4_Orti: Contadina Provvidenza

Esperienze 3/ Cooperativa Cavoli Nostri
Dall’incontro tra due religiosi e un gruppo di giovani
nasce un’esperienza sostenibile. Grazie alla produzione orticola rifornisce un
centro per anziani del Cottolengo. Allo stesso tempo impiega persone
svantaggiate, dando loro un salario. Sempre con una grande fiducia nella
provvidenza.

In paese la indicano ancora con il nome antico, la
Colonia: una struttura settecentesca a due passi dal centro di Feletto (To),
circondata da sei ettari di terreno, sede dagli anni ‘40 della Piccola casa
della Divina Provvidenza (uno dei centri del Cottolengo di Torino) per
l’accoglienza di persone sordomute.

Nel tempo il numero di religiosi impegnati nella
struttura si è assottigliato, e i mezzi materiali hanno iniziato a scarseggiare
finché, nel 2007, la direzione della Casa è stata affidata a fratel Umberto
Bonotto, che ha deciso insieme al confratello Marco Rizzonato di «sfruttare» la
campagna a disposizione per rilanciare le attività agricole. Alcuni giovani,
venuti a conoscenza del progetto, si offrono «provvidenzialmente» di
collaborare nel ridare vita agli spazi in abbandono, accompagnati dalla
Coldiretti di Torino. Nasce così, nel 2011, la cornoperativa Cavoli Nostri. «Dopo
le prime perlustrazioni, insieme ad altri amici ci siamo innamorati del posto e
dello spirito che lo animava, e abbiamo iniziato a incontrarci una volta la
settimana per far crescere insieme il sogno di trasformare i terreni della
Piccola casa in qualcosa che, pur mantenendo la vocazione sociale, assumesse
però anche una valenza produttiva» racconta Silvia, 41 anni, socia volontaria
della cornoperativa sgorgata da quel sogno collettivo.

Silvia vive a Torino, dove lavora come psicologa e
collabora con l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), ma
appena ha un momento libero va a Feletto per fare anche lei la sua parte.
Seminare, zappare, togliere le erbacce, pulire… il lavoro non manca mai e i
volontari non si tirano indietro, qualunque sia la loro competenza
professionale: a parte Stefania, che per «puro caso» è agrotecnica di
professione, e Daniela, che è cresciuta in un’azienda agricola, ci sono
Martina, laureata in giurisprudenza, Elena, un’economista, Davide, impiegato…
13 soci in tutto, tra lavoratori e volontari, inclusi i due religiosi e tre
ospiti della Piccola casa in grado di lavorare.

Ispirazione religiosa, stile laico

Finora Cavoli Nostri ha ridato vita a 2,5 ettari dei sei
disponibili, impiegandoli per la coltivazione ortofrutticola. Il Cottolengo
concede i terreni in comodato d’uso, in cambio la cornoperativa fornisce alla
Piccola casa i prodotti necessari al sostentamento dei suoi ospiti, che oggi
sono una ventina, alcuni molto anziani, e tutti uomini.

«Ci sono anche 5-6 sordomuti, stiamo imparando il
linguaggio dei segni per comunicare meglio con loro» spiega Silvia. Mentre ci
accompagna a visitare le serre (ce ne sono tre già in funzione, ma ne stanno
montando altre per incrementare la produzione), Silvia ci racconta l’origine
del nome Cavoli Nostri. «Ci ha dato lo spunto fratel Marco, raccontandoci un
episodio della vita di San Giuseppe Cottolengo: per assistere i malati
rifiutati dall’ospedale, il Cottolengo aveva preso in affitto due stanzette a
Torino; poi però era scoppiata un’epidemia di colera ed era arrivato lo
sfratto. I volontari che aiutavano il santo erano disperati, non sapevano che
fine avrebbero fatto, ma lui li rassicurò dicendo: “Come il cavolo va
trapiantato per potersi riprodurre, così sarà anche per noi”. Detto fatto: il
Cottolengo prese in affitto un piccolo rustico, che fu all’origine dell’attuale
Casa della Divina Provvidenza di Torino, in grado di ospitare oggi centinaia di
persone».

Anche tra i soci della cornoperativa si respira quella «fiducia
nella Provvidenza» tipica del più genuino spirito cottolenghino: una fiducia
che spinge a non arrendersi davanti alle difficoltà, e a vivere secondo gli
ideali della sobrietà e della solidarietà. «Cerchiamo di fare buon uso delle
risorse a nostra disposizione, senza sprecare nulla, nel rispetto delle persone
e dell’ambiente» spiega Silvia mostrandoci la serra delle fragole: i bancali
con le piantine sono stati ricavati da vecchi letti del Cottolengo dismessi, e
sono rialzati da terra «così da permettere anche a chi ha problemi fisici di
poter lavorare, restando in piedi anziché a terra ginocchioni».

Se Cavoli Nostri continua la tradizione solidaristica
del Cottolengo, lo fa però in uno stile del tutto laico: «La cosa bella è che
pur trovandoci in una struttura religiosa viviamo nella piena libertà
d’espressione, credenti e non» spiega Silvia. «Quello che condividiamo sono valori
umani di solidarietà e di amore per il prossimo».

Ripensare il welfare

Cavoli Nostri è una cornoperativa sociale di tipo b che
cura la riabilitazione e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate dai
18 ai 60 anni: disabili psichici e intellettivi, ma anche rifugiati politici. «Oggi,
con la crisi dello stato sociale e il declino di molti servizi essenziali, nel
nostro piccolo vogliamo dimostrare che si può fare welfare in modo nuovo,
raggiungendo la piena sostenibilità economica per uscire dalle logiche
dell’assistenzialismo» spiega Stefania, socia volontaria di Cavoli Nostri. «Adesso
con la vendita ortofrutticola riusciamo a retribuire alcuni dei nostri ragazzi,
anche grazie all’apertura di un punto vendita diretto». Dallo scorso giugno
infatti Cavoli Nostri è aperto al pubblico tutti i sabati mattina (nella bella
stagione anche mercoledì pomeriggio). «Ogni sabato abbiamo una cinquantina di
acquirenti, non è poco se consideriamo che qui in paese quasi ogni abitante ha
il proprio orto», spiega Stefania. «Molti vengono a comperare dalla città,
lavoriamo grazie al passaparola e rifoiamo anche alcuni gruppi d’acquisto. I
nostri prodotti sono molto apprezzati perché, oltre alla componente “sociale”,
sono biologici al 100%; almeno di fatto visto che non abbiamo ancora concluso
le pratiche per la certificazione».

A Torino c’è un ristorante, Le Papille, che ha iniziato
con la passata di pomodoro di Cavoli Nostri e adesso propone ai clienti anche
gli altri prodotti della cornoperativa. «Il nostro sogno sarebbe aprire un
laboratorio per la trasformazione di sughi, conserve, confetture, in modo da
attivare qualche inserimento lavorativo in più» racconta Silvia. Nel frattempo
per trasformare i prodotti, Cavoli Nostri lavora in rete con altre realtà della
provincia, accomunate dalla filosofia dell’agricoltura sociale, come la cascina
Amalterna di Borgiallo, in Valle Sacra, e l’Agricò di Pecetto, che ha vinto
l’Oscar Green 2011 e offre inserimento lavorativo alle vittime di tratta.

Il valore della differenza

«Non è sempre facile far capire ai consumatori il valore
del cibo sano» dice Silvia, «all’inizio qualche cliente, contento di sostenere
il progetto d’inserimento dei ragazzi, si lamentava però dell’aspetto estetico
dei prodotti, dei calibri della frutta, ecc. In questi casi rispondiamo che “per
noi la differenza è un valore, in tutte le sue manifestazioni!”».

Non contenti di produrre cibi buoni e biologici, a
Cavoli Nostri stanno anche studiando le pratiche eco-sostenibili
dell’agricoltura biodinamica. Inoltre, grazie al progetto La Carriola
finanziato dalla Compagnia di S. Paolo, hanno potuto dotare sia l’interno delle
serre sia l’esterno di un nylon biodegradabile per la pacciamatura
(copertura del terreno per mantenere l’umidità del suolo e proteggere dall’erosione)
che non danneggia l’ambiente.

Ma come vivono questa esperienza i ragazzi che ci
lavorano? Paolino, di 35 anni, è tra i più disponibili a raccontarsi: è
arrivato qui da circa un anno, e dopo un tirocinio di sei mesi è stato assunto
dalla cornoperativa. Paolino abita in un paese vicino e due – tre volte la
settimana viene a Feletto in treno per lavorare un paio d’ore, un impegno
compatibile con le sue possibilità. «Prima di questa esperienza non avevo mai
fatto il contadino» ci racconta, «mi piace molto venire qui, stare a contatto
con la natura mi rilassa la mente ed è bello vedere le cose che crescono». Dopo
qualche difficoltà iniziale, Paolino si è perfettamente ambientato e il suo
viso si illumina mentre ci racconta i piccoli-grandi incarichi che svolge nella
cornoperativa. «Tolgo le erbacce, curo le piantine di fragola, raccolgo i
fagiolini… Quel poco che guadagno è una grande soddisfazione, così so che ho
qualche soldo da parte in caso di bisogno». Magari per fare un regalo al
nipotino di 2 anni, per cui Paolino stravede… La chiacchierata s’interrompe,
per Paolino è ora di tornare in stazione. Ci saluta raggiante stringendoci la
mano e ci dice, dopo averci dedicato il suo tempo, «grazie della disponibilità!».

 
Box 2
Agricoltura sociale

Le aree d’intervento dell’agricoltura sociale:
• riabilitazione/cura: per persone con gravi disabilità
(fisica, psichica/mentale, sociale) con una finalità socio-terapeutica;
• formazione e inserimento lavorativo: esperienze orientate
all’occupazione di soggetti a basso potere contrattuale o con disabilità;
• ricreazione e qualità della vita: esperienze rivolte a un
ampio spettro di persone con bisogni speciali, con finalità socio-ricreative
(agriturismo «sociale», fattoria didattica);
• educazione: per soggetti diversi che traggono utilità
dall’apprendere il funzionamento della natura e dei processi produttivi
agricoli;
• servizi alla vita quotidiana: agri-asili, accoglienza
diua, riorganizzazione di reti di prossimità per la cura e il supporto agli
anziani.

 (Fonte: Francesco Di
Iacovo, «Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori», Franco
Angeli 2008).

 

Stefania Garini




3_Orti: Coltivare l’Integrazione

Esperienze 2/ L’orto dei ragazzi
Rifugiati e richiedenti asilo
africani (e non solo) hanno trovato una nuova vita in Italia. Sulla collina
torinese si occupano di ortaggi, galline e api. C’è anche un campo collettivo
per l’agricoltura partecipata delle famiglie di città. Con lo scopo di formare
consumatori consapevoli.

«Sono arrivato in Italia come
clandestino 14 anni fa, dopo un viaggio in nave dal Marocco durato una
settimana, senza quasi mangiare né bere… In Italia mi sono adattato a fare
diversi lavori: muratore, imbianchino, carrozziere. Poi ho avuto dei guai con
la giustizia e sono entrato in contatto con il Gruppo Abele e altre
associazioni impegnate nel disagio giovanile, grazie a loro
ho conosciuto l’Orto dei ragazzi». A parlare è Mohamed, 38 anni, che oggi abita
a Beinasco, in provincia di Torino, è sposato con un’italiana e lavora in
pianta stabile all’Orto, dove si occupa delle consegne a domicilio di frutta e
verdura. Ubicato sulla collina torinese,
non lontano da Superga, l’Orto fa parte di un più ampio comprensorio: la Città
dei ragazzi, fondata nel 1948 da don Giovanni Arbinolo che, ispirandosi ad
analoghe esperienze diffuse negli Usa, intendeva offrire un’alternativa di vita
e di lavoro agli orfani di guerra, in gravi condizioni di miseria e abbandono.

«I tre pilastri del sistema di don
Arbinolo sono gli stessi che ancora oggi animano il nostro impegno:
l’accoglienza, la formazione professionale, il lavoro», spiega Paolo Orecchia,
39 anni, una laurea in Scienze forestali e ambientali, che dal 2004 cornordina le
attività agricole della Città dei Ragazzi. Qui nel tempo è cambiato il target
degli interventi, dagli orfani di guerra si è passati, negli anni ‘60-’70, ai
ragazzi delle periferie urbane disagiate per arrivare, ai giorni nostri,
all’accoglienza di stranieri, richiedenti asilo o rifugiati.

«I giovani che arrivano da noi
hanno un’età media di 20-30 anni, per la maggior parte provengono dall’Africa
(Somalia, Congo, Costa d’Avorio, Nigeria, Marocco) o comunque da zone di guerra
e di conflitto

più o meno espressi. In questi
mesi ad esempio c’è tra noi un ragazzo afghano» spiega Paolo. Lui è anche
l’attuale vicepresidente di «Uno di Due», cornoperativa di produzione e lavoro
nata un anno e mezzo fa da due realtà preesistenti, l’Orto dei Ragazzi nato in
collaborazione con Cisv e Pampili. Il Comune di Torino mette a disposizione di
questi giovani borse lavoro per la durata di 6 mesi durante i quali, oltre a
imparare un mestiere, acquisiscono anche regole di comportamento come la
puntualità, la continuità dell’impegno, l’abitudine a non usare il cellulare
mentre si lavora… «Per riuscire a essere puntuali molti di loro fanno grossi
sacrifici, perché stanno nei dormitori giù in città e devono alzarsi alle 5 di
mattina per arrivare qui alle 8» spiega Paolo. «A volte sono in Italia da poco
tempo e hanno bisogno di imparare la lingua, a qualcuno insegniamo a usare il
computer. Inoltre cerchiamo di formarli sui diversi aspetti del mondo del
lavoro: i diritti, le norme sulla sicurezza, ecc.».

L’altra faccia di Rosao

Le attività che i «ragazzi» si
trovano a svolgere sono numerose: dall’orticoltura alla vendita e consegna dei
prodotti a domicilio, dalla produzione del miele a quella delle uova. Oltre a
questo devono garantire tutta una serie di servizi a beneficio dell’intero
comprensorio, come il taglio dell’erba o l’abbeveraggio degli asini affidati
loro in comodato d’uso dai contadini del vicinato.

«Io guido il furgone per le
consegne a domicilio, si parte al mattino e si rientra la sera. Smerciamo 300
panieri di frutta e verdura ogni settimana, in tutta la città di Torino e nei
comuni della cintura» dice Mohamed. «I nostri prodotti sono certificati
biologici. Noi qui produciamo soprattutto miele e uova, ma da alcuni anni si è
creata una collaborazione con altre aziende del territorio specializzate in
produzioni diverse, sempre bio. Nessuna realtà locale da sola può produrre
tutto, così noi raccogliamo frutta e verdura da un gruppo di fattorie
selezionate e prepariamo i panieri, garantendo agli acquirenti prodotti sani e
coltivati nel rispetto dell’ambiente».

«Anch’io vado con Mohamed a fare
le consegne, inoltre ho il compito di tenere pulito il pollaio e di raccogliere
le uova: adesso abbiamo 200 galline ruspanti allevate a terra, che producono
120-130 uova ogni giorno» dice orgoglioso Francesco, 24 anni, in attesa di una
borsa lavoro dal Comune. E racconta: «Ho studiato da perito agrario, poi ho
iniziato a collaborare con l’Orto dei Ragazzi. Qui sto imparando tante cose, la
vita a contatto con la natura e con gli animali mi piace molto. Spero di
continuare questo lavoro ancora a lungo. Il mio sogno sarebbe metter su una
piantagione di zafferano insieme ai miei genitori».

Se necessario i ragazzi si fermano
nell’Orto anche per periodi superiori ai 6 mesi della borsa lavoro. «Non
abbiamo fretta di mandarli via, l’importante per noi è che riescano a trovare
una collocazione professionale adeguata, cioè dignitosa e con contratti
regolari», spiega Paolo Orecchia. «Noi vorremmo essere un po’ l’altra faccia di
Rosao. Oggi, malgrado la crisi, il settore agricolo ha bisogno di
manovalanza, ma spesso si preferisce far lavorare le persone in nero, mentre
noi puntiamo a che i nostri ragazzi trovino un lavoro legale e stabile. Per
questo offriamo loro un percorso guidato, in grado di accreditarli agli occhi
delle aziende. Il nostro compito è semplicemente questo: accoglierli,
orientarli e aiutarli a inserirsi nel mondo del lavoro facendo da “garanti”. Se
ci dimostrano di essere in gamba e volonterosi, se si impegnano, noi li
promuoviamo di fronte alla Coldiretti, alle aziende ecc. I ragazzi che hanno
voglia di lavorare riescono a collocarsi abbastanza facilmente». Oggi almeno il
50% dei ragazzi dell’Orto trova un lavoro fisso, «ma prima della crisi si
arrivava anche a percentuali del 60% o superiori. Adesso la maggior parte di
loro si sistema in aziende, cornoperative agricole o nei vivai, ma c’è anche chi
si inserisce in attività diverse. Abbiamo un ragazzo che fa il falegname, un
altro che lavora in un hotel, un altro ancora fa il panettiere…». Spesso i
contatti con i ragazzi continuano anche dopo che hanno lasciato l’Orto, e nel
corso dell’anno si organizzano cene e incontri conviviali per ritrovarsi e
mantenere vivi i legami d’amicizia creatisi durante il tirocinio.

I panieri dell’Orto

Per agevolare gli acquisti, i
clienti dell’Orto possono fare gli ordinativi via Inteet. La consegna a
domicilio avviene a cadenza settimanale mentre il pagamento si effettua con un
bonifico a fine mese, a fronte dell’emissione di una fattura, «sempre
all’insegna della trasparenza e della legalità» tiene a precisare Paolo. I
prezzi variano a seconda del peso e, considerato che è tutto rigorosamente
biologico, risultano più che onesti: un paniere piccolo (4 kg) ad esempio costa
9,5 euro, mentre uno grande (9 kg) 20 euro. Per chi richiede la consegna a
domicilio c’è un costo supplementare di 3 euro, ma è gratis se quattro famiglie
si uniscono per l’acquisto comune di quattro panieri.

Nei panieri si trovano anche
alcuni prodotti di «nicchia» come la farina biologica per la polenta di grano
pignoletto, il parmigiano reggiano proveniente da una cornoperativa sociale di
Reggio Emilia o il pane biologico, lievitato naturalmente e cotto nel foo a
legna in un’agrifoeria delle Valli montane di Lanzo.

«La nostra filiera è certificata e
trasparente» spiega Paolo, «ma per garantire un paniere vario non si può essere
troppo rigorosi sul discorso dei km zero. Da noi in Piemonte, ad esempio, per
avere gli zucchini a km zero si deve aspettare maggio. Nel periodo invernale ci
sono solo cavoli e patate, perciò in quei mesi ci rifoiamo da aziende di
Puglia e Sicilia, sempre selezionate e sempre biologiche».

Agricoltura partecipata

Insieme ai prodotti nei panieri,
viene consegnato un foglio informativo con alcune ricette per cucinare le verdure
di stagione e le ultime novità sulle iniziative dell’Orto. Oltre alla
produzione e commercializzazione, infatti, l’Orto dei Ragazzi svolge tutta una
serie di attività all’insegna dell’agricoltura sociale «partecipata». Come i
percorsi di educazione ambientale per gli alunni delle scuole: «Si tengono
alcuni incontri preparatori nelle classi, poi i bambini vengono all’Orto dove
possono seguire diversi percorsi formativi, ad esempio quello sull’humus, dove
si spiega qual è la funzione dei lombrichi in agricoltura, o quello
sull’apicoltura, per cui possono vedere le aie, assistere alla smielatura,
partecipare a laboratori di lavorazione della cera, ecc.», spiega Paolo.

Oltre a questo, dallo scorso anno è
stato avviato il progetto dell’Orto collettivo: un ettaro di terra messo a
disposizione di alcune famiglie interessate a coltivarsi da sé frutta e verdura
genuina. «Al momento si tratta di una quindicina di persone che vengono per lo
più il sabato a lavorare la terra» continua.

«Anche questo è un servizio di
agricoltura sociale partecipata, offriamo uno spazio di aggregazione, di vita
all’aria aperta, per produrre cibo sano. Per le famiglie è uno svago e
un’esperienza educativa per i loro figli». Oltre al lavoro, ai partecipanti
all’Orto collettivo è richiesto di depositare una certa somma di denaro nella
cassa comune che serve a sostenere le spese vive dell’orto. «Esperienze come
questa servono a coinvolgere i nostri clienti, avvicinandoli al mondo del
sociale e dell’agricoltura. Per lo stesso motivo, due volte l’anno invitiamo
gli acquirenti dei panieri a partecipare a momenti conviviali, può essere una
merenda nell’orto o una chiacchierata con gli agricoltori delle aziende…».

Tra le iniziative ci sono anche le
adozioni: «All’inizio non avevamo i soldi per comprare le api, allora abbiamo
lanciato una sottoscrizione, “Adotta un alveare”. Anche per mettere su il
pollaio, abbiamo proposto ai nostri acquirenti di “adottare” una gallina. In
cambio, una volta avviata l’attività, chi ha contribuito riceve miele o uova».
Sempre per coinvolgere le persone e avvicinarle alla realtà contadina,
periodicamente le si invita a partecipare ad alcune fasi della produzione. «Una
di queste è la smielatura, attualmente abbiamo 50 aie, ognuna produce circa
20-25 kg di miele, per un totale di alcune tonnellate di prodotto ogni anno»
racconta Paolo. «Partecipando alla smielatura i nostri amici imparano cose
nuove, ma soprattutto capiscono quello che sta dietro alla produzione, ad
esempio si rendono conto del perché, se è stata un’annata piovosa, non c’è il
miele di acacia». In questo modo si forma il vero consumatore consapevole.

Una scelta di vita

Per Paolo, sposato e con due
bambine di 9 e 13 anni, l’esperienza nell’Orto non è solo un lavoro, ma una
scelta di vita. «Il lavoro agricolo non prevede orari, sarebbe inimmaginabile
una cascina dove il contadino fa le 8 ore e poi se ne torna a casa», ci
racconta. «Solo per fare un esempio, d’estate le galline razzolano libere fino
alle 21.30 poi bisogna farle rientrare nel pollaio, perciò si è impegnati fino
a tarda sera. Così dopo i primi anni, dove lavoravo 50-60 ore la settimana, mi
sono reso conto che occorreva una presenza più costante, e con la mia famiglia
abbiamo deciso di trasferirci ad abitare nella Città dei Ragazzi».

Ma quali sono i progetti per il
futuro dell’Orto? «Innanzi tutto vorremmo potenziare le attività produttive
legate all’apicoltura, come la pappa reale, il propoli, ecc. Poi abbiamo in
programma una sperimentazione, per cui inseriremo qualche vitello e qualche
vacca che faranno da “taglia-erba” naturali e non inquinanti per il
comprensorio: oltre a tenere sotto controllo il livello della vegetazione, potrà
servire per ottenere un concime biologico…».

Ma quel che più conta, è l’aspetto
sociale e umano dell’Orto: «Qui i ragazzi lavorano a contatto con la natura,
imparano a fare le cose con le proprie mani, conoscono la fatica ma anche la
soddisfazione di raccogliere quel che loro stessi hanno prodotto, e imparano a
prendersi cura degli altri esseri viventi. Ed è questo che rende speciale la
loro esperienza».

 
Box
La storia di Mohamed

«Mi chiamo Mohamed, arrivo dal Marocco; sono venuto in
Italia in cerca di fortuna per poter aiutare la mia famiglia. Mi sono imbarcato
14 anni fa da Casablanca dentro una nave commerciale che trasportava container.
Quando mi sono infilato di nascosto dentro la canna fumaria ho pensato che
avrei viaggiato al massimo 3 giorni invece il viaggio ne è durato 7. Mi ero
portato dei ceci e una baguette di pane che potevano bastarmi per tre giorni
scarsi… così il mio viaggio verso la Spagna non è stato molto piacevole, ho
vomitato più volte perché ho dovuto bere l’acqua del motore per dissetarmi.

Ma ero determinato a proseguire per aiutare i miei genitori.
Siamo una famiglia di 14 fratelli e mangiamo solo il pane alla menta e qualche
verdura… la carne la vediamo raramente, un etto di pollo o agnello alla
settimana. Sono sceso dalla nave di notte scappando dalla polizia di frontiera.
Sono rimasto un giorno nascosto dentro un camion finché tutto si è calmato. Mi
sono trattenuto in Spagna per una settimana chiedendo aiuto in una chiesa dove
mi hanno sfamato a pane e formaggio.

Poi grazie a passaggi in autostop e in treno, sempre
nascosto nelle tornilette, sono arrivato a Marsiglia. Qui mi sono incontrato con
una persona su una montagna e abbiamo concordato il viaggio fino in Italia dove
avevo alcuni amici miei vicini di casa. Arrivato a Torino sono rimasto da loro
qualche giorno; poi mi sono trasferito per un paio di mesi in una casa abbandonata.
Ho trovato lavoro come carrozziere. D’estate, quando ha chiuso per ferie, sono
andato al mare dove ho iniziato a vendere teli da spiaggia fino a settembre. Al
ritorno non mi hanno ripreso al lavoro perché non avevo i documenti. E così
sono andato avanti ad aggiustarmi con lavoretti come il muratore. Quindi una
persona mi ha parlato della Città dei Ragazzi, lì ho conosciuto Paolo e ho
iniziato questa esperienza. Mi trovo bene con lui, i colleghi e tutti i clienti
ai quali porto la verdura e la frutta. Ringraziando tutti coloro che mi hanno
sostenuto, posso dire che sto bene. Grazie. Mohamed». 

Oggi Mohamed, oltre a lavorare per l’Orto dei Ragazzi, si è
preso la patente e un’automobile, ha ottenuto i documenti e l’estate scorsa è
tornato in Marocco a salutare la famiglia. (Ste.Gar.)

 
 

Stefania Garini




2_Orti: Matti per le lattughe

Esperienze 1/ La Cooperativa Pier Giorgio Frassati
Un gruppo di agronomi, educatori e
operatori socio assistenziali hanno dato vita a una «Fattoria sociale» alle
porte di Torino. Qui sono attivi quindici «ragazzi» tra i 20 e i 50 anni, con
varie disabilità. Sono arrivati a portare i loro prodotti agricoli al Salone
del Gusto e accolgono scolaresche per visite didattiche.

Una trentina d’anni fa, poco dopo la chiusura dei
manicomi voluta dalla Legge Basaglia, alcuni ex pazienti dell’ospedale
psichiatrico di Mogliano Veneto furono accolti a Torino, nel Centro di attività
diua (Cad) gestito dalla cornoperativa Pier Giorgio Frassati, dove si
svolgevano alcune attività agricole a scopo riabilitativo.

Queste attività sono continuate nel tempo, finché nel
2008 hanno dato vita a un nuovo progetto: la Fattoria sociale P.G. Frassati.
«L’idea di partenza è stata rendere più professionale la coltivazione
ortofrutticola che si svolgeva nel Cad, integrando due componenti importanti,
quella socio-assistenziale e quella tecnico-agronomica», ci spiega Sabrina
Serena Guinzio, giovane agronoma che lavora alla Cascina La Luna. Quest’ultima
sorge su un’area data in concessione dal comune di Torino: 6.000 m² nel cuore
della città, comprensivi di terreno irriguo, quattro tunnel e una serra
climatizzata per coltivare anche nei mesi invernali, primizie e fiori in vaso.

«La nostra è stata la prima fattoria sociale del
Piemonte, nata grazie alla collaborazione tra la Provincia di Torino, il Patto
territoriale della zona Ovest, la Coldiretti e la facoltà di agraria
dell’Università», spiega Guido Pomato, l’altro agronomo della Frassati. «Di
solito esperienze simili, in cui si cerca di stimolare le abilità residue dei
ragazzi disabili, sono affidate unicamente agli educatori, mentre la sfida qui è
stata quella di integrare le diverse professionalità». Per fare questo «all’inizio
tutti noi, educatori, Oss (Operatori socio sanitari) e agronomi facevamo tutto
in maniera intercambiabile, per capire anche il punto di vista degli altri»
racconta Sabrina, «solo quando abbiamo raggiunto un grado sufficiente di
amalgama ognuno è tornato al proprio mestiere».

Due facce della Luna: sociale…

Alle attività della fattoria partecipano, oltre al
personale specializzato e a due operai agricoli diversamente abili, anche gli
utenti del Centro di attività diua. «Una quindicina di “ragazzi” di età
compresa tra i 20 e i 50 anni, alcuni psichiatrici, altri disabili intellettivi
(ad es. con sindrome di Down), mandati qui dalle Asl o dal comune che, a
seconda del progetto terapeutico, possono fermarsi per periodi variabili, anche
diversi anni» ci spiega l’educatore Luigi Piras, 61 anni, che da 30 lavora alla
cornoperativa Frassati.

I ragazzi vivono in famiglia o in comunità, il loro
impegno in fattoria dovrebbe svolgersi dalle 8.30 alle 16.00, «ma alcuni
arrivano in cascina già di buon mattino, perché qui si trovano bene, apprezzano
il lavoro e stare in compagnia degli altri» dice Luigi. «Spesso sono ragazzi
soli, fuori di qui non hanno amici, non sanno cosa fare. Tra loro vanno
d’accordo, ma non riescono a mantenere il rapporto al di là della fattoria,
perché nessuno prende l’iniziativa di organizzare incontri o uscite. Anche se
qualcuno è qui da 10 anni…».

Le loro mansioni sono diverse e commisurate alle capacità:
zappare, seminare, raccogliere la verdura, rastrellare le foglie, aiutare nella
vendita dei prodotti al pubblico, ma anche tenere puliti gli spazi comuni,
apparecchiare per il pranzo (che si consuma tutti insieme), lavare i piatti,
ecc.

«La vita a contatto con la natura è di per sé
riabilitativa, e nel lavoro agricolo i limiti di questi ragazzi risultano meno
evidenti: l’insalata è sempre insalata, che a coltivarla sia o no un disabile»
dice Dario Flego, 46 anni, educatore alla Frassati dal 2000. «Anche se è raro
riuscire a inserire questi ragazzi nel mondo del lavoro “vero”, quello che
fanno qui permette loro di migliorare le proprie competenze e la capacità di
socializzare».

Gabriele, che ha 36 anni e frequenta il Cad da 13,
racconta: «Con i compagni mi trovo bene, tranne quando mi disturbano oppure
sporcano dove ho appena pulito. Mi dà fastidio quando le cose sono troppo
difficili da capire, o quando gli altri mi urlano dietro. Mi piace molto stare
in compagnia e pranzare tutti assieme, ma mi arrabbio quando l’educatrice non
mi dà il bis, se me lo sono meritato lavorando tutta la mattina… La cosa che mi
piace di più è lavorare nelle serre, soprattutto nelle giornate di sole». Anche
Anna, 44 anni di cui 6 trascorsi alla Frassati, dice di andare d’accordo con i «colleghi»,
«benché siano tutti maschi mentre noi ragazze siamo solo due, io e Lucia che ha
20 anni. I ragazzi si comportano bene e sono rispettosi, a me piace molto
venire qui. Però ho anche altre attività, a casa disegno, dipingo, fotografo.
Mi piace pulire, cucinare, fare un po’ di tutto… insomma, mi piace vivere!».

C’è anche chi nel Centro ha trovato l’amore, come
Emilio, che ha 50 anni e lavora alla Frassati da 10, occupandosi dell’orto ma
anche degli interventi da muratore e da imbianchino. «Io abito con mia madre,
in settimana sono impegnato in cascina, poi nel week end mi vedo con la mia
ragazza, che ho conosciuto qui. Adesso lei sta in una comunità, il nostro sogno
è poterci sposare presto».

… e produttiva

I terreni della Fattoria Frassati sono coltivati con
metodi tradizionali e a elevato fabbisogno di manodopera, integrati a sistemi
più innovativi. «Pur non avendo ancora la certificazione biologica», ci spiega
Guido Pomato, «interveniamo sui parassiti e le erbe infestanti attraverso
metodi preventivi e naturali, evitando l’uso di sostanze nocive, sia per la
qualità dei prodotti che per il benessere di chi lavora».

Tra gli obiettivi della Fattoria c’è quello di essere un
luogo dove le persone «entrano ed escono, in modo da integrare l’esperienza di
agricoltura sociale con il territorio» spiega Guido, «per questo pratichiamo la
vendita diretta e curiamo i rapporti con le scuole e i laboratori di formazione
per la cittadinanza». La vendita a «chilometro zero», direttamente dal
produttore al consumatore, avviene attraverso una bottega situata all’interno
della fattoria (aperta al pubblico dal lunedì al venerdì), ma anche tramite i
mercati rionali, le fiere e i punti vendita di altre aziende e cornoperative
sociali del territorio. I clienti vanno dal singolo consumatore ai gruppi
d’acquisto solidale. «Quest’anno per la prima volta abbiamo partecipato al
Salone del Gusto, e abbiamo iniziato a collaborare con altre aziende per far
trasformare i prodotti in esubero, come le melanzane e i peperoni sott’olio»,
dice Pomato. «Noi puntiamo a realizzare un’impresa economicamente sostenibile,
che si regga sulle proprie gambe senza bisogno di finanziamenti pubblici. La
sfida per noi è fare agricoltura sociale all’interno di una vera e propria
azienda agricola, come oggi stanno facendo anche alcune realtà della Coldiretti».
L’obiettivo nel medio-lungo termine sarebbe anche di arrivare a uno scambio di
competenze, «per cui i nostri educatori potrebbero fare accompagnamento alle
aziende agricole interessate ad assumere disabili, viceversa gli agricoltori potrebbero “prestare”
il proprio sapere alle fattorie sociali. Si tratta di costruire un modello
culturale nuovo».

Esperienze didattiche

Per favorire l’osmosi tra l’interno e l’esterno della
fattoria, un aspetto importante è la collaborazione con le scuole. «Proponiamo
percorsi didattici e laboratori», spiega Sabrina Serena Guinzio, «una volta la
settimana vengono in cascina alcune classi di terza e quarta elementare per
imparare a coltivare con i nostri ragazzi. È un’esperienza istruttiva,
soprattutto per le classi dove ci sono alunni disabili. In altri casi invece
gli studenti vengono mandati a lavorare la terra da noi come misura alternativa
alla sospensione, quando hanno combinato qualche guaio…».

Altre volte sono i ragazzi della Frassati che vanno ad
allestire orti o giardini presso qualche istituto scolastico, in collaborazione
con alunni e insegnanti. Oltre alle scuole, sono coinvolti nei percorsi di
formazione gli operatori professionali, i genitori con figli disabili, ecc.
Inoltre, nel corso dell’anno, per favorire la socializzazione dei ragazzi, la
Frassati organizza gite e feste, come quella di primavera dove la
partecipazione raggiunge anche picchi di 200 persone.

 

Stefania Garini




1_Orti: Orti Solidali viaggio nel fenomeno dell’«agricoltura sociale»

Agricoltura sociale, istruzioni per l’uso



Nella vecchia fattoria

Produrre cibo pulito e sano, favorendo al tempo stesso
la riabilitazione e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate: disabili,
immigrati, minori a rischio… Sono questi gli obiettivi dell’«agricoltura sociale»,
una pratica che si sta diffondendo in tutta Europa e che in Italia ha già messo
a segno un migliaio di progetti. Tra le regioni in pole position nel settore, il
Piemonte, che nella provincia di Torino ha avviato importanti esperienze di
questo tipo. Siamo andati a conoscerle.

Secondo la definizione del professor Saverio Senni,
docente di Economia e politica dello sviluppo rurale all’Università della
Tuscia (Viterbo) e tra i massimi esperti sul tema, l’agricoltura sociale
consiste in «un insieme di attività a carattere agricolo in senso lato –
coltivazione, allevamento, selvicoltura, trasformazione dei prodotti
alimentari, agriturismo, ecc. – con l’esplicito proposito di generare benefici
per fasce particolari della popolazione». Oltre a produrre beni agroalimentari,
questa pratica svolge dunque una funzione di servizio alle persone, in cui le
attività e il contesto rurale sono rivolti ad alleviare il disagio delle
categorie più svantaggiate: minori a rischio, immigrati, portatori di handicap
fisici o intellettivi, malati psichici, tossicodipendenti, detenuti, ecc.
L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) riconosce
questo tipo di agricoltura come una pratica «multifunzionale» che contribuisce
a più obiettivi sociali: terapeutici – si pensi a esperienze quali pet
therapy
, ippoterapia, onoterapia … – formativi, di inserimento
professionale o di «semplice» benessere, per individui a rischio di esclusione
e con un basso potere contrattuale sul mercato del lavoro. L’agricoltura sociale
ha dunque una valenza etica e risponde al modello di «impresa con finalità
sociale», indicato dall’economista e premio Nobel Muhammad Yunus: «Un’impresa
capace di porsi obiettivi diversi da quello del profitto personale, in grado di
dedicarsi anche alla risoluzione dei problemi sociali e ambientali».

«Buone pratiche» europee

In Europa esistono oltre 6.000 progetti di agricoltura
sociale, di cui 1.000 solo in Italia. Il primo paese a promuovere questa
pratica è stato l’Olanda – dove l’agricoltura sociale è ufficialmente
riconosciuta dal sistema sanitario nazionale – che conta oggi oltre 800 aziende
attive nel settore. Qui, a partire dagli anni ‘90, gli imprenditori agricoli si
sono dati disponibili per progetti terapeutico-riabilitativi destinati a soggetti
svantaggiati, ricevendo in cambio un’integrazione del proprio reddito in base a
un accordo quadro tra ministero dell’Agricoltura e ministero degli Affari
sociali. Analoghi sistemi di green care si sono diffusi anche in Belgio
e in Norvegia, mentre in Francia hanno preso piede i Jardins de Cocagne:
120 realtà agricole specializzate nella produzione biologica, diffuse su tutto
il territorio nazionale e gestite da realtà no profit che favoriscono
l’inclusione sociale e lavorativa di persone senza fissa dimora, disoccupati di lungo periodo, ecc. A differenza dei
sistemi «nordici», dove un ruolo importante è giocato dai finanziamenti
istituzionali, qui la sostenibilità economica si regge tutta sulla vendita
diretta dei prodotti.

In Italia i soggetti promotori dell’agricoltura sociale
sono per lo più aziende agricole o cornoperative sociali, istituite nel 1991 con
la Legge 381, e arrivate a quota 500 in poco più di un decennio.

La forma di aggregazione più diffusa è la «fattoria
sociale»: una fattoria o un allevamento gestiti da uno o più associati, con la
caratteristica di essere economicamente sostenibile. L’azienda agro-sociale
produce per la vendita sul mercato, ma lo fa in maniera «integrata» e a
vantaggio di soggetti deboli o residenti in aree fragili (montagne, centri
isolati), di solito in collaborazione con le istituzioni pubbliche che
finanziano parte delle attività. In Piemonte, una delle regioni più attive nel
settore, esistono numerose iniziative a partecipazione pubblico-privata, in cui
un ruolo di primo piano è giocato dalle realtà aderenti alla Coldiretti. Molte
di queste interessano la provincia di Torino.

Secondo una recente indagine dell’Associazione italiana
per l’agricoltura biologica (Aiab), nel triennio 2007-2010 il numero delle
fattorie sociali nel nostro paese è passato da 107 a 221 unità. Inoltre è
cresciuta l’incidenza delle aziende agricole sul totale dei soggetti che
praticano l’agricoltura sociale: benché la cornoperativa sociale resti infatti la
forma giuridica più diffusa, il settore agricolo privato ha registrato nel 2010
un aumento del 33% del totale degli operatori, rispetto ad esempio al 25% del
2007, con una massiccia presenza di giovani e donne impiegati nel settore.

L’Abc del contadino solidale

Ma quali sono le caratteristiche dell’agricoltura
sociale che favoriscono i percorsi educativi, di riabilitazione e di
inserimento lavorativo? Innanzi tutto la vita a contatto con la natura, che
permette di muoversi in spazi aperti e non costrittivi. Poi la flessibilità
dell’organizzazione del lavoro in termini sia di orario sia di mansioni,
ottenuta anche attraverso una strutturazione in piccoli gruppi; il metodo
biologico o anche di utilizzo di pratiche agro-eco-compatibili, che bandisce le
sostanze tossiche e consente a chiunque di lavorare in sicurezza; la vendita
diretta, che favorisce gli scambi e fa dell’azienda rurale un luogo aperto e
frequentato dalla cittadinanza; la filiera corta, che garantisce il risparmio
per i consumatori e la valorizzazione del territorio; infine la varietà di compiti
legati al corso dei giorni e delle stagioni, con la possibilità per le persone
accolte di partecipare al ciclo produttivo completo, dalla semina alla vendita.

In un periodo di crisi come questo, inoltre,
l’agricoltura sociale si configura come «un percorso di innovazione sociale che
coinvolge un’ampia gamma di soggetti locali per mobilizzare in modo nuovo le
risorse del territorio, dando risposte utili ai bisogni delle persone e delle
comunità», come chiarisce Francesco Di Iacovo, docente di Economia agraria
all’Università di Pisa e tra i massimi esperti europei del settore: «Oggi
abbiamo bisogno di cambiare, molto e molto rapidamente, per ricostruire
opportunità e senso di futuro», spiega il professore. «Per questo l’agricoltura
sociale, capace di creare al tempo stesso valore economico e valore sociale,
acquista una rilevanza strategica. Essa può funzionare come campo di prova del
cambiamento, per ripensare in modo più ampio i principi di funzionamento delle
comunità locali».

Stefania Garini




Forte Tenerezza

Nell’editoriale dello scorso mese esprimevo l’aspettativa
che lo Spirito Santo ci sorprendesse con un papa inedito, secondo il cuore di
Cristo. Lo Spirito ci ha ascoltati. Anzi, ha aggiunto sorpresa a sorpresa: ci
ha dato il papa della tenerezza. E questo è davvero una specie di nemesi
storica. Papa Francesco viene da un continente dove il Vangelo, soprattutto nei
primi secoli, è stato imposto più con la forza delle armi che con la
testimonianza dell’amore e ora, proprio quel continente dona alla Chiesa
universale un testimone della tenerezza di Dio. Mi sembra bellissimo.

Voglia di tenerezza. Era il titolo di un film del 1983 di J. L. Brooks.
Abbiamo tutti bisogno di tenerezza e misericordia. Questo papa ci sta facendo
capire la bellezza e la forza della tenerezza di Dio: un padre che sente
come una madre (vedi la parabola del «padre misericordioso» in Luca). E questo
mi riporta alla mente ricordi lontani. Forse maggio 1955. Ho appena quattro
anni. Mio padre è in ospedale da mesi. Una sera ritorno a casa dall’asilo. La
strada in salita è inondata dal sole al tramonto. All’improvviso dal grande
portone della cascina mezzadrile esce un uomo, nera siluette nel sole
accecante. è lui! Corro,
lasciando indietro i cuginetti. «Ubà!» (babbo). E sono nelle sue braccia. Gioia
indicibile. Il ricordo di una tenerezza che non mi lascia più. Spalle forti da
contadino, braccia muscolose come un pugile, mani callose che potevano
immobilizzare un toro per le coa ma si rifiutavano di dare una pur dovuta
sculacciata per timore di far troppo male. La forza e la tenerezza di un padre.

Papa Francesco con le
sue parole e la sua gestualità riporta la tenerezza nel cuore della missione
della Chiesa. La gioia raggiante sul volto di un ragazzo disabile offerto
all’abbraccio del papa in Piazza san Pietro parla della tenerezza di Dio mille
volte di più di tanti dotti documenti o liturgie sontuose. E davvero il mondo
di oggi ha tanta «voglia di tenerezza», tenerezza che è mettere al centro la
persona, è offrire attenzione all’altro, aiuto al povero, accoglienza allo
straniero, servizio all’ammalato, accompagnamento nel recupero al carcerato,
compagnia e aiuto all’anziano, protezione al bambino e molto altro, senza
limiti alla fantasia e alla creatività.

Papa Francesco sta aiutando tutta la Chiesa a ricuperare
questa dimensione divina dell’amore, infangata dalle tristi storie di pedofilia
che hanno offuscato quelle di dedizione e servizio di milioni di cristiani e
tantissimi sacerdoti, religiosi e missionari. La tenerezza di Madre Teresa, di
Giovanni XXIII, di Padre Pio, di Annalena Tonelli e di tantissimi altri, donne
e uomini, che hanno anche pagato con la vita il loro amore per gli altri, ha
aiutato un gran numero di persone a scoprire il vero amore di Dio, tenero e
forte, misericordioso ed esigente.

In questi anni si è prodotto
molto nel nostro mondo cristiano: documenti profondi, catechismi rinnovati,
traduzioni nuovissime della Bibbia, splendide riviste, pagine web, produzioni
cinematografiche e televisive; tutto materiale di altissima qualità. Con un
difetto forse: si è puntato troppo alla mente e poco al cuore. La gestualità
inedita e informale di papa Francesco riporta al centro il cuore e la persona.
La Chiesa missionaria sa bene quanto questo sia importante. è la testimonianza dell’amore vissuto
che conquista i cuori. Predicazione, catechesi e liturgia vengono dopo. Questo è
vero negli angoli più remoti del mondo come nelle parrocchie della nostra
Italia, dove la carenza cronica di preti rischia di ridurre gli stessi a
diventare funzionari del sacro e non a essere pastori che abbiano addosso
l’odore delle pecore.

Negli anni Sessanta
alcune delle mie sorelle lavoravano come «serve» in città. Toando a casa per
le feste o le ferie, si lamentavano con nostro padre perché puzzava di stalla,
dove conosceva ogni mucca per nome e loro conoscevano lui, anche da distante,
tanto che bastava il suono dei suoi passi per farle quietare. Oggi, invece,
nelle stalle ci sono troppe mucche, ognuna è un numero controllato a distanza,
schedato in un computer, e il «pastore» fa la doccia e non puzza più di vacca.
Almeno, così è nel nostro mondo. Ma là, alla «fine del mondo», da dove viene
papa Francesco, non è così. Il «pastore» conosce ancora le sue mucche/pecore
per nome, ne condivide l’odore, ne conosce i bisogni, le guida ancora nella ricerca
di pascoli erbosi e di acque fresche.

Grazie papa Francesco
per aver riportato la tenerezza di Dio al centro della vita e della missione
della Chiesa.

Gigi Anataloni




Sempre più divisi

Mentre a Davos si celebra l’incontro dei
potenti, le disuguaglianze nel mondo crescono. E questo fatto indebolisce le
democrazie. Ma c’è chi propone soluzioni.
E i ricchi fanno orecchie da mercante.

All’inizio
del 2013, sulle montagne immacolate della Svizzera, si è celebrato ancora una
volta l’appuntamento di Davos. Lo strano convegno di oltre duemila tra capi di
stato, accademici, manager, giornalisti, invitati da una fondazione
privata, non viene scalfito né dal tempo (siamo alla 26esima edizione), né
dalla protesta dei no global (sempre meno clamorosa), né dalla crisi
finanziaria.

Il World Economic Forum (Wef) si riunisce per
migliorare il mondo: «improving the state of the world». Che non serva a
nulla è evidente, visto che il mondo, con tutti i suoi disastri, non cambia; ma
bisogna riconoscere che è uno dei rari momenti in cui i mezzi di informazione
trattano di temi globali, cosa che non succede, purtroppo, quando si tengono le
conferenze dell’Onu. Certo i partecipanti al Forum sono meno ingessati dal
cerimoniale, l’agenda è meno formale, insomma l’evento ha più colore, ma la
vera spiegazione è che a Davos si ritrovano i veri potenti, quelli che
detengono il controllo della finanza, dei mercati e della politica. E il potere
esercita una grande attrazione sui media.

Chi cerca di intrufolarsi, nel tentativo assai difficile
di far valere le proprie tesi, sono le Ong, da quelle ambientaliste come Greenpeace
a quelle che lottano contro la fame come Oxfam. Proprio a quest’ultima
va dato il merito di aver proposto a Davos un tema fastidioso: l’insostenibilità
della ricchezza smodata che va di pari passo con il crescente divario tra
ricchi e poveri.

In occasione del Wef, Oxfam ha presentato un
documento dal titolo «Il costo dell’ineguaglianza: come la ricchezza estrema ci
fa male».

Negli ultimi trent’anni – sostiene Oxfam –  la disuguaglianza si è drammaticamente
accentuata in quasi tutti i paesi del mondo e il reddito di alcuni ha toccato
vette mai viste prima. In Cina il 10% della popolazione possiede oggi il 60%
del reddito, lo stesso accade in Sudafrica.

La
globalizzazione con il suo mito del trickle down, lo sgocciolamento
della ricchezza fino agli strati più bassi delle società, non ha funzionato. La
crescita economica non ha portato migliori condizioni di vita per tutti, ma
l’abbondanza esagerata per pochi. Il mercato dei beni lussuosi raddoppia ogni
anno e anche dopo la crisi, la domanda di yacht, macchine sportive, champagne,
giornielli non ha subito rallentamenti. Ma l’espansione dei consumi di lusso non è
sufficiente a far ripartire l’economia, la concentrazione del potere di
acquisto in poche mani è, dunque, inefficiente dal punto di vista economico.

Anche il problema della povertà non può essere risolto
da una ricchezza così mal distribuita: in Sudafrica, dove il tasso di crescita annuo
del Pil supera il 3%, un milione di persone verranno spinte sotto la soglia
della povertà nei prossimi 5 anni, a meno che il governo non prenda
provvedimenti.

Le società ineguali sono poco dinamiche perché
impediscono la mobilità sociale: se un bambino nasce povero in una società
ingiusta vivrà e morirà da povero. L’ascensore sociale scende verso il basso,
ma non riesce a salire. Il motivo: la qualità dei servizi pubblici peggiora,
mentre le eccellenze nella scuola, nella sanità, nella previdenza, vengono
riservate a chi le può pagare profumatamente.

Durante la «Grande depressione» il presidente Roosevelt
dichiarò: «L’uguaglianza politica che abbiamo conquistato diventa priva di
significato di fronte alla disuguaglianza economica». 

Nelle
società ineguali la democrazia risulta fortemente indebolita, perché la
politica si piega al volere della grande ricchezza: lobby ben oliate e
con potenti mezzi impediscono interventi a favore della ridistribuzione, come
la tassazione progressiva su redditi e patrimoni.

Dopo la seconda guerra mondiale, lo sviluppo economico
dell’Europa è andato avanti per tre decenni puntando sull’allargamento delle
opportunità e sulla creazione di società più inclusive. La stessa cosa è
avvenuta nelle «tigri asiatiche»: la Corea del Sud ha distribuito i benefici
della crescita ai propri cittadini, incrementandola ulteriormente, anche il
governo brasiliano negli ultimi quindici anni ha basato la propria crescita
inarrestabile sulla lotta alla povertà e sull’aumento del benessere della maggioranza
della popolazione.

Dunque le ricette non mancano, ma il primo passo – dice Oxfam
– per poter risolvere il problema è quello di riconoscerlo e consideralo una
priorità politica. Dovrebbe avvenire così anche in Italia che, tra i paesi
europei, è uno dei più diseguali.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Bartolomé De Las Casas

Bartolomé De Las Casas (1484 – 1566) una delle figure più
rappresentative dell’opera evangelizzatrice e di difesa degli indios del
continente scoperto (o conquistato?) da Cristoforo Colombo, ha accettato di
colloquiare con noi sulla sua vita avventurosa e suggestiva.

Da parte mia c’è un po’ di
soggezione di fronte a una persona così carismatica, ma allo stesso tempo sono
ansioso di porti alcune domande. Innanzitutto presentati ai nostri lettori.

Sono
nato a Siviglia nel 1484. Mio padre e mio zio avevano partecipato alla seconda
spedizione di Cristoforo Colombo nel 1493. Nel 1502, all’età di 18 anni, misi
piede per la prima volta in America, sull’isola di Hispaniola (l’attuale Santo
Domingo) al seguito del governatore Nicolás de Ovando. A partire dal 1505 mi fu
assegnato in encomienda un certo numero di indios che lavoravano per me
nelle miniere e nelle terre, facendo prosperare i miei affari.

Parli di «encomienda»: per noi del
XXI secolo è un termine non facile da capire fino in fondo. Di che cosa si
trattava?

L’encomienda
coloniale, che in italiano si può tradurre con «incarico», consisteva
nell’affidare a degli encomenderos, cioè a noi spagnoli, determinati
territori abitati da un gruppo di indigeni con lo scopo di rendere fruttuosa la
terra con le nuove tecniche agricole. Gli indigeni dovevano quindi lavorare
(gratis) per noi che avevamo l’obbligo di colonizzarli e cristianizzarli. L’encomienda
fu quindi una geniale istituzione che permise alla Corona di Spagna di
consolidare la colonizzazione dei nuovi territori, attraverso l’assoggettamento
fisico, morale e religioso delle popolazioni precolombiane.

Quindi il tuo andare nelle terre
appena scoperte non era legato a motivi prettamente religiosi come portare alla
fede gli indigeni e diffondere il Vangelo?

Niente
affatto. Partii per le Americhe con l’idea di far fortuna e rimpinguare il
patrimonio di famiglia, assottigliatosi per una serie di disavventure
familiari.

Cosa cambiò la tua visione di vita
dopo aver preso conoscienza della nuova realtà?

Durante
una messa celebrata sull’isola di Hispaniola nel dicembre 1511, il frate
domenicano Antonio Montesinos pronunciò un vibrante sermone in difesa della
vita e dei diritti degli indios. La sua omelia era il risultato della
riflessione e dell’impegno di una piccola comunità domenicana, presente da poco
tempo sull’isola; una comunità che si era lasciata interrogare dalla realtà
drammatica in cui viveva e che aveva trovato il coraggio di denunciare il
comportamento dei conquistadores. Ne rimasi affascinato e colpito!

Fu lì che ebbe inizio la tua
conversione?

Direi
proprio di sì! Anzi, dirò di più: il sermone di fra’ Montesinos, in quella
terra appena conquistata dagli spagnoli, ha avviato un processo importante che
ha attraversato i secoli. Da quel giorno nell’Ordine Domenicano è nata una
riflessione in cui la figura dell’indigeno veniva vista in maniera diversa, un
cambio di prospettiva che con il tempo creò addirittura le basi della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Che effetto fecero su di te quelle
parole?

Presi
coscienza che non potevo sfruttare gli indigeni, gente che fino a pochi anni
prima viveva libera sulla propria terra e che solo alcuni decenni dopo era
assoggettata al volere dei nuovi arrivati. Vedevo sempre più deperire gli
indigeni, ammalarsi e, quello che è peggio, perdere qualsiasi prospettiva per
il futuro con un minimo di speranza per la vita loro e per i loro figli. Toai
in Europa, entrai nell’Ordine dei Domenicani, dove nel 1507 venni ordinato
sacerdote di Cristo.

Però in Europa non sei rimasto a
lungo.

Dopo
alcuni anni ritornai nelle Americhe; in quel periodo viaggiai molto: Guatemala,
Nicaragua, Cuba, Santo Domingo, Puertorico, Messico, mettendomi al servizio dei
nativi e allo stesso tempo cercando di convincere i nuovi arrivati a trattare
questi esseri umani nello stesso modo in cui trattavano i loro simili. Ma il
mio modo di fare e quello dei miei confratelli cozzava contro la sete di
conquista e di potere che avevano gli avventurieri, approdati nel nuovo mondo
al solo scopo di far fortuna e arricchirsi.

Di fronte all’insensibilità dei
tuoi compatrioti quale linea di azione hai seguito?

Nell’ottobre
1515, insieme a fra’ Antonio de Montesinos, decidemmo di ritornare in Spagna
per informare la Corona sulle ingiustizie commesse contro gli indigeni e sulle
sofferenze che essi pativano.

Foste ricevuti dal re?

Certamente.
Lo ponemmo al corrente di quello che succedeva nelle sue colonie nel nuovo
mondo. Impressionato da quanto gli esponevamo, ci fissò una seconda udienza,
purtroppo il re morì qualche mese dopo. Tutto rischiava di finire in una bolla
di sapone.

Come vi siete comportati allora?

Decidemmo
di andare nelle Fiandre per parlare col principe Carlo, diventato l’imperatore
Carlo V. Prima però incontrammo a Madrid i cardinali Francisco Jiménez de
Cisneros e Adriaan Florenszoon Boeyens, il futuro papa Adriano VI, e li
mettemmo al corrente sulla realtà creatasi nelle colonie. L’imperatore emanò
uno scritto in cui ordinava di applicare agli indigeni gli stessi atteggiamenti
riservati agli spagnoli. Il cardinal Cisneros mi nominò addirittura «protettore
degli indios» e inviò una delegazione per verificare la situazione. Dopo tali
delibere tornai in America.

E che trovasti al tuo ritorno?

Purtroppo
la delegazione, venuta a controllare le condizioni degli indigeni, si lasciò
abbindolare dai conquistadores e ne assunsero le posizioni: giudicarono
gli indigeni persone di poco conto, da trattare poco meglio degli animali.
Indignato, tornai in Spagna per informare l’imperatore di come gli spagnoli
trattavano i nativi. Purtroppo anche in Spagna stava attecchendo l’idea assurda
che gli indigeni fossero esseri inferiori agli uomini bianchi.

Non ci posso credere!

Figurati,
che un intellettuale del tempo, tale Juan Gines de Sepúlveda, sosteneva
l’inferiorità degli indios e la necessità di sottometterli per evangelizzarli.
Egli definiva i nativi americani non come uomini ma come «humuncoli»,
cioè esseri di razza inferiore. Tuttavia, i pensatori domenicani in Europa e
nelle Americhe, l’Università di Salamanca non erano d’accordo e sostenevano che
i nativi americani fossero uomini come noi, con tutti i nostri stessi diritti.

Di fronte a tali idee, che
rischiavano di compromettere tutto il lavoro che portavate avanti, non
rimanesti con le mani in mano.

Carlo
V volle che la controversia fosse discussa a livello accademico tra Sepúlveda e
il sottoscritto. Io sostenevo che gli indios americani fossero uguali a noi,
mentre Sepúlveda sosteneva che essi non avevano la stessa dignità degli
europei. La disputa si tenne a Valladolid e durò diversi mesi senza esclusione
di colpi da una parte e dall’altra, ma alla fine la spuntai e quella che era la
dottrina tradizionale della Chiesa, del pieno rispetto e piena dignità di ogni
uomo, schiavo, pagano o cristiano che fosse, alla fine trionfò. Le idee di Sepúlveda
vennero condannate e gli scritti proibiti; ma il confronto ebbe il merito di
sollevare il problema dell’evangelizzazione dei nuovi popoli.

Qual era il punto più spinoso con
cui bisognava fare i conti?

Il
punto più controverso era quello di stabilire se era giusto usare la forza per
evangelizzare i nativi oppure – come sostenevo io – se bisognava rispettare la
loro coscienza e procedere nell’annuncio del Vangelo nel pieno rispetto della
dignità della persona.

Il tuo compito era concluso in
terra di Spagna?

Direi
di sì. La Corona promulgò degli editti in cui era fatto divieto ai conquistadores
di maltrattare e obbligare gli indios ai loro voleri. Purtroppo tali leggi
furono largamente disattese! E il prezzo di questa miopia la pagate ancora
oggi.

Le tue mosse successive quali
furono?

Con
questa vittoria, teologica per un verso e morale per un altro, feci ritorno nel
Nuovo Mondo, dopo essere stato consacrato vescovo, con ben quaranta missionari,
anche loro decisi a procedere con l’evangelizzazione nel rispetto più totale
delle persone.

Come ti accolsero al tuo ritorno?

Gli
spagnoli, in virtù dell’opera di convincimento a favore degli indigeni che
avevo fatto presso la Corona, mi ricevettero con freddezza e ostilità. Il
governatore non fu molto tenero nei miei confronti: fedele al principio «promoveatur
ut amoveatur
», mi assegnò una diocesi nel territorio di Ciudad Real, in una
zona del sud-est messicano, denominata Chiapas (oggi San Cristóbal de Las
Casas).

E come operasti nella nuova sede
in Chiapas?

Come
vescovo mi adoperai subito per visitare tutti i villaggi e feci in modo che i
nativi della zona fossero trattati con umanità e rispetto. Nei sinodi che si
tenevano in quel tempo cercai di portare avanti ciò che mi stava più a cuore:
il rispetto verso quelle creature il cui destino era stato particolarmente
ingrato.

Sei rimasto in America fino alla
fine dei tuoi giorni?

Dopo
alcuni decenni di apostolato in terra messicana, ammalato, vecchio e stanco, ma
con l’indomabile ardore di sempre, feci ritorno in Spagna dove completai la
scrittura di diverse opere, sempre in difesa degli indios, la più famosa delle
quali è: Brevissimo rapporto sulla distruzione delle Indie. E in Spagna
conclusi la mia vita terrena, conservando fino all’ultimo nel cuore l’affetto e
il rispetto sconfinato per i miei indios americani.

Don Mario Bandera
Direttore Missio Novara

Mario bandera




Cooperazione per l’acqua

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2013 anno internazionale
della cooperazione per l’acqua e hanno incaricato l’Unesco, la loro agenzia più
multidisciplinare, di cornordinare le iniziative legate a questo tema che tocca
in modo trasversale ambiti diversi, dalle scienze naturali e sociali,
all’istruzione, alla cultura, alla comunicazione.

Obiettivo dell’Anno Internazionale, si legge
nel sito dell’agenzia Onu che si occupa dell’acqua, Un Water, è quello
di accrescere la consapevolezza sia delle aumentate possibilità di cooperazione
su questo tema sia delle sfide relative alla gestione dell’acqua. Sarà anche
un’occasione, conclude Un Water, per sfruttare il momentum, lo slancio
generato dalla Conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, nota come Rio+20
poiché si è svolta vent’anni dopo una precedente conferenza organizzata proprio
a Rio de Janeiro, in Brasile, sullo stesso tema.

A
quale momentum le Nazioni Unite si riferiscano rimane piuttosto dubbio,
visto che molti degli esponenti della società civile internazionale intervenuti
a Rio+20 hanno giudicato l’evento un flop e il documento conclusivo, intitolato
Il futuro che vorremmo, una semplice raccolta di buoni propositi priva
di qualunque rilevanza operativa e concreta. Non sono state date risposte
efficaci a gridi d’aiuto come quello di una donna mozambicana riportato da p.
Alex Zanotelli su Nigrizia nei suoi articoli da Rio: «La multinazionale
brasiliana Vale do Rio Doce – ha urlato la donna al microfono – sta costruendo
una diga nel mio paese, derubandoci delle nostre terre e delocalizzando la
nostra gente».

L’importanza
dell’acqua per la vita umana è di un’evidenza che non richiede dimostrazioni,
ma è interessante citare alcuni esempi di come la sua gestione crei diatribe
che si trasformano molto spesso in veri e propri conflitti armati. World
Water
, un progetto del pluripremiato istituto di ricerca Pacific
Institute
di Oakland, Califoia, ha stilato una lista che conta 225
conflitti legati all’acqua dal 3.000 a.C. al 2010. Il sito del Centro di
Documentazione dei conflitti ambientali
, con sede a Roma, fornisce i
dettagli di oltre sessanta conflitti in corso che riguardano la gestione
dell’acqua: deviazione di fiumi, costruzione di dighe, fumigazione di
coltivazioni illegali e altri interventi simili stanno pesantemente inquinando
le acque del globo e mettendo in discussione l’esistenza di interi popoli.

Avere a disposizione acqua pulita fa la differenza fra
vivere e morire in moltissimi contesti. Secondo Un Water, la diarrea
rimane la principale causa di malattia e morte nel mondo e nove casi di decesso
su dieci, tra quelli causati da malattie intestinali, sono dovuti alla mancanza
di acqua potabile e di igiene. Ogni venti secondi un bambino muore a causa
delle condizioni igieniche insufficienti. Lavarsi le mani con il sapone e acqua
pulita potrebbe ridurre di quasi la metà queste morti.

Altro esempio: il tracoma, infezione agli occhi diffusa
nel sud del mondo, colpisce circa quaranta milioni di persone; circa sei
milioni sono gli abitanti del pianeta oggi privi della vista a causa di questa
malattia, che si diffonde principalmente dove le condizioni igieniche sono
insufficienti per la mancanza di acqua e di sanificazione. Secondo l’Unicef,
intervenire per migliorare l’accesso a fonti idriche adeguate potrebbe ridurre
del 25% l’infezione.

Unicef ricorda poi che anche nella lotta all’HIV l’acqua
ha un ruolo cruciale: i pazienti affetti da Aids sono più suscettibili alle
malattie legate all’acqua di quanto lo siano gli individui sani e si ammalano
più gravemente per questo tipo di infezioni rispetto a persone il cui sistema
immunitario non è compromesso. Per questo è ancora più importante garantire
loro accesso ad acqua adeguata.

Molti
sarebbero gli esempi da citare per illustrare il peso decisivo dell’acqua nel
salvare vite umane o anche solo nel garantire standard di vita accettabili;
altrettanti, però, sono gli esempi di abuso delle risorse idriche che minaccia
la piena fruizione di questo bene fondamentale. Questa rivista si occupa da
anni di segnalare tali abusi, che vanno dal prosciugamento delle falde
acquifere del Kerala (India) da parte di Coca Cola Company (vedi Moiola,
Acqua del rubinetto? Sì, grazie!
, MC 6/2006) all’utilizzo di acqua nella
coltivazione di fiori per i mercati europei in paesi, come il Kenya (ma non
solo), pur afflitti con cadenza annuale da ondate devastanti di siccità
(Anataloni, La vergogna della fame, MC 9/2011).

I missionari della Consolata per l’acqua

L’accesso
all’acqua è uno dei temi portanti del lavoro dei missionari della Consolata nel
mondo e i progetti realizzati nelle missioni spaziano dai micro-interventi alle
iniziative di più ampia portata, dalla risposta alle emergenze all’ascolto
delle esigenze quotidiane delle comunità. Qui, per ragioni di spazio, ne
vediamo solo alcuni fra i più recenti e significativi.

Africa – Kenya


Il
più monumentale degli interventi legati all’acqua è probabilmente quello che da
quarant’anni fratel Giuseppe Argese porta avanti a Mukululu con il Tuuru
Water Scheme
. I numeri del sistema idrico messo in piedi da fratel Argese
con la diocesi di Meru fanno impressione: oltre un quarto di milione di persone
e oltre settantamila capi di bestiame della zona circostante la foresta di
Nyambene ricevono acqua grazie a questo enorme impianto che, con i suoi 250
chilometri di tubature, conta centinaia di punti di erogazione d’acqua e serve
dispensari, strutture sanitarie, scuole e privati. Ciò che vale la pena di
ricordare è che fratel Argese sta portando avanti i lavori – con tutte le
difficoltà connesse – per costruire la terza diga, che permetterebbe di
risolvere in maniera definitiva i problemi di siccità della zona (vedi
Anataloni, Mukululu: ricominciare, sempre, MC 1/2013). Su questo
progetto si è critto molto negli anni e c’è buona documentazione. L’iniziativa
di sponsorizzare i punti di distribuzione dell’acqua sta raccogliendo buoni
consensi. Il progetto si può sostenere anche online attraverso ilMiDono.

Meno noto è il grande lavoro delle diocesi di Marsabit e
di Maralal, perennemente alle prese con la mancanza di acqua o con la presenza
di acqua salata. Hanno scavato centinaia di pozzi, sistemato cistee per la
raccolta di acqua piovana vicino a ogni tetto di asili, scuole, centri sanitari
e missioni, piazzato mulini a vento, risanato sorgenti dividendo l’accesso del
bestiame da quello delle persone, aiutato la gente a costruire piccoli bacini
artificiali per la raccolta della pioggia, propagandato l’uso corretto
dell’acqua per vincere le malattie attraverso corsi di formazione per donne,
leader, operatori sanitari… una miriade di iniziative che hanno certo
contribuito al miglioramento della vita in una regione semi-desertica. L’enorme
diocesi di Marsabit, prima della divisione da Maralal, aveva un gruppo
specializzato per seguire esclusivamente i numerosissimi progetti sull’acqua su
tutto il territorio. Ora le due diocesi continuano l’impegno attraverso i
rispettivi Uffici dello Sviluppo.

Sempre
in Kenya, Missioni Consolata Onlus ha seguito l’anno scorso la realizzazione di
un progetto idrico – sostenuto con fondi messi a disposizione da Caritas
e da un’associazione calabrese amica – che ha premesso alla scuola secondaria
di Mukothima, nel Tharaka, di dotarsi di una fonte d’acqua per irrigare il
campo adiacente alla scuola. Grazie al campo e alla serra costruita accanto a
esso, è ora possibile coltivare frutta e verdura per la mensa della scuola e
abbattere così i costi di gestione.

RD Congo e Mozambico


In
Repubblica Democratica del Congo, presso l’ospedale Notre Dame della Consolata
di Neisu, è in corso un progetto finanziato dalla Water Right Foundation della
Toscana e da altri partner della zona dell’ATO3 Medio Valdao. Il
progetto prevede la costruzione di tre pozzi nei dispensari che fanno capo
all’ospedale e la formazione della popolazione locale sul corretto uso delle
risorse idriche e, in Italia, diverse iniziative di sensibilizzazione
sull’acqua (vedi MC 3/2013).

Ai progetti classici sull’acqua, che comprendono la
costruzione di pozzi (come quello ultimato l’anno scorso a Nseue, Mozambico), l’installazione
di cistee per le scuole e le risposte alle emergenze siccità come quella del
2012 nel nord del Kenya, i missionari affiancano ormai da diversi anni altre
iniziative che riguardano meno il fare, il costruire e si
concentrano invece più sulla formazione delle persone. Si stanno cioè
moltiplicando i progetti che, da un lato affiancano alla foitura dell’acqua i
corsi di formazione su come gestirla correttamente e, dall’altro mirano ad
aumentare nelle comunità la consapevolezza del proprio diritto all’acqua.

Obiettivo
di questa formazione è sostenere la popolazione locale nel suo tentativo di
relazionarsi con le istituzioni pubbliche locali per esigere dai propri
amministratori interventi incisivi che ampliino l’accesso all’acqua pulita.
Indicativo è stato l’esempio del Mozambico, al quale Mco ha dedicato la
campagna di Natale del 2012: i missionari della Consolata che operano nel
gigante lusofono dell’Africa meridionale hanno segnalato all’unisono e con
molta decisione l’urgenza di mettere le comunità locali in condizione di
partecipare alla crescita economica del paese, creando in esse competenze
professionali e conoscenze giuridiche attraverso le quali tentare di avere voce
in capitolo nella ripartizione delle risorse nazionali, fra cui l’acqua, che
rischiano oggi di essere invece alienate e svendute a multinazionali straniere.

America Latina


Mco
ha seguito lo scorso anno due progetti a Bahia (Regione Nordeste del
Brasile), a Monte Santo e Jaguararì. Le due municipalità si trovano nel
cosiddetto poligono della siccità, caratterizzato dal bioma della caatinga,
foresta grigia, nome che deriva dalla presenza di piante che sono per la
maggior parte dell’anno secche. Le precipitazioni sono cronicamente scarse e la
struttura geologica della zona rende molto difficile raccogliere e
immagazzinare acqua. I fiumi sono stagionali e nella maggior parte dei casi
l’acqua del sottosuolo è salina, utilizzabile per la pulizia e l’abbeveraggio
del bestiame ma inadatta al consumo umano. Nell’entroterra,
una grande parte della popolazione locale riceve acqua potabile attraverso il
cosiddetto carro-pipa (camion cisterna), un servizio fornito
dall’esercito, mentre le città sono alimentate dalla Empresa Baiana de Águas
e Saneamento
(Embasa), una società privata il cui maggior azionista è il
governo dello stato di Bahia. Il rifoimento di acqua avviene una volta al
mese.

Durante
l’estate 2012, quest’area ha sperimentato la peggiore siccità degli ultimi
quarantasette anni (vedi MC 7/2012). Per dodici mesi non ci sono state
precipitazioni e le dighe e i fiumi che, in condizioni normali, riescono a
rifoirsi di acqua durante le piogge, si sono completamente prosciugati. «La
gente di Monte Santo», scriveva all’epoca dell’emergenza p. Stanley Thinwa
Muriuki, «spende anche un’intera giornata a cercare fonti spostandosi a piedi o
a dorso d’asino per lunghe ore. I bambini, anche loro coinvolti in questo
sforzo, sono costretti a perdere le lezioni scolastiche per aiutare le famiglie
a procurarsi acqua. Gli animali, spesso unica fonte di sostentamento in una
zona dove coltivare è praticamente impossibile, sono sempre più debilitati».

Per
far fronte a questa emergenza P. Stanley e P. Vidal Moratelli hanno proposto
una serie di iniziative che Mco ha riunito in una campagna di raccolta fondi
lanciata nel corso dell’estate 2012: oltre alla risposta immediata, che
prevedeva il trasporto di acqua alle comunità attraverso camion cisterna e
taniche, i missionari hanno previsto anche la perforazione di pozzi e
l’installazione di cistee che possano, in futuro, mettere al riparo la
popolazione dai danni della siccità endemica nella zona.

Jaguararì, a circa 150 chilometri da Monte Santo,
condivide gli stessi problemi. Per questo, i padri Domingos Forte e Aquileo
Fiorentini si sono impegnati nella costruzione di cistee da installare presso
le abitazioni delle famiglie della zona in modo che possano immagazzinare acqua
durante la stagione delle piogge e far fronte così ai momenti più difficili.
Grazie al sostegno di diversi donatori, l’intervento procede in modo lento ma
costante e di recente otto nuove cistee sono state installate. «In un primo
momento sono state scelte le aree dove era più grave la mancanza di acqua»,
scriveva p. Aquileo lo scorso novembre raccontando lo svolgimento del progetto,
«per poi passare all’identificazione delle famiglie più bisognose, cioè quelle
più numerose e con presenza di bambini. Famiglie che vivono vicine hanno
accettato di condividere una cisterna. Un bel segno di condivisione». E di
cooperazione. Per l’acqua.

Chiara Giovetti
Alcuni articoli sull’acqua in MC:
C. Giovetti, Acqua per la salute, 3/2013.
J. Patias, Questione di vita o di morte, 7/2012.
L. Anataloni – S. Tavella, Come una goccia di rugiada, 9/2010.
U. Pozzoli, Acqua delle nostre brame, 5/2009.
L. Anataloni, Mukiri, l’uomo dell’acqua, 2/2008.
AA.VV., Le mani sull’acqua (dossier), 6/2006.

Chiara Giovetti




America, il continente aperto

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 08
Continente che ospita 948 milioni di persone, l’America è l’area
geografica che fa registrare i livelli più bassi di restrizioni governative e
di ostilità sociali riguardanti la religione. Ma, come il resto del mondo,
anch’essa vede un aumento di pressione sulla libertà religiosa. Tra gli esempi
più significativi di tale aumento c’è quello degli Usa, ma anche del Messico,
di Cuba e della Colombia.

Era il 6 agosto scorso quando
l’ennesima notizia di una strage avvenuta negli Usa per mano di un «folle»
girava il mondo: sette persone morte, tra cui lo stragista, tre ferite
gravemente, decine sotto shock. Quell’episodio ne seguiva di simili, avvenuti
nelle settimane anteriori, e ne precedeva altri che avrebbero riacceso il
dibattito statunitense sulla vendita di armi. Esso però aveva una sua
peculiarità: nell’assalto il killer aveva preso di mira un tempio sikh.
«È importante notare che questo è solo uno di un numero crescente di episodi di
violenza che i sikh hanno sperimentato negli ultimi anni», dichiarava alcuni
giorni dopo il direttore esecutivo della «Sikh coalition» Sapreet Kaur. «L’assassino
sarebbe un ex militare congedato dall’esercito nel 1998, per cattiva condotta
[…] – si affrettava a informare tra gli altri Radio Vaticana -. I sikh, noti
per la barba lunga e il turbante (stimati tra i 78mila e i 500mila negli Usa,
ndr.), sono scambiati spesso per musulmani e fatti oggetto di attacchi dopo
l’11 settembre 2001». La strage quindi aveva sullo sfondo, tra i moventi, un
problema di odio religioso. Secondo i rilievi dell’Fbi sulla criminalità,
citati dal rapporto 2011 del Pew Forum, gli Usa hanno avuto più di 1.300
crimini d’odio religioso nel 2009. La maggior parte dei quali anti-ebraici (931
dei 1.303 reati, il 71%; mentre l’8% era motivato da pregiudizi anti-islamici).

Gli Stati Uniti sono uno dei 16 paesi del mondo che hanno fatto
registrare un significativo incremento di entrambi gli indici (Restrizioni
Goveative e Ostilità Sociali) durante l’anno preso in esame dal Rising
tide of restrictions on religion
, l’ultimo studio del Pew Forum
sulla libertà di religione nel mondo con dati riguardanti il 2010. Durante
quell’anno c’è stato un «aumento del numero di incidenti a livello statale e
locale nei quali membri di diverse religioni hanno incontrato restrizioni nella
capacità di praticare la loro fede». Ad esempio «incidenti nei quali agli
individui è stato impedito d’indossare un certo abbigliamento o di portare
simboli religiosi, compresa la barba, in prigioni, penitenziari e altre
strutture correzionali». Alcuni gruppi religiosi hanno incontrato anche grandi
difficoltà nell’ottenere permessi per la costruzione o per l’ampliamento di
luoghi di culto.

Per quanto riguarda l’aumento di ostilità sociale, il Pew Forum
individua tra le sue cause «un picco di attacchi terroristici di matrice
religiosa» nell’anno preso in esame. «L’incremento di ostilità sociali negli
Stati Uniti si riflette anche nell’aumento del numero di denunce di
discriminazione sul posto di lavoro».

Il continente con minori limitazioni

L’America è l’unico continente in cui il livello più alto di restrizioni governative e di ostilità
sociali non viene registrato in nessuno dei paesi che lo compongono. In media
il grado di Gri è basso (1,1). Il solo paese ad everlo alto è Cuba; mentre
altri otto ce l’hanno moderato (si veda tabella). L’America è anche
l’unico continente a non aver fatto registrare un aumento di ostilità sociali,
il cui livello in media rimane molto basso (0,4): il solo paese ad averlo alto è
il Messico; mentre altri cinque paesi fanno registrare un livello moderato (si
veda tabella
).

Spiccano quindi nel continente americano Cuba e Messico, i due
paesi toccati lo scorso anno dalla visita pastorale di Benedetto XVI. E assieme
a essi, Usa e Colombia, per avere un livello moderato in ambedue gli indici.
Tutti gli altri paesi del continente hanno i due indici a un grado mediamente
basso, o al più uno solo dei due a livello moderato.

MESSICO

Il Messico è il secondo paese al mondo, dopo il Brasile, con più
alto numero di cattolici: circa 96,3 milioni, l’84,9% della sua popolazione (i
protestanti sono l’8,3%, gli altri cristiani l’1,7%, i non affiliati ad alcun
credo il 4,7%, i membri di altre religioni lo 0,3%); e il paese americano con
minore libertà religiosa a causa del livello alto di ostilità sociali e del
livello moderato di restrizioni governative.

«La Costituzione messicana e le altre leggi e politiche
generalmente proteggono la libertà religiosa – ci informa l’Inteational
Freedom Report for 2011
-, ma ci sono alcune limitazioni a livello statale
o locale. […] Alcuni capi e autorità delle comunità locali, in particolare
nel Sud, utilizzano la religione come pretesto per conflitti legati a
controversie politiche, etniche, o relative alla terra. […] Funzionari del
governo federale e locale, spesso non puniscono i responsabili di atti di
intolleranza religiosa».

Mentre a livello istituzionale nel 2011 non si sono registrati
cambiamenti, né in positivo, né in negativo (e nel 2012 una riforma
costituzionale che ha inserito un riferimento esplicito alla libertà religiosa è
stata vista con entusiasmo da alcuni e con criticismo da altri osservatori
della libertà religiosa), a livello sociale invece ci sono state numerose
segnalazioni di abusi e discriminazioni. Mormoni, membri delle comunità
ebraiche e buddiste affermano di non trovare particolari ostacoli alla pratica
della loro religione, mentre – afferma sempre l’Inteational Freedom Report
for 2011
– invece diversi gruppi evangelici sostengono di subire frequenti
molestie. Soprattutto nelle regioni centrali e meridionali essi lamentano
l’espulsione dai loro villaggi, la perdita dei diritti di comunità e del
possesso di beni personali, percosse, minacce di morte, l’incendio delle loro
chiese e case.

CUBA

Cuba, che registra un alto livello di restrizioni governative ma
uno basso di ostilità sociali, conta 5,82 milioni di cattolici, il 51,7% della
popolazione (i protestanti sono il 5,6%, gli ortodossi lo 0,4%, gli altri
cristiani l’1,5%, i non affiliati a nessun credo il 23%, i seguaci di religioni
tradizionali il 17,4%, gli hindu lo 0,2%, e i membri di altre religioni lo
0,2%). Dopo l’apertura registrata nel corso del 2011 che aveva indotto il
Dipartimento di Stato Usa a sottolineare nel suo rapporto annuale il
miglioramento del governo cubano nel rispetto per la libertà religiosa, «anche
se restrizioni significative sono rimaste inalterate, e il Partito Comunista di
Cuba, attraverso il suo Ufficio degli affari religiosi, ha continuato a
esercitare il controllo regolamentare su molti aspetti della vita religiosa»,
le notizie che arrivano dall’isola caraibica tra fine 2012 e inizio 2013 fanno
temere una nuova ondata di restrizioni.

«Drammatico aumento di violazioni della libertà religiosa nel 2012»
intitolava un suo comunicato stampa l’organizzazione Christian Solidarity
Worldwide
a inizio 2013: «Mentre la Chiesa Cattolica riporta il maggior
numero di violazioni, per lo più riguardanti l’arresto e la detenzione
arbitraria di parrocchiani che tentano di frequentare le attività della chiesa,
anche altre denominazioni e gruppi religiosi sono stati colpiti. Chiese
battiste, metodiste e pentecostali in diverse parti del paese hanno riportato
molestie costanti e pressioni da parte di agenti di sicurezza dello stato.
Inoltre, i funzionari del governo hanno continuato a rifiutare la registrazione
di alcuni gruppi, tra cui la rete protestante del “Movimento
Apostolico”, minacciando chiusure di chiese, e chiudendo un luogo di culto
mormone […]. Uno dei casi più gravi ha riguardato il violento pestaggio di un
pastore pentecostale [che] ha subito danni permanenti al cervello. Il pestaggio
sembra essere stato orchestrato da funzionari locali del Partito comunista. A
oggi nessuna indagine a riguardo è stata effettuata».

COLOMBIA

Tra i primi 50 paesi della World Watch List, la classifica
compilata dall’organizzazione cattolica Open Doors dei paesi in cui
maggiormente vengono perseguitati i cristiani, la Colombia è l’unico del
continente americano a essere presente, figurando al 46° posto: «La Colombia –
in cui i cristiani sono il 92,5% della popolazione (cattolici 82,3%,
protestanti 10%, altri cristiani 0,1%), i non affiliati il 6,6%, e i seguaci di
religioni tradizionali lo 0,8% – […] formalmente è una modea democrazia
dove la supremazia della legge è consolidata e la libertà religiosa garantita.
Tuttavia ampie zone del paese sono sotto il controllo di organizzazioni
criminali, cartelli della droga, rivoluzionari e gruppi paramilitari – scrive Porte
Aperte
nel suo profilo del paese -. Le ricerche di Open Doors hanno
evidenziato che le organizzazioni criminali prendono di mira in particolar modo
i cristiani […]. Il crimine organizzato percepisce come una minaccia quei
cristiani che si oppongono apertamente alle loro attività, soprattutto quando
essi sono attivi in politica o in programmi sociali. […] Teme che i cristiani
inducano i membri della comunità locale o persino gli aderenti alle sue
organizzazioni a opporsi alle loro attività criminali. Nel suo rapporto 2010
l’Ong cristiana Justapaz ha riportato 95 minacce di morte o tentati
omicidi, 71 sgombri forzati, 17 omicidi, 2 sparizioni e molti casi di
sequestri, torture, pestaggi e reclutamento forzato […]».

Il 5 febbraio l’Agenzia Fides annunciava il terzo omicidio
di un prete cattolico in Colombia dall’inizio dell’anno: «Secondo l’elenco
realizzato annualmente dall’Agenzia Fides, nel 2012, per la quarta volta
consecutiva, l’America ha registrato il numero più alto di operatori pastorali
uccisi rispetto agli altri continenti. In Colombia nel 2012 è stato ucciso un
sacerdote; nel 2011 sono stati uccisi 6 sacerdoti e 1 laico; nel 2010 […] 3
sacerdoti e un religioso; nel 2009 […] 5 sacerdoti ed 1 laico».

Una sintesi continentale

La sintesi continentale del rapporto Acs (Aiuto alla Chiesa che
Soffre) 2012 sulla libertà di religione offre una panoramica frastagliata: se
in generale la situazione della libertà religiosa nel continente non è grave,
si notano passi avanti di alcuni paesi controbilanciati da passi indietro. «Se
in Argentina il 25 novembre è stato proclamato “Giornata Nazionale della Libertà
Religiosa”, in Bolivia – dove la Costituzione del 2009 riconosce la libertà di
religione – si sono verificate tensioni tra il presidente Morales e la Chiesa
cattolica» che ha denunciato la tendenza del governo «a utilizzare l’esperienza
religiosa dei nostri popoli per creare riti paralleli ai sacramenti cristiani
cattolici o ad altre espressioni popolari della fede». Rapporti Stato-Chiesa
tesi anche in Venezuela. Mentre sembra non essere legata a motivi religiosi «l’uccisione
del sacerdote cattolico don Romeu Drago, avvenuta il 19 febbraio 2011 in
Brasile, dove la Costituzione tutela pienamente la libertà religiosa […]. In
Cile si notano dei positivi passi avanti, come le informative ministeriali
sull’assistenza religiosa nei luoghi di cura e nei penitenziari, e sul rispetto
dell’uguaglianza dei culti all’interno delle aule scolastiche. Avviate,
inoltre, iniziative legislative per riconoscere i giorni sacri ai musulmani e
ai Bahá’í».

«Atti di vandalismo e violenza contro edifici religiosi, immagini
sacre e sacerdoti sono stati compiuti in Nicaragua», unico paese americano ad
aver registrato un aumento delle ostilità sociali molto significativo. «Preoccupano
in Ecuador alcune proposte di legge orientate alla limitazione della libertà
religiosa (garantita a livello costituzionale). Tra questi un progetto di legge
circolato informalmente nell’agosto del 2011 che prevedeva anche la chiusura
delle scuole confessionali e proibiva ai sacerdoti di indossare l’abito al di
fuori dei luoghi di culto». Contesto positivo invece in Paraguay, in Perù,
nella Repubblica Dominicana e in Uruguay.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? | Rendete a Cesare (2)


Per leggere la prima parte

Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

Le parole svelano le intenzioni del cuore

Tenendo conto di questo quadro, vediamo il testo. Alla luce di questa panoramica contestuale che tiene conto di tutta la Scrittura, il contesto immediato dei tre Sinottici, e particolarmente in Lc, è di complotto e di tensione:

– Lc 20,19: «Gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo». È in atto una macchinazione per perseguire un fine ingiusto.

– Lc 20,20: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore». È evidente una collusione/ complicità con il potere pagano e impuro, con l’obiettivo esplicito di servirsi del potere pagano.

– Lc 20,25: «Egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”». La risposta di Gesù, tecnicamente, si configura come risposta ad hominem, cioè diretta. Egli non fa un discorso generale sulle tasse, ma riprende, strettamente parlando, la risposta da essi data: poiché l’immagine della moneta appartiene a Cesare, come essi stessi ammettono, è un suo diritto, dice Gesù, averla indietro.

Se Gesù si fosse limitato a questa prima parte, tutto sarebbe finito con un insegnamento esemplare e coerente: poiché voi vi servite del denaro di Cesare che vi offre un servizio, è giusto che vi chieda un qualche corrispettivo. Se volete contestare l’autorità di Cesare, non usate il suo denaro, cioè siate voi stessi coerenti. La novità di Gesù sta nella seconda parte della risposta, con la quale riprende quello che i suoi interlocutori avevano omesso o dimenticato: Dio. Il testo greco dice alla lettera:

«E pertanto, dunque/di conseguenza, restituite (una volta per tutte) le cose di Cesare a Cesare e (= nello stesso tempo) le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio – Ho de eîpen pròs autoús: Toìnuyn apòdote ta Kàisaros Kàisari kài ta toû theoû tōi theōi».

Le parole hanno un senso oltre le apparenze

La parola «toínyn», in greco è una congiunzione cornordinante consecutiva o conclusiva (cf Blass-Debrunner §451,9) e per questo traduciamo in modo da dare alla risposta un tono definitivo e conclusivo. In questo modo, Gesù afferma che con la loro risposta sono essi stessi a darsi la risposta. Gesù si limita a trarre la conclusione logica e coerente di quanto affermato da loro. In altre parole, la risposta di Gesù non è una sua conclusione, ma quella cui essi stessi obbligano con il loro agire e con il loro pensare.

Per la restituzione (restituite), l’evangelista usa il tempo imperativo aoristo «apòdote» che indica un’azione compiuta in se stessa, avulsa dal tempo. Non può avvenire a rate o a spizzichi perché non lascia spazio per un tempo di riflessione. Deve essere un fatto unico, conseguenza di una decisione e di una conversione radicale: «Restituite una volta per tutte».

Infine, l’espressione «le cose di Cesare» ha il genitivo di origine o di appartenenza (Blass-Debrunner §162,9 e § 266, 5a): le cose in generale, qui la moneta, che sono «già» proprietà di Cesare. In altre parole Gesù dice che il possesso della moneta romana da parte dei Giudei è illegittimo, per cui restituirla al proprietario significa restaurare l’ordine della legittimità e della verità.

La questione non riguarda le tasse, come volevano gli scribi; Gesù sposta la discussione sul possesso della moneta, da parte di chi professa una religione che impone il divieto assoluto delle immagini della divinità. Questo divieto è così grave che viene codificato addirittura nel comandamento (Es 20,3). Poiché l’imperatore si considera «dio», è grave che la sua moneta, la sua «insegna», si trovi nelle mani di chi si appella al Dio di Mosè.

Si direbbe che l’autore usi la struttura della lingua greca per affermare con più forza il senso del pensiero che vuole esprimere. È straordinario come Gesù non si fermi mai alle apparenze, ma obblighi ad andare al cuore della questione. I farisei e i capi dei sacerdoti pensavano di metterlo in imbarazzo; invece, si ritrovano davanti a loro stessi, alla loro superficialità o, ancora più grave, alla loro religione di finzione, perché parlano in nome di Dio, ma ne disattendono i comandamenti.

Contesto prossimo: il complotto

Non è sufficiente, però, tradurre le parole del vangelo, bisogna anche collocarle nel contesto immediato e prossimo, se vogliamo afferrarne il senso profondo. È quello che facciamo, osservandolo da vicino.

Il capitolo 20 di Luca si apre con due polemiche fortissime:

– Lc 20,1-8: Gesù si oppone ai «capi dei sacerdoti e gli scribi con gli anziani» (v. 1) che pretendono di limitare la sua autorità; Gesù li mette all’angolo con una domanda trabocchetto: il Battesimo di Giovanni viene da Dio o dagli uomini? Se rispondono che viene da Giovanni, corrono il rischio che la folla si ribelli, perché Giovanni aveva la fama di profeta; se rispondono da Dio, si autoaccuserebbero perché non gli hanno creduto. Non hanno più alibi. In questo modo Gesù raggiunge il suo obiettivo: li mette alle strette e con le spalle al muro. Infatti, essi si rifiutano di rispondere perché non possono.

– Lc 20,9-19: la parabola dei contadini omicidi obbliga gli uditori a trarre le conclusioni, o come si dice, la morale. Infatti, gli interessati capiscono subito: «Avevano capito che aveva detto quella parabola contro di loro» (Mc 12,12). A questo punto, non si può andare tanto per il sottile, perché uno che mette in difficoltà il sommo sacerdote, che costringe all’angolo i membri del sinedrio, che contesta la loro autorità e mette in dubbio la loro moralità di trafficanti con il denaro immondo, non può restare libero. È un pericolo per l’istituzione religiosa che si sente screditata. L’autorità non si può discutere, perché s’indebolisce e si delegittima.

I capi religiosi vogliono però umiliare Gesù a ogni costo; per loro la questione delle tasse è strumentale, perché il loro vero obiettivo è il complotto per mettere Gesù fuori gioco, in modo definitivo. Il clima da servizi segreti con spie e travestimenti è descritto da Luca 20,20, in modo impressionante e preciso: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore».

È il metodo del tranello e del fango, dell’inganno, della manipolazione della verità e realtà. C’è lo spionaggio che significa una scelta cosciente: pur di raggiungere il fine qualsiasi mezzo è lecito. L’atteggiamento e la perversione dei capi religiosi ha fatto scuola nella storia fino ai nostri giorni anche nella Chiesa. Un papa che si dimette, come Benedetto XVI, perché non è stato in grado di fermare «individualismi e rivalità» che hanno generato «le divisioni che deturpano la Chiesa», come egli stesso ha ammesso (Omelia delle ceneri, 13 febbraio 2013, in San Pietro), mettono in luce che, quando prende il sopravvento la religione d’interesse, gravi sono le conseguenze sul piano della fede; possono arrivare anche a produrre le dimissioni come ipotesi di soluzione del conflitto.

La risposta di Gesù: la coerenza nella verità

Gesù sventa il tranello e va alla radice della questione. Chiedendo retoricamente di chi è l’«immagine», come se lui non lo sapesse, sposta la riflessione sul problema radicale: quale autorità governa su Israele? In altre parole, più esplicite: chi è il «Dio» di Israele? È il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Mosè, oppure è il «divino Cesare», imperatore di Roma?

Tutti, al tempo di Gesù sapevano che gli imperatori romani, come qualsiasi altro potente, facevano imprimere la propria effige sulle monete di metallo per due motivi di ordine pratico. In un tempo senza macchine fotografiche e senza tv, un modo per farsi riconoscere era la divulgazione dei lineamenti imperiali su tutto il regno. Il secondo motivo, più politico, era di affermare la propria autorità sui propri sudditi, perché chiunque avesse usato la moneta con l’effige, di fatto ne riconosceva la legittimità e quindi si sottometteva alla sua autorità giuridica e fiscale.

I capi religiosi che avrebbero dovuto guidare il popolo, il cui re è il Dio d’Israele (cf Sal 144/143,15), invece, riconoscono l’autorità di un imperatore che non può godere di alcun diritto di governo su Israele. In questo modo essi conducono il popolo nella schiavitù di un pagano e straniero, usurpatore della legittimità di Dio. Essi sono responsabili della decadenza religiosa e della devianza etica del loro popolo perché confondono Dio con Cesare.

(continua – 2)

Paolo Farinella