Eritrea 2: Regime succhia soldi e… 12 ceste di speranza
Si chiama
«diaspora tax». È il controverso tributo che il governo eritreo impone agli
emigrati sui redditi che producono all’estero (e che si aggiunge alle imposte
dovute agli stati che li ospitano).
Questa imposta è stata introdotta nel 1995 con la legge
n. 67 (Diaspora Income Tax Proclamation), ma in realtà ha una storia che
affonda le radici nella lotta per l’indipendenza contro l’Etiopia. Per
sostenere i guerriglieri contro l’esercito etiope, i movimenti indipendentisti
chiedono un sostegno economico agli emigrati. Gli espatriati rispondono con
entusiasmo. Ai ribelli arrivano così flussi importanti di denaro. Nel 1993,
raggiunta l’indipendenza, l’Eritrea è un paese distrutto che va ricostruito
dalle fondamenta. Asmara fa un nuovo appello agli emigranti affinché donino il
2% dei loro redditi. Ancora una volta la risposta è generosa.
Nel 1999 però scoppia una nuova guerra contro l’Etiopia.
Di fronte all’emergenza, Asmara chiede alla diaspora, oltre al 2%, una una
tantum di un milione di lire italiane e un versamento mensile di 50 mila
lire. Il peso di questi contributi inizia a diventare elevato e negli emigrati
sorgono i primi dubbi sull’opportunità di pagare. Il sistema politico si sta
infatti trasformando in una dittatura e nasce il sospetto che i fondi servano
al rafforzamento del regime. Anche perché Asmara non rende conto di come
vengano utilizzati i soldi.
Gruppi di
eritrei iniziano così a chiedere di ridurre i contributi. Il regime non cede.
Gli eritrei che non pagano si vedono negata la possibilità di rinnovare i
documenti, compiere atti giuridici in patria (acquistare e vendere immobili,
partecipare alla successione testamentaria, ecc.), inviare aiuti ai familiari,
rientrare nel loro paese. Chi non ha redditi o lavora «in nero» deve dimostrare
la sua condizione con documenti dello stato ospitante o attraverso la
testimonianza di persone di fiducia di ambasciate o consolati.
Per Asmara l’imposta è una fonte di valuta estera che
fluisce nelle sue casse in contanti. Questo flusso di denaro insospettisce
l’Onu. Tanto che, con la risoluzione n. 1907/2009, il Consiglio di sicurezza
indica l’imposta come possibile fonte di finanziamento ai fondamentalisti
islamici somali. Sull’onda di questa risoluzione, Canada, Svezia, Svizzera e
Germania avviano indagini. Anche in Italia qualcosa si muove. Il 4 giugno 2013
l’associazione Eritrean Youth Solidarity for National Salvation invia
una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e il 26 luglio
l’onorevole Lia Quartapelle Procopio (Pd) presenta un’interpellanza al
ministero dell’Economia e delle Finanze per chiedere come l’Italia possa
intervenire per bloccare la riscossione. Ma per il momento nessuna iniziativa è
stata ancora assunta.
Storia di un’associazione di cattolici ed
evangelici uniti per l’Eritrea
L’associazione
Dodiciceste nasce nel 2004 dalla volontà comune di evangelici e cattolici, da
un pastore valdese, Bruno Giaccone, e un sacerdote cattolico, don Gianni Pavin
che ogni anno riunivano i loro fedeli per la preghiera ecumenica. Marilena
Terzuolo, tessitrice, moglie del pastore, ci racconta la genesi: «Un giorno
un’associazione di Padova mi cerca: volevano aiuto per un progetto di tessitura
in Eritrea. Io andai con loro un mese a insegnare alle donne eritree. Ma al
ritorno mi dissi: “facciamo qualcosa, diamo continuità. Fondiamo
un’associazione con i nostri amici cattolici”. E loro si dichiararono subito
disponibili».
L’associazione parte con due motivazioni: portare avanti
un cammino ecumenico e creare lavoro per persone che ne hanno bisogno. «Dodiciceste
è un’associazione ecumenica nata proprio per essere segno di comunione tra
cristiani di confessioni diverse che si riconoscono fratelli tra di loro nel
momento in cui c’è bisogno di mettere insieme quel poco che ognuno ha portato
con sé per condividerlo, dopo aver ascoltato gli insegnamenti del maestro di
Nazaret». Da qui il nome: dalle dodici ceste di avanzi della moltiplicazione
dei pani e dei pesci.
In un villaggio chiamato Segheneiti esisteva già una
scuola di tessitura gestita dalle suore cappuccine.
«Il primo obiettivo era creare dei piccoli gruppi di
lavoro – racconta Marilena -. Tra le donne che terminavano la scuola di
tessitura, a quelle che lo desideravano, l’associazione procurava un locale
dove lavorare pagando l’affitto per un anno, l’acquisto dei telai e un po’ di
materia prima e l’accompagnamento tecnico per i primi mesi».
Un’intuizione
socio-economica vincente: in Eritrea, dopo la lunga guerra con l’Etiopia,
mancavano i Netzelà, il vestito tradizionale indossato da tutte le donne
eritree. Questi erano infatti prodotti solo in Etiopia. Ma era difficile
iniziare un’attività, a causa della mancanza di fondi e di competenze.
Con 5.000 euro si riusciva ad avviare un gruppo di cinque
donne alla produzione di Netzelà, foendo i telai necessari.
«Tutti i gruppi che abbiamo aiutato a partire continuano
a lavorare. Tutto quello che producono lo vendono subito sul mercato locale.
Viene lavorato cotone coltivato nel paese nei telai costruiti localmente» dice
con orgoglio Marilena. «Lavorano senza padroni, senza inquinare l’aria e
l’acqua, senza bisogno di energie che non siano le loro braccia e la loro
intelligenza, senza sfruttamento da parte di nessuno. Ora queste donne possono
procurare un onesto e dignitoso futuro alle loro famiglie numerose».
Sono i gruppi stessi che dopo un anno di affitto
sovvenzionato dicono: «Ce la facciamo da sole, andate ad aiutare altre donne».
E questo è un risultato strabiliante. I gruppi si moltiplicano. A Segheneiti
diventano un centinaio le donne coinvolte.
Le suore
foiscono un valido appoggio logistico e culturale, aiutano Dodiciceste nella
gestione pratica e finanziaria quotidiana. L’associazione le appoggia pagando i
salari delle formatrici delle loro scuole di tessitura.
L’accompagnamento oltre che tecnico è anche
organizzativo. Ad esempio in ogni gruppo si mette in piedi un fondo di
solidarietà, che può servire in caso di necessità a una delle donne.
«Essendo un’associazione ecumenica siamo andati a vedere
cosa facevano gli evangelici in Eritrea. Ad Asmara avevano anche loro una
scuola di tessitura che ospitava ragazze prese dalla strada. Lì il contesto è
molto diverso. Ma non avevano quasi nulla». Dodiciceste fa quindi partire un
progetto anche ad Asmara insieme alla Chiesa evangelica. «Poi ci hanno detto
che a Keren esisteva l’unica scuola di sordi di tutto il paese, gestita dalla
Chiesa evangelica. Anche lì c’era un tentativo corsi di tessitura».
A Keren le suore cappuccine stavano aprendo in quel
momento una nuova casa, e gli evangelici avevano scarsità di insegnanti di
tessitura. «La superiora ha subito detto “possono venire da noi a imparare”. Si
sono impegnate a dare priorità agli insegnanti della scuola evangelica, i quali
in questo modo non si devono spostare in altri villaggi». La collaborazione tra
le due chiese diventa realtà.
«Anche
quando abbiamo lavorato con gli evangelici le suore sono sempre state con noi,
e ci sono stati dei momenti belli e significativi anche dal punto di vista
spirituale, con le preghiere in comune. I pastori della Chiesa evangelica e le
suore non si conoscevano neppure prima e la nostra associazione li ha portati a
collaborare».
Dodiciceste finanzia i progetti grazie ad alcune
fondazioni italiane, all’8×1000 della Chiesa valdese e a donazioni private. I
soci sono una trentina tra cattolici ed evangelici e vivono sparpagliati tra
Asti e Acqui Terme (Al). Continua Marilena: «Poi abbiamo lavorato qualche anno
in Mozambico con un frate cappuccino, appoggiando una falegnameria di base a
Quelimane». Un’esperienza che si è chiusa ma ha dato i suoi frutti perché la
falegnameria funziona e fornisce pure banchi alle scuole. In Eritrea
Dodiciceste lavora con altre due scuole di suore cappuccine nei villaggi di Adi
Quala e Eden: «Diamo un sostegno alla scuola di tessitura, pagando lo stipendio
delle insegnanti o comprando dei materiali».
Marilena
ricorda l’importanza della presenza: «Per la gente con cui realizziamo i
progetti è importante che andiamo in Eritrea. Ci chiedono sempre di andare
lavorare con loro. È una questione di esserci, di contatto, di amicizia. Oltre
che una trasmissione di competenze dal punto di vista tecnico». Ma diventa
sempre più difficile ottenere il visto per viaggiare nel paese africano: «Tempo
fa andavamo anche tre volte all’anno, poi sono passati tre anni prima che
riuscissimo a tornare nel 2013». Mentre è quasi impossibile mandare eritrei a
studiare all’estero, sia per la difficoltà di avere il permesso, e soprattutto
per il timore che non toerebbero più in patria.
La riconoscenza della gente è grande: «Nel luglio scorso
alla riunione a Segheneiti con il vescovo e gli amministratori dell’ospedale ci
hanno detto “ci siete solo voi come associazione che ci sostenete”. Qualche
anno fa c’è stata una carestia, allora abbiamo raccolto fondi per dare da
mangiare ai bambini dell’asilo delle suore, ma anche della scuola pubblica. Così
poi hanno fatto la festa dei bambini, l’8 dicembre, tutti insieme».
L’associazione ha un principio: lavorare con tutti, chiese, pubblico, privato.
Oltre al valore sociale ed economico delle attività di
Dodiciceste, è importante anche il risvolto culturale. Ricorda Marilena: «Se
fossero scomparsi i Netzelà sarebbe finita una tradizione, un modo di
essere, di esistere, che apparteneva proprio a loro e a tutte le donne che le
avevano precedute».
Marco Bello