Belgin Dogru, 11 anni, musulmana, viene esclusa dalla scuola per
il suo rifiuto di partecipare alle lezioni di ginnastica in cui è obbligatorio
togliere il velo. Dal suo caso nasce un forte dibattito che porta alla nota
legge francese sul divieto di esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici. I
numerosi ricorsi presentati dalla famiglia di Belgin vengono respinti. L’ultima
opzione è quella di rivolgersi alla Corte europea per i diritti umani che
vigila sulla libertà religiosa, la cui sentenza finale, emessa nel dicembre
2008, non è per nulla scontata.
Molti ricorderanno la questione del
velo islamico scoppiata anni addietro in Francia. In una città del Nord, un
giorno del 1989, due ragazze di origine marocchina si erano presentate nel loro
liceo con un foulard in testa. La cosa forse non avrebbe destato alcun problema
se il preside non avesse impedito loro di seguire le lezioni finché non se lo
fossero tolte. I mezzi di informazione fecero il resto e la notizia si diffuse
rapidamente un po’ in tutta Europa.
Una dozzina di anni dopo, altri casi
del genere hanno scatenato accese discussioni nel paese transalpino. Indossare
il velo si è trasformato da questione privata in fatto politico. Per molti
islamici, infatti, è diventato un simbolo di resistenza contro la cultura
occidentale. Sempre più frequentemente giovani figlie di immigrati maghrebini,
di nazionalità francese, hanno inteso affermare la loro appartenenza all’Islam
indossando un foulard che ne nascondesse la capigliatura.
Il caso di Belgin Dogru, di cui si è
occupata la Cedu (la Corte europea dei diritti umani), è sorto in questo
contesto. Dogru, nata nel 1987 e residente a Flers, un centro di circa 16.000
abitanti della Bassa Normandia, al tempo dei fatti aveva 11 anni. Musulmana,
frequentava una scuola pubblica del paese. A partire dal gennaio 1999 ha
iniziato a presentarsi alle lezioni con i capelli coperti da un velo.
L’insegnante di educazione fisica l’ha ripetutamente richiamata, invitandola a
toglierselo perché quella tenuta era incompatibile con la pratica della sua
disciplina. La ragazza ha sempre rifiutato di obbedirgli ed è stata ogni volta
esclusa dalle lezioni. Il docente, alla fine, si è rivolto all’autorità
scolastica che, alcuni giorni dopo, ha escluso dalla scuola l’alunna per non
aver rispettato l’obbligo della frequenza.
Il ricorso dei genitori contro questa
decisione è stato respinto dalla commissione accademica d’appello e la ragazza
ha dovuto proseguire i suoi studi frequentando corsi per corrispondenza. Nel
frattempo, però, i genitori hanno presentato ricorso anche al tribunale
amministrativo di Caen e, dopo il rigetto di questo, alla corte d’appello di
Nantes, che lo ha respinto a sua volta. In entrambi i casi il tribunale ha
ritenuto che il comportamento di Belgin Dogru avesse creato un clima di
tensione all’interno dell’istituto e che, nonostante la ragazza avesse a suo
tempo proposto di sostituire il velo con una cuffia, l’insieme delle
circostanze avesse giustificato la sua esclusione definitiva dalla scuola. La
giovane, è stato affermato, ha oltrepassato i limiti del diritto di esprimere e
manifestare il suo credo religioso all’interno dell’istituto. Il Consiglio di
Stato, cui i genitori di Belgin hanno presentato alla fine ricorso, ha dato
loro definitivamente torto, dichiarandolo inammissibile.
A questo punto essi si sono rivolti
alla Cedu, ritenendo violata la propria libertà religiosa.
La questione, come appare chiaro,
riveste una notevole importanza. Chiama in causa infatti il valore della laicità
dello stato e quindi il rapporto tra questo e le confessioni religiose presenti
sul suo territorio. Tale questione, di primaria portata in Europa, assume un
valore tutto particolare in Francia.
Il paese transalpino, infatti, è
l’unico ad avere realizzato fin dal 1905 una piena separazione tra Chiesa e
stato. La questione del velo è stata presa come una minaccia contro tale
separazione e una negazione della laicità.
Di fronte all’estendersi delle
polemiche nel paese, e prima che il caso Dogru arrivasse alla Cedu, il
parlamento nel 2004 ha approvato una legge che bandisce i simboli religiosi
dalle scuole statali francesi. La decisione è stata presa a larghissima
maggioranza, perché hanno votato a favore sia la maggioranza (allora di
centrodestra) sia l’opposizione socialista. Il governo ha più volte
sottolineato che essa non mirava a colpire alcuna religione, ma intendeva
difendere, appunto, la laicità dello stato. «Si tratta di affermare con
chiarezza che la scuola pubblica è un luogo dove si va per imparare e non per
fare attività militante o proselitismo», ha proclamato il presidente
dell’Assemblea legislativa in occasione dell’approvazione della legge.
Occorre tener presente che la
repubblica francese è stata costruita attorno al principio di laicità, derivato
da una lunga tradizione. È nato infatti dalla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789, in piena rivoluzione. In seguito è stato
richiamato nelle leggi di riforma della scuola del 1882 e del 1886, che hanno
istituito la scuola primaria obbligatoria, pubblica e, appunto, laica. Ma la
vera chiave di volta della laicità francese è stata, come accennato, la legge
del 9 dicembre 1905, che ha separato in modo netto la Chiesa e lo stato.
Nell’articolo 1 vi si afferma: «La repubblica assicura la libertà di coscienza.
Essa garantisce il libero esercizio del culto sotto le sole restrizioni di seguito
decretate nell’interesse dell’ordine pubblico». E nell’articolo 2 la
separazione è definita in modo preciso: «La repubblica – vi si legge – non
riconosce, né stipendia, né sovvenziona alcun culto».
Una legge, in sostanza, che ha
stabilito un vero e proprio «patto di laicità», da cui sono derivate e derivano
varie conseguenze sia per i servizi pubblici sia per i cittadini che ne
usufruiscono. Lo stato, da una parte, riconosce il pluralismo religioso e la
propria neutralità nei confronti dei culti. I cittadini, dall’altra, come
contropartita di tale «protezione» della loro libertà religiosa, devono
rispettare i luoghi pubblici condivisi da tutti. La laicità dello stato è stata
poi consacrata dall’articolo 1 della Costituzione del 4 ottobre 1958, che dispone:
«La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa
assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge di ogni cittadino senza distinzione
di origine, razza o religione. Essa rispetta ogni credo». Non c’è chi non veda
l’affinità di tale formulazione, fin nell’uso delle stesse espressioni, con
quella dell’articolo 3 della Costituzione italiana. In Italia, tuttavia, dagli
stessi principi non sono seguiti gli stessi comportamenti legislativi. Non c’è
mai stato, in particolare, un problema di uso del velo nelle scuole statali. Lo
stesso è accaduto nel resto d’Europa. Là dove la questione si è posta, come in
Germania, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Spagna, Svezia e Danimarca, è stata
risolta in modi diversi, ma senza particolari conflitti. Problemi invece si
sono avuti – e ci sono ancora – in Turchia, dopo l’avvento al governo di
Erdogan che ha rimesso in discussione quanto stabilito agli inizi del ’900 dal
regime laico di Ataturk, il primo a impedire alle donne di portare il velo
nelle istituzioni pubbliche.
In Francia, invece, l’uso del velo ha
suscitato un vero scontro ideologico. Indossarlo ha assunto per i musulmani –
non per tutti, in verità: vi sono state infatti associazioni islamiche che
hanno appoggiato la legge – un significato preciso: rifiutare la laicità,
rifiutando la scuola pubblica, di seguire le lezioni di ginnastica, le lezioni
di biologia, le lezioni di musica, le lezioni di disegno e così via.
Le ragazze che vogliono indossare il
velo partono dal principio che la donna occidentale non è rispettata dall’uomo
e che loro stesse parteciperebbero a questa mancanza di rispetto se
accettassero appunto di non metterlo.
La polemica è cresciuta ancor più
dopo l’approvazione della legge. La maggioranza dei musulmani in Francia e
quelli all’estero, infatti, l’hanno intesa come un’aggressione e un rifiuto
dell’Islam, anche se la legge in realtà tratta dei simboli di ogni religione,
compresi il crocefisso e la kippah ebraica.
Si sono accese discussioni violente e
confuse. Per gli estremisti musulmani è stata l’occasione per designare la
Francia e l’Occidente come «nemici dell’Islam».
Insomma: il caso è diventato
l’emblema del confronto/scontro del modello francese di laicità con
l’integrazione dei musulmani negli spazi pubblici e, in primis, nella scuola.
Per molti cittadini francesi, l’aumento della presenza islamica minaccia i
valori dello stato, per cui occorre restaurare l’autorità repubblicana. La
scuola è diventata il terreno privilegiato di tale «risposta». La presenza
visibile in essa di segni religiosi è avvertita da molti come contraria alla
sua missione (di essere cioè uno spazio di neutralità e un luogo di risveglio
della coscienza critica), nonché una minaccia ai valori che deve insegnare, a
partire dall’uguaglianza tra uomini e donne.
Con il caso di Belgin Dogru la Cedu
si è dunque trovata a risolvere un problema giuridico, sconfinato però nel
campo politico e ideologico e gravato da implicazioni di grandissimo rilievo.
In ballo c’è la convivenza in Europa con una popolazione musulmana ormai
quantitativamente consistente. L’Islam costituisce la seconda religione del
vecchio continente. È importante rendersi conto di questo e ammettere che
l’Europa vive e continuerà a vivere con una parte della propria popolazione di
religione musulmana. Solo così si potranno definire sempre meglio l’ambito e le
condizioni di tale coabitazione.
La legge francese contro
l’ostentazione dei simboli religiosi nelle scuole, concepita con questo
spirito, è stata tuttavia raffazzonata e votata in un clima di forte tensione e
contrapposizione sociale. Così non si è riusciti a portare il confronto sui
problemi veri che si volevano affrontare: la laicità dello stato, appunto, e la
condizione della donna, la libertà della quale è tutelata e promossa
dall’ordinamento europeo. Questo secondo aspetto è a sua volta di primaria
importanza. Alcuni immigrati infatti vorrebbero che le loro donne, le loro
figlie e le loro sorelle vivessero nelle medesime condizioni dei loro
concittadini rimasti in patria, rifiutando i diritti di cui godono le donne
occidentali.
Di fronte alla Cedu il governo
francese ha ammesso che le restrizioni imposte alla giovane Dogru
nell’indossare il velo islamico all’interno della scuola costituivano una
limitazione del suo diritto di manifestare la propria religione. Tuttavia, ha
sostenuto, tale limitazione rispettava quanto previsto dall’articolo 9 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Essa infatti, oltre a rispondere a
necessità pratiche, come quella di dotarsi di un abbigliamento adatto
all’esercizio dell’educazione fisica a scuola, era necessaria per rispettare i
principi costituzionali di laicità e di uguaglianza tra i sessi.
Il governo tuttavia si è spinto più
in là, proprio per la forte concezione di laicità che viene sostenuta dalle
leggi francesi. Occorre anche tener conto – ha infatti osservato – delle
ripercussioni del comportamento di Belgin Dogru sugli altri alunni della sua
classe, che al tempo dei fatti avevano, come lei, undici anni, e valutare
l’impatto che un simbolo esteriore, quale il portare un velo, poteva avere
sulla libertà di coscienza e di religione di alunni in giovane età, facilmente
influenzabili. Si sarebbe potuto avere, in altri termini, un effetto di
proselitismo. Insomma, e questo è il senso della posizione del governo francese
nel dibattito di fronte alla Corte, lo stato, e le sue istituzioni come la
scuola, devono rimanere rigidamente neutrali in fatto di religione e dei suoi simboli.
La Corte, con la sentenza del 4
dicembre 2008 ha dato all’unanimità ragione al governo, condividendone le
ragioni. In più ha ricordato che la giovane Dogru e i suoi genitori, all’atto
dell’iscrizione alla scuola, avevano sottoscritto il regolamento interno
dell’istituto, impegnandosi così a rispettarlo. Esso vietava espressamente
l’uso di «simboli ostentatori che costituiscono in se stessi elemento di
proselitismo e di discriminazione». La giovane e i suoi genitori, dunque,
potevano ragionevolmente prevedere che il rifiuto di togliere il velo durante
il corso di educazione fisica e sportiva avrebbe potuto portare alla esclusione
dall’istituto per il mancato rispetto dell’obbligo di frequenza. In questo
caso, dunque, non è stata violata la Convenzione europea, e la restrizione alla
manifestazione della libertà religiosa, nei termini in cui è avvenuta, è stata
legittima, proprio perché ha avuto la finalità di preservare gli imperativi
della laicità negli spazi pubblici scolastici.
La Francia, dove secondo le stime
ufficiali, su una popolazione di religione musulmana stimata tra i 4 e i 6
milioni, le donne che indossano il velo sono circa 2000, ha approvato nel 2011
un’altra legge che vieta l’uso del velo islamico in pubblico. Anche questa ha
suscitato la reazione della comunità islamica. La Cedu è stata nuovamente
interpellata da donne condannate in base alla nuova legge, perché ritengono che
violi la loro libertà religiosa. Entro quest’anno la Corte europea dovrebbe
esprimersi in merito. Ma al di là di questo rimane aperto il problema, che è
politico, culturale e sociale, del rapporto degli stati democratici europei con
le nuove religioni presenti oggi nel vecchio continente e, in particolare con
l’Islam. Quale sia la strada migliore per realizzare convivenza, integrazione,
dialogo, rispetto reciproco, non è certamente facile stabilirlo. L’Europa
dispone di un patrimonio preziosissimo di valori sociali, civili, liberali e
democratici, in base ai quali il problema di cui si è detto deve essere gestito
e risolto. Non si tratta di una questione solo «formale», né si può affrontarla
in termini ideologici o manichei. La laicità appartiene a tutti, «vecchi» e «nuovi»
europei, e permette a tutti di esercitare la libertà di religione. È
importante, tuttavia, rendere il più possibile omogenea, nei vari paesi, la sua
traduzione nella vita concreta delle istituzioni e della società. Quanto sarà
possibile, infatti, il perdurare di una situazione che vede il medesimo
principio di separazione tra stato, Chiesa e religioni affermato nell’Unione
europea, tradursi nelle istituzioni dei vari paesi in livelli diversi di
tolleranza nei confronti del crescente pluralismo della società contemporanea? È
una situazione in cui la Cedu ha un compito notevole da svolgere. Ma certo non
può risolverlo da sola.
Paolo Bertezzolo