Spiritualità e pragmatismo

A 20 anni dalla morte, a Spezzano la mostra «a tutti e a
ciascuno: vita e opere di p. Giuseppe Richetti».
Il 12 gennaio è stata inaugurata presso casa Corsini a Spezzano
(Modena) la mostra in memoria di p. Giuseppe Richetti in occasione del 20°
anniversario della sua morte. Nella chiesa parrocchiale si è tenuta una
celebrazione in sua memoria, con partecipazione di tutta la grande famiglia del
missionario, e autorità e popolazione. P. Mario Barbero per i missionari della
Consolata ha ricordato la figura di p. Giuseppe e ha offerto testimonianze
dall’Africa.

Un pioniere della fede e dell’evangelizzazione.

È nitido il ritratto che restituisce il profilo di padre Giuseppe Richetti,
missionario della Consolata, di cui abbiamo ricordato i vent’anni dalla morte
lo scorso 12 gennaio. Nato a Spezzano di Fiorano il 14 marzo 1933 è morto a
Nairobi (Kenya) il 12 gennaio 1993, alla soglia dei sessant’anni; formatosi
presso il seminario di Modena-Nonantola, p. Giuseppe ha dedicato tutta la sua
vita alla missione in Africa. Thomson’s Falls (ora Nyahururu), Kerugoya, Tuthu,
Sagana e Karuri sono le tappe del suo impegno in Kenya. In quelle missioni p.
Giuseppe ha profondamente innovato, nella scia del Vaticano II, la presenza
cristiana nelle comunità africane: dal coinvolgimento dei laici nella
catechesi, alla traduzione di tutta la liturgia delle ore e della Parola in
kikuyu, la lingua maggiormente diffusa tra i locali, fino alla costruzione di
chiese, scuole, asili, oratori e luoghi di formazione. Una sintesi
straordinaria di pragmatismo e spiritualità.

Era un uomo di fede e un amante della liturgia, ma sapeva
diventare geometra, ragioniere e architetto di fronte alle esigenze delle
comunità che era chiamato a servire. E in ogni impresa era in grado di
coinvolgere, anche a distanza, i fratelli, gli amici e i parenti di Spezzano e
del modenese, in una relazione con il territorio delle sue origini che passava
dal continuo scambio epistolare ai container riempiti di materiali utili alle
missioni. In tanti sono stati coinvolti nei suoi harambee, ovvero quei
momenti contagiosi di solidarietà in cui tutti erano chiamati a dare quanto
potevano per il successo delle opere intraprese.

Padre Giuseppe è riuscito a far diventare tutti un po’ missionari.
E gli spezzanesi hanno deciso di non dimenticare quanto accaduto. Lo racconta
Francesco Richetti, fratello di p. Giuseppe, che, insieme ai familiari, ha
curato l’organizzazione della mostra «A tutti e a ciascuno, opere pensieri e
frutti di p. Giuseppe Richetti». «Insieme all’Amministrazione comunale, alla
parrocchia di Spezzano e ai missionari della Consolata, che ringrazio per la
disponibilità, abbiamo voluto offrire un momento che non fosse solo di ricordo
o commemorazione, ma che servisse ad avvicinare la figura di p. Giuseppe alla
comunità di Spezzano, soprattutto ai più giovani. Mio fratello è scomparso
venti anni fa. Il tempo passa, ma ciò che ha fatto rimane ancora oggi vivo tra
le comunità che ha servito in Africa. Conoscere le sue opere, i suoi pensieri,
i suoi scritti e condividere i frutti della sua azione è il modo migliore per
ricordarlo e allo stesso tempo per “restituire” alla sua Spezzano
consapevolezza e orgoglio per ciò che ha prodotto».

«Penso tra l’altro – continua Francesco Richetti – che nel profilo
di p. Giuseppe ci siano tante indicazioni utili per superare le difficoltà di
questo tempo di crisi. A chiunque gli ponesse una domanda, anche il solito “come
va?” rispondeva sempre “benone!”. Anche di fronte alle difficoltà, alla povertà
di mezzi e risorse, ai suoi acciacchi che non l’hanno mai abbandonato, la
profonda fede e la convinzione che insieme si può far fronte a ogni impedimento
hanno caratterizzato una vita durante la quale ha infuso speranza e amicizia
cristiana a tante persone».

«Abbiamo voluto ripercorrere le tappe
salienti del suo impegno missionario, dalla partenza da casa al seminario di Modena-Nonantola,
dagli studi a Torino con i missionari della Consolata fino alla sua ragione di
vita: la missione in Kenya, il grande impegno nella liturgia e nella catechesi,
e la costruzione di tante strutture di accoglienza, le prime in muratura di quegli
anni».

Nella giornata del 12 gennaio è stata inaugurata alle ore 16 la
mostra presso casa Corsini a Spezzano e alle ore 18, presso la chiesa
parrocchiale di Spezzano si è tenuta una celebrazione in ricordo del
missionario. Sono intervenuti il Sindaco di Fiorano Claudio Pistoni, il parroco
di Spezzano don Paolo Orlandi, P. Mario Barbero per i missionari della
Consolata che ha ricordato la figura di padre Giuseppe e ha offerto
testimonianze dall’Africa, Annalisa Vandelli autrice del libro «Continuerà a sorridere»
sulla vita di padre Richetti, e Anna Richetti in rappresentanza della famiglia.

Matteo Richetti


Il mio ricordo

La notizia della morte di p.
Giuseppe Richetti mi colpì come un fulmine mentre ero negli Stati Uniti
d’America. Non potevo crederci perché solo qualche giorno prima avevo ricevuto
una sua lettera che mi augurava Buon Natale e mi ragguagliava sulla sua attività
nella parrocchia di Karuri.

Avevo conosciuto p. Richetti, almeno di vista, prima ancora che
fosse ordinato sacerdote nel 1956, ma fu soprattutto nei dodici anni trascorsi
in Kenya che lo frequentai ed ebbi modo di apprezzare le sue doti di
missionario vulcanico e carismatico: il suo spirito di preghiera, la sua
genialità e creatività, la sua passione nell’attuare il Concilio Vaticano II e
per la formazione dei catechisti, dei laici, delle persone consacrate, dei
sacerdoti.

Fui perciò molto contento quando, lo scorso 12 gennaio, i suoi
famigliari mi invitarono a partecipare al 20° anniversario della sua morte nel
suo paese nativo di Spezzano e a portare la mia testimonianza su di lui. A
Spezzano sono stato impressionato dalla massiccia partecipazione della gente a
questo evento: dalle autorità cittadine, alla parrocchia, a tante persone dei
paesi vicini, tutti hanno risposto all’appello.

Sono stato anzitutto ammirato della sua numerosa famiglia, dai
fratelli ai nipoti ai pronipoti, tutti impegnati non solo nell’organizzazione
dell’evento ma nel condividere l’impegno missionario di p. Giuseppe.

Incontrando tante persone venute per questo anniversario, mi è
sembrato che a distanza di vent’anni p. Richetti fosse vivo lì in mezzo alla
sua gente, a richiamare la realtà della Chiesa missionaria e della
responsabilità missionaria di ogni cristiano.

L’impressione dominante è stata rendermi conto che p. Richetti è
vivo. Ripercorrendo le tappe del suo servizio missionario in Kenya nei suoi
vari aspetti, è impressionante vedere come egli sia riuscito a «contagiare»
tante persone, famigliari e amici, nei suoi impegni missionari fosse pur la
costruzione di una chiesa o di una scuola o di un centro pastorale, o la
formazione del personale: catechisti, ministri della parola, laici, famiglie.
Come ha scritto suo nipote Matteo: «P. Richetti è una sintesi straordinaria tra
spiritualità e pragmatismo».

I suoi progetti missionari sono continuati dopo la sua morte e con
un’ampiezza imprevista. Sono nati dei gruppi che hanno realizzato centinaia di
adozioni a distanza aiutando così
migliaia di famiglie keniane che hanno potuto mandare a scuola i loro figli.
Sono state costruite delle scuole, dei dispensari; si sono realizzati degli
interscambi, molte persone dall’Italia sono andate in Kenya anche solo per
brevi periodi, rientrando entusiaste per quanto hanno visto e decise a vivere
in modo nuovo il proprio impegno cristiano.

P. Richetti continua a essere un «costruttore di chiese» non solo
perché ha costruito  edifici e formato
comunità in Kenya ove ha lavorato per 25 anni, ma anche in Italia ove molte
persone, attratte dal suo dinamismo missionario, hanno riscoperto cosa significhi
essere Chiesa e hanno adottato una nuova mentalità e un nuovo stile di vita.

Mario Barbero

Matteo Richetti e Mario Barbero




Fede dietro le sbarre

Benvenuti a Kamiti, la Prigione
di massima sicurezza.
Kamiti con 3.000 detenuti e 800 guardie è la prigione maschile
più grande del Kenya. Vi si entra per non uscie più. Ospita il fior fiore dei
condannati a morte e gli ergastolani più pericolosi. Eppure proprio in Kamiti
sta fiorendo la speranza.

Kamiti è una parola che in Kenya
fa venire i brividi. È il nome della più infame prigione maschile del paese.
Infame perché costruita dai colonialisti inglesi nel periodo dell’insurrezione
dei Mau Mau. Infame perché durante il ventennio del partito unico, 1982-2002,
era il posto dove finivano molti prigionieri politici. Infame perché chi entra
là, non ne esce più, chiuso com’è nel braccio della morte in attesa di
un’impiccagione che non arriva mai – da anni non ci sono più esecuzioni, anche
se la pena di morte non è stata abolita -, o condannato all’ergastolo. Infame
perché ospita il fior fiore dei delinquenti del paese: oltre 3.000 detenuti che
hanno commesso tutti i peggiori delitti elencati nei manuali di criminologia.
Infame perché le 800 guardie, sottopagate, spesso non vivono una vita migliore
dei loro ospiti forzati, e alcune si lasciano coinvolgere in traffici non
proprio leciti. Infame perché dalla connivenza di racket di detenuti e
carcerieri corrotti, sono partite alcune delle truffe digitali più raffinate ai
danni di tanti utenti di cellulari. Infame infine perché più di una volta c’è
stato l’infausto connubio tra guardie corrotte e condannati a morte per
eseguire sanguinose rapine i cui autori sparivano misteriosamente, salvo poi
riapparire crivellati di colpi quando qualcuno cominciava a sospettare.

Ma Kamiti non è solo questo. Per molti è luogo di speranza e
redenzione. Come lo fu nel 1957 per Dedan Kimathi, un capo militare dei Mau
Mau, impiccato proprio in quella prigione dagli Inglesi: la sua non fu una
morte da disperato. L’incontro con p. Nicola Marino, un missionario della
Consolata che visitava regolarmente i prigionieri Mau Mau, gli cambiò la vita e
Kimathi morì completamente riconciliato con Dio e con gli uomini, «come un
santo», scrisse il cappellano che l’accompagnò all’esecuzione.

Nella prigione c’è una cappella interconfessionale in pietra, 200
posti a sedere, costruita dagli Inglesi nel 1954. È ancora perfettamente
conservata e funzionante: la sua croce di legno, i banchi tradizionali e le nude
pareti di pietra a vista offrono un rifugio spirituale a molte anime tribolate.
La usano credenti delle più svariate denominazioni, e anche i cattolici, che
sono circa un sesto dell’intera popolazione carceraria.

La comunità cattolica è molto organizzata, con un bel gruppo di
catechisti che seguono i detenuti nei vari blocchi, con un cappellano ufficiale
delle varie prigioni del paese, che visita periodicamente anche Kamiti, e
diversi volontari estei che collaborano stabilmente. Tra questi le suore missionarie
della Consolata che sul terreno della prigione, ma appena fuori dalle mura,
hanno costruito il Centro Cafasso, per aiutare i pochi che hanno la grazia di
uscire da quella bolgia a reinserirsi nella vita quotidiana. E p. Eugenio
Ferrari che da sempre ha una passione particolare per i prigionieri, da buon
missionario della Consolata e «pronipote» di s. Giuseppe Cafasso, protettore
dei detenuti. Con lui e i ragazzi della rivista The Seed (Il Seme)
entriamo a scoprire dove sboccia la speranza.

Goditi la libertà intanto che
puoi

Niente mi aveva preparato alla mia prima visita a Kamiti, la
prigione di massima sicurezza. Un massiccio cancello di legno rinforzato da
sbarre di ferro marca l’ingresso alla prigione. Dopo dieci passi c’è un secondo
cancello tutto di ferro. Ovunque vedi guardie armate mazzi di chiavi
incredibilmente grandi appesi al collo.

Accolti dal capo catechista, Geoffrey Kamau, e dai suoi aiutanti,
siamo subito introdotti all’ufficiale di servizio. Ci controllano da capo a
piedi nel caso portassimo merce illegale. Mentre il pesante cancello metallico
si chiude dietro di noi, ho la sensazione che qualcosa mi sfugga, ma non riesco
a focalizzare cosa.

Dentro la struttura la mia attenzione è subito attirata dalle mura
alte almeno cinque metri e costellate dalle torrette delle sentinelle armate.
Nel cortile gruppi di detenuti ci guardano stupiti, mentre si annoiano nella
mattinata che non finisce mai.

Ci dirigiamo verso l’infermeria. Un’altra porta di ferro si apre e
chiude per noi, e lì, proprio di fronte a noi, vediamo un gruppo di carcerati
che canta allegramente le lodi del Signore. Non me l’aspettavo. Come si può
essere allegri a Kamiti? Mi dicono subito che si stanno preparando per la
messa.

Incontro Thomas N. che è qui da diciassette anni ed è convinto di
aver completamente cambiato la sua vita. Un giorno verrà liberato, questo spera
con tutto il cuore. Un desiderio impossibile da realizzare visto che è dentro a
vita per rapina a mano armata. In prigione ha scritto due libri (The Curse
e The Sweet sting) e ne ha altri cinque in cantiere. Sogna che qualcuno
gli doni un computer per scrivere più velocemente. Dice che i carcerati sono
uomini e non dovrebbero essere trattati come animali.

Un altro cancello si è aperto e chiuso. Siamo in un altro reparto.
Qui ci sono molte attività in corso: falegnameria, meccanica, sartoria,
lavorazione del cuoio, produzioni artistiche e stampa delle targhe delle auto.
Potrebbe essere chiamata «l’area industriale» di Kamiti. Alcuni dei lavori dei
carcerati sono stupendi. Riesco ad avere uno dei loro souvenir, un anello
multicolore in stile maasai.

Più in là c’è l’area della scuola: elementari, medie e superiori
sotto lo stesso tetto, le classi divise da tende di sacco. Determinazione è
dipinta sulle facce degli studenti e degli insegnanti. Hanno anche un giornale:
The Kamiti Times magazine. Tutti gli insegnanti sono carcerati, compreso
il preside, Albert Kitur, 17 anni di prigione. Ci sono 42 insegnanti e, nel
2012, 20 candidati per l’esame di terza media e 15 per la maturità.

Un altro cancello si apre e chiude rumorosamente. Ci troviamo in
uno degli affollati dormitori, chiamati blocchi. Qui solo gli affidabili
(carcerati premiati per buona condotta) hanno il privilegio di dormire in un
letto. Ben visibili nelle loro uniformi blu, sono un collegamento tra i
detenuti e le guardie. Tutti gli altri dormono sul pavimento quando il sole
tramonta.

Qui c’è anche un’area chiamata «Old Trafford» (come lo stadio del Manchester
United
), un cortile dove i detenuti possono giocare a pallone, suonare,
prendere il sole e rilassarsi. Hanno perfino una Kamba boy’s band.

La visita è finita. Ho cercato di essere rilassato, rassicurato
dalla presenza di Christopher Wambua che è guardia e catechista, ma sono
contento di uscire da questo posto che mi dà i brividi, anche se tutti i
detenuti sono stati di una cordialità e gentilezza incredibili.

Finalmente il massiccio cancello d’entrata si chiude alle mie
spalle a conclusione della nostra visita, resa possibile dalla politica open
doors
del governo e dalle riforme iniziate dopo il 2002 dal vicepresidente
Moodi Awori (che era anche umile parrocchiano del santuario della Consolata di
Nairobi).

E improvvisamente capisco. Ora so cosa mi è sembrato di perdere
mentre entravo: la libertà.

Fede e riabilitazione

La vita in prigione è un tempo che non finisce mai, ma Peter
Ndungu (ergastolano), si considera fortunato perché è ancora vivo pur essendo
stato condannato all’impiccagione nel 1997. Quando la corte di appello aveva
confermato la sentenza, aveva avuto la certezza che fosse la fine.
Fortunatamente lasciò il braccio della morte nel 2009 quando il presidente
Kibaki commutò la sentenza in ergastolo per 4.000 condannanti a morte.

Quindici anni dopo quel fatidico 1997, Peter è un uomo cambiato.
Ci viene incontro con una vecchia copia del The Seed, un numero speciale
del 2002 dedicato al centenario dei missionari della Consolata in Kenya. Quella
copia è specialissima per Peter, non solo perché l’ha aiutato a rinforzarsi
nella fede, ma anche perché riporta un coloratissimo disegno (a biro) che lui
fece della Madonna col bambino (ricordo con emozione quella Madonnina! ndt).

«Una volta condannato a morte, mi sono reso conto che i miei sogni
erano svaniti nel nulla. Dovevo fermarmi, pensare e approfondire di più il mio
rapporto con Dio. Avevo grandi piani, invece di colpo mi trovavo sotto stretta
sorveglianza, perquisito a ogni piè sospinto, confinato in una cella e
autorizzato a prendere il sole solo per pochi minuti ogni giorno. Avevo grandi
ambizioni e improvvisamente era tutto finito».

Fortunatamente non era del tutto nuovo al cammino di fede. A suo
tempo era stato un membro attivo del gruppo giovanile della sua parrocchia.
Chiuso in cella, cominciò a riscoprire la scintilla di fede che pensava di aver
perso tanti anni prima. «Mi sono riavvicinato alla Chiesa. Ho avuto un sacco di
tempo per essere vicino a Dio. Mi sono messo a studiare la dottrina della
Chiesa e ho letto la bibbia da capo a fondo. L’esempio di persone come Giuseppe
e Daniele che come me erano passate attraverso la prigione, mi ha dato coraggio».

Da allora Peter è cresciuto spiritualmente fino a fare anche il
corso di catechista alla «Scuola cattolica di formazione spirituale» che,
dentro la prigione, dal 2010 forma animatori e accompagnatori spirituali per
aiutare i detenuti. Peter, ora catechista e accompagnatore, sa bene quanto sia
importante per i nuovi detenuti essere aiutati ad accettare e apprezzare il
processo di riabilitazione offerto in prigione sia dallo stato che da organizzazioni
religiose. Così spende gran parte del suo tempo aiutando soprattutto i giovani
ad accettare quel che sono senza perdere il rispetto di se stessi e la
speranza, perché senza di essa molti dei nuovi si lasciano andare e diventano
deboli e malati. «Quando ti trovi in una situazione come quella, si diventa
come fratelli e la fede in Dio ti aiuta a capire che quel che vivi è solo un
fallimento temporaneo. C’è vita oltre questo mondo».

Insieme ad altri detenuti, Peter ha aiutato a iniziare il «Prison
Entertaining and Counselling Group
» che punta a coinvolgere i prigionieri
in un programma di teatro, danze e canti per incoraggiarli a non sprecare il
loro tempo e a valorizzare invece i loro talenti anche attraverso i molti corsi
professionali che la prigione offre.

Peter ha accettato la sua situazione, eppure continua a sperare di
poter ottenere, un giorno, il perdono presidenziale per tornare fuori, libero,
e partecipare al processo di costruzione della nazione. «Il miglior regalo che
la gente può farmi in questo momento è sostenermi con la preghiera, perché
attraverso la preghiera Dio compie miracoli. Ho un desiderio da esprimere a
tutti: accettate di nuovo nella comunità i detenuti che sono stati rilasciati.
Ricordate che la prigione è un po’ come un’officina, dove i carcerati, come le
macchine, sono riparati. In prigione hanno la possibilità di imparare molti
mestieri e, una volta fuori, possono guadagnarsi la vita se sono aiutati a
inserirsi e hanno la possibilità di praticare quello che hanno imparato. Molti
di noi siamo davvero dispiaciuti di quello che abbiamo fatto e desidereremmo
proprio essere riabbracciati dalla comunità se fossimo liberati. Penso che
nessuno di noi abbia voglia tornare alla vita criminale di prima, per questo è
importante il sostegno della comunità».

Incontriamo anche Sammy Musembi, anni 38. Era sposato e padre di
due bambini quando è stato arrestato nel 1998. Non era battezzato anche se nato
in una famiglia cristiana e sposato con una cattolica. Anche lui è stato dieci
anni tra i condannati a morte prima che la sua sentenza fosse commutata in
ergastolo. È profondamente convinto che Dio avesse un piano preciso su di lui
nel volerlo in prigione. Secondo lui, se non fosse stato per la prigione, non
avrebbe mai conosciuto Dio, perché il suo stile di vita e la compagnia che
frequentava non glielo avrebbero permesso. «Avessi continuato con lo stesso
stile di vita, sarei già morto». Fortunatamente quando l’hanno arrestato per
rapina a mano armata, si è trovato in una cella con dei compagni cattolici. «Pregavano
mattina, mezzogiorno e sera, e tenevano perfino discussioni sulla bibbia. Sono
rimasto profondamente colpito e mi sono unito a loro per cambiare la mia vita».
Sammy, che riconosce il crimine per cui è stato condannato, fu battezzato nel
2002 e cresimato nel 2004, e poi ha fatto il corso per diventare catechista. «Ho
imparato tanto qui dentro. Mi son reso conto che la mia vita passata non era
certo da stinco di santo. Ora sono davvero cambiato. Ho anche scritto lettere
alle persone che ho danneggiato chiedendo il loro perdono». Sua madre, pur
protestante, è stata contentissima che lui diventasse cattolico e gli ha
regalato la sua prima bibbia nel 2003.

Un prete e i suoi buddies

Ogni giovedì una Peugeot bianca si ferma davanti alla porta fortificata
della prigione di massima sicurezza di Kamiti. La guida p. Eugenio Ferrari, una
figura ben nota alle guardie. Il suo interesse è la salvezza e la dignità delle
persone chiuse dentro quelle mura che ospitano alcuni dei peggiori criminali
della nazione: assassini, ladri, rapinatori, gente che ha distrutto e
ingannato, causando pene infinite a migliaia di altri concittadini. La lista
delle loro malefatte è lunga.

È questa gente che p. Eugenio va a incontrare. Li chiama
affettuosamente i suoi buddies (amici/compagni). È così affezionato a
loro che se, per qualche ragione, deve saltare l’appuntamento settimanale se ne
cruccia tantissimo. C’è una cosa che continua a stupire questo prete italiano
nelle sue estenuanti visite settimanali: come possano persone come quelle,
condannate a morte o in prigione da così tanti anni da aver perso il conto,
essere così giorniose e partecipare all’eucaristia con tanto entusiasmo e un coro
fantastico, e come possano credergli quando dice loro che Dio li ama e aspetta
che loro ritornino a Lui. «È gente fantastica. La Messa e il sacramento della
riconciliazione trasformano la loro vita umana e spirituale. Si sentono davvero
persone umane e non cose che languiscono in prigione». In tutti questi anni p.
Eugenio ne ha battezzati a centinaia e confermati tanti. Innumerevoli sono le
confessioni ascoltate che non condividerà mai con nessuno. «Non rivelerò mai
cosa succede nell’animo di un peccatore pentito. È incredibile come la Grazia
di Dio lavori dove “abbondava il peccato”, come dice s. Paolo».

Il missionario offre molto più che semplice speranza ai detenuti.
Ha una parola buona per tutti, indipendentemente da tribù o religione. Li
visita nell’infermeria, celebra la messa nel braccio della morte, si preoccupa
anche delle guardie e mobilita ogni persona che conosce nel suo ministero di
umanizzazione. A Natale e Pasqua – e non solo -, con l’aiuto di amici e dei
parrocchiani del santuario della Consolata in Nairobi, porta pane per tutti e
poi oggetti per l’igiene personale, medicine, abiti caldi da vestire sotto la
divisa (fa molto freddo a Nairobi tra giugno e agosto), e cancelleria per chi
studia e deve fare gli esami statali. Non mancano poi palloni, riviste, libri e
carte da gioco. In questa maniera vuol dimostrare loro che, se anche hanno un
passato non proprio esemplare, Dio li ama come figli suoi, e che hanno una
dignità uguale a quella di ogni altro uomo.

_________________________

Di Michael Kalunde, Lourine Oluoch, Daniel Kikonde e Agnes
Mwonjaru. Servizio speciale pubblicato su la rivista The Seed, 8-9/2012. Traduzione e adattamento di Gigi Anataloni.

A cura di Gigi Anataloni




Luci e ombre del Brasile «nero»

Incontro con mons. Giovanni Crippa, Vescovo ausiliario di Salvador Bahia.

La Bahia è abitata dai discendenti degli schiavi africani. Stato
affascinante ma arretrato e problematico come la sua capitale, Salvador. Ne
abbiamo parlato con Giovanni Crippa, missionario della Consolata, vescovo
ausiliario di una città che rappresenta la più antica diocesi del Brasile.

Salvador Bahia. Il centro storico di Salvador domina con il suo sguardo antico e
solenne un’estensione a perdita d’occhio di case cresciute, negli ultimi
decenni, una sull’altra fino a formare un disordinato e congestionato reticolo
urbano e stradale.

Il Pelourinho, colorato, bello e decadente, è
il punto di grande attrazione per turisti, artisti alla ricerca di ispirazioni
e suggestioni forti e di lettori appassionati di Jorge Amado, probabilmente il
più grande scrittore brasiliano.

La città, vista dall’alto, è un’unica enorme
favela, da cui spuntano, qua e là, delle isole di grattacieli modeissimi e
lussuosi, e grandi centri commerciali brulicanti di auto ed esseri umani (ma in
cui ancora molti bahiani non possono permettersi di fare acquisti).

SPLENDORI E MISERIE

Salvador Bahia è sede di numerose università,
storiche e rinomate, sia statali sia federali, cattoliche, evangeliche e di
altre confessioni, nonché di un prestigioso Centro di Studi afro-orientali
della Ufba (Università federale della Bahia). È abbellita da palazzi e strade
di grande pregio artistico; è dispensatrice di musica, letteratura, pittura; di
misticismo e saggezza tradizionale; di esoterismo; di magia; dei riti
propiziatori a Madre Terra; di donne sciamane venerate e temute, in quanto depositarie
di antichi poteri e di guarigione. Nota per il suo sincretismo e anche per la
sua tolleranza religiosa, la Bahia lascia spazio a culti e pratiche di diversa
origine, che talvolta si nascondono o si mescolano l’uno nell’altro, come
avviene per i riti del candomblé, nei quali animismo africano,
paganesimo europeo pre-cristiano e cattolicesimo si confondono in celebrazioni
popolari molto seguite, ad esempio quelle in onore di Iyemanjá, la Dea del
Mare, assimilata, per certi versi, alla Madonna.

L’allegria e la festosità dei bahiani sono
contagiose. La loro lentezza esasperante, la disorganizzazione e il cronico
ritardo sono elementi di cui presto ci si dimentica di fronte alla simpatia
della gente, che non perde l’occasione per inscenare balli e canti neanche
mentre prepara la acarajé, un piatto afrobrasiliano delizioso. O mentre
aspetta che diventi notte giocando a carte su un tavolino improvvisato vicino a
un venditore abusivo di cd.

Salvador è, allo stesso tempo, bella e
intrigante, brutta e violenta. Piena di storia e di cultura, ma ancora
arretrata, problematica e recettrice di marginalità e disagio. È l’emblema di
tutta la splendida Bahia, lo stato nero del Brasile da cui è impossibile non
venire ammaliati.

L’INVASIONE DEI «GRINGOS»

Come Iyami-Ajé / Iyami Oxorongá (nella
mitologia orixás, figura femminile donatrice di vita e di morte), la
Bahia è creatrice, ma anche distruttrice. Come in tutto il paese, ricchezza e
povertà, cultura e ignoranza, lusso e miseria, convivono in un unico luogo, con
contrasti enormi e aggressivi, a distanza di pochi metri l’uno dall’altro.

Lungo il Litorale di Salvador e di Mata de
São João, fin quasi al confine con lo stato del Sergipe, umili villaggi di
pescatori si sono trasformati in meno di dieci anni in cittadine artificiali
per ricchi epuloni brasiliani e stranieri, che hanno investito in immobili,
facendo salire alle stelle il prezzo dei terreni, delle costruzioni e degli
affitti. I nativos (popolazione locale), come vengono chiamati dai gringos
con un malcelato disprezzo, sono stati relegati, per scelta o per necessità, in
altri villaggi adiacenti meno glamour e benestanti, o in vie fatiscenti
e sporchissime in zone meno visibili e transitate dai turisti. È il caso,
emblematico, della famosa e frequentata (affollata) Praia do Forte, che in un
decennio è passata da umile borgo di pescatori e raccoglitori di cocchi a città
dai tanti e lussuosi condominios fechados (condomini chiusi) e centro
commerciale a cielo aperto. La popolazione locale, discendente degli schiavi
neri deportati dall’Africa con le tratte secolari, ha in gran parte venduto
terreni e casette ai forestieri, che ne hanno fatto negozi, ristoranti e
abitazioni per milionari, oppure li ha ceduti in affitto a prezzi altissimi.

Il boom edilizio di tutta l’area costiera e
le ondate di turismo hanno portato benessere anche agli autoctoni, ma ciò non è
stato accompagnato da sviluppo umano, educazione scolastica e servizi
medico-sanitari, con il risultato di produrre un ulteriore disagio sociale, un
abuso di alcolici e sostanze stupefacenti, abitudini sessuali precoci con
conseguenti mateità nel periodo adolescenziale.

A tutto questo si sovrappone, come
causa-effetto, una gestione pubblica deficitaria e indifferente ai bisogni reali
della popolazione di tutto lo stato, e un’organizzazione della politica che
ricorda ancora i tempi dei latifondisti e dei fazendeiros, e dove domina
corruzione, voto di scambio e vuote promesse.

La scuola pubblica è totalmente inadeguata a
qualsiasi standard dignitoso. La sanità è una sorta di «emergenza» perenne mai
trasformata in medicina specialistica o diagnostica. Chi ha soldi si fa curare,
chi non ne ha s’arrangia e può sperare che la medicina tradizionale, con le sue
mille erbe e radici, possa fare miracoli anche con i virus portati dai turisti.

La famiglia è un concetto dalla difficile
definizione: le ragazzine più povere e
con scarsa scolarizzazione iniziano a far figli a 12-14 anni, e non poche a 30
si ritrovano già nonne e con diversi matrimoni alle spalle.

CATTOLICA E AFRICANA

In un afoso pomeriggio di febbraio, poco
prima che il Caevale renda inaccessibili le già engarrafadas
(imbottigliate) strade di Salvador, e il suo caotico centro storico, a Garcia,
nella sede dell’Arcidiocesi, incontriamo il vescovo ausiliario, il simpatico e
attivissimo dom Giovanni Crippa, italiano e missionario della Consolata.

Dom Giovanni, cosa vuol dire essere vescovo
in Bahia?

«L’Arcidiocesi di São Salvador da Bahia è la
prima diocesi del Brasile (1551). I suoi numeri sono importanti (vedi box,
cfr
). L’arcivescovo, dom Murilo Sebastião Ramos Krieger, conta su due
Vescovi Ausiliari: dom Gilson Andrade da Silva e il sottoscritto. Un terzo, dom
Gregorio Paixão, è stato recentemente nominato vescovo di Petrópolis.

È una realtà che devo ancora imparare a
conoscere, ma che già amo e cerco di servire. La grande sfida è mantenere viva
l’azione della Chiesa in un territorio così esteso e con una popolazione
considerevole, incentivando uno spirito di comunione tra i sacerdoti e
promuovendo il senso di appartenenza alla Chiesa locale di tutto il popolo di
Dio come dice il mio motto episcopale: “In aedificationem Corporis Christi”,
cioè, “Per edificare il Corpo di Cristo” (Ef 4,12), che è la Chiesa».

Ci descriva una sua giornata-tipo…

«Dalla mia poca esperienza posso dire che non
esiste una giornata-tipo. Il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi,
al n. 70 dice: “Il Vescovo ausiliare è dato per raggiungere più efficacemente
il bene delle anime in una Diocesi troppo estesa o con elevato numero di
abitanti o per altri motivi di apostolato”.

Per quanto mi riguarda, l’arcivescovo mi ha
affidato il territorio del Recôncavo (la parte più intea della regione
metropolitana) per concretizzare il progetto di una futura Diocesi. Per questo
risiedo prevalentemente nella città di Cruz das Almas, a circa 150 km da
Salvador, per poter seguire da vicino le parrocchie attraverso le visite
pastorali, gli incontri con il clero, con i religiosi, i movimenti e i vari
servizi pastorali.

All’inizio di febbraio abbiamo acquistato
anche una radio Am (Rádio Alvorada), un grande investimento economico, che sarà
di grande aiuto per l’evangelizzazione. Le parrocchie, infatti, hanno un
territorio molto esteso e sono formate da diverse comunità dove la presenza del
sacerdote è saltuaria.

Stiamo anche pensando all’apertura di un
seminario propedeutico per la futura Diocesi dove accogliere i giovani che si
sentono chiamati al sacerdozio.

Oltre alle parrocchie del Recôncavo mi occupo
anche di quelle dell’isola di Itaparica prospicente alla Bahia de Todos os
Santos.

Quando è necessario ritorno nella capitale
bahiana per collaborare nella pastorale, nelle celebrazioni di cresime e feste
patronali. Non mancano impegni di conferenze in varie istituzioni (università,
collegi, parrocchie…) e ritiri. Collaboro anche con la Radio Excelsior da
Bahia con un programma settimanale di 45 minuti sulla liturgia della Parola
della domenica.

Per la mancanza di professori, nel primo
semestre, insegno Storia della Chiesa nella Facoltà cattolica di Feira de
Santana, così ho l’occasione per incontrare persone amiche che hanno fatto
parte della prima tappa della mia vita in Brasile.

L’agenda di un vescovo è sempre piena, come
lo è quella di un prete dedicato al suo servizio, ma le occasioni più belle ce
le riserva lo Spirito quando ci sfida con l’imprevisto».

Quali sono i principali problemi della Bahia
e di Salvador?

«Salvador è una città antica (1549) la cui
origine coincide con la scoperta/conquista da parte dei portoghesi. Ogni suo
angolo, con le chiese, monumenti e vie, è segnata da questa storia che ha
marcato il nome della città stessa: Città del Salvatore della Bahia di Tutti i
Santi.

Salvador, meravigliosa, ricca di storia e di
bellezze naturali, è una città abbandonata, dimenticata e maltrattata. Per
l’incompetenza dei suoi amministratori è cresciuta in un modo disordinato ed è
diventata una grande favela. Ad eccezione di alcune “isole”, la maggior parte
della popolazione vive ammucchiata in quartieri dove mancano le infrastrutture
necessarie per soddisfare i bisogni essenziali. L’esempio più eclatante è la
costruzione della metropolitana, iniziata 13 anni fa e ancora oggi senza
nessuna prospettiva di conclusione dei lavori. Tuttavia, in pochi mesi, il
governo dello stato è riuscito a costruire lo stadio della “Fonte Nova”, per la
Coppa delle Confederazioni e i prossimi Mondiali di Calcio.

Nel 2012 c’è stato uno sciopero dei
professori che è durato 115 giorni e uno sciopero della Polizia militare, di 12
giorni, che hanno provocato grandissimi disagi tra i cittadini.

Un altro grave problema è l’accesso alla
sanità. Le istituzioni sanitarie pubbliche sono carenti e precarie. Non ci sono
strutture sufficienti per garantire i servizi alla popolazione.

Il “Plano de saúde” (Assicurazione
sanitaria) privato è costoso, e una famiglia media con figli difficilmente se
lo può permettere. Questa situazione è una piaga che colpisce soprattutto il
Nordest del Brasile.

Un’altra grande lacuna è quella della scuola
pubblica, soprattutto quella gestita dallo Stato: mancano le strutture, c’è
degrado, scarsa preparazione curricolare – purtroppo anche degli insegnanti -,
abbandono degli studi, ecc.

Da parte dei politici, anche in questo
ambito, si nota disinteresse, perché si sa, è più facile governare un paese
ignorante che uno istruito.

La mancanza di educazione e istruzione tra
gli adolescenti, la disgregazione familiare, e la pedofilia – uomini adulti che
hanno rapporti con ragazzine – portano al fenomeno, piuttosto diffuso, delle
gravidanze precoci.

Le famiglie popolari, in Bahia, sono centrate
sulla figura della donna, della madre. Molte volte l’uomo fugge dalle sue
responsabilità, è assente. C’è molto machismo, da una parte, e strutture
sociali matriarcali, dall’altra. Tutto questo, insieme all’assenza dello Stato,
concorre a creare un clima di violenza che ha raggiunto livelli molto alti.
Secondo la Segreteria di sicurezza pubblica (SSP), nel 2012 sono stati
registrati 2.391 omicidi in Salvador e nelle città della Regione metropolitana,
con un aumento del 12,5% rispetto al 2011». 

Un elemento che balza gli occhi, in tutta la
Bahia (e nel resto del Nordest), è la crescita delle chiese evangeliche e
pentecostali. Ce ne sono in ogni angolo e sempre di più. Come spiega questo
fenomeno?

«I dati sulla religione del Censimento del
2010 mostrano che tra il 2000 e il 2010 la percentuale della popolazione che si
dichiarava cattolica è passata dal 73,6% al 64,6%.

Gli evangelici costituiscono il 22,2% della
popolazione. Tuttavia, il segmento evangelico è molto diversificato o diviso:
il 60% sono pentecostali, il 18,5% appartiene alle chiese storiche o
tradizionali e il 21,8% a una categoria che l’Ibge (Instituto Brasileiro de
Geografia e Estatística
) chiama “evangelici non determinati” dei quali alcuni
non sono praticanti.

Gli adepti allo spiritismo sono passati
dall’1,3% al 2% e i cosiddetti senza religione sono passati dal 7,3% all’8%.

Stiamo vivendo un profondo cambiamento nella
società brasiliana, anche a livello religioso. Se è vero che la Chiesa
cattolica sta perdendo fedeli, è altrettanto vero che le chiese protestanti
(luterana, presbiteriana, battista e avventista) stanno attraversando una crisi
profonda. Si moltiplicano le chiese evangeliche, frutto di una divisione e di
una guerra intea alla ricerca di spazio e visibilità.

Questa disputa intea al cristianesimo
favorisce la crescita del numero di persone indifferenti al Vangelo.

Un fenomeno molto in voga in questi tempi, è
quello della “teologia della prosperità”, di tipo calvinista: il successo
materiale è il riscontro della fede. I predicatori attuano vere e proprie
“strategie”, e la tecnica usata è quella dell’auto-motivazione. La tattica è
approssimativamente questa: incontrano persone in difficoltà economiche,
psicologiche, sociali e iniziano a motivarle a ottenere dei risultati
materiali, dei cambiamenti chiedendo di affidarsi a Dio. Se questo è certamente
positivo, il problema sorge quando le esperienze di successo ottenuto sono
fittizie, raccontate da “comparse” allo scopo di indurre il fedele ad
abbandonarsi alle istruzioni del predicatore, che adotta vere tecniche di
vendita e ne approfitta, spesso arricchendosi alle spalle dei poveracci che
donano tutto ciò che hanno nella convinzione di ricevere una ricompensa da Dio.
La fede diventa così un prodotto di scambio commerciale, materialista, egoista.
Non c’è più il dono agli altri, gratuito, ma solo un dare per avere.

D’altro canto, però, la Chiesa cattolica si
rende conto di quanto già sapeva da secoli, cioè che esiste un grande numero di
cattolici battezzati, ma non evangelizzati.

Il grande pericolo è che questa nuova
configurazione non ha come obiettivo di unire i cristiani per trasformare il
mondo seguendo il desiderio di Gesù, ma quello di promuovere ideologie
rivestite di una vernice religiosa che procura interessi personali o di gruppi
che si auto-definiscono chiese. La maggior parte di queste “chiese” incoraggia
un proselitismo riduzionista e disgregante della società, cercando di imporre
un pensiero unico. La Chiesa cattolica rispetta tutte le religioni e desidera
essere rispettata». 

La Bahia è nota per i rituali di candomblé, una sorta di religione
sincretista, con riferimenti a culti animisti, pagani pre-cristiani e
cattolici. Qual è il rapporto tra la Chiesa cattolica bahiana e questi gruppi?
Ci sono fedeli che alla domenica vanno a messa e alla sera ai rituali
afro-brasiliani?

«La Bahia è terra di un popolo ospitale e
amico che offre la sua casa, le sue tradizioni e la sua culinaria a tutte le
persone che qui arrivano.

La religione fa parte dell’espressione
culturale di un popolo. Non tutti i bahiani seguono le tradizioni legate alle
religioni afro-brasiliane. È ingenuo pensare che tutti gli afro-discendenti
siano legati al candomblé. Purtroppo, la religione afro è sempre più confusa
con il folclore. Il patrimonio musicale religioso del candomblé, per
esempio, è usato per fini commerciali.

Il punto di partenza deve essere il rispetto
di qualunque forma religiosa lasciando all’individuo la libertà della scelta.
Il sincretismo religioso, però, è riduzionista e mette il seguace della
religione del candomblé in una posizione di servilismo o sottomissione
all’uomo bianco. All’inizio della colonizzazione, i neri venuti dall’Africa
erano obbligati a “mentire” se volevano continuare a praticare la loro
religione, che era proibita, in un paese cristiano. Per mantenere i propri riti
attribuirono nomi di santi cattolici ai propri orixás (divinità). Oxalá,
per esempio, poteva essere il Senhor do Bonfim. Era una forma intelligente, di
saggezza politica, per mantenersi indenni e per non essere puniti.

Oggi, la Costituzione brasiliana permette a
ogni cittadino di abbracciare liberamente la propria religione. Vivere un
sincretismo, praticare allo stesso tempo il candomblé con il cristianesimo
significa riconoscere che il primo non è capace di soddisfare o di offrire
quello che si sta cercando. Lo stesso si può dire dei cristiani che frequentano
il candomblé.

La teologia e l’antropologia cristiane
differiscono totalmente da quella del candomblé. Per questo le persone del
candomblé devono vivere liberamente la loro scelta, così come quelli che
professano altre religioni. Buona parte delle Iyalorixá (sacerdotesse o
dirigenti spirituali) di Salvador sono contrarie al sincretismo, specialmente coloro
che hanno una formazione accademica, per evitare che venga considerata una mera
espressione folclorica.

La Chiesa è convinta che deve predicare il
Vangelo di Gesù, vivendo i valori cristiani e rispettando le differenze».

Per concludere, monsignore. Cosa le piace
della Bahia e di Salvador in particolare?

«Prima di tutto la gente. Gente felice,
ospitale, cordiale che ti mette subito a tuo agio, che ti fa sentire a casa.
Gente che sempre chiede la benedizione, che vuole salutarti, stringerti la
mano, abbracciarti.

Ci sono poi alcuni luoghi significativi per
la bellezza di cui la natura li ha dotati e per il significato storico,
religioso e culturale che hanno acquisito lungo il tempo.

La Cattedrale metropolitana della
Trasfigurazione del Signore: una chiesa che apparteneva ai gesuiti e che
accoglie le spoglie mortali di alcuni vescovi che lì hanno svolto il loro
ministero. Persone che hanno amato e servito questa Chiesa come il card. Dom
Lucas Moreira Neves che mi ha ordinato diacono a Roma nel 1985. Chi immaginava
di diventare vescovo ausiliare in questa Chiesa di cui lui è stato pastore?

Il Santuario-Basilica del Senhor do Bonfim,
dove si confondono fede e tradizione, religiosità popolare e catechesi,
preghiera e emozione vissuta da una miriade di persone di ogni ceto e razza.

La Basilica Nossa Senhora da Conceição da
Praia, patrona della Bahia, espressione della devozione mariana della gente che
lì accorre quotidianamente.

La Bahia de Todos os Santos: non ci si stanca
mai di contemplare questa bellezza naturale. Ogni giorno sembra diversa,
soprattutto nei colori quando il sole tramonta.

Il Recôncavo: composto da vari municipi che
circondano la Bahia de Todos os Santos, qui si mischiano il verde della
vegetazione con l’abbondanza della frutta; le varie espressioni della
religiosità popolare con le feste tradizionali; la bontà della gente con la
bellezza delle sue chiese.

L’isola di Itaparica dove la popolazione vive
di pesca e di turismo. Qui la gente è padrona del tempo, ha imparato ad essere
paziente e ad avere sempre fiducia nella Provvidenza divina.

Le periferie della città dove, nonostante la
povertà, la violenza e l’ambiente disumano, le persone vivono e soprattutto
cercano di trovare il senso della vita a partire dal Vangelo e dalla vita
comunitaria, dove le celebrazioni sono sempre una festa e un punto di partenza
per costruire il Regno di Dio».

Angela
Lano*

 (*) Gioalista e scrittrice,
Angela Lano vive con la famiglia nello stato brasiliano di Bahia.

Angela Lano




Senza Nazione né Confini

I Sami: ultimo ceppo indigeno presente in Europa.
I Sami (impropriamente detti Lapponi) sono una popolazione
indigena della penisola scandinava. Nonostante il secolare processo di
colonizzazione e assimilazione, hanno conservato lingua e cultura. Oggi contano
circa 75 mila unità, sparse nelle regioni più settentrionali della Norvegia,
Svezia, Finlandia e Russia. Popolo senza confini né nazione, godono di
determinate concessioni che permettono loro di rafforzare la propria identità e
preservae gli aspetti culturali e tradizionali.

«Ascolta fratello, ascolta sorella!
Ascoltate la voce della madre primordiale! La terra è la nostra madre; se le
rubiamo la vita, moriremo anche noi…». Le note della canzone di Mari Boine,
una delle cantanti Sami più conosciute, si diffondono nella casa di Ari
Kangasniemi, poco lontano da Rovaniemi. Qui, Ari assieme alla moglie Irene, si è
trasferito nel 1995 trasformando lo stile di vita lappone, in un vero lavoro.

Considerato un’icona vivente nel
mondo dell’artigianato locale, Ari lavora le coa di renna trasformandole in
oggetti d’arte: coltelli, lampadari, statuine. Irene, invece, fabbrica vestiti,
monili, scarpe dalle fatture tradizionali di un mondo perduto, di cui sente la
mancanza.

«La città non ci piace, siamo
fuggiti dalla città per restare qui, immersi nella natura. Se non la tradisci,
la natura, la terra ti accoglie e ti offre tutto quello di cui hai bisogno»
afferma Irene mentre, nella sua casa in legno, mi offre una torta fatta in casa
e un succo di mirtilli raccolti nel bosco.

Chi può dirsi sami?

Un po’ animista, un po’
ambientalista, Irene è la tipica lappone che potrebbe vivere senza supermercati
e senza elettricità. Adora la cultura Sami, come dimostrano i tappeti, i quadri
e i tamburi di cui sono tappezzate le stanze in cui abita. Però, sia lei che
Ari, sami non lo sono, anche se potrebbero esserlo. E anch’essi, come molti
altri finlandesi, norvegesi, svedesi che vivono in Lapponia, incespicano quando
chiedo loro quali caratteristiche occorre possedere per potersi definire sami.

Questa titubanza mi conforta: dopo
diverse settimane di soggiorno in Lapponia, non ho ancora capito cosa significa
essere sami e chi si può qualificare tale ed ero arrivato al punto di pensare
di non aver capito nulla di questo gruppo etnico, l’ultimo ceppo indigeno
presente in Europa. Tutte le persone che ho interrogato sull’argomento, mi
hanno offerto risposte variegate: è sami chi parla una delle nove lingue sami
(in questo caso, secondo i dati del parlamento sami svedese, il 70% di chi si
dichiara ufficialmente sami, non dovrebbe esserlo); è sami chi è nato da almeno
un genitore sami (dunque sarebbero sami anche l’attrice Renée Zellweger e la
cantante Joni Mitchell, nate rispettivamente da madre e padre sami); è sami chi
alleva le renne (i sami che vivono di pesca, allora, a quale gruppo
apparterrebbero?).

L’ambiguità si ripercuote anche
tra gli stessi rappresentanti politici. Egil Olli, presidente del Samediggi
(il parlamento sami) norvegese, fatica a trovare una descrizione adatta,
rimandandomi alla definizione ufficiale: «Una persona è considerata sami se
egli stesso si considera sami e se ha imparato a parlare sami avendo almeno un
genitore o un nonno che parla sami come madrelingua».

Storia di colonizzazione

La difficoltà nel codificare
questo gruppo etnico scandinavo è figlia della violenta storia di
colonizzazione di cui i Sami sono stati vittime a partire dal XVI secolo. Sino
ad allora i Fenni, come li aveva chiamati nel 98 d.C. Tacito nel suo Germania,
non hanno mai avuto bisogno di identificare se stessi, essendo vissuti praticamente
isolati e commerciando pacificamente con i finnici, con cui condividono il
ceppo linguistico ungro-finnico.

A parte il fugace accenno di
Tacito, i Sami rimasero pressoché sconosciuti nel continente europeo sino al
medioevo, quando Svezia, Danimarca e Russia iniziarono a contendersi la regione
settentrionale della penisola scandinava, imponendo tasse ai suoi pochi
abitanti. La necessità di procurarsi legname, di cui sono tuttora ricche le
terre del Nord, favorirono la colonizzazione da parte degli abitanti del sud:
norvegesi, russi, svedesi, finlandesi cominciarono a spostarsi oltre il Circolo
Polare Artico, appoggiati da numerosi decreti reali che favorivano gli
insediamenti e assegnavano terre «permanentemente disabitate appartenenti a Dio
e alla Corona Svedese e a nessun altro».

Poco importa se le terre «permanentemente
disabitate» erano, in realtà, già da millenni territori dei Sami: in quanto
pagani e idolatri, non avevano diritto a ciò che Dio aveva creato per i
cristiani.

L’alleanza tra Chiesa e stato, fu
una miscela esplosiva per la cultura sami: ossessionati dalla stregoneria, i
missionari luterani consideravano satanico tutto ciò che aveva un collegamento
con l’aldilà. Gli sciamani cominciarono a essere emarginati dai siida (i
villaggi), gli yoik, i canti tradizionali che identificavano ciascun
gruppo o addirittura il singolo individuo, vennero proibiti, mentre i tamburi
con i quali si cercava un passaggio nel mondo degli spiriti, furono distrutti,
tanto che i pochissimi esemplari superstiti sono gelosamente custoditi nei
musei.

L’obbligo della messa domenicale,
impose ai sami convertiti di organizzare dettagliatamente i loro spostamenti,
limitando il nomadismo e il collegamento con altri villaggi. La Chiesa, con i
suoi rituali e i suoi dogmi, giocò, quindi, un ruolo di primaria importanza
nella politica che lo stato perseguiva per sottomettere i Sami. Le varie case
reali (svedesi, danesi, russe) sfruttarono con abilità le avanguardie
missionarie perché preparassero il terreno a successive colonizzazioni.

«Oggi la Chiesa guarda in modo
differente la cultura locale» mi dice Erva Nittyvuopio, teologa finlandese
specializzata in cultura sami: «Le varie diocesi cercano di appoggiare la
società sami permettendo la pratica di usanze un tempo proibite, come il canto
dello yoik in chiesa o l’uso dei tamburi, sempre che siano finalizzate a
perpetuare la gloria di Dio».

A distruggere lo stile di vita
sami fu, però, il potere statale: la scoperta dell’argento a Nasafiaell e,
ancor più, di giganteschi giacimenti di ferro a Kiruna e a Gallivare, nel XVII
secolo, indusse la casa reale svedese a emanare la famigerata Lapland Bill,
la legge che, regolando l’uso della terra, toglieva ai Sami il diritto al suo
sfruttamento.

Ottant’anni più tardi, nel 1751,
la demarcazione dei confini tra il regno di Svezia-Finlandia e quello tra
Danimarca-Norvegia, segnò il definitivo colpo di grazia per i nativi lapponi.
Costretti a scegliere una nazionalità, venne loro tolto il diritto di migrare
nelle terre dei loro avi. «È questo, forse più di ogni altro decreto o più di
ogni altra imposizione religiosa, l’atto che segna il punto di svolta della
storia sami» spiega Evjen Bjorg, professore di sociologia al Centro di Studi
Sami dell’Università di Tromso.

Oggi i Sami sono divisi in
quattro nazioni: 50.000 vivono in Norvegia, 25.000 in Svezia, 7.500 in
Finlandia e 2.000 in Russia.

Ricerca di identità

Nel XIX secolo, vessati dallo
stato, emarginati dalla società, ostracizzati dalla Chiesa, i Sami cercarono di
trovare una propria identità aderendo al Laestadianismo. Creata da un
prete svedese, Lars Levi Laestadius, questa nuova dottrina cristiana cercò di
dare modo ai Sami di esplicitare la propria fede traendo esempio
dall’esperienza personale, veicolandola nella cultura locale minacciata
dall’alcol, dal materialismo e dal commercio.

Giunto sull’orlo di un collasso
esistenziale a causa delle sue tristi vicende famigliari (la morte della prima
moglie, dell’amato fratello Petrus e del suo primo figlio), Lars riuscì a
risalire la china grazie alla seconda moglie, Maria. Fu per merito di questa
donna, rimasta sempre in secondo piano, che Laestadius riprese vigore e fiducia
nella vita e nella fede, dedicandosi alla protezione della cultura sami. I suoi
sermoni, pronunciati nella chiesa di Karesuando, erano talmente pieni di pathos
che ogni domenica la chiesa si riempiva di indigeni.

«Il laestandianesimo si propagò
tra i Sami perché il suo fondatore fu uno dei primi preti a saper comunicare il
messaggio cristiano usando immagini e linguaggi che i Sami potevano facilmente
comprendere» dice Birgitta Simma, pastore della Chiesa Svedese presso la
comunità sami nella diocesi di Luleaa. Il modo di contestualizzare i riti, con
canti, danze, preghiere, letture, non era però approvato dalla Chiesa Svedese,
che vedeva nel laestandianesimo una forma di liikutuksia, un’estasi al
limite dell’eresia.

Da parte loro, anche i mercanti
norvegesi e svedesi cominciarono a lamentarsi: Laestadius aveva severamente
proibito l’alcornol, fedele alleato dei commercianti che lo utilizzavano per
obnubilare la mente dei Sami durante le contrattazioni.

Sobri e finalmente fieri della
loro natura, i Sami cominciarono a rifiutare le imposizioni estee. Il
laestadianesimo, che ormai veniva visto come una peculiarità dell’essere sami,
si diffuse rapidamente oltre che in Svezia anche in Norvegia, ma soprattutto in
Finlandia. Era ormai divenuto un pericolo sia per la Chiesa Svedese, che vedeva
l’eresia affondare radici sempre più profonde tra i Lapponi, sia per la Corona,
che riceveva resoconti allarmanti di sollevazioni nel nord del paese.

Sempre più oppressi da svedesi e
norvegesi, l’8 novembre 1852 un gruppo di sami laestadianisti organizzò una
rivolta a Kautokeino per abolire il commercio di liquori. Ben presto la
ribellione si trasformò in un movimento etnico che, imbracciati i fucili,
espresse le proprie frustrazioni uccidendo lo sceriffo, un mercante di liquori,
e dando fuoco alle loro case.

Sebbene sedata in poche ore, la
rivolta di Kautokeino divenne il simbolo di rivalsa dei Sami, come è stato ben
descritto in The Kautokeino Rebellion, il film del norvegese Nils Gaup,
egli stesso discendente di uno dei rivoltosi, poi impiccato.

La renna fonte di vita e cultura

Non è un caso che proprio in
questo minuscolo villaggio di 1.600 abitanti, sorga l’unica università sami
riconosciuta dall’ordinamento scolastico di Norvegia, Finlandia, Svezia e
Russia, le quattro nazioni in cui si dividono gli 85.000 sami. Tra le materie
studiate, vi è anche Allevamento delle renne: «Una delle tradizioni su
cui si basa tutta la struttura sociale sami
– spiega la professoressa Ellen Inga Turi -. L’adattamento dei Sami ai
cambiamenti politici, come la divisione del loro territorio secondo nazionalità,
e ai cambiamenti climatici in atto, potrebbe darci molte risposte al futuro
stesso dell’umanità. I Sami, per un certo verso, sono le nostre avanguardie del
mondo che verrà domani». L’importanza della renna nella vita sami si riflette
anche nel vocabolario: eallin, vita, si trasforma in eallu,
mandria, e, ancora, in eadni, madre.

Dopo che i Sami da pescatori si
convertirono in allevatori di renne, questo ruminante divenne la loro
principale fonte di sostentamento. La renna è l’animale che, letteralmente,
dona la vita: di lei non si butta nulla. La carne, magrissima e ricca di Omega
3, di ferro, selenio e calcio, viene fatta essiccare; la pelle si trasforma in
coperte, abiti, nei caratteristici goikkehat, gli stivaletti con la
punta rialzata, in cappelli; le coa e gli zoccoli vengono lavorati per fae
manici di coltello e oggetti di uso quotidiano che danno lavoro ad artigiani
come Ari Kangasniemi.

Dalla lavorazione della pelle,
abbiamo importato il termine nappa, vocabolo sami, così come sami è la
parola tundra. I Sami sono più vicini a noi di quanto pensiamo.
L’influenza della renna nella cultura sami è talmente evidente che anche un
architetto come Alvaar Alto ha disegnato l’urbanistica della città di Rovaniemi
riproducendo sul terreno la figura di una testa di renna con le coa.

Infine, le orecchie dei 120.000
cuccioli di renna che ogni anno nascono alla metà di maggio negli allevamenti
sami, vengono marchiati con segni distintivi durante una cerimonia a cui
partecipa tutto il villaggio. In quest’occasione anche i Sami che, per svariate
cause, hanno dovuto trasferirsi in città o al sud, tornano al loro siida,
rinsaldando così i legami tra le famiglie. «Ogni volta che too con la moglie
e i figli, i nostri genitori ci preparano il lavvu (la tenda Sami). È
qui che, abbandonando per qualche giorno le comodità della casa, ritrovo la mia
identità» mi confida Emel Perrtula, che dalle pendici del monte sacro Saana, a
Enontekio, si è trasferito a Helsinki, dove oggi lavora come ricercatore
chimico. «Mangiare in silenzio attorno al fuoco e dormire su brandine, permette
a tutti noi di unirci ai nostri antenati e non dimenticare dove affondano le
nostre radici».

Emel mi confida che sua moglie,
dopo aver avuto due figlie, pregava l’intervento di Jouksahkka, lo spirito che
permette al feto, che secondo le credenze sami all’inizio è sempre femminile,
di trasformarsi in sesso maschile. «So che è illogico e che la scienza nega
questa credenza, ma alla fine abbiamo avuto il desiderato bambino».

Fierezza ritrovata

La consapevolezza e, soprattutto,
l’orgoglio di appartenere al gruppo sami, sono rinati alla fine degli anni
Settanta, dopo che per secoli i governi svedese, finlandese e quello norvegese
con particolare accanimento, avevano cercato di smantellare la cultura indigena
per affermare l’unità dello stato sulla base di uno specifico gruppo nazionale
predominante. Le battaglie combattute dalle associazioni sami, spesso isolate
dai loro stessi consanguinei, hanno portato i loro frutti: nelle scuole si è
ricominciato a insegnare la lingua sami, la musica tradizionale viene
riscoperta e ci sono radio che trasmettono radiogiornali dalla Samiland,
programmi per bambini e per giovani. La Radio Sami Norvegese, la più
strutturata tra le tre esistenti in Scandinavia, trasmette anche circa 20 ore
di programmi televisivi al mese, mentre l’ufficio locale di Kiruna della
televisione nazionale svedese, ne trasmette dieci.

Politicamente i Sami hanno una
propria rappresentanza nei parlamenti nazionali, mentre in ognuno dei tre stati
scandinavi, vi sono parlamenti sami eletti ogni quattro anni, dove il governo
locale dibatte le questioni più spinose. Nei raduni ufficiali viene cantato il Sàmi
soga làvlla
, la Canzone dei Sami, l’inno nazionale dei Sami scritto da Isak
Saba. La fierezza del sentirsi sami la si vede girando nella Samiland dove, nei
giardini delle case sorgono le tipiche tende accanto alle quali sventola la Sàmi
leavga
, la bandiera disegnata da Astrid Bahl nel 1986.

In un territorio dove il sole e
la luna regnano sovrani alternando la propria presenza per sei mesi l’anno, è
naturale che questi due elementi vengano riprodotti anche nel simbolo
nazionale: su un campo cromaticamente variegato con i colori tradizionali,
sorge un cerchio, che simboleggia nella sua interezza il tamburo magico,
equamente diviso tra il rosso del sole e il blu della luna.

Rispetto per la natura

La preponderante presenza della
natura nella vita sami, esaltata dai fenomeni atmosferici del sole di
mezzanotte, della notte continua per diversi mesi e, soprattutto, dalle aurore
boreali, oggi spiegati scientificamente, sono stati i soggetti di un’epica
orale che, senza l’intervento della Chiesa sarebbe, probabilmente, perduta. «I
missionari cristiani possono aver commesso degli errori valutando le credenze
dei Sami, ma è ormai appurato che i primi testi tradotti in sami sono stati
redatti dalla Chiesa Svedese. Erano testi biblici, ma hanno permesso all’intera
letteratura sami di non andar perduta» chiarisce Birgitta Simma.

I sami più rispettati erano i taidis,
coloro, cioè, che possedevano il taidid, la capacità di adattamento e di
orientamento, che conferiva loro uno status superiore perché li poneva
perfettamente in simbiosi con la natura e con gli spiriti che l’abitavano.

Oggi, con l’avvento del Gps,
delle motoslitte, del goretex, forse il taidid non è poi più così
necessario per la sopravvivenza dei Sami, ma rimane comunque il fatto che la
rinnovata ricerca della semplicità, il ritorno a una vita più austera e in
linea con i cicli della natura forse permetteranno a questa civiltà millenaria
di superare anche le sfide del tempo e del progresso che tutto appiattisce.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




«Venerando Dio in te… Buongiorno!»

Esperienza di Dialogo Interreligioso in Corea: Alla scoperta del
«SOO-WOON-KYO», religione autoctona coreana.
La presenza dei missionari della Consolata in Corea del Sud è caratterizzata
dal dialogo interreligioso con le molte confessioni storiche e autoctone
presenti nel paese. Padre Diego ci racconta l’esperienza da lui vissuta con una
delle religioni nate di recente nel paese: un fine settimana con il
Soo-woon-kyo.

Lo spirito religioso in Corea
affonda da tempo immemorabile le sue radici nello sciamanesimo, nel buddismo e
nel confucianesimo. Su questa base preesistente, da poco più di 200 anni in qua
si è inserito con forza anche il cristianesimo. Oltre a queste religioni «maggiori»
però, esiste in Corea tutta una galassia di altre religioni molto più «piccole»,
ma non per questo meno importanti nel panorama religioso della nazione. Si
tratta delle cosiddette «religioni autoctone coreane».

Nate in
genere nella seconda metà del 1800 dall’illuminazione di fondatori che volevano
rispondere alla sofferenza e alla situazione di vera oppressione in cui versava
allora il popolo, queste religioni hanno trovato i loro migliori rappresentanti
nel ch’on-do-kyo (la religione della «Via del cielo») e nel buddismo-won
(buddismo nato in Corea); ma sono anche state sottoposte a un inarrestabile
processo di disgregazione, che ha portato alla nascita di innumerevoli altri
piccoli gruppi. Al momento della creazione, nel 1983, dell’Associazione delle
religioni autoctone coreane che le racchiude e rappresenta tutte, queste erano
ben 34! Anche se, da allora, diverse sono praticamente scomparse.

Nel
contesto del dialogo interreligioso, ho avuto una bella occasione per conoscere
e avvicinare, per la prima volta, una di queste piccole religioni autoctone,
chiamata «Soo-woon-kyo» (pronuncia: su-un-ghio), ed ecco che cosa
ho scoperto!

L’occasione

Dal 5 al 12 maggio si era
celebrata a Seoul, e per la prima volta in Corea, la «Settimana dell’Armonia
tra le religioni», sotto gli auspici della Conferenza coreana delle religioni
per la pace (Kcrp, Korean Conference of Religions for Peace), autentico
organo propulsore del dialogo interreligioso in Corea.

Il suo attuale presidente,
l’arcivescovo cattolico Igino Kim Hui-jung, e gli altri leaders delle 7
grandi religioni della Corea, avevano aperto solennemente la Settimana con un
grande «evento» nella centralissima piazza di Kwang-hwa-moon. Poi chiunque
avesse voluto, durante la settimana era invitato ad andare a visitare 7 «luoghi
santi» delle religioni in centro Seoul. A ogni luogo visitato, la persona
riceveva un timbro, che avrebbe poi dato diritto a partecipare al programma
seguente, pensato dalla Kcrp: un fine-settimana di «esperienza diretta» presso
qualcuna delle religioni della Corea. Vivendo ormai da quasi quattro mesi a
Dae-jeon, città a 170 km da Seoul, dove noi missionari della Consolata stiamo
costruendo il nostro nuovo Centro di dialogo interreligioso, avevo potuto
partecipare solo ai momenti più importanti della «Settimana dell’Armonia tra le
religioni», ma poi ho scoperto con piacere che uno dei fine-settimana di «esperienza»
delle altre religioni si sarebbe svolto proprio a Dae-jeon, e mi sono subito
iscritto per partecipare.

Si trattava di far visita,
conoscere e sperimentare, per quanto possibile, la religione Soo-woon-kyo. Non
ne avevo mai sentito parlare prima, e perciò ero particolarmente incuriosito.
Il fine-settimana in questione era da venerdì 13 a domenica 15 luglio. 

I partecipanti

Vivendo a soli 5 km dal quartier
generale del Soo-woon-kyo, sono arrivato presto al luogo del raduno, e ho
cominciato a salutare i presenti. Innanzitutto il segretario generale
dell’Associazione delle religioni autoctone coreane, di cui il Soo-woon-kyo fa
parte, il signor Kim Jae-wan, una simpatica persona di una certa età, che mi ha
preso subito a benvolere (ero l’unico straniero presente!) e che è rimasto con
noi per tutto il tempo. Ho salutato poi il professor Pak Kwang-su, del
Buddismo-won, un caro amico che non vedevo da molti anni, e altri ancora.
Infine è arrivato il pullman da Seoul, da cui è sceso un folto gruppo di
partecipanti, guidati dal professor Pyon Jin-hung, cattolico e segretario
generale della Kcrp.

Tra i partecipanti, conosciuti
poco a poco durante il fine settimana, c’erano una monaca e un monaco buddisti;
una signora confuciana; alcuni buddisti laici; altri non meglio identificati
(si trova un po’ di tutto nell’ambiente del dialogo interreligioso!); e un buon
gruppo di cattolici. Stranamente i protestanti, che di solito si trovano
dappertutto, hanno brillato per la loro assenza: hanno fatto solo una fugace
apparizione per qualche ora un prete anglicano e un pastore protestante che
partecipano regolarmente agli incontri della Kcrp. In tutti eravamo quasi una
trentina.

Ai partecipanti «estei», però,
bisogna aggiungere tutti i volontari del Soo-woon-kyo, che erano là ad accoglierci
e accompagnarci. Erano tutti vestiti, uomini e donne, con una classica
giacchettina coreana grigia, sulla quale spiccavano ben visibili le strisce di
5 colori che contrassegnano il Soo-woon-kyo: il giallo, il rosso, il verde, il
bianco e il nero, che simboleggiano l’universo. Tra di essi c’erano gli «esperti»
della religione, incaricati di spiegarcela e mostrarcela, i «sacerdoti» che
presiedono ai riti e le signore che, come da tradizione, si sono occupate della
cucina per tutti noi (radicalmente vegetariana!).

La prima cosa che tutti abbiamo
imparato dal Soo-woon-kyo è il modo di salutare. Non si dice semplicemente «buongiorno»,
ma si fa riferimento al Dio del cielo (ovviamente inteso in senso orientale,
non una entità «personale» come siamo abituati a pensarlo noi); un Dio presente
sia in me sia nella persona che mi sta davanti, viene «riconosciuto e venerato»
fin dal saluto. Perciò: «Venerando Dio in te… buongiorno!».

Visita ai luoghi sacri

Non c’è dubbio che i nostri
ospiti del Soo-woon-kyo abbiano dato fondo a tutta la loro fantasia, per
prepararci un programma da svolgere, che più «vario» non poteva essere.

Abbiamo cominciato con una visita
ai «luoghi sacri» della religione: questi sono immersi in un parco naturale
molto esteso e bellissimo, ai piedi del monte Kum-byong, pieno di alberi
secolari e di verde, campi coltivati a verdure e sentirneri che s’inoltrano nel
bosco. Abbiamo visitato innanzitutto il tempio centrale, To-sol-ch’on, che ci
ha rivelato subito la complessità di questa religione. Ci è stato spiegato che
un riquadro centrale dorato, al centro del tempio, rappresenta il «Dio del
cielo» (che non si vede e non si tocca); ma poi ci sono i simboli degli altri
personaggi che vengono venerati nella religione: Tan-gun (il mitico fondatore
della Corea); Buddha (nella sua versione «escatologica» di Amita-bul); e
Confucio. Questa religione infatti pretende di «unificare» in se stessa le
dottrine e i principi religiosi di Confucianesimo, Buddismo e Taoismo.

Accanto al tempio principale c’è
un altro tempietto che ospita l’immancabile campana, di cui ci sono state
spiegate le caratteristiche artistiche e di costruzione. La campana viene
suonata ogni mattina e ogni sera, ritmandone il suono alle invocazioni cantate
a Buddha. Infine il «Pop-hwe-dang», cioè il luogo dove si svolgono i
riti religiosi e la preghiera.

A tutto questo è da aggiungere
una costruzione modea, nella quale siamo stati ospitati e nella quale abbiamo
svolto tutte le attività del fine-settimana.

I riti

Il sabato mattino, alle 4.00,
eravamo tutti radunati nel luogo apposito per la preghiera. Fui colpito nel
vedere come ci fossero molti «sacerdoti», vestiti con un abito da cerimonia
molto particolare e in testa una specie di corona a cinque stadi. A tuo hanno
presieduto la preghiera, che consiste in una prima offerta solenne di incenso a
Buddha, seguita da una serie di prostrazioni profonde, e poi nella ripetizione
cantata del «credo» basico della religione; seguita da altri canti e
prostrazioni, durante le quali l’intera assemblea si gira tutta verso i quattro
punti cardinali. Il tutto è accompagnato dal suono ritmico del «mok-tak»,
tamburello di legno concavo, tipico strumento buddista. 

Anche la domenica abbiamo potuto
assistere alla celebrazione domenicale, questa volta per fortuna alle dieci del
mattino; celebrazione che si è svolta quasi uguale alla prima a cui avevamo
assistito, con l’aggiunta di una lettura dagli scritti del fondatore della
religione e una semplice spiegazione/omelia sulla parte letta; per l’occasione,
aveva a che fare con il non lasciarsi vincere dal desiderio della ricchezza.

La sera prima, pur sotto la
pioggia, avevamo partecipato a una processione davanti al tempio centrale,
lungo un «percorso sacro» segnato da pietre disseminate sull’immenso prato,
preceduti dai portatori di bandiere, e ciascuno avevamo in mano una candela
accesa… Il tutto mentre lassù in alto, dentro il tempio, un sacerdote faceva
le prostrazioni di rito e offriva incenso a Buddha.

Fui molto impressionato dalla
devozione che tutti i fedeli Soo-woon-kyo mostravano durante la preghiera. I
rituali sono precisi e complicati (retaggio del Confucianesimo); per fare la
prostrazione, per esempio, gli uomini devono mettere a terra per prima la mano
sinistra (le donne, quella destra) e appoggiare il piede sinistro sopra quello
destro (le donne al contrario), e così via… Le formule cantate, per me
incomprensibili, devono essere molto ripetute, perché tutti le sapevano a
memoria e le cantavano a occhi chiusi, con grande concentrazione.

Attività di contorno

A me, a dir
la verità, sarebbe piaciuta una spiegazione più calma e completa della «teologia»
della religione, ma evidentemente gli organizzatori del programma non devono
averla pensata come me, perché questa parte, pur importante, è stata coperta
con una conferenza di un’oretta, senza lasciare tempo a eventuali domande di
spiegazione e di approfondimento. Tenete presente che ogni religione ha il
proprio «linguaggio» che, per uno straniero come me, non sempre è facile da
capire. Molte altre ore sono state, invece, impiegate in attività di esperienza
della cultura tradizionale coreana, con la quale il Soo-woon-kyo (come tutte le
religioni autoctone coreane) ha profondi legami. Abbiamo così fatto un esercizio
di origami
: si trattava di piegare e ripiegare quattro fogli di carta
colorata per ottenee un han-bok, cioè un vestito classico coreano in
miniatura.

Poi un’iniziazione alla danza
sacra
con i cembali, di chiara matrice buddista, e anche molto faticosa
dal punto di vista fisico, perché non si tratta solo di suonare i cembali, ma
anche di ruotarli in aria mentre si eseguono alcuni passi di danza,
volteggiando su se stessi.

Poi la preparazione di un piatto
tradizionale coreano
: esperienza alla quale mi sono discretamente
sottratto, date le mie quasi nulle doti culinarie.

Infine ci siamo accaniti tutti, a
gruppetti, in una specie di gioco dell’oca, ricalcato su un gioco
tradizionale ancora molto in voga in Corea, ma «trasformato» in base alle
credenze del Soo-woon-kyo. Secondo il punteggio ottenuto, facendo rotolare un
grosso «dado» di legno, i giocatori passavano attraverso un percorso tortuoso,
complicatissimo e pieno di insidie, dal «mondo reale degli uomini» per arrivare
al «mondo intermedio» e infine raggiungere il «mondo del regno di Dio».

Ci è stato spiegato che i fedeli
prendono questo gioco molto sul serio, quando lo fanno nel giorno di capodanno,
in quanto credono che il loro percorso sulla carta-guida del gioco determini
davvero le vicende della loro vita di un anno intero. È poi successo che abbia
vinto proprio io, e questo fatto mi è valso una grande popolarità tra tutti i
presenti!

Per concludere

Tutto sommato, è stata una bella
esperienza, che ha arricchito di un altro tassello il mio cammino di impegno nel
campo del dialogo interreligioso.

Personalmente, lo ripeto, avrei
preferito meno attività di contorno e più incontri di «sostanza» con i
rappresentanti del Soo-woon-kyo. Trovo curioso che, più una religione è
piccola, più la sua «dottrina» si presenta complessa e di difficile
comprensione. La pretesa di unificare in una sola le tradizioni religiose di
Confucianesimo, Buddismo e Taoismo, mi appare eccessiva, specie vedendo come,
di fatto, la parte del leone sia fatta dal Buddismo: il fondatore del Soo-woon-kyo
era un ex-monaco buddista!

Allo stesso modo trovo
sorprendente il fatto che, nonostante la piccolezza della religione e il suo
profondo e perfino «esagerato» legame con la cultura tradizionale coreana, i
fedeli del Soo-woon-kyo siano convinti di avere una «missione universale» da
svolgere, per costruire il regno di Dio sulla terra. Una missione che sentono
come particolarmente affidata al «popolo coreano», visto quasi come un messia
per il mondo intero. Di fatto invece, a mio parere, la religione si trova
troppo «chiusa» nel mondo culturale coreano e non credo possa ancora vantare
nessun tentativo concreto di apertura reale al mondo.

Insomma, l’esperienza mi ha
lasciato in cuore un mucchio di domande sulle quali mi sarebbe piaciuto
dialogare con i fedeli del Soo-woon-kyo! Ad ogni modo, come ho detto a tutti al
momento della cerimonia di chiusura dell’esperienza stessa, il fatto che adesso
io abiti a pochi chilometri dal quartiere generale della religione mi offrirà
certamente, in futuro, altre occasioni di incontro e dialogo, che spero possa
diventare proficuo.

Un’ultima considerazione:
certamente un’occasione come questa era preziosa per il Soo-woon-kyo per farsi
conoscere e mettersi in mostra, ma ciò non toglie nulla al commovente impegno e
all’entusiasmo con cui molte persone si sono prodigate per noi, in molti e
diversi modi, in questo fine-settimana. Tutti noi partecipanti abbiamo
sottolineato questo aspetto e li abbiamo ringraziati di tutto cuore.

«Venerando Dio in voi…
arrivederci!», fratelli e sorelle del Soo-woon-kyo.

Diego Cazzolato

Diego Cazzolato




Uomo Nero, Torna A Casa Tua

Reportage da Israele:
la dura vita dei richiedenti asilo africani.
A migliaia,
fuggiti da conflitti africani, si ritrovano in Israele dopo un viaggio impossibile.
Ma per i richiedenti asilo l’integrazione è molto difficile. Non esiste una
legge che li tuteli. I politici di destra al governo li considerano una
minaccia. Le associazioni denunciano: immigrazione gestita su base religiosa.

Corre per oltre 250 chilometri il susseguirsi di reti e
muri che dividono il deserto del Sinai da Israele. Tel Aviv ha deciso la
costruzione di queste barriere per bloccare il flusso di migranti che negli
ultimi anni arriva sempre più copioso dall’Africa sub-sahariana. Sono i figli
dell’Africa nera: eritrei, somali, sudanesi, congolesi, nigeriani, ivoriani che
scappano dai loro paesi dilaniati da guerre, tanto lunghe quanto cruente.
Attraversano il deserto del Sahara e in molti scelgono di proseguire per
l’Egitto e la Libia, i più «fortunati» s’imbarcheranno per il tragico viaggio
verso Lampedusa. Una parte minoritaria decide di continuare a piedi attraverso
il deserto del Sinai, verso quella che in Europa definiamo «l’unica democrazia
del Medioriente». Israele accetta di malavoglia i richiedenti di asilo
politico. Sono decine le denunce di associazioni umanitarie, israeliane e
inteazionali, che parlano di soldati che sparano contro uomini e donne mentre
questi tentano di superare il confine tra Israele ed Egitto.

Respinti a fucilate

Yaki ha finito il servizio militare da qualche anno e ora studia
in una grande città europea. Per oltre dodici mesi ha pattugliato il confine
meridionale israeliano: «Da lì entrano i terroristi. Sono quelli che hanno
fatto scoppiare gli autobus negli anni passati». Yaki non è un estremista di destra, né uno
sprovveduto facilmente influenzabile dalla propaganda governativa. Nato e
cresciuto in una famiglia israeliana della media borghesia, a 18 anni è stato
catapultato in 36 mesi di servizio militare obbligatorio. «Personalmente –
continua l’ex militare – non ho mai sparato contro i migranti, ma ho negli
occhi l’immagine di una notte in cui una pattuglia ha iniziato a fare fuoco
contro un gruppo di donne. Non ci sono stati morti, ma quando abbiamo parlato
con loro ci hanno raccontato che erano state tutte rapite e violentate per mesi
dai beduini nel deserto». Le donne di cui racconta Yaki, come la maggioranza
degli africani che arrivano in Israele attraversando il Sinai, sono state
trasferite in un centro di detenzione nel deserto nel Neghev, Sud del paese,
per essere identificate, seguendo lo stesso principio dei Cie (Centro di
identificazione ed espulsione) e Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo)
in Italia.

Dal maggio 2012 a Tel Aviv è stato messo in funzione un nuovo
centro di detenzione che, a pieno regime, potrà ospitare fino a 16mila persone
nel Neghev. È stato definito, dai pochi a cui è stato permesso l’accesso, «un’immensa
prigione di tende e prefabbricati nel deserto». Da ottobre la polizia di
frontiera ha iniziato a respingere nel deserto del Sinai i rifugiati africani,
un’altra triste analogia con la politica di contenimento all’immigrazione
attuata dall’Europa.

La storia di Oscar

Tel Aviv è la città simbolo della nascita
dello stato ebraico, un agglomerato urbano dove vivono circa tre milioni di
persone, quasi la metà della popolazione israeliana. Le prime case spuntarono a
inizio anni ’40, come periferia di Jaffa, uno dei più antichi e conosciuti
porti arabi del Mediterraneo. Con la creazione dello Stato ebraico, nel 1948,
si costruirono velocemente i grandi palazzi sulla spiaggia, che tutt’ora
ospitano i più rinomati alberghi d’Israele, costituendo uno skyline
simile a una grande città della Florida.

Le case degli arabi residenti a Jaffa, per lo
più scappati durante la guerra del ’48, vennero inglobate nel grande processo
di urbanizzazione. Dopo 60 anni Tel Aviv è diventata una delle città più care
al mondo per acquistare casa. Si sono concentrati qui soprattutto i giovani e
la parte meno religiosa d’Israele, lasciando Gerusalemme agli ultra-ortodossi.

A Tel Aviv sorge il più importante aeroporto
d’Israele, l’unico che fa atterrare i voli di linea inteazionali. Ed è qui
che diciotto anni fa atterrò l’aereo di Oscar Oliver, 45 anni, congolese. Oscar
scappava da un conflitto lungo e sanguinoso come solo le guerre civili sanno
essere. Era portavoce del sindacato studentesco e per le sue idee venne
arrestato e perseguito. Scappò dal Congo all’Egitto «ma non mi andava di
passare da una dittatura a un’altra» quindi chiese e ottenne un visto
lavorativo per arrivare in Israele. Ora è uno dei 60mila africani richiedenti
asilo politico residenti in Israele senza documenti. Oscar vive in clandestinità
con sua figlia, 9 anni, nata a Tel Aviv, ma senza la residenza israeliana. «Il
problema – spiega Oscar – è che le autorità gestiscono l’immigrazione su una
base religiosa. Non ci sono leggi che regolamentino l’ingresso di persone in
pericolo, questo è il cuore della questione: non c’è una legge per accogliere
chi non è ebreo». Dal punto di vista legale, Israele ha firmato la Convenzione
di Ginevra, che sancisce i diritti delle vittime di guerra e più in generale il
diritto internazionale umanitario, ma si rifiuta di riconoscere lo status di
rifugiato.

Oscar, come circa l’ottanta percento dei
richiedenti asilo africani, vive in una bolla di Tel Aviv, il quartiere di Neve
Sha’an, che sorge attorno all’enorme stazione dei bus. In Israele non c’è un
sistema ferroviario efficiente, gran parte della popolazione si muove con
modei bus verdi. I prezzi sono bassi e le rotte coprono tutto il paese. Come
in ogni grande centro urbano il quartiere accanto alla stazione è uno dei più
degradati della città: case fatiscenti, pochi servizi e ancor meno sicurezza.
Il picco del degrado è certamente il parco Levinsky, un paio di ettari in pieno
centro a Tel Aviv, esattamente alle spalle della stazione degli autobus. Qui
dorme ogni notte qualche migliaio di persone, tutte africane, buona parte delle
quali in Europa sarebbero inserite nel processo di richiesta di asilo politico.

Infiltrati o rifugiati?

Ci sono in Israele circa 60mila rifugiati
africani, di cui circa 40mila sono eritrei, altri 15mila vengono dal Sudan, metà
dei quali sono cristiani provenienti dal Sud Sudan mentre l’altra metà arriva
dal Darfur e sono musulmani. Fino alla scorsa primavera c’erano circa 2mila
persone originarie della Costa d’Avorio, ma negli ultimi mesi sono state in gran
parte deportate.

Al momento le autorità stanno cercando di
fare rimpatriare anche parte dei rifugiati fuggiti dal Sud Sudan. Le
espressioni usate per definire i richiedenti asilo politico sono al centro di
una campagna condotta dal governo israeliano: non vengono chiamati rifugiati,
ma infiltrati, quasi a richiamare il termine utilizzato per gli attentatori
palestinesi durante la seconda intifada. Il governo non parla di deportazioni,
termine troppo simile a quello usato in Europa negli anni ’30 e ’40, ma di
rimpatri volontari «anche se in molti – racconta Oscar – sanno che tornando nei
loro paesi d’origine troveranno i loro aguzzini ad aspettarli».

L’Ong Human Rights Watch ha accusato
il governo israeliano di contribuire a creare un’atmosfera negativa nei
confronti dei migranti. Secondo il sondaggio pubblicato a inizio novembre dal
quotidiano Israel Hayom, sembra che la strategia abbia funzionato: il
52% degli israeliani non vorrebbero come vicino di casa un lavoratore
straniero. Nell’ultimo anno ci sono state molte manifestazioni contro i
migranti africani organizzate da vari movimenti di destra sia a Tel Aviv che a
Gerusalemme. In una di queste marce Michael Ben Ari, un parlamentare
israeliano, ha incitato la folla urlando: «Io lo so, sono venuti per distruggere
il paese». Durante l’ultima estate si sono registrati attacchi fisici almeno
una volta alla settimana. Persino un asilo nido, frequentato per la maggioranza
da bambini eritrei, è stato dato alle fiamme.

I partiti di destra che governano il paese hanno una posizione
molto netta sui rifugiati africani e non perdono occasione per rimarcarla. Il
primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito i migranti africani come una
minaccia all’identità dello stato ebraico. Elli Ishai, ex ministro
dell’Inteo, ha dichiarato a una tv israeliana: «La soluzione è chiara.
Neghiamo loro il permesso di lavorare, li imprigioniamo e li rimandiamo in
Eritrea». Miri Regev, già parlamentare: «I sudanesi sono un cancro nel corpo
della nostra nazione». Danny Dannon, parlamentare: «La soluzione è parlare
apertamente di deportazione. Dobbiamo deportare gli infiltrati».

«Gli africani che arrivano in Israele non sono alla ricerca di un
lavoro, ma di protezione» ripetono invece come un mantra gli attivisti e i
pochi politici che da anni lavorano per integrare i rifugiati nella società
israeliana. La possibilità di essere impiegati, se non in nero, è molto bassa,
perché lo stato ebraico non riconosce ai richiedenti asilo un permesso di
lavoro. Questa condizione spinge ancora più in basso i rifugiati, infatti molti
di loro sono stati costretti a pagare un riscatto per essere rilasciati, dopo
essere stati sequestrati in Sinai. I trafficanti chiedono fino a 10mila
dollari, una cifra enorme per i paesi dell’Africa sub-sahariana. Le famiglie
per aiutare i propri ragazzi s’indebitano, debito che ricade sulle spalle dei
richiedenti asilo.

Il lavoro dei Volontari

Israele è una nazione composta per l’ottanta percento da figli e
nipoti di rifugiati. Ed è proprio su questo punto che insistono i volontari di Levinsky
Soup
(La Zuppa di Levinsky), un gruppo di cittadini, che da febbraio dello
scorso anno aiuta gli africani che vivono nel parco. Iris ha studiato in Italia
due anni e ha una vaga idea di come funziona il programma di protezione per i richiedenti
asilo in Italia e in Europa: «Il problema qui è governativo ed è sicuramente
l’agenda per la quale il paese deve rimanere a maggioranza ebraica. È una cosa
razzista. Non vogliono aiutare o permettere ad altre persone di restare qui. Ma
non si prendono nemmeno il tempo di controllare se questi ragazzi hanno i
requisiti o meno per ottenere l’asilo politico». Mentre Iris parla si forma una
lunga coda, gli africani ordinatamente aspettano l’unico pasto caldo della
giornata. «La cosa che non ha senso – continua Iris – è che Israele è composto
per la maggior parte da seconde o terze generazioni di rifugiati
dell’Olocausto. Dobbiamo aiutare i rifugiati africani come obbligo verso i
nostri padri, che si sono salvati, che da rifugiati hanno creato uno stato».
Shlomo arriva al parco su una bici che traina uno strano carretto, ci sono
dentro due pentoloni: «Più di venti chili di riso bianco, la base dei nostri
pasti. Serviamo ogni sera tra i 500 e gli 800 piatti, più di qualsiasi ente di
solidarietà in Israele». Levinsky Soup è un gruppo informale di
cittadini che si è autorganizzato lo scorso inverno dopo la morte per ipotermia
di un rifugiato nel parco. «Non ci è sembrato possibile – spiega Shlomo mentre
scodella il riso – siamo rimasti scioccati e come singoli cittadini abbiamo
deciso di fare qualcosa. Questo è un paese accogliente, lo è stato con i nostri
genitori e noi dobbiamo esserlo con altri». Passeggiando per il parco si vedono
coperte e buste di plastica piene di vestiti incastrate all’incrocio dei rami
degli alberi. «Israele – continua Shlomo – ha già dovuto affrontare la
questione dell’immigrazione di massa. Abbiamo gestito quasi un milione di
arrivi con la disgregazione dell’Unione Sovietica, non posso credere che il
governo sia traumatizzato da 60mila rifugiati africani. Vorremmo vedere la
democrazia applicata per tutti e non solo per gli ebrei».

Per gli abitanti del parco, se un pasto caldo è quasi
un’eccezione, l’accesso ai servizi sanitari è praticamente impossibile. L’Ong Physician
for Human Rights
, Phr, (Medici per i diritti dell’uomo) è una delle poche
associazioni alla quale si possono rivolgere i rifugiati. «Il 59% dei nostri
pazienti – racconta Ran Cohen, operatore dell’Ong – ha subito torture e abusi,
anche di carattere sessuale, durante il passaggio in Sinai. Phr ha una sede con
ambulatorio a pochi minuti a piedi dal parco, nulla a che vedere a confronto
dei grandi ospedali privati della zona Sud di Tel Aviv, ma da qui passano ogni
settimana centinaia di richiedenti asilo. L’Ong lavora contrastando
quotidianamente le difficoltà di un lavoro «scomodo»: aiutare decine di
migliaia di persone che non sono benvenute a causa della provenienza, della
loro religione: «Aiutare i rifugiati – conclude Ran – è quasi un crimine in
Israele».

 Cosimo
Caridi

Cosimo Caridi




I Warao: gente da canoa

Situazione economica e culturale degli amerindi Warao
Vivono sul delta del fiume Orinoco, nel Venezuela orientale; in
maggioranza abitano in case con tetto di paglia sopra palafitte, al riparo
dalle fluttuazioni delle maree; vivono di pesca, caccia e raccolta dei frutti
della foresta: sono i Warao, popolazione amerinda unica nel suo genere per
storia e cultura millenaria. Ma il confronto con il mondo occidentale moderno
sta minacciando di disintegrare la loro cultura insieme alla loro
organizzazione economica e sociale.

Da una decina d’anni un gruppo di
missionari e missionarie della Consolata condividono la vita, annunciando il
Vangelo di Cristo, con i Warao, un’etnia amerinda che da molti secoli vive
sulle sponde delle numerose ramificazioni del Delta dell’Orinoco, nel Nord Est
del Venezuela.

Proprio qui, alle foci
dell’Orinoco, giunsero Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci nel loro terzo
viaggio, nel 1498-1499, e chiamarono questa terra Venezuela, ossia Piccola
Venezia. Giunto a queste sponde il 5 agosto 1498, Colombo scrisse nel suo
diario: «Divisé unas tierras – las más hermosas del mundo – y muy poblada…
Corrí esta costa hasta el cabo de la sierra y me ha encantado la belleza de su
vegetación… Artísticas frondes cubren el piedemonte costero… Grandes
indicios son estos del Paraíso terrenal… Esta es una tierra de gracias
».

Qui vivono i Warao

L’Orinoco è il fiume più grande
del Venezuela e il terzo dell’America del Sud. È uno dei fiumi più ricchi
d’acqua del mondo, con una media annua di 38 mila litri al secondo.
Attraversata Ciudad Guayana, il fiume si dirige verso l’Oceano Atlantico,
trasformandosi in una complessa rete idrografica, dividendosi in numerosi rami,
lagune, zone allagate, che si intrecciano tra loro fino a raggiungere l’Oceano
dopo oltre 200 km. Tutta questa regione si chiama Delta Amacuro o Delta del Río
Orinoco, con una superficie approssimativa di 22.000 km quadrati.

Gli ecosistemi terrestri e
acquatici sono caratterizzati da una grande diversità biologica. L’area
terrestre è ricoperta da una fitta foresta tropicale che conta più di 2.000
specie di piante catalogate. Inoltre, ricchezza di uccelli (464 specie),
rettili (76 specie), anfibi (39 specie), mammiferi (151 specie), pesci (410
specie), e infine una grande quantità di invertebrati. Le terre del Delta sono
abitate da tempi remoti dall’etnia indigena dei Warao.

Il termine warao ha molti
significati. In primo luogo significa «abitante dell’acqua», «gente di curiara»
(di canoa) e anche «gente di spiaggia». Allo stesso tempo, warao
semplicemente significa gente o persona in opposizione ad altri esseri non
umani.

La storia orale warao racconta
che gli antenati arrivarono al Delta dell’Orinoco camminando, dall’isola di
Trinidad, in un’epoca in cui esisteva un ponte terrestre tra questa isola e il
continente. Esitono parecchie teorie sulla provenienza di questo popolo; la più
accettata, però, è quella che li vede arrivare dalle Ande Peruviane molti
millenni fa. Per i loro tratti somatici non si esclude neanche un’origine
asiatica. Il loro vivere sui fiumi, in prossimità del mare, in zone di così
difficile accesso, si determinò in seguito, per fuggire da altre tribù più
guerriere.

Il censimento dell’anno 2001
registrava circa 40 mila indigeni di questa etnia, ma di certo sono molto più
numerosi. Dopo i Wayúu dello stato Zulia, i Warao rappresentano la seconda
etnia indigena più numerosa del Venezuela.

Per poter conoscere il popolo
warao è necessario partire dai vari elementi che costituiscono la sua
organizzazione socio-culturale, politica, economica e religiosa; organizzazione
influenzata e condizionata dall’ambiente in cui vivono, caratterizzato da tutta
una rete di fiumi grandi e piccoli, che circondano lingue di terra totalmente
inondate o pantanose, ricoperte da una esuberante vegetazione tropicale. Il
viaggio è molto bello: tutto in curiara (canoa), unico mezzo per
raggiungere questo popolo, attraversando paesaggi di una bellezza meravigliosa.

Aspetto socio-economico

La prima cosa che colpisce dei
Warao sono le loro case: palafitte, chiamate janoko (luogo dell’amaca)
disposte in fila lungo la sponda del fiume. Generalmente esse sono aperte, il
tetto ricoperto con foglie di palma, o, per i più fortunati, con lamiere.
Alcuni hanno iniziato a chiuderle con pareti di tavole di legno o, per chi non
ha i mezzi economici, con le stesse foglie della palma.

La durata di queste case è molto
ridotta: è normale per un warao ricostruire la casa ogni 8-10 anni.
L’arredamento è molto essenziale: l’amaca per dormire e per riposare, ceste o
borse appese con i vestiti e altri effetti personali; un angolo della casa è
adibito per cucinare a legna.

Le famiglie warao generalmente
sono molto numerose, non solo perché hanno molti figli, ma anche perché,
secondo la loro cultura, le figlie, quando si sposano, portano in casa il
marito.

Le famiglie del villaggio sono unite
fra loro da forti legami di solidarietà e mutuo aiuto. La comunità, un tempo,
era prettamente di carattere familiare, «comunità-famiglia», non stabile in un
luogo, ma itinerante, alla ricerca di zone capaci di soddisfare i bisogni
alimentari. Ora, con l’introduzione dei lavori salariati, dell’agricoltura e
della scuola, là dove è presente, c’è maggiore stabilità e apertura della
comunità a diversi gruppi familiari.

Tradizionalmente per i Warao il
lavoro serviva a sopravvivere, cioè soddisfare la fame, conservare la salute e
la vita. Essi si fabbricano la maggior parte dei loro utensili: amache (chinchorros),
ceste, capanne, curiare (canoe), arponi e reti per la pesca, ecc. Oggi possono
contare su qualche motore fuori bordo, anche se costituisce per loro un
articolo di lusso, a causa delle spese di manutenzione.

Il mezzo di trasporto
fondamentale rimane la curiara, ricavata scavando tronchi di alcuni tipi
di alberi e poi impermeabilizzata al fuoco. Usare la canoa e nuotare sono tra
le prime cose che un bambino impara.

Questi strumenti semplici di loro
fabbricazione, combinati alla loro profonda e dettagliata conoscenza dei
diversi ecosistemi e ambienti del delta, permettono ai Warao di vivere e
approfittare delle risorse delle aree fluviali, dei boschi inondabili e delle
zone litorali. Le attività tradizionali per la sussistenza erano, e lo sono
ancora per un buon numero di comunità, la pesca, la caccia e la raccolta di
frutta silvestre, realizzate solo per il consumo quotidiano. Quando ci si
procurava più del necessario era logico, e per molti lo è ancora, condividerlo.

Tra i Warao non esiste la
mentalità di accumulare, si vive alla giornata, si giornisce quando si ha e si
spera in un futuro migliore quando non si ha. Sono molto semplici e accolgono
sempre con grande cordialità; non chiamano mai chi li visita «straniero o
forestiero», ma «dake» o «daka» (fratello, sorella).

La natura è per loro una madre
provvidente e per questo la rispettano. Essa è colei che dà loro la vita,
l’alimento, le medicine. Fondamentale per la sussistenza è la palma «moriche»
(Mauritia flexuosa L), che fornisce la materia prima per vari manufatti
e vari alimenti come la frutta o palmito;
inoltre, dal tronco si estrae una specie di farina chiamata yuruma con
cui fabbricano un tipo di casabe che è il pane degli indigeni. Dalla
fermentazione della yuruma si fa, inoltre, una bevanda chiamata nojobo.
Dentro il tronco delle palme si sviluppano dei lombrichi di coleotteri, il Rhynchophonis
palmarum
, che costituiscono per i nativi un piatto squisito. I frutti sono
pure usati per la preparazione di bevande o sono consumati secchi e
abbrustoliti. Le radici hanno per i Warao molte applicazioni nella medicina
casalinga e per la fabbricazione di collane e braccialetti.

Ugualmente importante per loro è
la palma manaca (Euterpe oleracea Mart.). Occorre far notare che
i Warao sono i soli, tra gli aborigeni del continente americano, che ancora
estraggono il sagù (yuruma) dalla palma moriche. La selva
fornisce inoltre molti altri tipi di frutta.

L’attività agricola fu introdotta
a poco a poco nel secolo scorso. Gli anziani ricordano ancora quella che fu per
loro una novità: seminare e piantare alimenti.

Cambiamenti radicali

A partire dalla metà del secolo
scorso, l’influsso dei Creoli (venezuelani) si fece presente nei territori dei
Warao, provocando cambi radicali nella loro situazione socio-economica; uno di
essi fu l’introduzione dell’agricoltura. Infatti questa attività obbligò
centinaia di comunità indigene ad abbandonare la propria vita transumante di
pescatori e raccoglitori nei morichales (zone intee dove si trovano le palme
di moriche), e ad adattarsi a una vita sedentaria di orticoltori e pescatori
stanziati nelle aree litorali dei canali del Delta.

L’agricoltura esercitata in
piccole aree (conuchi), si basa sulla coltivazione dell’ocumo cinese
(pianta erbacea con tubercoli commestibili). Essa produsse una buona fonte
alimentare e questo, insieme alla buona fonte di proteine ottenute con la
pesca, permise un sostanziale incremento sia nel numero dei villaggi come degli
abitanti in ciascuno di essi.

lavoro itinerante
salariato

Man mano che i Warao andavano
incorporando elementi della cultura creola (strumenti di metallo, nailon per la
pesca, fucili, tessuti, motori fuori bordo, benzina, ecc.) si creò per loro la
necessità di introdursi nell’economia monetaria. Il primo passo si effettuò con
la produzione di articoli artigianali che venivano venduti in Barrancas e
Tucupita, le due città creole della terra- ferma più vicine, che davano pure la
possibilità di acquistare prodotti commerciali.

Attualmente i Warao, specialmente
le donne, elaborano una buona quantità di oggetti di piccolo artigianato
(amache, ceste, borse in fibra di moriche, collane e braccialetti, ecc.)
che vendono nei centri urbani. L’apparizione delle barche a motore fece
aumentare le spese, ma facilitò le attività commerciali, riducendo il tempo dei
viaggi dal Basso Delta ai centri di Barrancas e Tucupita, da più giorni a sole
8-9 ore, ora anche meno.

A partire dagli anni ‘80 alcuni
membri di comunità warao iniziarono a lavorare come salariati alle dipendenze
dei creoli, quando questi aprirono attività industriali nell’Alto e Basso
Delta, come iniziative agropecuarie, pesca di acqua dolce e marina, segherie e
anche una fabbrica di palmito. Tutte attività poi fallite, lasciando
danni all’ambiente e impoverendo i Warao, in generale mal pagati.

Tuttavia la circolazione del
denaro cominciò a influire sulle relazioni tra le famiglie e gli stessi
villaggi: prima di tutto è iniziato a rompersi quel sistema di unione e
collaborazione reciproca che fino ad allora aveva mantenuto unite
affettivamente ed economicamente le famiglie estese di uno stesso villaggio.

Le donne cominciarono a perdere
il loro potere amministrativo nelle famiglie, dato che il sostentamento della
famiglia dipendeva ormai dagli uomini, i quali decidevano come spendere le
entrate. Il denaro causò la nuclearizzazione della famiglia estesa, crebbe
sempre più la compra-vendita dei servizi necessari alla vita quotidiana (cibo,
trasporti, costruzione di abitazioni, taglio e preparazione dei conuchi
o aree coltivabili, ecc.).

Cambia il sistema tradizionale di autorità

Nel tentativo di soccorrere la
situazione dei Warao, il governo, tramite i governatori locali, favorì la
creazione di vari incarichi con salario in ogni comunità: commissario,
poliziotto, incaricato del trasporto degli studenti, responsabile della
centrale elettrica del villaggio (un semplice gruppo elettrogeno). Inoltre,
nelle scuole rurali e nei dispensari medici uomini e donne poterono lavorare
come maestri, infermieri, cuochi, ecc…

Nonostante i benefici economici
portati da queste nuove fonti di entrate, tale cambiamento produsse seri
problemi nell’ambito della gerarchia e dell’autorità tradizionale. La direzione
e il controllo della comunità era, da sempre, affidata al fondatore del
villaggio, il più anziano, chiamato «Aldamo», il quale esercitava il suo
potere in quanto considerato un uomo saggio, capace di prendere decisioni
corrette a favore di tutta la comunità.

Ora, col nuovo sistema, il potere
era affidato a un affiliato del partito politico che era al governo. Questa
nuova situazione a livello di commissario politico e polizia, è risultata
estremamente delicata e minaccia sempre più l’unione della famiglia
tradizionale. La politica è sempre meno al servizio del popolo e del suo bene,
ma approfitta dell’immagine indigena per i propri interessi economici.

Infine, con astuzia o per
legittime ragioni, i warao impiegati del governo debbono trasferirsi ogni 15
giorni a Tucupita, per riscuotere il salario. Naturalmente questo sistema
garantisce ai commercianti di Tucupita delle buone entrate, perché quegli
impiegati sono obbligati a fermarsi là per più giorni e di conseguenza devono
spendere gran parte del salario in vitto, alloggio e viaggio…

L’Educazione

Nella tradizione warao le
conoscenze culturali venivano trasmesse da parte degli anziani ai bambini e ai
giovani attraverso il racconto di miti e storie vissute, mentre i vari lavori,
l’uso di attrezzi, le rotte navigabili dei fiumi non venivano e non vengono
tutt’ora insegnati attraverso spiegazioni orali, ma si imparano attraverso
l’osservazione e l’esperienza personale.

L’educazione scolastica arrivò
nel Delta solo negli anni ‘30 con i missionari Cappuccini che fondarono due
collegi. Negli anni ‘50 questi religiosi costruirono in varie comunità piccole
scuole e dispensari affidandoli a donne warao, preparate nei collegi di cui
sopra. Alcuni anni più tardi il governo si prese carico di queste strutture.

Purtroppo le scuole in queste
zone sono molto poche e piccole rispetto al numero dei bambini, e assicurano
solo il ciclo elementare. Le condizioni in cui si studia sono molto precarie:
non ci sono banchi, i bambini, seduti per terra, non hanno che il loro quaderno
e la matita.

Fortunatamente adesso i maestri
sono quasi esclusivamente warao; però, nonostante la buona volontà, mancano
spesso di metodologia e soprattutto di materiale didattico da consultare e
usare per rendere le lezioni meno pesanti e più proficue. Purtroppo i programmi
scolastici sono quelli nazionali, perciò non conformi alla realtà di un popolo
indigeno né rispettosi della sua cultura.

Lo studio superiore è stato
sempre privilegio di pochi: da alcuni anni sono iniziati tre licei in tre zone
diverse del Basso Delta. E anche lì ci sono problemi: mancanza di strutture e
libri, assenteismo di professori creoli, che devono venire da Tucupita. Inoltre
la maggioranza degli insegnanti non ha una adeguata formazione professionale.

L’educazione scolastica, pur
essendo un bene e un diritto, ha rappresentato un altro elemento di rottura nel
modo di vivere tradizionale, in quanto, dovendo andare a scuola, i bambini non
possono andare al conuco, a pescare, a cacciare, a raccogliere legna o
frutta con i genitori e così imparare a fare questi lavori e conoscere i
segreti della foresta. Di conseguenza, insieme ad altri motivi, i genitori sono
restii a inviare costantemente i bambini alla scuola. 

Per quel che riguarda la salute,
ci sono pochissimi centri a cui ci si possa rivolgere per visite e cure.

Aspetti culturali-religiosi

Pur vivendo cambiamenti
culturali, il popolo warao non ha perso le sue credenze religiose sempre ben
radicate, che determinano la sua cosmo-visione. Si crede negli spiriti e in una
autorità religiosa. Per i Warao la natura è abitata da spiriti, padroni dei
diversi elementi come acqua e selva: entrambi hanno il proprio spirito. Ne
consegue che uno non può entrare in una selva e tagliare gli alberi così come
gli pare, perché, se lo fa, può venire castigato dallo spirito della foresta.

Ci sono poi gli spiriti degli
antenati e un essere supremo chiamato Kanobo (nostro nonno). Un elemento
culturale importante è senza dubbio la celebrazione del rito Najanamu,
un importante appuntamento religioso tra le comunità warao, perché mette in
evidenza la relazione tra la comunità e questo essere supremo, Kanobo,
che ha il potere di proteggere i membri stessi della comunità, allontanando le
disgrazie che possono colpirla.

L’autorità religiosa propria è il
wisidatu, il medico tradizionale. Egli ha il potere di proteggere dagli
spiriti cattivi, e allontanarli, quando entrano in un corpo provocando le
malattie, attraverso il canto e il suono della maraca (strumento
musicale). La morte è naturale se avviene dopo una lunga esistenza, altrimenti è
causata dagli spiriti, che si impadroniscono del corpo in conseguenza del
mancato rispetto delle regole culturali o della natura o, più spesso, in
conseguenza di un malocchio causato da qualcuno che vuole procurare danno alla
persona.

Alcune comunità formate da
ex-studenti dei collegi dei Cappuccini hanno accolto anche la fede cristiana,
ma il cammino di evangelizzazione è ancora lungo.

Un popolo in migrazione

La cultura creola (venezuelana)
appare agli occhi dei giovani più affascinante e provoca, conseguentemente,
mancanza di interesse per i propri valori culturali e tradizioni, iniziazione
ad altri costumi e nuove esigenze. È questa una delle ragioni che porta molti
Warao a emigrare a Barrancas e Tucupita. Lì vivono ai margini della città,
cercando lavori saltuari, diventando scaricatori di porto o raccoglitori di
lattine o rifiuti. Molti però, specialmente le donne, si sono dati
all’accattonaggio nelle città, come Puerto Ordaz, Puerto La Cruz, Valencia e
Caracas, tra le più gettonate. Ma per un warao si tratta di una nuova maniera
di vivere, meno faticosa: la città rappresenta una foresta più facile a cui
accedere e con maggior varietà di alimenti.

Tutto ciò crea una grande
preoccupazione soprattutto per i bambini che nascono in tale situazione, perché,
mentre la maggior parte degli adulti riesce in qualche modo a scegliere dove e
come vivere, un bambino nato in Barrancas o Tucupita mancherà in futuro della
capacità necessaria per vivere nei canali e pantani del Delta. Non avrà la
minima idea di come e dove pescare, di di dove e come seminare e piantare, di
quali alberi producono materiale combustibile o frutta. Una volta cresciuti,
questi giovani, se non verranno incorporati nell’economia creola con una certa
dignità, saranno condannati a vivere una vita miserabile da mendicanti.

Dal 2010 la diocesi di Tucupita
ha incluso nel suo progetto pastorale indigenista l’organizzazione di un «Simposio
indigeno warao» sul tema «Movilización y migración del pueblo Warao»
(mobilitazione e migrazione del popolo Warao) per studiare questo fenomeno e
per cercare cammini di speranza per queste comunità che vivono tutt’ora in
stato di abbandono da parte del governo.

 
Giuseppe Bono e Ivana Cavallo

Giuseppe Bono e Ivana Cavallo




Che le tue Mani aiutino il Volo

La scomparsa del dottor
Giuseppe Meo.
Mi è rimproverata una parzialità acritica a favore dei poveri, degli
ultimi. Ebbene, può darsi, anzi è vero: non sono obiettivo, non sono
imparziale, sono schierato dalla loro parte. Non solo: non saprei essere
diverso, sono sempre stato così. E non mi interessa cambiare. È la scelta preferenziale
dei poveri in quanto portatori degnissimi di diritti. Vorrei che li mettessimo al centro, impostare
tutto a partire dai loro bisogni. Non una forma qualsiasi di solidarietà.

Il dottor Giuseppe Meo, Pino, ci ha lasciati
il 28 gennaio scorso a 75 anni. Un male incurabile, scoperto a giugno durante
una sua ennesima missione chirurgica in Sud Sudan, gli è stato fatale. L’ultimo
intervento sulle pagine di MC lo fece per l’indipendenza del Sud Sudan (MC,
marzo 2011). Vogliamo ricordarlo nella sua semplicità, ma pure nella sua
grandezza di medico, di uomo, di formatore, di pioniere. Un riferimento, anche
per chi, pur non essendo chirurgo, cerca quotidianamente di mettere insieme le
forze per lottare a favore dei più poveri. E non sempre trova l’energia necessaria.

Ma la storia di Pino Meo continua. Lascia un metodo, la «chirurgia
povera», e lascia un’organizzazione, il Comitato Collaborazione Medica, che
porta avanti la sua opera. E il suo sorriso disarmante e un po’ malinconico continuerà ad
accompagnarci.

Abbiamo pensato di ricordarlo attraverso le sue parole, stupende,
raccolte nel libro «Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan», una
perla di rara profondità e umanità, di cui proponiamo alcuni brani.

Grazie Pino.
La redazione MC
 

Dopo tanti anni nella
memoria rimane indelebile il ricordo dei «miei malati», un’antologia di tenere
immagini imbevuta di compassione, un diario visivo di ritratti intensi. Sono
esistenze che non si riescono ad archiviare. Le loro sofferenze ti penetrano. È
una compassione che nasce dal privilegio della condivisione diretta. Il tema
del «malato povero» è intrecciato con un’altra condizione precaria e un’altra
sofferenza, quella della chirurgia «povera». Tale secondo attore non è il
protagonista, è subalterno al primo, non ha vita propria, vive per il malato,
da lui riceve la tensione emotiva che gli è essenziale e gli dà senso. È una
seconda proiezione diversa e sovrapposta alla prima, quella dei malati, una
doppia ottica. Il Sud Sudan ha un fascino misterioso che gli deriva dai suoi
forti contrasti: il senso della dignità delle persone e la loro povertà
estrema, le siccità e le piogge furiose, le grandi mandrie e le carestie,
l’amore per i bambini e gli orrori della guerra. Sta di fatto che il Sudan è
teatro di molti ricordi perché è diventato «casa mia» e la sua gente è «la mia
gente». Si racconta [in questo libro], fra l’altro, di personaggi, episodi e «missioni
sul campo», nella speranza di rendere più comprensibile la testimonianza di
questi due mondi intrecciati l’uno all’altro: il mondo dei poveri, abisso di
sofferenze e di umiliazioni, ma anche rete di vite umane bellissime e piene di
dignità, e il mondo in crisi della cooperazione internazionale, ingarbugliato e
pieno di contraddizioni, ma colmo di sacrifici personali.

Tigania, Kenya, 1969

Scopro il valore inestimabile delle cure chirurgiche di base in
Africa. La tempestività e l’efficacia della chirurgia di urgenza, la sua
capacità di essere inderogabilmente definitiva hanno del miracoloso. È un lampo
che mi cambia la vita. Mi invento la decisione di fare della chirurgia per i
paesi a basso reddito l’asse portante della mia attività professionale, della
cura del povero del Terzo Mondo il tema della mia vita. È anche il rifiuto di
una vita incanalata, garantita, assicurata, sempre uguale, a favore di un
mestiere che ti sfida, ti preoccupa e ti tiene costantemente impegnato.

«Che le tue mani aiutino il volo, ma non si permettano mai di
sostituire le ali» invitava Helder Camara, l’arcivescovo brasiliano precursore
della Teologia della Liberazione. Mai l’aspetto tecnico sacrifichi la relazione
personale e la dimensione ideale dell’agire. Scopro la preghiera del chirurgo
inglese, per avere «gentilezza nelle mani, intelligenza nella mente, simpatia
nel cuore, che sappia fare onore al mio lavoro che guarisce». La preoccupazione
che la dimensione tecnica non prevalga su quella personale e sociale riguarda
non soltanto il lavoro chirurgico, ma tutta l’attività di cooperazione. I tre
elementi personale, ideale e tecnico non hanno senso se non sono in sinergia
fra loro. La dignità delle persone non è mai negoziabile.

Il rispetto del malato non ammette eccezioni, è un imperativo
etico assoluto. La chirurgia sul campo, in particolare in Sud Sudan, sarà il
filo conduttore del mio impegno di medico in Africa.

Il volontariato medico nei paesi poveri regala momenti di vera
serenità, di pace piena con se stessi e con gli altri. Paiono frammenti della «gioia
perfetta del pellegrino in cammino», pezzetti di una felicità data in premio
discreto e silenzioso. Carlo Maria Martini ricorda che «gioia perfetta non
vuole dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame nel mondo; è
una gioia più profonda, dalla quale ci dispensiamo troppo facilmente pensando
che non sia per noi…».

È imbarazzante parlare di sé, è difficile trovare il giusto tono
per confessare vissuti coinvolgenti. In effetti, la mia è una gioia che non
teme di piegarsi sulle sofferenze altrui, ma – lo riconosco – ne rimane
trascinata perché fortemente condizionata dalla salute dei miei pazienti. Con
la loro sofferenza ho sempre avuto un rapporto appassionato ma appeso al filo
tagliente della domanda: «Guarirà? Ce la farà?».

La chirurgia richiede di mescolare coraggio e umiltà, ardimento e
paura. Quale intervento sceglieremmo se, invece di essere i chirurghi, noi
fossimo i pazienti?

L’abisso fra ricchi e poveri

Il mondo dei poveri è così lontano dal nostro che tutti gli
indicatori di questa inaccettabile disuguaglianza e tutte le immagini della
loro sofferenza, pur così frequenti sui media, finiscono col non dirci più
nulla. Il lavoro in Sud Sudan ci ha insegnato molto sulla sofferenza degli
oppressi. Il confronto con una realtà di bisogno gravissimo, in un ambiente di
inimmaginabile arretratezza e isolamento e di precarietà assoluta dei servizi
sanitari è stato oltremodo istruttivo. Il Sudan ci ha fatto incontrare la fame
e le carestie che uccidono, le capanne buie e spoglie, la mancanza di tutto, la
lebbra e le malattie tropicali, la tubercolosi e le polmoniti, le giovani donne
che muoiono di rottura di utero e i bambini in coma per malaria cerebrale. La
salute non è un diritto individuale, ma un bene indivisibile dell’intera umanità.
Nel villaggio globale il collasso di una parte del mondo non può non
riflettersi sul suo intero. Questo tema chiama tutti a un impegno concreto che
deve partire dalla consapevolezza delle disuguaglianze, delle loro cause e dei
loro meccanismi. La comunità scientifica è chiamata ad analizzare e a
diffondere i temi dell’equità, dello sviluppo sostenibile, della difesa della
dignità umana e della vita delle persone. Noi, operatori sanitari sul campo,
abbiamo il dovere perentorio della denuncia, perché di questi fenomeni siamo testimoni
diretti e l’informazione e la sensibilizzazione sulle problematiche del
sottosviluppo sono nostri compiti istituzionali.

Oggi si riconosce che la logica del profitto e la globalizzazione
del mercato hanno prevalso sulla globalizzazione dei diritti e che le
istituzioni finanziarie inteazionali Banca Mondiale e Fondo Monetario
Internazionale, sostituitesi di fatto all’Organizzazione Mondiale della Sanità
(Oms) nel guidare la politica sanitaria, hanno aggravato le disuguaglianze,
perché hanno indicato la stessa come una variabile dipendente della crescita
economica. Come condizione per accedere ai prestiti e aiuti inteazionali sono
stati imposti «aggiustamenti strutturali» quali la liberalizzazione del
commercio, il taglio della spesa sociale, l’introduzione di ticket e delle
assicurazioni private e la privatizzazione dei servizi con il risultato di
smantellare i servizi sanitari nazionali. Il Rapporto della Commissione
Macroeconomia e Salute dell’Oms del 2001 riconosce che la prima causa del disastro
sanitario che colpisce gran parte dell’umanità è la povertà estrema e che la
salute dipende anche, come noto da decenni, da agricoltura, alimentazione,
accessibilità all’acqua salubre, istruzione. Il Rapporto considera
principalmente una strategia consistente in interventi sanitari essenziali e
afferma che l’investimento nella salute deve essere prioritario, non secondario
agli interventi economici. In quanto strumento di lotta alla povertà, può
salvare milioni di vite umane, indurre di per sé sviluppo economico e
promuovere sicurezza globale, ma la comunità internazionale deve investire
molto di più. La cooperazione internazionale con i paesi poveri non è un dono
munifico dei paesi sviluppati, bensì un loro dovere preciso sancito dalla
legislazione internazionale e ratificato dai membri delle Nazioni Unite.

Programmi sanitari poverissimi

Il Ccm (Comitato Collaborazione Medica, vedi
riquadro), proprio sulla base della sua esperienza di lavoro in Sudan e della
consapevolezza che la povertà sopravvivrà di certo per molti decenni, ritiene
che si debba prendere coscienza della necessità di un progetto nuovo che
inventi una medicina diversa, applicabile anche agli ambienti più arretrati.
Non la medicina a tecnologia sofisticata, «neocoloniale», che crea dipendenza
dai paesi ricchi, ma quella a tecnologia povera, a misura d’uomo, che in virtù
della sua semplicità di uso può essere adoperata da molti. Una medicina che sia
scambio di culture e di conoscenze diverse. Inventare una medicina che trovi
una sua dignità nel servizio alle comunità, nell’essere esercitata dalla sua
gente senza istruzione.

È chiaro che lo sviluppo di questi popoli non
passa attraverso l’imitazione di modelli occidentali, irraggiungibili, e per di
più estranei alla cultura e alla storia locali. Gli aiuti inteazionali e le
Ong non devono alimentare il narcisistico scimmiottamento dei paesi
industrializzati, che sono visti dai Pvs (Paesi in via di sviluppo, ndr)
come modelli di riferimento proprio perché depositari di beni tecnologici.

Importante è lo sforzo di dare dignità alle
persone insegnando loro un mestiere, perfezionando le competenze professionali.
Il gergo della cooperazione lo definisce «costruzione di capacità». La
ricchezza più importante che i programmi sanitari devono portare è la capacità
di curare i malati. I volontari di villaggio impiegati con sorprendente
successo nelle nostre campagne sanitarie sono esempi di quali importanti
risultati si possano raccogliere anche fra le persone con basso tasso di
scolarizzazione e nei contesti lavorativi culturalmente più miseri.

Costruzione di capacità, partecipazione comunitaria e tecnologia
appropriata sono, intrecciati fra loro, i principali strumenti per raggiungere
in futuro l’indipendenza dall’aiuto esterno, il cosiddetto «sviluppo
sostenibile».

Qualunque intervento nelle situazioni di povertà estrema è non
soltanto attuabile, ma ha una sua grandezza come atto di rispetto verso i più
poveri, cui è offerto per alleviare le loro sofferenze e come opportunità di
riscatto dalla miseria. Gli inaccettabili squilibri fra Nord e Sud del mondo
sono destinati a perpetrare, per molti decenni ancora, la tragedia dei milioni
di persone che soffrono e muoiono di fame e malattie prevenibili, fra promesse
non mantenute e aiuti insufficienti. Il nostro intervento, inoltre,
contribuisce a donare dignità alle povertà locali, umane e materiali, alle
persone e alle loro misere cose.

Nonostante il timore di penetrare, senza avee legittimazione né
titolo, nel territorio accademico della chirurgia ufficiale, la nostra ormai
lunga esperienza sul campo ha originato un’identità nuova che si potrebbe
chiamare «chirurgia povera».

La tragedia sanitaria dell’Africa ha una gravità inaccettabile. Il
continente ha un carico di malattia pari al 24% del totale mondiale, ma dispone
soltanto del 3% del personale e dell’1% delle risorse finanziarie mondiali. Si
stima che l’Africa subsahariana manchi di un milione di operatori sanitari. I
chirurghi sono molto pochi. Una soluzione, almeno a breve termine, è addestrare
«non dottori» a fornire servizi chirurgici di base a livello distrettuale.

Missionari

A Yirol (Sud Sudan, ndr) ero ospitato dalla missione
comboniana. Numerosi missionari e suore comboniani, soprattutto italiani,
continuano a spendere la vita intera in Sud Sudan per alleviare le sofferenze e
portare istruzione. I missionari di Yirol, monsignor Cesare e i padri Giuseppe
e Mario, che mi ospitavano nei miei primi viaggi in Sudan, erano capaci di un
calore umano e di una spontaneità eccezionali. La bontà e la correttezza erano
stampate sui loro volti di persone semplici. Erano, sono, tipici rappresentanti
di quell’universo di missionari che «a piedi nudi», nella discrezione,
percorrono il mondo in soccorso degli umiliati, spendendo interamente se stessi
senza enfasi e senza riconoscimenti.

«Queste persone, che si ignorano, che giustificano chi fa loro del
male, che preferiscono che abbiano ragione gli altri, stanno salvando il mondo»
recita un aforisma di Borges. In effetti, sono loro, che pure hanno scelto la
mitezza, la virtù dei perdenti, (…) che hanno salvato il mondo dalla scomparsa
della religione, dall’eclissi del sacro, che i progressi della
secolarizzazione, avvenuta nel corso del XX secolo, facevano presagire si
sarebbe estesa dall’Europa a tutto il mondo. In futuro la maggior parte dei
cristiani non sarà in Europa, ma in Africa, Asia e America Latina, proprio per
effetto dell’azione della chiesa missionaria, che non si è data soltanto il
compito di salvaguardare lingue e tradizioni, ma ha saputo incarnarsi nella
vita della gente e inserirsi nelle culture locali mediante un processo
autentico di «inculturazione».

Questo «nuovo» cristianesimo del Sud del mondo, ha ben altra
vitalità e coscienza della propria forza rispetto al cristianesimo occidentale
euro centrico a cui si sostituisce. Non potrà non influenzare di sé
l’occidente.

Se aiuto un uomo

Sono amico dell’uomo soltanto quando ne aiuto qualcuno. La
parzialità è precondizione dell’efficacia dell’azione. Concentrare l’azione in
un’area permette di non cadere in sterili slanci retorici. La solidarietà
efficace è un’azione portata là dove serve, focalizzata in alcune aree
geografiche precise e a sfere circoscritte di relazioni umane. Allora fare
volontariato in Africa significa incontrare l’altro, il nostro prossimo che
vive lontano. Non evasione, ma ricerca dell’altro per soccorrerlo.

Se riusciamo a salvare la vita di un solo bambino non è forse un
atto di valore universale?

Avere per amici, oltre alle persone vicine, altre lontane e avere
una seconda patria, una patria «del cuore», a distanza di migliaia di
chilometri (geografia «affettiva») significa dare concretezza alla solidarietà
e, nello stesso tempo, ampliare il proprio universo al di fuori di noi stessi,
oltre i confini delle frontiere e delle razze.

Amiamo il contatto diretto con le comunità e
con le persone, la solidarietà della presenza, la condivisione, anche se
limitata nel tempo, delle tribolazioni che loro vivono ogni giorno, perché
questa prossimità ci assimila e ci dà capacità di ascolto e un minimo diritto
di confronto. Ne ricaviamo il privilegio di una vita «mischiata» alla gente,
lontana da ogni potere e da ogni ricchezza, che ti mette in una rete di
fratellanze e ti permette di collaborare umilmente, senza alzare alcuna
bandiera, a un’opera di giustizia «affinché la modestia dei deboli abbia la
meglio sull’arroganza dei forti». Allora si stabilisce un legame che ha
qualcosa di sacro. Dobbiamo coltivarlo in noi, pur consci della piccolezza
della nostra azione di fronte alla grandezza della dignità del povero, per
disegnare un pezzetto della trama della sua vita.

L’Africa ci può consegnare un ideale pieno di dignità, qualcosa più
grande di noi per cui vivere. Percorrerò questa strada una sola volta: che
questa mia vita abbia un minimo di senso, anche se nascosto a molti.

Giuseppe Meo
 
Biografia


Una Storia Esemplare

Dal primo viaggio di conoscenza in Africa nel 1969,
all’ultimo, a Bunagok, Sud Sudan, giugno 2012. 
Quarantatré splendidi anni al servizio dei più poveri. Chi era Giuseppe
Meo. Nato nel 1938, laureatosi a Torino nel 1962, e poi
specializzatosi in chirurgia d’urgenza e toracica, fondò nel 1968 con un gruppo
di amici e colleghi il Comitato Collaborazione Medica (Ccm) di Torino, Ong
dedicata allo sviluppo sanitario.

Dopo il suo primo periodo di lavoro medico in un ospedale
rurale in Kenya negli anni 1970-1972 con la moglie Carla e i figli Alberto,
Antonella e Daniela, la pratica della medicina e della chirurgia in Africa
divenne il motivo profondo della sua vita.

Fece numerose missioni chirurgiche in diversi paesi, Sud
Sudan, Uganda, Mozambico, Etiopia, accanto al lavoro come chirurgo
nell’ospedale di Cuneo in Italia, da cui si dimise nel 2000 per dedicarsi
completamente all’attività nel Ccm. Grazie al prof. Meo l’Ong cominciò la sua
attività in Sud Sudan nel 1984, nella città di Wau nello Health Training
Institute, e dal 1991, a seguito di una richiesta del Splm (Sudan people
liberation mouvement), nelle zone liberate del Sud Sudan durante la guerra,
fondando e costruendo, insieme alle comunità locali e alle autorità Splm gli
ospedali rurali e i centri di salute di Yirol, Billing, Adior, Turalei,
Bunagok, ricostruendo e rimettendo in attività l’ospedale di Rumbek dopo la
distruzione della guerra e facendo numerose missioni chirurgiche in aree
remote. Il prof. Meo con il Ccm è stato accanto al popolo sudanese in tutti gli
anni di guerra. Durante una di queste missioni nel 1995 fu catturato
dall’esercito governativo del Sudan in Upper Nile e tenuto prigioniero per 55
giorni.

Nel corso degli anni il destino del prof. Meo (chiamato
Mayodit in Sud Sudan) si è fuso con il destino del popolo sud sudanese. Il
motivo dominante della sua incessante attività, in Sud Sudan e in Italia, è
stato «portare le cure chirurgiche a quelli che ne hanno più bisogno, i poveri
e le comunità rurali, anche nelle condizioni più difficili».

I tre principi operativi a cui si è ispirato il suo lavoro
sono stati costantemente: la partecipazione della gente, della comunità locale;
la formazione e la crescita del personale locale; la tecnologia appropriata,
perché le risorse sono poche e bisogna sfruttarle nel modo più efficace ed
economico. Con questi principi il prof. Meo ha dato un grande contributo a
estendere la chirurgia di base in aree molto remote, fino ad allora mai
servite.

Ha anche dato dignità scientifica a questo lavoro,
presentandolo in convegni e riviste mediche inteazionali, rendendolo noto
alla comunità chirurgica internazionale. Era orgoglioso, negli ultimi mesi, di
aver contribuito al Southe Sudan Medical Joual, e la morte l’ha colto
mentre aveva progetti di estendere questa preziosa collaborazione.

Il popolo sudanese, insieme al Ccm, perde un grande amico e
compagno di viaggio. Il prof. Meo ci lascia con la sua vita e la sua attività
un forte messaggio: si può lavorare con buoni risultati anche nelle condizioni
più difficili, se si rispetta la dignità di ogni uomo.

Francesco Torta
 
Il libro
 
«Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan».


L’Harmattan Italia, 2010, pagg. 296, € 35.
 
Il libro può essere acquistato presso il Ccm, per info: tel. 011.6602793 www.ccm-italia.org.

Da questa pubblicazione sono stati tratti i brani usati in
questo articolo.

Giuseppe Meo




Cari Missionari – Aprile 2013

Lettere di p. Giano Benedetti dalla Costa d’Avorio, dove è ritornato da pochi mesi, e di Ivo Lazzaroni dalla RD del Congo, laico missionario della Consolata a Isiro presso il Centro Gajen.

Cari Lettori e Amici,

il mese scorso ho dovuto rubare una pagina in più per far
stare tutte le lettere, comprese le mie risposte, magari troppo lunghe.
Naturalmente, mentre scrivo queste righe verso fine febbraio, non ho ancora i
vostri commenti su quanto pubblicato. Così, visto che non ci sono vostre
lettere, mi permetto di dare spazio alla voce di due missionari. P. Giano
Benedetti, sessantenne quest’anno, che è ritornato in Costa d’Avorio dopo
lunghi anni dedicati prima a servizio dell’istituto come consigliere generale e
poi come direttore della casa per i missionari anziani e malati ad Alpignano.
Ricomincia a sessanta, altro che aspettare la pensione.

La seconda lettera è di un missionario laico in Congo RD,
Ivo Lazzaroni, bergamasco. Il suo scritto mi è arrivato a metà ottobre, troppo
tardi per quel mese e troppo lungo per i mesi a seguire. Ma è una testimonianza
viva, troppo bella per essere dimenticata. Ve la propongo nella sua freschezza.

Il Direttore
PREVIDENZA E PROVVIDENZA

Carissimi,
provo a scuotermi di dosso un po’ di pigrizia per comunicare qualcosa della
nostra vita da Grand Zattry. In Costa d’Avorio sono stato accolto come se fossi
un «vecchio lupo» di questa missione. A dire il vero, qui ho lavorato poco e
conosco pochissimo la realtà. Raccontandovi una piccola iniziativa dei mesi
scorsi, non so se, conoscendo poco, renderò l’idea a chi mi legge lontano da
qui.

Partendo dall’Italia, a fine settembre 2012, mi avevano
promesso in dono i regali di nozze di una coppia di «sposini» a me carissimi.
Cosa fare di quei soldi? Di comune intesa si era deciso di destinarli ai
ragazzi in difficoltà finanziarie che iniziavano il nuovo anno scolastico a
Grand Zattry, grosso villaggio della zona di Soubré, luogo della mia
destinazione.

Appena arrivato sul posto, ho informato del gesto di
solidarietà le comunità ecclesiali di base di Grand Zattry. Dopo avee parlato
al loro interno, hanno segnalato alcuni casi da aiutare perché conosciuti nei
loro rispettivi quartieri: ragazzi in età scolare, figli di cristiani e di
musulmani (qui la maggioranza della popolazione è musulmana). Sono molti gli
alunni che una volta iniziate le lezioni ne rimangono fuori dopo i primi
giorni. Basta molto poco: «I tuoi non hanno ancora pagato l’iscrizione», «non
hai la divisa richiesta», «non hai i libri di testo», «ti manca il kit per la
geometria, ti manca…». E, così, un buon gruppo di scolari viene allontanato
dalla scuola. Da queste parti l’economia familiare sovente è da sopravvivenza e
non arriva a coprire nemmeno le spese – irrisorie diremmo noi – della scuola.
E… per quest’anno «andrai a lavorare nei campi».

In breve, con 1200 euro, trentadue ragazzi delle elementari
e quattro del liceo hanno potuto riprendere i loro studi. Tra di essi anche tre
piccoli di un villaggio lontano dal centro di Grand Zattry i cui genitori da
anni non inviavano i figli alla scuola «di campagna» più vicina, perché, a
causa dell’isolamento, esige un supplemento di spesa.

Mi sembra che i ringraziamenti ricevuti da genitori e
scolari siano stati sinceri e a volte anche calorosi… per così poco. Nel caso
di quel villaggio isolato, il «grazie» forse ha cominciato a ridurre anche le
distanze che lo caratterizzano e a rendere possibile una comunicazione aperta
ad altre cornoperazioni. Vedremo.

Vi confesso che sono preso da tanti altri pensieri e
programmi perché mi sono ritrovato parroco di Grand Zattry ancor prima di
arrivarci… e non so se proporremo anche da qui le adozioni a distanza o altri
progetti, ma spero che nei mesi che verranno, in vista del prossimo anno
scolastico, si possa mettere da parte qualcosa di gratuito e di imprevisto,
secondo i formulari e i protocolli della Provvidenza… che non ne ha. Previdenza
e provvidenza le possiamo trovare ben integrate nell’azione divina, ma
difficili da coniugare, almeno per me. In situazioni di grave precarietà
economica, nell’attesa di soluzioni pianificate, lungimiranti o definitive, la
più spicciola e inattesa solidarietà ridà fiato e non emargina. Ho ancora nel
cuore tante situazioni familiari conosciute in Italia e persino nelle nostre
comunità: un po’ di «Fiato e di Vicinanza» non solo non fanno male ma possono
abbassare, purificare ambizioni e pretese, e innalzare, mettere meglio a fuoco
la passione verso gli altri. Che è quella di Dio. E grazie a chi ha donato!

P.
Giano Benedetti,
Grand Zattry,
Costa d’Avorio, 29/01/2013

IL MITO DEL MISSIONARIO

Autunno di circa quaranta anni fa, Cusio, Alta Val Brembana
nel bergamasco, prime giornate d’ottobre, anche primi giorni di scuola
elementare; paesaggio stupendo, boschi dipinti di mille colori, come nessun
pittore può realizzare, a specchio di un cielo azzurro e di cime montagnose
ancora per me, bambino, irraggiungibili, come era irraggiungibile e sconosciuto
il disegno che Dio aveva su di me, e su ognuno di noi.

Ecco entrare in aula la maestra, a spiegarci che il mese di
ottobre è anche il mese missionario, e un missionario verrà a visitarci. Un po’
stupiti, ci chiediamo, ma chi è il missionario? Parola ancora ignota al nostro
vocabolario dei primi anni di scuola elementare. A distanza di anni, l’unica
cosa che ricordo è un volto scottato dal sole con una barba bianca. Alcuni anni
dopo, essendo un po’ più grande, ecco di nuovo la visita di un missionario tra
noi. Stesso volto segnato dal sole e dalla vita, stessa barba, che ci incute un
certo rispetto per un uomo venuto da un mondo a noi sconosciuto e lontanissimo,
che con la sua fede salda e grande come certi baobab che si vedono in Africa, i
sui racconti dal sapore pionieristico e avventuroso, le fotografie in bianco e
nero che danno una sensazione magica, ci fanno sentire il calore e il desiderio
di partire per quei luoghi misteriosi e affascinanti.

E allora al domanda di alcuni anni prima, «ma chi è sto
missionario», per noi ragazzi delle medie trova una risposta: il missionario è
un mito. I vari miti dello sport, non hanno ancora fatto presa
nella nostra vita, ed il missionario resta l’unica persona fuori dal cerchio
famigliare, a cui ci si può avvicinare senza remore, sempre pronto
all’incontro, all’ascolto.

Da quei primissimi incontri con i missionari, di anni ne son
passati, di esperienze e di tratti di strada ne ho fatti, e siccome son
convinto che le situazioni non capitano per caso, eccomi ora in cammino su
questa strada missionaria, cercando di compiere il disegno che Dio aveva
concepito sulla mia culla.

Sono Lazzaroni Ivo, missionario laico della Consolata, da
cinque anni mi trovo a Isiro, nel Nord-Est della Repubblica Democratica del
Congo. Ogni giorno che passa capisco sempre più l’immenso dono che Dio mi ha
fatto di testimoniare il suo Amore in mezzo a questo popolo e soprattutto in
una congregazione missionaria con Maria Consolata come protettrice.

Collaboro con frère Domenico Bugatti (bresciano di
Lumezzane – nella foto grande) nella gestione del nostro centro
nutrizionale, Notre Dame del la Consolata (Gajen), con tutte le molteplici
attività caritative correlate.

Ci sono giornie e difficoltà che la vita e la missione ci
riserva, e così, la fervida immaginazione che avevo da ragazzino, ha lasciato
posto alla pura e dura realtà africana, con le sue magie, le sue paure, le
danze e sensazioni di vita danzata, che solo la missione vissuta con passione
può dare.

Africa culla dell’umanità, ma vittima di tante
contraddizioni. Terra dai mille sapori, dalle culture ricche di valori. Ma
spesso per rispettare la loro stessa cultura, nelle difficoltà della loro vita,
tengono le persone in forme di schiavitù, situazioni che per noi, non hanno
senso e logica. Molti sono gli aspetti di una cultura diversa dalla nostra, che
non riesco a comprendere, ad accettare. La stessa società è ancora in cerca di
se stessa, fa fatica aprirsi. Quante altre domande mi girano in testa. Allora
il mito del missionario barbuto di una trentina d’anni fa lascia il posto al
missionario adulto d’oggi, con i suoi perché, forse non tanto diversi dai tanti
perché dei missionari di ogni tempo.

Molte volte viene da chiedersi se servirà a qualche cosa la
nostra presenza , (sicuramente serve più a noi per farci crescere come uomini e
soprattutto come cristiani), dove il «bianco» non è sempre ben accetto se non
per i soldi che pensano possa avere, dove a volte sembra che diamo fastidio. Ho
l’impressione che apparentemente nulla cambi: ingiustizie all’ordine del
giorno, poveri sempre più poveri.

E così con questi perché in testa, mi ritrovo ogni mattino
sulle strade impantanate che portano al nostro centro nutrizionale Gajen.
Strade infangate che ci conducono alla prigione centrale d’Isiro, e rivoli di
fango che ci portano a visitare gli ammalati e a celebrare la messa il sabato o
la domenica nei vari ospedali, a incontrare gente nei vari quartieri.

Per Gesù la strada è sempre stata un luogo d’incontro, e
proprio qui incontriamo tanta gente, storie diverse, strade che si incrociano e
ci riconducono sempre al nostro centro nutrizionale. Qui ci aspettano bimbi
sempre pronti all’incontro col sorriso stampato sul volto, liberi da quei
pregiudizi, da quelle maschere che molte volte gli adulti si mettono, poveri
tra i più poveri, in cerca di un aiuto, di un conforto.

Vediamo molti bambini alla scuola matea, sono giorniosi e
pimpanti, ma vediamo anche i ragazzi di strada, i cosidetti enfant sorcier (bambini
stregoni). La loro infanzia è stata distrutta dalla follia legata alla
superstizione, vengono accusati dai loro familiari di esercitare poteri
occulti. Sono costretti a subire umiliazioni e violenze indicibili e buttati
fuori casa. Hanno dai due ai dodici anni.

Ci sono i disabili fisici e mentali, gli orfani dell’Aids e
soprattutto i bimbi malnutriti: sono un centinaio al giorno. è una pena vederli, sguardi spenti,
senza sorriso, esseri fragili, stretti da braccia ancora più fragili e
tremolanti, mamme malnutrite o giovani mamme vittime dell’Aids. E purtroppo, in
questo momento stiamo vivendo anche una situazione abbastanza critica e
drammatica, il virus dell’ebola è ricomparso, non si sa ancora come, il centro
colpito è proprio la cittadina d’Isiro, ma sicuramente fa paura, non esistono
farmaci o vaccini, e per l’80% è letale.

Ci son già state diverse morti, molti son in isolamento
all’ospedale generale d’Isiro (solo a gennaio 2013 le autorità sanitarie hanno
comunicato che l’emergenza ebola è finita, ndr).

La missione si capisce vivendola con amore. è sicuramente in questa vita vissuta
tra tutte queste miserie, che il mito del missionario si infrange e sorge
l’uomo missionario, con tutte le sue fragilità, le sue limitatezze e
l’impotenza di fronte alle necessità dell’uomo, ed è qui che entra in gioco la
nostra fede, la fede semplice dei forti, dove l’unico «Mito Eteo» da seguire
è Gesù Cristo.

Ed è lì, stringendo queste mani, intrecciando i loro
sguardi, vedendo i loro sorrisi, che le nostre mani si sostituiscono a quelle
della Vergine Consolata che tiene in braccio Gesù bambino.

Ed allora sì, capisco che la nostra è una presenza di
consolazione. Cercando di portar consolazione agli altri, si dimenticano anche
gravi problemi che ci circondano, donando con tutte le nostre fragilità e i
nostri limiti quell’amore che a loro è stato negato o che semplicemente non
hanno mai avuto. Cerchiamo di dare quella dignità negata, quella speranza che è
la tenera ala sostenitrice della nostra fede.

Ivo Lazzaroni,
Lmc,
da Isiro, RD Congo,
ottobre 2012

a cura del Direttore




4_M: Una Storia di Provvidenza

Da 10 anni i missionari
della Consolata in Mongolia
Arrivati senza progetti
prefabbricati, hanno cercato la loro via attraverso il confronto, dialogo e
discernimento: oggi i missionari e le missionarie della Consolata in Mongolia
sono 11, distribuiti in due comunità, nella capitale e nella cittadina di Arvaiheer.

Nudee adesso ha 10
anni. Il suo è un soprannome e si riferisce agli occhietti vispi che spiccano
sul suo volto minuto. Lo abbiamo conosciuto quando lottava per sopravvivere,
tra gli stenti di una famiglia troppo provata; oggi è un ragazzino vivace e
sano che ha ripreso a vivere e sperare. Guardandolo, ci viene da pensare che la
nostra presenza in Mongolia ha la sua stessa età. Compiamo anche noi 10 anni di
Mongolia: quella che ci sembra una giornata ininterrotta, neanche poi così
lunga, negli occhi di Nudee è già una vita. Breve, ma intensa, ricca di
incontri, esperienze e strade percorse.

I primi inizi

Prima di partire da Roma, di mons. Padilla sapevamo solo
che era il Prefetto Apostolico di 
Ulaanbaatar che aveva benevolmente accolto la delegazione dei missionari
e missionarie della Consolata nel 2002, di ritorno dalla Cambogia, la quale
inizialmente sembrava dovesse essere il nostro nuovo campo di apostolato. E qui
già una sorpresa, la prima di tante che la Provvidenza ha seminato nella nostra
storia: invece che in Cambogia, i nostri due Istituti scelsero la Mongolia, la
cui situazione richiedeva forze missionarie che si dedicassero
all’evangelizzazione, al dialogo interreligioso e alla consolazione dei poveri;
queste le uniche grandi linee-direttrici consegnate al primo gruppo di
partenti: i padri Juan Carlos Greco e Giorgio Marengo, le suore Lucia
Bortolomasi, Maria Ines Patino e Giovanna Maria Villa. Sì, un gruppo misto, per
espressa volontà dei due Istituti, che intendevano riprendere quella comunione
di vita e missione che li aveva visti nascere dal beato Allamano. Il gruppetto
si trovò per un mese di convivenza tra Nepi (Viterbo) e Roma, nella primavera
del 2003. E già in quei primi passi di conoscenza reciproca e formazione
sperimentò il passaggio della croce per la malattia improvvisa di padre Paolo
Fedrigoni, anch’egli destinato alla Mongolia, ma sostituito da padre Eesto
Viscardi, che raggiunse il gruppo a inizio 2004. Anche suor Sandra Garay, pur
avendo partecipato al cammino di preparazione, si unì al gruppo qualche mese più
tardi.

Il mandato delle due Direzioni Generali era essenziale:
iniziare questa nuova presenza puntando sulla comunione tra di noi e senza
troppi traguardi da raggiungere, perché quelli li avremmo scoperti insieme, sul
posto. E così partimmo: era il luglio 2003. I nostri confratelli della Corea
furono i primi a accoglierci in terra asiatica, mentre sbrigavamo le formalità
per ottenere il visto dall’ambasciata mongola di Seoul. Durante quei giorni
ricevemmo una chiamata di mons. Padilla: «Abbiamo trovato per voi due alloggi
in affitto nello stesso condominio; vi aspettiamo all’aeroporto». Pochi giorni
dopo volammo verso  Ulaanbaatar: sentendo
gli annunci in mongolo delle assistenti di volo ci chiedevamo quando mai
avremmo imparato a esprimerci in una lingua così difficile…

Fu proprio la lingua la priorità alla quale dedicammo i
primi tre anni di presenza nella capitale: tornammo sui banchi di scuola per
cercare di assimilare suoni impronunciabili e capie la grammatica, oltre che
per introdurci al mondo culturale di questo poco conosciuto paese dell’Asia
Centrale.

Vivevamo in due alloggi nello stesso condominio, nella
zona est di  Ulaanbaatar. Fu spontaneo
impostare i ritmi quotidiani su alcuni appuntamenti fissi condivisi: preghiera,
pasti preparati a tuo, incontri di formazione e valutazione. Nascevano
momenti di condivisione spontanea, vitali per persone che, provenienti da paesi
diversi e con alle spalle esperienze di missione piuttosto eterogenee, dovevano
imparare a orientarsi in un mondo del tutto nuovo e piuttosto insolito. Allora
forse non lo sapevamo, ma si stava definendo uno stile che avrebbe poi
caratterizzato questa missione: la frateità vera, declinata al maschile e al
femminile, e che supera la semplice «collaborazione», per diventare spirito di
famiglia, responsabilità condivisa nelle scelte, esperienza di crescita umana e
spirituale.

Qualcuno tra i missionari di altre congregazioni già sul
campo si stupì che non fossimo arrivati con un progetto già ben definito,
magari una scuola o un centro di salute: «E poi cosa farete? Di che cosa vi
occuperete?» era la domanda più ricorrente. Ma fu proprio questa libertà da
schemi predefiniti che ci permise di metterci in atteggiamento di attenzione e
discernimento di quale fosse la volontà di Dio per noi.

Alcune scelte importanti

Nel frattempo mons. Padilla era stato ordinato vescovo e
la piccola chiesa locale provava a darsi una prima organizzazione ufficiale.
Negli anni a seguire avremmo poi offerto un contributo determinante in questo
processo, al punto che uno di noi, padre Eesto Viscardi, è oggi Prefetto
delegato, ossia vicario generale del vescovo. Ciò che diventava gradualmente più
chiaro era la necessità di spingerci al di fuori della capitale, fino ad allora
unico vero campo di apostolato della Chiesa. In questo enorme Paese, grande 5
volte l’Italia, la Chiesa non aveva alcuna presenza stabile in zone rurali o
nei centri delle 21 regioni amministrative, eccetto un asilo infantile nella
città settentrionale di Erdenet.

Anche in questo caso non ricevemmo «ricette già pronte»;
il vescovo ci invitò a guardarci attorno, a esplorare il khudoo,
l’immensa campagna mongola. Durante le vacanze dalla scuola di lingua, in
inverno e in estate, organizzammo viaggi con fuori strada presi a noleggio e
visitammo almeno 10 regioni, quelle che ritenemmo più realistico prendere in
considerazione, situate in un raggio di 400-600 chilometri dal centro. A ogni
viaggio seguiva un incontro di valutazione, finché nel 2006 giungemmo alla
scelta di Uvurkhangai, nel suo capoluogo di Arvaiheer.

Con la presenza ad Arvaiheer si avviò una nuova fase:
l’inserimento diretto nel vissuto di una comunità. Non avevamo precedenti. Si
dovettero ottenere i permessi da parte dell’autorità locale. In Mongolia
infatti, benché la costituzione riconosca la libertà di culto, l’esercizio di
attività religiose è strettamente regolamentato da una serie di restrizioni.
Eravamo gli unici stranieri stabilmente residenti nella cittadina. Bisognava
tessere reti di relazioni amichevoli con persone di vari ambienti e
provenienze.

Tale situazione ci fece capire concretamente che
l’annuncio evangelico deve necessariamente prendere carne nella persona degli
annunciatori, accettando la gradualità e i condizionamenti di qualsiasi
relazione autenticamente umana; dovevamo renderci conto di essere «pellegrini e
ospiti» e quindi dipendenti anche noi dall’accettazione degli altri.

Nacquero piccole iniziative di avvicinamento alla vita
del paese: collaborazioni in progetti di sviluppo lanciati dagli enti locali,
insegnamento dell’inglese, volontariato in un asilo. E intanto ci chiedevamo
che forma potesse eventualmente prendere la nostra presenza, qualora ci
avessero dato il permesso. Il governo regionale si pronunciò a favore, dandoci
come una chance per verificare se davvero valeva la pena lasciarci
operare nella loro giurisdizione. Un pezzo dopo l’altro si veniva componendo un
mosaico, che capimmo solo dopo: ci diedero in uso un terreno a ridosso della
strada statale, all’ingresso del paese; pochi mesi dopo cambiarono idea e
finimmo dove sorge ora la missione: una zona periferica e piuttosto isolata, ma
che si sta progressivamente popolando. Poi la grande gher della cappella
e quella del doposcuola (2007), il centro missionario in muratura (2008), il
locale per le docce pubbliche (2010) e infine gli spazi per gli incontri e
l’ospitalità (2012).

Il frutto più bello di questo cammino è la nascita della
piccola comunità cristiana, fatta di persone che dalla curiosità sono passate alla
ricerca e infine al catecumenato e al battesimo. Il 17 giugno il vescovo l’ha
elevata a parrocchia, dedicandola a «Maria, Madre di Misericordia». E così
abbiamo scoperto quanto sia attraente il Vangelo e come lo Spirito di Dio parli
nell’intimo dei cuori, per condurre alla pienezza di vita nella fede. Storie a
volte incredibili di persone che si sentono attratte dal Signore, sperimentano
una pace «diversa» quando vengono a pregare nella grande tenda-cappella,
scoprono la riconciliazione reciproca e con Dio e riescono a uscire dalla
schiavitù dell’alcornol: solo Dio può tessere così la trama delle nostre vite e
noi siamo qui a riconoscere il suo passaggio e renderlo manifesto.

Dal centro alla periferia

Contemporaneamente agli sviluppi di Arvaiheer, la comunità
di Ulaanbaatar accoglieva le missionarie e i missionari in arrivo e li
accompagnava nel primo inserimento. Ma già fin dai primi anni ci misurammo con
la formazione di una piccola comunità cristiana nascente, in un quartiere
periferico della capitale, vicino all’aeroporto. Anche qui si creò un gruppo,
che faceva capo alla parrocchia più vicina, nel territorio in cui viviamo;
diverse di quelle persone divennero poi punti di riferimento perché altre
incontrassero il Vangelo: due ragazze sono oggi in formazione nelle Filippine,
per diventare catechiste qualificate a servizio della Prefettura Apostolica.

Oltre allo studio della lingua e cultura, abbiamo sempre
cercato di offrire un contributo qualificato alle attività della Chiesa locale:
catechesi, incontri formativi, assistenza ai poveri, collaborazioni con gli
uffici della Prefettura. Nel tempo ci sembò che il nostro servizio in città
potesse anche prendere la forma di un apostolato diretto, in una zona dove non
ci fossero ancora presenze cattoliche.

Anche questa volta portammo avanti una riflessione
comunitaria, per pianificare la nuova apertura in contesto cittadino. Facemmo
un’accurata ricerca sul campo, che ci portò a individuare nella periferia nord
della città l’area di un futuro inserimento. Solo recentemente abbiamo concluso
una lunga trattativa per l’acquisizione di un terreno in quella zona, piuttosto
degradata, dove speriamo di avviare presto la nostra presenza; la
frequentazione della gente del luogo e il vivere lì ci daranno elementi validi
per disceere come realizzare il centro di «spiritualità ed evangelizzazione»
che ci sembra di poter offrire alla Chiesa in Mongolia. Quando le forze
missionarie lo consentiranno, esso potrà offrire occasioni di primo annuncio e
attenzione ai poveri; nelle nostre intenzioni rappresenterà anche la possibilità
di ritirarsi dal caos del centro cittadino per ritrovare se stessi nella
preghiera e condivisione.

La tenda della Consolata

Dieci anni di presenza in un paese dalla storia
millenaria sono come una goccia d’acqua. Intanto però la Consolata ha potuto
piantare la sua tenda nella terra di Gengis Khan. È questo un paese dove
l’inserimento può essere pesantemente condizionato dal clima molto freddo,
dalla peculiarità e complessità dei riferimenti culturali (p. es. la lingua) e
dal carattere rarefatto delle relazioni, vista la bassissima densità di
popolazione. Il senso di isolamento che si avverte può essere molto forte.
Eppure ci sentiamo enormemente arricchiti da tutto questo.

L’immagine biblica che forse più ci accompagna è quella
del piccolo seme gettato nel campo; essa esprime bene quello che sperimentiamo
di fronte alla sproporzione tra le esigenze della missione e la nostra povertà.
Ma abbiamo toccato con mano quanto tale povertà possa diventare feconda, se
messa nelle mani di Colui che guida la storia e le nostre vite. E allora
continuiamo il cammino, da fratelli e sorelle, sperando di incrociare un giorno
lo sguardo adulto del nostro Nudee.

P. Giorgio
Marengo

Giorgio Marengo