alla povertà e alla giustizia sociale, ma
non avevano uno scopo di raccolta fondi e credo abbiano raggiunto il loro
obiettivo, quello di aprire gli occhi dell’opinione pubblica su drammi e
ingiustizie del mondo. Ritengo che la sfida di comunicare al grande pubblico,
seppur difficile, sia possibile affrontarla e vincerla soprattutto se si sta
alla larga dal fund raising.
E poi non c’è solo la Tv, pensa ai milioni di email e
lettere che ogni mese le nostre Ong recapitano ad altrettanti italiani: anche
questa è comunicazione e potrebbe essere utilizzata per veicolare qualche
contenuto.
Se ti mando una lettera con una gigantografia di un
bambino denutrito morente accompagnata da un bollettino postale dicendoti che
solo tu potrai salvare quel bimbo, voglio sensibilizzarti sulla malnutrizione
infantile in Africa o semplicemente scucirti soldi raccontandoti una storia
semplice, parziale e volontariamente drammatizzata? Anche queste sono occasioni
perse e perpetuano una comunicazione errata della povertà e dello sviluppo
globale.
Ma prepariamoci al peggio, in futuro questo capiterà
anche con la politica con l’avvento della raccolta fondi dei partiti a seguito
della progressiva abolizione dei finanziamenti pubblici. Pensa ai partiti che
dovranno convincere i cittadini a donare e firmare il 2×1000 dell’Irpef nelle
dichiarazioni dei redditi, non voglio pensare a cosa manderanno nelle nostre
caselle postali!
Chiara Giovetti