Eritrea. Dal paese senza diritti ai campi di tortura
Fuga dall’Eritrea
Venti
anni fa l’Eritrea diventa il cinquantatreesimo stato dell’Africa. Dopo una
lunga guerra d’indipendenza dall’Etiopia. Le speranze sono tante. C’è il
fermento di una nascita, un popolo che anela un futuro di libertà e
autodeterminazione. Ma ben presto il regime dell’ex guerrigliero Isaias
Afewerki diventa il più duro e repressivo del continente. Ogni libertà è
negata. Anche quella fisica. Solo una ristrettissima élite politica e militare
può fare tutto ciò che vuole. E controlla il paese. Così i giovani iniziano a
fuggire, e padri e madri vogliono portare i propri bambini lontano dalla «prigione
a cielo aperto».
Ma il diavolo è anche oltre confine. Nasce e fiorisce un
lucrosissimo commercio di «carne umana». Bambine, bambini, donne, uomini in
fuga dal regime sono rapiti, poi venduti e rivenduti. Fino ad arrivare nei «campi
di tortura» nel Sinai, e altrove. Qui subiscono trattamenti «disumanizzanti».
Perché tutto questo? Per soldi. Un giro d’affari di 622 milioni di euro dal
2009 a oggi. Nel silenzio quasi assoluto dei mezzi di informazione e dei
governi del mondo. Non fa audience, non fa spettacolo. Neppure quando i
sopravvissuti al traffico muoiono a un passo dalla terra promessa: l’Europa.
Marco Bello
Perché oggi si fugge dall’Eritrea
Nel 1993 l’Eritrea festeggia l’indipendenza dall’Etiopia. Ma
il suo regime si trasforma nella più feroce dittatura del continente. Un’intera
generazione è piegata e senza speranze. Meglio tentare la fuga, anche se ad
alto rischio.
«La
dittatura ci toglie anche l’aria», è questa la frase che si sente ripetere più
spesso dai ragazzi eritrei che arrivano sulle nostre coste. E niente come
questa espressione racconta meglio l’Eritrea, un paese tenuto in ostaggio da un
presidente-padrone, Isaias Afewerki, che l’ha trasformato in una sorta di
carcere a cielo aperto.
Colonia italiana dal 1899 al 1941 (ma il primo
insediamento italiano ad Assab risale al 1869), diventa quindi protettorato
britannico e poi regione federata all’Etiopia, alla quale viene annessa nel 1962.
Già nel 1961 però il Fronte di liberazione eritreo (Elf) rivendica
l’indipendenza e dà il via alla guerra di liberazione che durerà fino al 1991.
Negli anni Sessanta il movimento indipendentista si spacca e un gruppo di suoi
membri dà vita al Fronte popolare di liberazione eritreo (Eplf), di impronta
socialista. In pochi anni l’Eplf acquisisce forza (anche grazie all’aiuto dei
paesi socialisti) e, nel 1982, affronta e sconfigge sul campo l’Elf.
Nel 1991, il regime etiope di Menghistu cade e Meles
Zenawi, divenuto presidente dell’Etiopia, dà l’assenso a un referendum per
l’autodeterminazione dell’Eritrea. Nella consultazione gli eritrei votano per
il di- stacco dall’Etiopia. Così, il 24 maggio 1993 il paese diventa
indipendente. È in questi anni che Isaias Afeworki, il capo carismatico
dell’Eplf, emerge come leader indiscusso. Sono in molti a pensare che sia
l’uomo adatto per aprire una stagione di democrazia e prosperità per il piccolo
paese sul Mar Rosso. In realtà, Isaias è un capo guerrigliero poco incline ai
metodi democratici che ha gestito con pugno di ferro l’Eplf: nessuna pietà per
i nemici, intransigente con gli oppositori interni. Quando diventa capo dello
Stato non cambia atteggiamento.
Nei primi anni dopo l’indipendenza, l’Eplf si trasforma
in Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (Pfdj) e, tra il 1994 e il
1997, dà vita a piccole riforme. Il governo promette anche di promulgare una
Costituzione democratica e multipartitica.
Nel 1997 il testo della carta è
pronto, però non entra in vigore e non vengono neppure indette elezioni.
Isaias, si autonomina capo dello stato e comandante supremo delle forze armate,
centralizza i processi decisionali. Il Pfdj diventa l’unico partito ammesso, i
suoi membri devono assicurare fedeltà assoluta al presidente il quale, a sua
volta, utilizza gli iscritti al partito per controllare ogni snodo vitale dello
stato. Anche il sistema giudiziario viene smantellato. I giudici non sono
indipendenti e decidono non in base ai codici (che esistono), ma in base ai
decreti presidenziali. Nel 1996 nasce la Corte speciale, un tribunale composto
da militari che giudicano in udienze segrete e con criteri «politici» chiunque
osi criticare
il regime.
Tutte le forme di dissenso vengono duramente represse.
Il caso più eclatante (e conosciuto) è l’arresto avvenuto il 18 settembre 2001
di un gruppo di ministri e funzionari, rei di aver chiesto l’applicazione della
Costituzione e delle libertà politiche e civili. Tra essi eroi della guerra di
liberazione dell’Etiopia, amici e compagni di Isaias, come Petros Solomon (capo
dell’intelligence, poi ministro degli Esteri e, infine, ministro delle Risorse
marittime), Hailè Woldensaye (ministro degli Esteri), Mohamud Ahmed Sharifo
(ministro dell’Inteo), Ogbe Abraha (Capo di stato maggiore). Di loro non si
saprà più nulla.
Secondo Amnesty Inteational, il governo del
presidente Isaias Afewerki ricorre «sistematicamente ad arresti e detenzioni
arbitrarie per reprimere tutta l’opposizione, mettere a tacere i dissidenti, e
punire chiunque si rifiuti di accettare il sistema repressivo. Migliaia di
prigionieri politici e di coscienza sono scomparsi mentre erano detenuti in
segreto e in isolamento, senza accusa né processo e senza avere contatti con il
mondo esterno. Tra i detenuti ci sono oppositori e critici – reali o sospetti –
del governo, politici, giornalisti, membri di gruppi religiosi registrati e
non, persone che cercavano di sfuggire o disertare il servizio nazionale
obbligatorio a tempo indeterminato o di scappare dal paese».
Nella classifica sulla libertà di stampa stilata ogni
anno dall’organizzazione Reporter senza Frontiere, l’Eritrea è
all’ultimo posto. Nel paese non esistono media indipendenti. Televisione e
giornali sono di proprietà dello stato e anche i servers che permettono
il collegamento all’Inteet sono rigidamente controllati dall’autorità
statale.
Il regime non si accanisce solo contro oppositori e
giornalisti. Come molte dittature, non tollera un ruolo attivo delle fedi. A partire
dai copti ortodossi, la Chiesa maggioritaria. Nei primi anni dall’indipendenza,
ai copti viene garantita una certa autonomia di azione, ma quando abuna
Antonio, un prelato critico nei confronti della deriva dittatoriale, viene
nominato Patriarca, il regime reagisce. Dopo varie intimidazioni, nel 2005 abuna
Antonio viene deposto, arrestato e sostituito con abuna Dioscoro. Anche
l’Islam, pur essendo una delle confessioni ammesse dallo stato (oltre alla
Chiesa copta, a quelle cattolica e luterana), sta conoscendo continue
persecuzioni. Il regime si accanisce in particolare contro i musulmani
wahabiti, sospettati di avere contatti con le formazioni fondamentaliste e
dell’opposizione eritrea all’estero. La Chiesa cattolica, che nel paese conta
quattro diocesi, non è indenne dalla repressione. Il governo non vede di buon
occhio un’organizzazione religiosa che opera nel settore sociale e tenta, in
tutti i modi, di limitae i campi di azione. I missionari sono stati espulsi e
il clero eritreo rimasto, oltre a dover adempiere agli obblighi di leva,
subisce controlli e vessazioni continue. Le confessioni più perseguitate sono
però quelle non riconosciute: testimoni di Geova, pentecostali, ecc. Secondo Amnesty
attualmente sarebbero detenuti 1.750 musulmani e cristiani di Chiese non
riconosciute senza alcuna accusa.
Solo le forze armate, come osserva il rapporto di Inteational
Crisis Group dal titolo Eritrea: Scenarios for Future Transition
(2013), mantengono un certo grado di autonomia, poiché Isaias fa peo sui
militari per gestire la nazione: il paese infatti è diviso in cinque regioni,
ciascuna retta da un generale con pieni poteri sul territorio di competenza che
risponde solo al presidente. Per assicurarsi la fedeltà dei militari, Isaias
garantisce loro privilegi economici e materiali e tollera alti livelli di
corruzione. Anche se è proprio in seno all’esercito che è nato il misterioso
tentativo di golpe del 21 gennaio 2013 culminato con l’occupazione del
ministero dell’Informazione e poi subito rientrato.
Da anni Isaias continua a giustificare il mancato
passaggio a un sistema democratico con il permanere dello stato di guerra. Il
dittatore si è infatti circondato di nemici. Nel 1999, a soli cinque anni
dall’indipendenza, è scoppiata una nuova guerra contro l’Etiopia per dispute di
confine che ha fatto decine di migliaia di morti. Ufficialmente le ostilità
sono cessate nel 2000, ma i due paesi vivono una situazione di tensione
latente. Negli anni successivi l’Eritrea ha poi avuto scontri con il Sudan,
accusato di sostenere le milizie islamiche eritree, e con Gibuti, per questioni
di confine.
Per sostenere questo interventismo, Isaias ha dato vita
a un servizio militare a tempo indeterminato. Ragazzi e ragazze vengono
arruolati a 17 anni e non conoscono la data del loro congedo. La leva permette
di controllare le nuove generazioni e di fornire manodopera gratuita nella
costruzione delle infrastrutture pubbliche. Le testimonianze dei giovani
denunciano una disciplina dura, vessazioni da parte degli ufficiali e,
soprattutto, l’impossibilità di continuare gli studi.
Questo sistema di arruolamento sta drenando le migliori
risorse del paese che si sta gradualmente impoverendo. Oggi più del 50% della
popolazione vive al di sotto del livello di povertà. Di fronte a un regime così
duro e intransigente, molti eritrei fuggono. Oggi la diaspora conta circa un
milione e mezzo di persone, quasi un quarto dell’intera popolazione eritrea.
Una cifra enorme se pensiamo che «solo» un sesto dei somali si sono rifugiati
all’estero, nonostante la Somalia sia un paese che vive da più di vent’anni una
terribile guerra civile.
Enrico Casali, Marco Bello