3_Schiavitù: Sulle orme del Fondatore

Lotta alla schiavitù dei missionari e missionarie d’Africa


La liberazione degli africani dalla schiavitù era parte
essenziale della metodologia di evangelizzazione del cardinal Lavigerie. I suoi
missionari e missionarie a contatto diretto con lo schiavismo lo accompagnarono
nella sua campagna con le opere di carità, riscattando persone, costruendo
orfanotrofi e informando il loro fondatore sulle atrocità di cui erano
testimoni.

Prima della campagna (1868-1888)

La nascita della Società dei Missionari d’Africa, (Padri
Bianchi) in Algeria è strettamente legata alla vocazione di prendersi cura
dell’umanità sofferente. Di fronte al problema delle vittime della carestia in
Algeria (1866-1868) Lavigerie cercò una congregazione religiosa competente per
prendersi cura degli orfani e non essendo riuscito a trovarla cominciò a
pensare di fondae una. Molti dei primi missionari d’Africa ebbero una
esperienza pastorale negli orfanotrofi in Algeria sia durante il loro periodo
di formazione che in seguito.

Il secondo incontro con la miseria umana sotto forma di
schiavitù fu nei posti di missione nel Sahara (Leghouat 1872 e Ouargla 1875).
Lavigerie si domandava come i suoi missionari sarebbero stati coinvolti nella
lotta contro lo schiavismo. Uno dei modi che egli escogitò fu quello di
riscattare gli schiavi, specialmente i ragazzi, educarli e poi rimandarli in
dietro nei loro paesi di origine come agenti di evangelizzazione ed
eventualmente come attivisti dell’antischiavismo. In realtà egli considerava il
lavoro di evangelizzazione in sé, cioè insegnare la fede, la morale e i valori
cristiani, un mezzo efficace a lungo termine di lotta alla schiavitù fin dalle
sue radici.

Così ai missionari della seconda carovana diretta
all’Africa Equatoriale, Lavigerie ebbe a dire questo: «Non siate sorpresi che
io, come vescovo cui è stata affidata dal Santo Padre una parte di queste
immense regioni dove la schiavitù domina ancora, la denunci… Andate, figli
miei, andate e insegnate a queste popolazioni che questo Gesù, la cui croce voi
mostrerete loro, morì su di essa per portare al mondo ogni libertà: libertà
delle anime dal giogo del male, libertà dei popoli dal giogo della tirannia,
libertà delle coscienze dal giogo dei persecutori e libertà del corpo dal giogo
della schiavitù» (Cattedrale di Algeri, 20-6-1878). Inoltre Lavigerie aveva già
considerato la lotta contro la schiavitù come parte del piano generale
dell’evangelizzazione dell’Africa Equatoriale nel suo «Memoriale segreto»
presentato alla Congregazione di Propaganda il 2 gennaio 1878.

Durante la campagna (1888-1892)

Il cardinal Lavigerie non coinvolse direttamente i
membri della sua Società Missionaria nella sua campagna antischiavista. Ciò può
essere spiegato da due ragioni: la prima perché la sua campagna era indirizzata
per lo più ai paesi europei con lo scopo di forzare i loro governi, mediante
l’influenza dell’opinione pubblica, a prendere iniziative per abolire la
schiavitù in Africa. I pochi missionari della sua Società a quel tempo erano
soprattutto nel continente nero e dovevano come priorità iniziare nuove
missioni per l’evangelizzazione degli Africani.

Secondariamente, per motivi di prudenza; egli temeva le
ripercussioni negative che si sarebbero riversate sui missionari, come
persecuzioni, uccisioni, rifiuto del permesso di stare in quei paesi, impedendo
così di portare avanti l’opera di evangelizzazione, obiettivo principale della
loro presenza in quei paesi. Perciò, Lavigerie giunse fino ad ammonire i suoi
missionari di non scontrarsi con i mercanti di schiavi. Tuttavia, nonostante ciò,
alcuni missionari sfidarono gli schiavisti e sfidarono i capi locali perché
abolissero la schiavitù nelle loro aree.

Anche se i missionari non erano direttamente coinvolti
nella campagna antischiavismo del cardinale, essi vi contribuirono
direttamente, inviandogli informazioni di prima mano sulle atrocità di questo
odioso mercato e le sue conseguenze negative sulla vita sociale in generale e
su quella famigliare in particolare. Tali informazioni erano per lui di grande
utilità nelle sue conferenze e comunicati stampa.

Inoltre il cardinale incoraggiava i suoi missionari a
riscattare gli schiavi, a prendersene cura ed educarli. Perciò gli orfanotrofi
che furono costruiti in quasi tutte le stazioni di missione erano per lo più
riempiti con bambini schiavi riscattati. Questi ragazzi furono considerati la
base della futura comunità cristiana locale ed erano anche visti come una
risorsa a lungo termine per combattere la schiavitù, e distruggere col tempo le
strutture (mentali e sociali) che la favorivano.

Ma anche il problema del riscatto degli schiavi non era
senza difficoltà e opposizione. Alcuni erano contrari al riscatto perché lo
consideravano un incoraggiamento per i trafficanti a continuare in tale odioso
affare. Perfino tra i missionari c’erano delle differenze come nel caso dei
Buganda: il problema fu riferito al cardinale, come testimoniano le lettere
inviate nel 1882 dai padri Livinhac e Lourdel.

Un altro modo in cui i missionari in Africa
contribuirono alla lotta contro la tratta degli schiavi fu il provvedere
sicurezza alla gente nei cosiddetti «villaggi della pace o della libertà», come
quelli fondati nelle località di Karema e Mpala in Tanganika e Kibanga in
Congo.

Donne apostole tra donne

Quando il cardinal Lavigerie fondò la congregazione
delle Missionarie di nostra Signora d’Africa (Msola), nel 1869, voleva donne
apostole che si prendessero cura degli orfani causati dal colera in Algeria,
oltre a partecipare pienamente nell’evangelizzazione del continente africano.
Le «suore bianche», come venivano comunemente chiamate, cominciarono la loro
vita missionaria in Algeria, contribuendo a restituire dignità ai meno
privilegiati. Quando esse partirono per le missioni in differenti parti
dell’Africa, il continente era percorso dalla tratta degli schiavi. Mentre il
loro fondatore era impegnato nella campagna antischiavista, egli esortava le
sue missionarie a impegnarsi totalmente come educatrici e madri di tutte le
donne vittime della schiavitù. E tutte le attività delle suore erano dirette a
rispondere a tale invito.

Fin dall’inizio Lavigerie ricordò alle suore che
dovevano essere «donne apostole tra donne» e madri verso le ragazze vittime
dello schiavismo in Africa Equatoriale. Egli voleva le sue suore totalmente
missionarie, il cui apostolato era complementare a quello dei padri e fratelli,
non solo perché esse potevano entrare in gruppi chiusi ai missionari maschi, ma
anche per la loro abilità di agire da donne tra donne, per trasformare la
società intera.

Faccia a faccia con la schiavitù

Queste donne apostole furono mandate in Africa per
partecipare a modo loro nella lotta contro il commercio di schiavi, mediante il
loro impegno con gli schiavi riscattati (ragazze, donne, ragazzi). Lavigerie
aveva dato anche a loro prudenti linee guida su come comportarsi con bianchi e
neri trafficanti di schiavi. Questi erano troppo potenti e pericolosi per
essere affrontati direttamente da impotenti missionari. Lavigerie raccomandò
loro di mantenere relazioni amichevoli con i proprietari di schiavi, se
volevano continuare i loro impegni apostolici. In compenso, chiese loro di
inviargli relazioni dettagliate sulla tratta… Le suore si conformarono alle
linee guida del loro fondatore.

Esse si dedicarono agli schiavi riscattati e perfino ne
comprarono alcuni, quando potevano permetterselo, come avvenne per esempio in
Baudoinville (Moba) dove arrivarono nel 1895. I diari mostrano che esse non si
occuparono solo di schiavi neri riscattati o liberatisi con le proprie forze,
ma anche di ogni bambino bisognoso, compresi i figli dei mercanti di schiavi,
come si legge nei diari: «Il comandante di Deberghe ci ha mandato due ragazzi.
Il loro padre era un leader arabo della costa del Tanganika, che era stato
ucciso in una incursione. La sua vedova e i figli furono presi dai belgi. La
ragazza si chiama Leonora; è molto intelligente. Il primo giorno del suo arrivo
imparò a fare il segno di croce. L’altro è un bambino di due anni; non sa
ancora parlare ed è il più giovane del Barza» (09-07-1896).

Tutti i ragazzi erano raggruppati nello stesso centro.
Grazie alle suore, schiavi, figli di schiavi e figli di padroni ora vivevano
insieme in pace e fiducia, ricevevano crescendo la stessa educazione e
imparavano ad essere fratelli e sorelle, perché figli dello stesso Dio Padre.
C’è forse un modo migliore per combattere contro la schiavitù?

Dal 1909 nel diario di Tabora si notano alcuni
cambiamenti nel modo di riscattare gli schiavi: «Una vecchia schiava, sorella
di un catecumeno del villaggio, è arrivata qui da pochi giorni, ma il suo
padrone la reclama. Il caso va alla boma (Centro del governo locale) e
il reverendo padre superiore ci suggerisce di tentare un altro modo di
riscatto. Ciò significa che la somma richiesta dal padrone non sarà pagata
immediatamente tutta. La schiava lavorerà e ogni mese pagherà al padrone una
somma convenuta e così comprerà la propria libertà. La proposta fu adottata
dalle tre parti. Questa soluzione ci ha rese molto felici, nel fatto che la
nostra povera vittima può lavorare e perché essa può stare con noi per almeno
dieci mesi finché la somma viene pagata. Questa lunghezza di tempo significa
che la riscattata può seguire le istruzioni e conoscere la nostra religione e
così avere il desiderio di perseverare nel suo catecumenato».

La carità non basta

La storia del cardinal Lavigerie, dei suoi missionari e
missionarie contiene una lunga lista di opere di carità verso le vittime, a
cominciare dal riscatto di schiavi fino a ciò che si sta ancora facendo oggi,
per esempio a favore dei ragazzi di strada, vittime di caccia alle streghe,
guerre, ecc…

Tuttavia tale storia ci insegna che le opere di carità
da sole non possono eliminare la schiavitù dalla nostra società: Lavigerie stesso lo aveva notato, dicendo: «Ma io
ripeto, cari fratelli e sorelle, che la carità, per quanto grande possa essere,
non sarà sufficiente a salvare l’Africa. È necessario un rimedio più sollecito,
più efficace e più decisivo» (St. Sulpice, Parigi, 1° luglio 1888).

Il cardinal Lavigerie insegnava quindi che le opere di
carità devono andare di pari passo con le opere di giustizia; affermava che
l’evangelizzazione procede pari pari con l’attivismo sociale, diventando così
uno strumento efficiente contro lo schiavismo. C’è bisogno di leggi e strutture
sociali per prevenire ed eliminare alla radice le cause della schiavitù. Tale
metodo di evangelizzazione, valido oggi e in futuro (cf Nuova
evangelizzazione
), deve essere adattato alla situazione attuale nella lotta
contro le forme modee di schiavitù.

Come missionari, la preghiera è parte essenziale degli
sforzi nel combattere la schiavitù in qualsiasi forma si manifesti. Lavigerie
considerava la preghiera in generale e la preghiera pubblica in particolare
come mezzo indispensabile per raggiungere lo scopo della sua campagna. Con
queste parole si rivolse ai cristiani in Algeri: «Ho appena scongiurato i
governi in Europa, ma oggi non vi chiedo né l’aiuto delle armi né quello della
carità, come feci in precedenza; è un aiuto più importante che io, vescovo,
chiedo ai cattolici: è l’aiuto della preghiera» (Algeri, 19 aprile 1889). E
continuava spiegando che essa è uno strumento alla portata di tutti e non
esclude alcuno: bambini, giovani, anziani, malati o in buona salute. Tuttavia
anche la preghiera deve andare mano nella mano con i gli sforzi concreti nel
combattere la modea schiavitù. Nel diario di Mpala, lo scrittore, dopo aver
narrato una storia molto difficile sul riscatto di sei anziane donne e due
bambini, conclude dicendo: «Abbiamo fatto ciò che potevamo, Dio farà il resto»
(Diary, Mpala, 3 settembre 1890).


Richard Nnyombi




2_Schiavitù: La campagna antischiavista

Un impegno missionario
eccezionale del card. Lavigerie


La campagna umanitaria
lanciata 125 anni fa dal cardinal Lavigerie contro la schiavitù in Africa
costituisce un’iniziativa coraggiosa e rispecchia una strategia straordinaria
sia sotto l’aspetto dell’impegno missionario sia a livello culturale e
politico: il suo piano d’azione, infatti, mira prima di tutto a cambiare
l’opinione pubblica europea e alla ricerca di benefattori per sostenere la sua
campagna; in seguito si indirizza alle potenze politiche del suo tempo,
riuscendo effettivamente a risvegliare qualche coscienza.

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di Jean-Claude Ceilleier

Nato nel Sud Est della Francia nel 1825, Charles Allemand Lavigerie fu un brillante studente nel seminario maggiore e poi in quello dei Carmelitani a Parigi. Giovane prete, diresse con entusiasmo straordinario l’Opera delle Scuole d’Oriente. Lavorò per alcuni anni nella curia romana, finché venne nominato vescovo di Nancy nel 1863, all’età di 38 anni. Fu lì che, senza dubbio, maturò la sua vocazione missionaria, e quando gli fu chiesto di assumere la responsabilità della diocesi di Algeri nel 1867, accettò immediatamente.

Esercitò questo servizio pastorale per un periodo di 25 anni e fu in tale coice che egli aprì il suo ministero a una dimensione missionaria di mirabile ampiezza mai vista in precedenza. Fondatore di due istituti dedicati alla missione in Africa, le Missionarie di nostra Signora d’Africa (Msola) e i Missionari d’Africa (M.Afr), egli si appassionò di questo grande continente (ancora poco conosciuto dal mondo europeo a quell’epoca) per la sua storia, la sua cultura e i suoi popoli. Papa Leone XIII ebbe grande stima di questa personalità eccezionale e lo elevò al rango di cardinale nel 1882. È nel contesto di questo impegno per la missione e per il servizio all’umanità in generale che bisogna collocare la campagna antischiavista di cui trattiamo qui.

interviene presso stati e Papa

Nel 1888 Lavigerie aveva già una conoscenza approfondita di certe realtà che caratterizzavano il continente africano, e tra queste realtà ce n’era una in particolare che maggiormente lo sconvolgeva: lo schiavismo. Era ben informato dalle testimonianze di grandi esploratori; ma anche dalla corrispondenza dei suoi missionari che erano presenti nella regione detta dei Grandi Laghi, fin dall’arrivo della prima carovana nel 1878.

Conosceva l’ampiezza delle razzie, le rotte delle carovane di schiavisti tra i laghi del centro e la costa dell’Oceano Indiano. Conosceva pure le sofferenze inimmaginabili degli schiavi durante queste lunghe marce forzate e il cinismo dei trafficanti. A più riprese, dall’inizio degli anni ’80, Lavigerie cercò in varie occasioni di far intervenire l’una o l’altra delle maggiori potenze europee, specialmente la Gran Bretagna, e perfino la Santa Sede, ma senza alcun risultato.

Nel 1888 si presentò un’altra opportunità per intervenire di nuovo: il Brasile annunciò che avrebbe definitivamente abolito la schiavitù nel suo territorio e il papa Leone XIII decise di pubblicare un’enciclica per approvare tale decisione. Immediatamente il cardinale Lavigerie gli chiese di menzionare il dramma che l’Africa continuava a vivere in quel momento e il Papa accondiscese.

Al tempo stesso, nel mese di maggio di quell’anno 1888, si stavano preparando grandi festeggiamenti a Roma per celebrare il giubileo d’oro sacerdotale di Leone XIII; Lavigerie sollevò di nuovo il problema: si recò a congratularsi con il Santo Padre accompagnato da un gruppo di giovani neri cristiani e parlò di nuovo in udienza pubblica e privata a favore delle vittime dello schiavismo nel continente africano. Leone XIII, grandemente impressionato, pensò che si dovesse intervenire più apertamente e gli disse: «Noi contiamo su di voi, signor cardinale, per il successo di tale impresa». Questa risposta del Papa ebbe per Lavigerie immediatamente il valore di una missione da compiere, e fu così che prese l’impegno di organizzare una massiccia campagna antischiavista e ne incoraggiò lo sviluppo su più vasta scala possibile.

Guadagnare l’opinione pubblica 

Immediatamente Lavigerie escogitò un piano d’azione su tre fronti: una vasta copertura geografica attraverso l’Europa; interventi per attrarre il grande pubblico mediante conferenze, articoli di stampa e altri metodi; e infine la messa in moto di una rete di associazioni nazionali e locali destinate a mantenere alto l’interesse dei benefattori e sostenere altre attività concrete.

Proprio in ciò che riguarda le azioni pratiche Lavigerie pensò inizialmente di riprendere un progetto da lui concepito alcuni anni prima: il progetto di formare una milizia di laici armati, che avrebbe protetto i centri di rifugio per schiavi fuggiti o affrancati e che potesse intervenire in altre aree secondo le circostanze. Bisogna dire subito che tale progetto non andò mai in porto, principalmente a causa della marcata riluttanza dei poteri coloniali stabilitisi nel continente africano.

La prima manifestazione di questo vasto programma ebbe luogo a Parigi con una conferenza pubblica tenuta il 1° luglio 1888 nella chiesa di San Sulpicio. Dopo una lunga descrizione delle sofferenze subite dagli schiavi, Lavigerie fece appello alla generosità della gente sollecitando donazioni e ai giovani perché avessero il coraggio di arruolarsi per andare a difendere e proteggere quelle vittime.

Lavigerie era un oratore di grande talento; si imponeva per la sua forte personalità e questa prima conferenza ottenne un grande successo, tanto nella stampa che nell’opinione pubblica francese. Nelle settimane seguenti egli intervenne allo stesso modo in Italia, in Gran Bretagna e in Belgio, dove fece una commovente conferenza nella chiesa di san Gudule (Bruxelles) il 15 agosto. Una delle ultime grandi conferenze pubbliche ebbe luogo a Roma nella Chiesa del Gesù il 23 dicembre 1888.

Dappertutto l’opinione pubblica fu sconvolta dalle rivelazioni dell’ampiezza di tale traffico di schiavi nell’Africa Centrale. Le autorità politiche presero anch’esse coscienza del problema e Lavigerie fece del suo meglio per provocare le loro prese di posizione ufficiali; fece perfino diversi passi diplomatici o addirittura militari, per porre fine alla tratta schiavista, specialmente sulla costa dell’Oceano Indiano e del Mar Rosso.

Le reazioni furono però differenti, secondo gli interessi degli Stati interessati. In Inghilterra ci fu grande sostegno, perché il paese era ben coscientizzato da molto tempo su tale problema. In Belgio re Leopoldo temeva ingerenze nel suo territorio del Congo e Lavigerie dovette tenee conto nelle sue differenti conferenze. Tuttavia, dappertutto l’opinione pubblica approvava e sosteneva la sua campagna; e in questo senso, si può dire che la campagna riportava già un grande successo.

Comitati di sostegno e incontri inteazionali

In questo programma, il cardinale aveva previsto la creazione di comitati di solidarietà su base nazionale e locale. Vari comitati furono fondati nei paesi da lui visitati. In altri paesi dove non poté andare, allacciò contatti, inviò lettere e sostenne la creazione di gruppi di benefattori. In questo modo egli ebbe contatti in Germania, Svizzera, Paesi Bassi, Austria, Spagna e Portogallo. Egli volle estendere il problema ancora più lontano: chiese un congresso internazionale, dove i governi si sarebbero impegnati a cancellare la tratta degli schiavi in Africa. Dopo vari tentativi infruttuosi, questa proposta fu finalmente realizzata dal raduno di un congresso internazionale a Bruxelles nel novembre 1889. Sedici potenze erano rappresentate e il lavoro continuò per molti mesi. Ma non finì ufficialmente che nel luglio 1890. Lavigerie non era presente, ma il suo nome fu frequentemente citato ed egli stesso si dichiarò felice dei risultati, specialmente per la decisione di allestire pattugliamenti marini lungo le coste orientali del continente. Tuttavia egli stesso volle organizzare, sotto la sua personale supervisione, una nuova convenzione comprendente tutte le rappresentanze dei Comitati anti-schiavismo. Tale congresso ebbe luogo a Parigi in settembre 1890 e anche in tale occasione si poté ammirare il talento organizzativo e la forte personalità del cardinale che giocò un ruolo importante nel consolidare le iniziative già prese e nell’assicurare un migliore cornordinamento tra i progetti.

Dopo una visita a Roma, dove rese conto al papa della campagna, ormai consumato da mesi di enormi sforzi, Lavigerie ritoò alla sua diocesi ad Algeri, nell’autunno di quello stesso anno 1890. L’ampiezza di tale campagna e la sua ammirabile organizzazione hanno senza dubbio fatto fare grandi passi a favore della soluzione del problema dello schiavismo. Lo affermò lo stesso Lavigerie nella sua prima conferenza pubblica: un grande grido si è fatto sentire. Grido d’indignazione lanciato dal vecchio cardinale sia in nome dell’umanità che in nome del Vangelo.

 

Date principali nella vita di Charles-Martial Allemand Lavigerie:

1825 - Nasce a Bayonne
1841-49 – Studia a Parigi fino all’ordinazione sacerdotale (1849)
1850 – Dottorato in letteratura
1853 – Insegna alla Sorbona
1857 – Direttore della Oeuvre des Ecoles d’Orient (opera per le scuole d’Oriente)
1860 – Viaggio in Libano e Siria per aiutare le vittime di massacri
1861 – Uditore della Sacra Rota romana
1863 – Nominato vescovo di Nancy (5 marzo) e ordinato a Roma nella chiesa di S. Luigi dei francesi (22 marzo)
1867 – Arcivescovo di Algeri
1868 – Delegato apostolico per il Sahara e il Sudan e fondazione dei Missionari per l’Africa (Padri Bianchi)
1869 – Fondazione delle Suore missionarie di Nostra Signora d’Africa (Suore Bianche)
1878 - «Memorandum segreto sull’evangelizzazione dell’Africa Equatoriale»; prima carovana nell’interno dell’Africa;
          I Padri Bianchi prendono residenza a Gerusalemme
1882 – Nominato cardinale
1884 – Ri-erezione della sede (episcopale) di Cartagine; Primate d’Africa
1888 – Inizia la campagna antischiavismo con varie conferenze: chiesa di San Sulpizio a Parigi (1° Luglio); Prince’s Hall a Londra (31 luglio);
            chiesa di san Gudule a Bruxelles (15 agosto); chiesa del Gesù a Roma (23 dicembre)
1889 – Conferenza internazionale per l’abolizione della tratta degli schiavi – Bruxelles, 18 novembre-luglio 1890
1890 – Congresso a Parigi delle Società anti-schiavitù (21-23 settembre); festeggiamento ad Algeri (12 novembre)
1892 – Muore ad Algeri (26 novembre).
Jean-Claude Ceilleier




1_Schiavitù: Spezziamo le Catene

Premessa:
Nati uguali e liberi
A 125 anni dalla
campagna antischiavista del Cardinal Lavigerie.

Di Jean-Claude Ceilleier, Richard Nnyombi e redazione
rivista «Africa»;
a cura di Benedetto Bellesi

Un giorno un mio amico
mi raccontò una storia riguardante Davide e il suo amico Stefano. Davide fece
visita a Stefano e tutti e due andarono al cimitero poiché Davide voleva
ossequiare i genitori di Stefano che egli aveva conosciuto molto bene e ora
riposavano nel cimitero.

Appena arrivato, Davide fu impressionato dal fatto che
solo il nome inciso sulla croce distinguesse una tomba dall’altra. Avevano
tutte stessa forma e stesso stile. Quando egli espresse la sua meraviglia e
chiese all’amico Stefano il perché, si sentì rispondere: «Nella nostra città
abbiamo preso la decisione di offrire lo stesso stile di tomba a tutti i nostri
cittadini perché siamo nati uguali e alle fine, di fronte a Dio, siamo uguali.
Siamo tutti figli di Dio bisognosi di amore e comprensione. Nella stessa fila
dei miei genitori ci sono un poliziotto, un sindaco, un prete, ecc. Non lo
sapresti se non ti venisse detto». Con ragione Davide disse: «Nati uguali e
liberi: questa è la nostra sfida».

Il cardinal Lavigerie non fu il primo nella lotta allo
schiavismo, ma il suo ardente impegno nella campagna contro la schiavitù nel
diciannovesimo secolo ha certamente aiutato molta gente a realizzare il sogno
di essere liberi e schiavi di nessuno, così come siamo nati uguali davanti a
Dio.

E oggi, cosa si può fare? Non molto, saremmo tentati di
dire. Ma ricordiamo che la nostra voce in meno in una elezione può significare
perdere un’opportunità di servire gli altri con una certa visione. Conta ogni
voce, ogni occhio, bocca, mente e via dicendo. Se credi che il tuo contributo
non sia importante, osserva un gruppo di formiche, guarda come lavorano insieme
per radunare il cibo dentro il loro granaio. Nessuna è forte abbastanza per
trasportare qualcosa, ma lavorando insieme esse riescono a rotolare dentro il
granaio abbastanza cibo per la stagione magra.

L’impegno nella lotta alla schiavitù continuò anche dopo
Lavigerie, che stimolò altri a partecipare in tale impegno a seconda di come lo
Spirito muoveva la Chiesa e il mondo. Agenti pastorali, da papa Leone XIII fino
alle semplici persone dei lontani villaggi in Africa, continuarono a deplorare
l’ingiustizia di rimuovere migliaia di africani dalle loro case e portarle
altrove.

La celebrazione del 125o anniversario della
partecipazione del cardinal Lavigerie alla campagna antischiavitù, è per tutti
uno stimolo per prendere coscienza delle differenti forme di discriminazioni e
schiavitù che anche oggi negano a milioni di persone la loro uguaglianza
davanti a Dio e agli altri e le deprivano della propria libertà.

La conoscenza è cosa buona ma quando porta ad azioni
significative è anche meglio. Scopo di questo dossier, infatti, non è una
rievocazione storica, per risvegliare la consapevolezza del nostro passato, ma
vuole soprattutto aiutarci ad aprire orecchie, occhi e cuore di fronte alle
situazioni di schiavitù che vediamo ancora oggi attorno a noi e, come
missionari, annunciare un messaggio ben differente al popolo di Dio, che cioè
ognuno è nato uguale e libero. Come i profeti biblici, e come il cardinal
Lavigerie, dobbiamo essere capaci di denunciare le forme odiee della schiavitù
e impegnarci per sradicarle.

Si tratta prima di tutto di cambiare e lottare contro la
mentalità corrente: gli schiavi di oggi sono considerati più in termini
economici che di dignità personale; sono merce e tale mercificazione della
persona umana nega i valori di uguaglianza e libertà, la dignità di figli di
Dio e di nostri fratelli e sorelle.

Fr. Richard
K. Baawobr

Superiore
Generale M.Afr 
 

Richard K. Baawobr




Cultura di morte

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Qualche tempo fa il telegiornale ha presentato l’ultima tendenza in fatto di sballo giovanile: «L’alcolizzazione degli occhi». Non so se si chiami così. Lo sballo è assicurato con un processo molto semplice: ti anneghi gli occhi con un bagno di liquore forte. Il dolore è lancinante e il risultato tremendo. Risultati aggiuntivi: congiuntiviti, problemi oculari vari, danneggiamento della cornea, e via dicendo. Nonostante l’ovvia pericolosità dell’operazione, gli adepti aumentano ogni giorno, anche grazie ai folli video su youtube e ai post sui social network.

In testa mi si sono accavallate allora tante altre immagini: donne vittime della violenza e disagio maschile; ragazzi giovanissimi già alcolizzati; donne schiavizzate costrette a vendersi lungo le strade o nei bordelli più o meno clandestini; tatuaggi a gogo, piercing estremi e mode dark; giochi sempre più rischiosi, legittimati come nuovi sport; armi in regalo a bimbi piccolissimi; bambini nel ventre di miniere o incatenati a telai invece di essere sui banchi di scuola; contadini cacciati dalle loro terre accaparrate da multinazionali o altre nazioni; lavoratori lasciati a casa; fabbriche chiuse; giovani sfruttati; giochi di borsa che dissanguano nazioni... una lunghissima lista di morte con cui tutti abbiamo a che fare ogni giorno, olocausto al dio denaro, ricchezza e potere, l’antico Mammona che non demorde mai. Un dio che ha niente da spartire con il Dio di Gesù Cristo fatto di misericordia, giustizia e pace, paladino di uguaglianza, accoglienza e rispetto per ogni uomo e tenerezza soprattutto per i più piccoli e poveri.

La lista, forzatamente parziale, ben evidenzia come questa cultura di morte abbia molte facce e si adatti alla persone più diverse. Sta cambiando le nostre leggi, trasformando le tradizioni, rivoluzionando la cultura, delegittimando la pietà, la compassione, la sofferenza, l’onesto lavoro, la cultura della solidarietà, la tolleranza e l’accoglienza dell’«altro». Rende normale quello che era considerato «non normale» dalla stragrande maggioranza delle persone e dei popoli. Proclama la libertà di pensiero, ma è intollerante con chi non la pensa alla stessa maniera, soprattutto in termini di vita, famiglia e sessualità. Appiattisce tutto e tutti e rende il «tutti fanno così» la suprema regola di vita. Si alimenta di slogan e spot, trasforma le tragedie in spettacolo e lo spettacolo in realtà. Viaggia a suon di sondaggi e si adatta al mutare delle emozioni. Si alimenta dei riti di fine settimana - mare, montagna, centri commerciali, avvenimenti sportivi - che massificano l’individuo e rendono noiose le vere celebrazioni, come la messa domenicale e il pranzo in famiglia, che invece costruiscono comunità e offrono spazi di ascolto e interiorizzazione.

Mi rendo conto che ci vorrebbe molto più delle frasi provocatorie di un editoriale per decodificare l’enorme montagna di falsità che ci circonda e vuole rendere superfluo ogni riferimento a Dio, privata l’esperienza spirituale e folcloristica la religione. Una piccolezza mi ha fatto pensare molto: la notte di Pasqua, nel buio della chiesa, il cero pasquale era ben visibile a tutti, mentre di giorno, alla luce del sole, quella fiammella era quasi invisibile. Mi sono chiesto perché mai la Chiesa abbia affidato a un simbolo così debole una valenza così forte: quella di rappresentare la dirompente vittoria della Vita sulla morte, della Luce sulle tenebre, del perdono sulla vendetta.

Ho pensato che l’annuncio del Vangelo non si impone mai col rigore delle leggi, il potere suasivo della pubblicità, la forza delle armi, la seduzione del denaro, l’ebbrezza del potere, la fragorosità del tuono. è invece una piccola luce, invisibile nell’abbagliante mare dell’esteriorità, ma chiarissima nel silenzio dell’ascolto interiore, nell’amore fatto servizio, nella fedeltà senza ricompense, nella gratuità del volontariato, nel «bene fatto bene e senza rumore». Un annuncio affidato alla fragilità di uomini che credono e, pur nella loro debolezza, rendono credibile il Vangelo nel quotidiano. Scriveva Rosario Levantino, citato da Don Ciotti su La Stampa del 9/5/2013: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo credibili».

E' questo il segreto della Missione: uomini e donne credenti che danno «ragione della speranza» (Luce) che è in loro pagando di persona sia ai «confini del mondo» che nell’anonimato del vissuto quotidiano, «interferendo» («il parlar chiaro che è contrario all’ipocrisia», dice Don Ciotti) nella cultura di morte con scelte di vita e gratuità.

Gigi Anataloni




Remolino: l’utopia resiste (seconda parte)

Viaggio nell’Amazzonia Colombiana, Là dove il cacao fa fatica a rimpiazzare la Coca.
Arriviamo finalmente a Remolino dove p. Giacinto Franzoi aveva
lanciato il sogno del Caquetà senza coca. Il sogno non è morto, ma certo
richiede un grandissimo coraggio a tutti coloro che vi si impegnano di persona.
Rimpiazzare la coca con il cacao è un’impresa ardua in un territorio dove
mancano le strade, e i trasporti sono costosissimi.

Ci fermano a un posto di blocco
vicino a un villaggio chiamato Km 52, perché lì, fino a poco tempo fa,
terminava la strada. L’esercito, non soddisfatto dal semplice controllo del
passaporto, perquisisce l’auto. I militari sono tutti molto giovani, tra i 18 e
24 anni, e per la maggior parte di origine afro. Sono gentili ma ci fa effetto
vederli con quei mitra indosso e le dita sul grilletto pronti a sparare.

Intanto osserviamo le case, baracche di legno con tetto di
lamiera, cani, galline, il recinto per i maiali, e la gente, che si muove a
cavallo e con il laccio, e la piccola scuola che, come tutte le altre
intraviste lungo il tragitto, è dipinta di azzurro.

Arriviamo a Cartagena del Chairà, dove termina la strada sterrata.
Abbiamo viaggiato tutto il giorno arrivando alla casa dei missionari per cena.
Lì ci raggiunge p. Emilio. Arriva direttamente da Bogotá dopo aver affrontato
un lunghissimo viaggio in pullman attraverso le Ande e la pianura. P. Emilio ha
29 anni: il più giovane prete del Vicariato apostolico di San Vicente. Si è
appena laureato e, malgrado la stanchezza, ci accoglie con un sorriso limpido e
solare. Lui è responsabile della parrocchia di Remolino, villaggio lungo il
fiume Caguan, a circa 200 km di distanza, raggiungibile in barca in quasi
cinque ore di fiume. Remolino è la nostra prossima meta.

A tutta velocità sul fiume

Partiamo verso le dieci del mattino dal piccolo porto fluviale
presidiato da numerosi militari, che controllano di nuovo documenti e bagagli.
Il biglietto costa l’equivalente di 40 euro, una cifra sproporzionata rispetto
al costo della vita in questi posti. Ma non c’è alternativa per raggiungere i
villaggi della foresta. All’ora fissata per la partenza il lizador (la
motobarca veloce) ha ancora parecchi posti vuoti per cui si attendono
pazientemente i passeggeri ritardatari. Alla fine non solo i quindici posti
sono tutti occupati, ma aggiungendo i bambini in piedi e quelli in braccio
siamo venticinque persone più il bigliettaio in equilibrio sulla prua. Alcuni
passeggeri chiedono a p. Emilio di dire una preghiera per affidare il viaggio
e, sotto lo sguardo stupito di un giovane militare armato di fucile, preghiamo
tutti insieme. Si parte!

La navigazione è pericolosa: il nostro pilota fa lo slalom tra
gorghi, banchi di sabbia, reti da pesca, tronchi e altro materiale che
galleggia sull’acqua. I naufragi sono
frequenti, tanto che il vicariato ha dovuto proibire ai sacerdoti, essendone già
annegati due, di pilotare personalmente l’imbarcazione della parrocchia.

Durante il viaggio non ci siamo mai stancati di osservare le rive:
il paesaggio ondulato ha ben presto lasciato il posto alla pianura. Zone
disboscate, alcune coltivate a palmeto, altre tagliate di recente e adibite a
pascolo si alternano alla selva; alberi ad altissimo fusto, fitto sottobosco,
bianchi uccelli che al tramonto paiono fosforescenti; la laguna è molto varia!
Vi dimorano tartarughe che si mimetizzano perfettamente sui tronchi e diverse
specie di pesci tra cui una della famiglia dei piraña, commestibile. Di tanto
in tanto palafitte isolate o raggruppate in piccoli villaggi. Gli spostamenti
avvengono esclusivamente via acqua, a cavallo o a piedi attraverso la selva,
percorrendo distanze spesso lunghissime. I colonos vivono praticamente
isolati in grandi famiglie, dove è sempre la donna a farsi carico di
responsabilità e fatiche. Frequentemente l’uomo abbandona la famiglia per
andare a formae una nuova, o si ubriaca di birra o auguardiente, una
bevanda alcornolica che sa vagamente di anice.

Sulla barca non c’è la possibilità di muovere un muscolo, teniamo
gli zaini appoggiati sui piedi. Ma c’è molta collaborazione: ci si scambia
sorrisi, chiacchiere e cibo; ci si aiuta per i bagagli; i giovani cedono i
posti più agevoli agli anziani. Dopo alcune fermate dove scendono e salgono
nuovi passeggeri (in modo che il lizador sia sempre stracarico)
attracchiamo a Piñacolorada, il posto di blocco dell’esercito. Sbarchiamo tutti
lasciando i bagagli a bordo perché possa essee verificato il contenuto: altro
controllo di documenti e perquisizione. Sulle pareti della casermetta sul fiume
sono incollati gli avvisi di taglia dei guerriglieri ricercati e gli elenchi
delle sostanze trasportabili per le quali non si può superare un certo
quantitativo: benzina, cemento, medicinali a uso veterinario, cioè tutti quei
prodotti chimici che potrebbero essere adoperati per ricavare la cocaina,
proibita dal governo e prodotta e trafficata dai guerriglieri per finanziarsi.

Remolino

Finalmente ci reimbarchiamo e raggiungiamo la nostra destinazione.
Allo sbarco, un altro controllo da parte di un giovanissimo soldato. Ci avviamo
per un sentirnero melmoso; ovunque uomini armati: il rapporto è di un militare
per abitante. Lo stato presidia questo luogo perché qui c’erano ben 18
laboratori attrezzati per la produzione della coca. Tuttavia più di 10 anni di
presidio militare non hanno fermato il narcotraffico, che si è spostato più
all’interno fino a raggiungere il bacino dell’Orinoco nel Potumayo. Lo si è
reso solo un po’ più difficoltoso. Questo spiega anche perché la strada finisca
a Cartagena del Chairà: l’unica via fluviale è molto più controllabile.

Anche se ora sembra impossibile, nei primi anni ‘90 Remolino era
molto popolato e il giorno di mercato i dollari giravano a sacchi. Piccoli
aerei privati atterravano a decine in piazza per caricare la pasta di coca. La
situazione era pesante. Per questo nel 1989 l’allora parroco, p. Giacinto
Franzoi, lanciò un progetto per liberare i suoi parrocchiani dalla schiavitù
della coca. Con lo slogan «No alla coca, sì al cacao» iniziò la prima
distribuzione di sacchetti di semi di cacao e di caucciù. L’obiettivo era di
sostenere i colonos nel passare ad una coltivazione alternativa di
prodotti che sono ricchezza di vita della foresta, ma il cui ricavato è
purtroppo decisamente inferiore a quello della coca. (vedi MC ottobre 1996,
numero monografico «Non di sola coca»
)

Per sostenere il progetto p. Giacinto e gli altri missionari del
vicariato apostolico chiesero aiuto a tanti amici. Così, nel 1996, un gruppo di
italiani si recò in quelle zone per conoscere e valutare. Al rientro in Italia
iniziarono una grande campagna denominata «Non di sola coca – quando impegnarsi
serve» per far conoscere i retroscena del narcotraffico e, in particolare, la
drammatica situazione dei campesinos. I risultati dell’iniziativa furono
incoraggianti. Nacque così l’associazione Impegnarsi Serve Onlus che,
ancora oggi, continua a collaborare con la chiesa locale colombiana.

Remolino oggi

A Remolino molte cose sono cambiate da allora. Il progetto non è
morto, ma certo ha incontrato molte difficoltà. Molta gente se n’è andata. Oggi
i 300 abitanti rimasti vivono – si fa per dire – piantonati dai soldati, che a
loro volta non vivono ma guardano gli altri vivere. La presenza dell’esercito
non ha solo lo scopo di tenere a bada i guerriglieri, che ormai si sono
ritirati sulle montagne, ma piuttosto di mantenere una sorta di equilibrio
instabile laddove si sono subite violenze tali da innescare una catena infinita
di vendette.

Ciò nonostante qualcuno crede ancora che si possa vivere senza
coca e prova ad andare avanti, come la famiglia che la sera del nostro arrivo
ci ha invitato a cena con p. Emilio. Sono papà e mamma e cinque figli, insieme,
per amore, hanno accettato di vivere qui e hanno aperto una piccola attività
commerciale e provano a resistere. Lo stesso vale per Miguel che si è
trasferito a Remolino da Piñacolorada: ha un bimbo piccolo e gestisce una
drogheria. Si dedica al volontariato e spera che le cose cambino in meglio.
Incontrando queste persone comprendiamo come sia importante non abbandonarli a
se stessi.

Cammino comunitario

A Remolino la corrente elettrica è disponibile solo per qualche
ora alla sera. Perciò nel presidio medico non si possono conservare i
medicinali, come i sieri antiveleno. Anche conservare il cibo a queste
temperature è un grosso problema con conseguenti malattie intestinali
soprattutto nei bambini. Per la stessa ragione la fabbrica di cioccolato Chocaguan,
fiore all’occhiello del progetto alternativo alla coca, è operativa solo per
quelle poche ore serali e non riesce a smaltire la grande quantità di chicchi
di cacao che arrivano dai contadini.

L’aspetto positivo è che quando c’è l’elettricità molti della
comunità si ritrovano nelle «case-bar» per chiacchierare, bere e sentire musica
ad alto volume. In tali occasioni, attraverso un altoparlante, sono comunicate
anche le decisioni che riguardano la comunità, prese da un comitato che si
consulta continuamente con tutti.

Funziona magnificamente l’Aldea, una casa fattoria dove
ragazzi e ragazze delle superiori sono ospitati dalle suore perché possano
frequentare la scuola pubblica (provengono tutti da villaggi sparsi nella
foresta). Vengono seguiti nell’apprendimento e dedicano alcune ore alla
coltivazione dei campi e alla cura degli animali (le 40 mucche da latte
permettono la produzione di 50 kg di formaggio al giorno). Imparano così un
mestiere, ma soprattutto sono formati a resistere alla violenza. In queste
realtà, infatti, la violenza è considerata una normalità. Per questo occorrono
testimonianze tangibili che la nonviolenza, il perdono e la riconciliazione
pagano. Nella finca (i campi) della fattoria oltre agli ortaggi si
coltivano caucciù e cacao. Per quest’ultimo è in atto una sperimentazione con
l’università in modo da creare ibridi di qualità superiore per resistenza e
produzione.

Una valutazione

1. Quali sono le attività principali che caratterizzano la lotta
contro la coca in Remolino?

Il Vicariato di San Vicente ha avviato un notevole lavoro di rete
con le istituzioni locali, per portare avanti piste alternative. Con lo stato,
per esempio, ha concordato la possibilità di inserire il Chocaguan (il
cioccolato prodotto a Remolino) nel piano alimentare per le scuole, favorendone
la diffusione. Con l’Università Amazzonica Colombiana ha implementato un piano
di studio sui semi del cacao per individuare quelli di miglior qualità e
produzione. La collaborazione con tale università è già ben avviata e le piante
nate dai nuovi innesti sono già visibili nella finca. Per cui il colono è
aiutato dalla popolazione locale per il disboscamento e la preparazione del
terreno; i tecnici dell’Università lo assistono per le nuove sementi e
controllo della crescita delle nuove piante, il progetto Chocaguan
garantisce il pagamento del prodotto.

2. Quali i risultati raggiunti?

Il risultato principale è la creazione di una nuova mentalità
almeno nei contadini direttamente coinvolti nel progetto, il cui numero però
non ci è stato possibile verificare.

3. Quali le difficoltà da risolvere?

Una è la carenza di energia elettrica. Il problema principale però
rimane il costo del trasporto fluviale, che incide moltissimo e rende il
prodotto finale (cioccolato) non competitivo con quello delle grandi
multinazionali.

4. Quali sono le prospettive?

Purtroppo il cacao e il caucciù, a Remolino, non saranno mai competitivi
rispetto alla coca. Ma ciò non significa che non ci sia speranza. Si sta
lavorando sulle nuove generazioni perché possano crescere con una mentalità
differente, con una migliore capacità professionale sul piano agricolo, con
accesso a una varietà maggiore di prodotti e una più profonda coscienza e
conoscenza dell’impatto ambientale del loro lavoro. Se i giovani crescono, fin
da bambini, in questo clima e ambiente, ci sarà un futuro per questo progetto e
questa utopia.

5. Vale la spesa investire ancora nel progetto o è una battaglia
perduta?

Eccome! Perdere la speranza è come perdere la vocazione. Per
questo il vicariato sta investendo moltissimo nel creare rete e nell’approccio
polivalente (governo, università, sostenitori inteazionali, volontariato) al
progetto. Apparentemente tale lavoro non porta grossi miglioramenti immediati e
non genera grandi ritorni economici, in realtà porta i cambiamenti più radicali
e profondi, quelli che creano una nuova mentalità.

6.
Chi altro dovrebbe essere coinvolto nel progetto?

Cacao e caucciù non saranno economicamente più allettanti della
coca fino a che non ci sarà un grande cambiamento di mentalità, non solo nei campesinos,
ma soprattutto nei consumatori a livello internazionale. La militarizzazione
del territorio non risolve i problemi. Una soluzione a lungo termine richiede
di investire in strade, trasporti e infrastrutture che sostengano i contadini
che davvero vogliono un’Amazzonia senza coca.

7. La Chiesa locale crede ancora nel progetto o lo subisce?

Qualcuno lo subisce, ma per fortuna l’équipe del vicariato è una
sorgente di vita e di speranza che non smette di mettersi in ascolto della
realtà per affrontarla ascoltando il soffio dello Spirito. In particolar modo
il vescovo Munera, vero uomo di Dio.

Stefania Biagini
 
_____________________

Per
le foto ringraziamo:
Angelo Casadei, Fabio Vasini, Marta Faccaro e Giacomo Lazari.

___________________

Sulla
tematica coca e cacao vedi:

Angelo Casadei, Rinascere si può,
MC 6/2008;
Semana, Un prete per la pace, MC, 6/2006;
F. Rezzadore, Viaggio
in Caquetà
, MC 12/2005;
Francesco Beardi, Amico, non essere oca, MC
5/1998;
Carlos Garcia Perez, Il Coraggio della sfida, MC 4/1997;
Aa.Vv.,
Colombia: non di sola coca, MC 9-10/1996, numero monografico.

Clicca sulla copertina
del numero monografico
per andare alla versione sfogliabile
nella collezione storica della rivista.

Clicca sull’icona qui a destra
per vedere il video documentario
di P. Angelo Casadei, imc,
sulla coca e il progetto cacao.

Stefania Biagini




Dalla Signoria di Dio alla Sudditanza a Cesare | Rendete a Cesare (3)

«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

«Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei» (Gv 19,19)

Utilizzare la moneta dell’imperatore significa riconoscerne formalmente l’autorità, in cambio della possibilità di usarne i benefici per il commercio, lo scambio economico e la vita quotidiana. In questo modo chi detiene la moneta porta con sé l’immagine dell’imperatore e ne favorisce il potere. Quando vivevo in Palestina, vedendo i miei amici palestinesi che spesso manifestavano contro Israele e gli Usa, facevo loro notare una contraddizione: non era possibile contestare gli Usa, bruciandone la bandiera, vestiti con i jeans americani e calzando le scarpe nike! Nemmeno potevano andare all’assalto d’Israele con in tasca lo «shèkel», la moneta ufficiale ebraica. La prima rivoluzione deve essere morale, rifiutando i simboli del nemico, specialmente se tornano utili.

La rivoluzione di Gandhi contro il dominio inglese cominciò dal rifiuto di indossare i vestiti confezionati in Inghilterra e dal rifiuto di usare la moneta con l’effige della regina. In pochi mesi crollò l’industria tessile inglese e con essa il protettorato sull’India.

Cesare: l’idolo dei capi dei sacerdoti

Nel rispondere che l’immagine   è «di Cesare», i capi religiosi si sono condannati da soli, svelando il loro doppiogioco, fatto di compromessi e interessi: da un lato difendono la «purità» della loro religione, il cui Dio non ammette «altri dèi di fronte a me» (Es 20,3); dall’altro, essi non esitano a contaminarsi nella vita di ogni giorno, corrompendosi con l’uso della moneta come strumento di scambio per l’acquisto di beni. Nel rispondere a Gesù, infatti, essi hanno dovuto prendere una moneta dalla loro sacca, testimoniando così che non solo accettano l’autorità di un re usurpatore, ma che usufruiscono anche dei suoi benefici, senza rendersi conto delle conseguenze: usare le monete coniate da un re straniero e invasore, significa legittimare anche l’invasione della loro terra, che è terra di Dio, e dichiararsi sudditi di chi li ha privati della libertà e della loro dignità. Il procuratore romano, infatti, per affermare la suprema autorità dell’imperatore «divus Caesar», su tutto Israele, teneva in custodia la veste solenne del sommo sacerdote, il quale la riceveva dalle mani imperiali tutte le volte che era necessario; alla fine del servizio liturgico la veste doveva essere riconsegnata. Un’umiliazione totale: anche il «dio straniero d’Israele» doveva inchinarsi davanti al «divino Cesare». La risposta di Gesù è duplice. «E pertanto/di conseguenza, restituite [una volta per tutte] le cose di Cesare a Cesare» (per la morfosintassi v. la 1a puntata in MC 3, 2013, 33-34): se accettate l’autorità di Cesare, pur essendo un usurpatore dei diritti di Dio e del popolo e se ne beneficiate perché trafficate con il suo denaro che utilizzate a vostro vantaggio per i vostri affari, è vostro obbligo obbedirgli, pagando anche le tasse che la sua autorità impone, perché non fate altro che restituire a Cesare ciò che gli appartiene. In altre parole, Gesù condanna scribi e sacerdoti che, servilmente e liberamente si sottomettono a un’autorità che hanno accettato, ben sapendo che essa non avrebbe potuto imporre tributi se non ai propri sudditi che controlla e domina perché li gestisce come estranei e non come figli: «I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei? Rispose [Simone]: “Dagli estranei”» (Mt 17,25-26).

Se i Giudei utilizzano i benefici di Cesare, non possono lamentarsi se pagano il pedaggio sui servizi che l’uso della moneta comporta. Fare pagare le tasse, infatti, è un diritto di Cesare perché esse sono il «prezzo» dei servizi esercitati. Gesù, in questo modo, con una risposta lapidaria, mette sul banco degli accusati l’autorità religiosa del suo tempo perché si è posta fuori dell’autorità di Dio per passare alla sudditanza di Cesare di cui accetta il denaro come strumento sociale e comunitario. Il possesso di «quella» moneta è un’apostasia perché contravviene il comandamento del divieto delle immagini: «Non vi farete idoli, né vi erigerete immagini scolpite o stele, né permetterete che nella vostra terra vi sia pietra ornata di figure, per prostrarvi davanti ad essa; poiché io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 26,1). La conseguenza è tragica: chi accetta l’autorità di un’immagine scolpita nel bronzo che raffigura l’«idolo» Cesare, significa che ha trasmigrato dal Dio che non può essere raffigurato e che «i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere» (2Cr 6,18). La conseguenza è logica: chi usa la moneta con l’immagine di Cesare rinnega la regalità di Dio perché «un servitore non può servire due padroni» (Lc 16,2).

Amare Dio con tutto il cuore

Gesù non si lascia scappare l’occasione per richiamare i capi religiosi alla verità della loro coerenza e li invita a ritornare «al principio», cioè all’autorità di Dio da cui si sono allontanati per sottomettersi a Cesare. Egli, infatti, con la seconda parte della sua risposta, li porta di peso nel cuore dell’Eden, quando Dio inventò l’umanità, costruendola «a sua immagine e a sua somiglianza» nella prospettiva di Genesi 1,27: «e [ridate/restituite] le cose [che sono] di Dio a Dio». Gesù non ha alcun orizzonte politico con questa frase, perché il contesto in cui si muove è solo ed esclusivamente religioso, anzi teologico. Qui si tratta di antropologia teologica e non di una banale distinzione di poteri tra «Chiesa e Stato», un concetto estraneo a Gesù, almeno nella portata che noi oggi attribuiamo a esso, alla luce dei concordati pattizi.

Quando si legge la risposta di Gesù, non bisogna correre, ma avere attenzione e fare una lunga pausa tra i due imperativi uniti e separati dalla congiunzione copulativa di valore avversativo «e»: rendete a Cesare quello che gli appartiene, perché è suo di diritto (la moneta con la sua effige), e/piuttosto… [lunga pausa] convertitevi/ritornate a Dio che vi ha creato a sua immagine e somiglianza perché siete voi l’effige che rende visibile il Creatore nel mondo. È un invito a ritornare alla dignità di figli di Dio da cui essi hanno abdicato perché si sono venduti come schiavi a un’autorità illegittima. È l’appello radicale alla conversione, spezzando la confusione tra un «Cesare», che pretende di essere di natura divina, e «Dio», che esige «l’immagine» del suo popolo come segno visibile della sua presenza nel creato. Cesare si faceva chiamare «Divus» per cui accettarne l’autorità e trafficare con il suo denaro che lo raffigura, è un atto di ribellione al Creatore perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. L’Ebreo che vi si sottomette contravviene al precetto tassativo di non farsi idoli (Es 20,4; Dt 4,16): «Gli idoli delle nazioni sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono; no, non c’è respiro nella loro bocca» (Sal 135/134, 15-17).

L’opposizione che Gesù pone tra Cesare e Dio è di natura religiosa, non politica. Si tratta di scegliere tra due regalità: quella del Dio creatore e liberatore oppure quella di Cesare imperatore. È una scelta tra due prospettive di vita: da una parte sta Dio che crea a sua immagine per la libertà e dall’altra sta Cesare che con la sua immagine conia un impero di schiavitù. È in gioco la scelta radicale della vita tra il Dio che regna in Israele e Cesare che occupa illegalmente la terra d’Israele. Cesare non può pretendere l’adesione interiore, che, invece, scribi e sacerdoti gli concedono, usando la sua moneta. Non si tratta della gestione del potere tra due ordini diversi, ma dell’opposizione radicale tra due irriducibili: o Dio o Cesare. Non è in gioco «una parte» ma «tutta» l’esistenza perché riguarda due mondi: quello di Dio che stipula l’alleanza con i figli di Abramo e Cesare che impone le tasse ai sudditi che vivono in Palestina.

Nota di attualità. Questo brano è un appello alla Chiesa in ogni tempo, e, nella Chiesa, specialmente a chi esercita il servizio dell’autorità perché stia sempre attento nella scelta delle cose che riguardano questo mondo. Il cristiano vive il mondo con distacco perché il suo cuore è teso al Regno di Dio. Ricchezza, potere, successo, denaro non sono obiettivi primari e nemmeno secondari, perché l’impegno del credente è di avere sempre coscienza di essere custode e garante del giardino di Eden che deve consegnare alle generazioni future, fino alla fine del mondo. Quando l’autorità religiosa si rapporta con i potenti della terra, mai deve dimenticare le parole di Gesù che mette sull’avviso di non tradire mai l’immagine di Dio per nessun interesse, perché Dio vien prima di tutto: è lui e solo lui che bisogna amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Il resto viene dal maligno.

Ritorno al principio: l’uomo «immagine di Dio»

Quella di Gesù è una risposta ad hominem, cioè puntuale, connessa alla domanda con cui argomentano «scribi e sommi sacerdoti» (cf Lc 20,19).

Nota STORICA. Gli scribi erano i letterati dell’epoca, coloro che spiegavano la Scrittura al popolo, che davano indicazioni di vita e di condotta, che dirimevano interrogativi d’interpretazione della Parola di Dio; cioè svolgevano la funzione di maestri. Il sommo sacerdote era uno solo e svolgeva il compito di capo del sinedrio, composto da settanta membri comprendenti sacerdoti, anziani e scribi. Il sommo sacerdote emerito vi partecipava di diritto. Al tempo di Gesù vi era il sommo sacerdote Caifa, eletto nell’anno 18 dal procuratore romano Valerio Grato e rimasto in carica fino al 36. Egli era subentrato al suocero, Anna (o Anano o Ananiah) che pertanto era membro attivo del Sinedrio. Per questo il vangelo parla di «sommi sacerdoti».

Come massima autorità in Israele essi avrebbero dovuto avere il discernimento per valutare le «cose di Dio», avendone gli strumenti adeguati che sono la Scrittura e la tradizione dei padri. Invece, non solo inducono il popolo nell’errore, ma essi stessi si rendono colpevoli perché, contravvenendo agli insegnamenti della Toràh, si adeguano a portare monete con l’effige dell’imperatore. La risposta di Gesù non è pacifica e superficiale e tanto meno si può ridurre a una pronuncia sulla legittimità del potere o dell’autorità. Gesù non dice se l’autorità di Cesare è lecita o illegittima, se ha diritto o no. Egli si limita a prendere atto della situazione descritta dall’immagine della moneta: «Di chi è questa immagine»? La questione in gioco è molto più radicale e parte da un dato di fatto: scribi e sacerdoti sono coinvolti nel riconoscimento di un’immagine che non è quella di Dio. Di fronte all’inchiesta che fa Gesù, essi affermano e confermano che quella immagine è «di Cesare». Gesù non ha dubbi perché essi sanno quello che fanno: Preso atto che voi state parlando di Cesare, il romano, ebbene io vi dico: dategli quello che gli appartiene; ma a voi dico io, di mia iniziativa: ritornate a Dio che vi ha creato come sua immagine. Nelle parole di Gesù si trovano due risposte.

  1. a)    Una diretta (ad hominem) alla constatazione ovvia di scribi e sommi sacerdoti che l’immagine è di Cesare, per cui se essi stessi dicono che «è di Cesare», allora è giusto che la moneta sia restituita al legittimo proprietario perché è impropria nelle mani degli scribi e dei sommi sacerdoti.
  2. b)    La seconda parte della risposta è un’affermazione «teologica», autorevole e autoritativa di Gesù che richiama i suoi interlocutori alla «teshuvàhmetànoia» che non è solo un cambiamento di comportamento, ma un radicale capovolgimento del criterio di pensare e scegliere. La conversione cui si appella Gesù comporta una decisione esistenziale che parte dall’intimo per avviarsi verso una prospettiva di vita che abbia come orizzonte solo il Regno di Dio. È l’invito al ritorno al Dio della creazione di cui, essi, guide liturgiche e morali del popolo, hanno usurpato l’immagine rendendola impura. Usando il denaro con l’immagine di Cesare, essi hanno apostato dalla fede e hanno commesso un sacrilegio.

L’immagine e il progetto di Dio

Per comprendere la risposta di Gesù bisogna rifarsi a Genesi 1,27, secondo cui Dio «creò Adam (= genere umano) a immagine di Dio (ebr.: bezelèm ‘elohim)» che la Bibbia greca della Lxx, usata dalla prima comunità cristiana, traduce con il termine «èikon» (gr: κατ΄ εικόνα θεου – kat’eikòna theû; lett.: secondo l’immagine di Dio». Con questa espressione l’autore biblico, circa cinque secoli prima di Cristo, definisce il fondamento ontologico della consistenza di Adam, inteso come genere umano, composto di uomini e donne. La persona umana, in quanto natura relazionale, è «immagine» di Dio, nel senso che «uomo-donna» è intimamente legato non nell’apparenza, ma nella sostanza. In altre parole, è il genere umano come tale che è «immagine» e, in esso, ogni individuo in quanto persona, compresi gli scribi e i sommi sacerdoti. Da tale struttura antropologica esistenziale nessuno può abdicare, pena l’inconsistenza, la morte.

Nella cultura orientale (assira, sumera, babilonese, ecc.) ogni sovrano segnava i confini del proprio regno con «statue» raffiguranti la sua «immagine»: chiunque la vedeva doveva riverirla in segno di accettazione dell’autorità del re che rappresentava. Allo stesso modo, ogni sovrano incideva la propria immagine nelle monete di uso corrente sia per farsi meglio riconoscere da chiunque ne venisse in possesso, sia per affermare il diritto della propria autorità su chiunque le utilizzasse come moneta di scambio.

Anche il Dio biblico della creazione si comporta come un re orientale: in Gen 2, secondo il racconto jahvista, egli crea con la polvere del suolo, come un vasaio o un artista della creta, la sua «statua» bifronte, Adam ed Eva, che pone nel giardino di Eden come suo luogotenente e fiduciario, come sua «Presenza». La coppia è il rappresentante di Dio nel creato perché esso, guardando l’immagine del creatore, possa essere riportato al fondamento della propria esistenza. In Gen 1, il racconto sacerdotale lo afferma espressamente come «dottrina»: l’essere umano, in quanto sessuato, è «immagine» di Dio creatore. La terra e il cosmo, cioè l’ordine della creazione, sono lo scenario di sfondo, dove Dio colloca il riferimento alla sua autorità: l’uomo-statua, richiamo permanente alla «signoria» di Dio.

L’immagine di Dio posta sulla terra non ha un compito passivo, ma riceve il potere delegato di «dare il nome» agli animali; in oriente «dare il nome» significa avere il potere di vita e di morte su ciò di cui si conosce il «nome», cioè la natura intima e profonda (Gen 2,19-20). La statua/immagine, però, ha un limite strutturale: esercita solo un potere vicario che esige l’ascolto e la tensione all’altro. Gen 2,15 è esplicito a riguardo: «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» secondo la traduzione del greco della LXX. L’ebraico, invece, usa due verbi straordinari: «Dio pose Adam nel giardino di Eden perché lo servisse e l’osservasse/custodisse»1. Non padroneggio, ma dipendenza umile e attenta.

Il primo verbo indica il servizio liturgico, cioè la dipendenza affettiva e vitale, per cui l’uomo compie un atto sacro da cui dipende progresso o regresso. Il secondo verbo è squisitamente giuridico perché è riservato all’«osservanza» della Toràh e dei precetti. Il rapporto che c’è tra l’uomo e le realtà terrestri è un rapporto che lega giuridicamente e costringe l’uomo ad «ascoltare» il mondo e le cose (in ebraico c’è assonanza tra «shama’ – ascoltare» e «shamàr – osservare/custodire». Da ciò nasce l’unione indissolubile tra l’individuo e l’ambiente naturale.

Liberando Israele dalla schiavitù di Egitto, Dio è diventato l’unico re e la sola autorità da cui il popolo dipende, e in esso ogni Israelita. Mosè e i profeti sono luogotenenti, intermediari portavoce. Nulla di più. L’istituto del regno non è mai attecchito in Israele e, infatti, è durato solo due secoli. Israele ha Dio come re di cui è «immagine» rappresentativa o come si direbbe oggi, garante di credibilità. La credibilità di Dio, infatti, passa attraverso la «sua immagine» che è l’uomo non in quanto maschio, ma in quanto essere vivente in relazione. Il testo ebraico usa un’espressione forte, descrittiva della natura umana: «zakàr we neqebàch = pungente e perforata» che le traduzioni rendono più poveramente con «maschio e femmina»2.

È questo il contesto in cui si svolge l’intervista tra Gesù e «gli scribi e i sommi sacerdoti». Se Gesù avesse risposto che non è lecito pagare le tasse, lo avrebbero denunciato all’autorità romana e sarebbe stato messo a morte per insubordinazione e attentato allo stato; se avesse risposto che bisogna pagare le tasse all’imperatore e al senato di Roma, lo avrebbero denunciato al popolo che odiava i Romani e i gabellieri giudei che considerava alla stessa stregua dei pagani. Nell’un caso e nell’altro Gesù sarebbe stato comunque «morto», ma senza porre la questione teologica ed esistenziale di fondo: la natura dell’umanità e la sua funzione all’interno del creato e della società.

Riconoscendosi «immagine» dell’imperatore, di cui accettano la moneta simbolo della sua autorità, essi sconvolgono l’ordine del creato, capovolgendo la natura umana e il fine dell’esistenza. Non è solo una questione banale di separazione tra poteri politici, ma la questione radicale se Dio è il Creatore e se l’uomo, nella sua natura di «pungente e perforata», ne è il segno e la presenza di garanzia nel mondo.

(continua – 3).

 1 Sull’esegesi del versetto in tutta la sua valenza cf il nostro: Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli Editore, 2008, 67-75. 2    Sull’esegesi dell’espressione in tutto lo splendore del testo ebraico, cf Ibidem, 61-65.

Paolo Farinella

 




Cari Missionari

COSì STA SCRITTO

Cari
Missionari,
mi unisco a quanti hanno manifestato riconoscenza ed entusiasmo per il favoloso
lavoro di esegesi biblica svolto in questi anni da don Paolo Farinella sulla
parabola del figliol prodigo e sul racconto del miracolo di Cana.

Anche
la nuova avventura è iniziata alla grande e un risultato importante don Paolo
l’ha ottenuto già con la scelta del titolo. Infatti la famosa frase di Gesù a
torto continua a essere tradotta con «date a Cesare quel che è di Cesare»,
mentre la traduzione corretta è «restituite (o, appunto, «rendete») a Cesare
quel che è di Cesare».

Troppe
volte l’errata traduzione ha spianato la strada a spiacevolissimi equivoci,
tipo «l’ha detto anche Gesù che bisogna pagare le tasse anche se sono ingiuste»
o «lo dicono anche le Sacre Scritture che le tasse vanno pagate sempre anche se
chi le esige è un mascalzone» (erano questi i termini in cui nell’estate del
2007 si esprimevano l’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi e alcuni dei
suoi ministri).

Quando
raccomanda di non rubare, di non frodare, di non ingannare il prossimo e di
onorare quelli che oggi chiamiamo «obblighi fiscali» e qualche volta
addirittura «fedeltà fiscale», Gesù usa verbi (apodecatoo, didomi, ballo)
diversi da quello che usa nel momento in cui risponde ai farisei e agli erodiani
sulla questione del tributo a Cesare.

Sia
in Matteo, sia in Marco, sia in Luca il verbo usato da Gesù è apodidomi
che anche don Paolo ha ritenuto di dover tradurre con «rendete» non con «date».
Questo stesso verbo, apodidomi, è il verbo che ritroviamo in bocca
all’esattore Zaccheo (cfr. Luca 19,8) quando, divenuto consapevole degli abusi
compiuti ai danni dei contribuenti e desideroso di iniziare un cammino di
conversione, si impegna davanti a Gesù a «restituire» quanto ingiustamente
prelevato alla collettività. Un capovolgimento di prospettiva che don Paolo non
mancherà di approfondire con quei meravigliosi itinerari ai quali ormai ci ha
abituato. Grazie
per l’attenzione.

Francesco Rondina, Fano
23/03/2013 

Spett.le
redazione,
seguo già da tempo il vostro sito, in particolare la rubrica «Così sta scritto»
di don Paolo Farinella, le cui esegesi uso per il corso di cresima agli adulti
e per le giornate di ritiro spirituale che svolgiamo con il nostro gruppo
(R.n.S.). Sono felice che don Paolo continuerà la sua attività e, in modo
particolare, della scuola di Sacra Scrittura che inizierà nei prossimi mesi (la
aspetto come la «cerva che anela ai corsi d’acqua»). Volevo semplicemente
ringraziarvi per quello che fate. Cordiali
saluti,

Salvatore Di Peri
14/03/2013

Beneficenza  e Carità

Leggendo
le parole dell’editoriale di marzo, mi sono identificato nello «spirito» dello
stesso. Trovandomi da anni coinvolto in esperienze missionarie in Kenya e
Tanzania, ho organizzato incontri ove esponevo e condividevo ad amici, colleghi
ed estranei la mia, anzi la nostra (da quando ho conosciuto, in Kenya, mia
moglie) esperienza tra i missionari, non solo della Consolata ma anche di altri
ordini, e con la gente locale.

Quello
che vivi, provi, senti e ti entra dentro il cuore in Africa non puoi tenertelo
dentro e pertanto è di fondamentale importanza condividerlo, cercando di far
capire che non esiste solo il nostro «ego» ma esistono anche bambini e adulti
che, senza colpe, sopravvivono giorno dopo giorno, vedendo calpestata la propria
dignità di esseri umani. È difficile indovinare a fondo quanto prova la gente
di fronte alle immagini, ai filmati e ai racconti, ma si percepisce comunque un
certo distacco, una lontananza ancorata al proprio quieto vivere, seppur con il
sincero intento di voler fare qualcosa per aiutare. Solamente se stimolata ogni
volta la gente s’interessa nuovamente a queste problematiche, mentre pochi,
direi rari, si sentono così colpiti da fare proprio, dal profondo del cuore, il
concetto di carità efficacemente espresso nell’editoriale. La carità non è un
fare ma un modo di vivere e di condividere tra esseri umani, tra tutti.

Troppa
gente, come padre Gigi sottolinea, è superficiale ed emotiva di fronte alla
carità, agendo quasi per pagare dazio e lavarsi le mani, facendo i «buoni»
senza però essere «buoni» fino in fondo, senza cioè fare propria la profondità
della carità-amore. Una virtù che dovrebbe essere radicata nei credenti, nei
religiosi, negli uomini di buona volontà ma che purtroppo è spesso soffocata da
ben altre amenità ed è rispolverato a comando solo in talune occasioni.

La
carità non è un concetto astratto, semmai è di difficile attuazione, perché si
pensa che non sia possibile donare al povero se prima non si ha una propria
sicurezza; prima bisogna pensare a se stessi e poi agli altri, agli estranei,
seppur fratelli. Si rischia di passare per «folli» se si dona un paio di scarpe
nuove tenendo per sé quelle bucate. Figuriamoci poi se si arriverà a
condividere la povertà, calzando le malandate scarpe del povero stesso.

Padre
Bergoglio, alias papa Francesco, in poco tempo ha offerto al genere
umano delle occasioni di riflessione e, possiamo dirlo, condivisione. Speriamo
con questo che la sensibilità e attenzione verso taluni concetti come la povertà
e soprattutto la carità possano diventare patrimonio comune, educandoci dal
profondo del nostro cuore e spirito. Asante sana (tante grazie),

Vincenzo e famiglia
Email, 26/03/2013

a cura del Direttore




Perpetua e Felicita

Perpetua
e Felicita, nobildonna cartaginese la prima e schiava/amica fedele la seconda,
sono protagoniste di un evento straordinario di testimonianza della loro fede
cristiana nella città di Cartagine del III secolo. Durante la persecuzione
dell’imperatore Settimio Severo, invitate a bruciare incenso alla statua
dell’imperatore, esse risposero con un fermo rifiuto. Il loro processo è uno
dei rari documenti pervenuti fino a noi di condanna a morte dei cristiani. Esse
sono ricordate nel canone romano dell’Eucarestia.

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Carissime, di fronte a voi che avete saputo dare la vita per essere fedeli a Cristo Signore, mi sento piuttosto imbarazzato. Volete presentarvi?

Perpetua: Sono una giovane donna, di poco più di vent’anni, sposata e madre di un bambino. Appartengo al ceto sociale più alto della città di Cartagine. Nella mia casa vivono anche diverse persone che la logica del tempo considerava schiave, ma che, dopo aver incontrato il Vangelo di Gesù e la sua straordinaria prospettiva di vita, sono diventate per me come fratelli e sorelle, a cui è la mia famiglia che ha la responsabilità di garantire una vita degna.

Felicita: Io, che nella condizione di schiava vivo presso Perpetua, mia padrona, mi sento più una persona di casa che una serva sfruttata per fare dei lavori pesanti.

E com’è che nel III secolo dopo Cristo Cartagine è una delle città più importanti del Nord Africa, parte integrante dell’Impero Romano?

Perpetua e Felicita: La posizione naturale della nostra città ne fa un punto nodale dei traffici, sia per mare che per terra, nonché base di partenza per le carovane dirette verso Sud, verso il grande deserto e allo stesso tempo è un porto strategico per il commercio con Roma imperiale, «caput mundi».

Resto stupito nel vedere che una città dell’Africa lontana da Gerusalemme abbia fra le sue mura, nel III secolo dopo la nascita del Salvatore, una fiorente comunità cristiana.

Perpetua e Felicita: Una delle cose più sconvolgenti che anche a noi stessi causa meraviglia è il constatare come il messaggio di amore e tenerezza portato da Gesù di Nazareth si sia diffuso così velocemente in tutto l’Impero Romano e in modo particolare nell’area mediterranea. Per usare le parole di sant’Agostino, un padre della Chiesa che diede lustro alla nostra terra africana: «Tre sono le cose incredibili e tuttavia avvenute: è incredibile che Cristo sia risuscitato nella sua carne, è incredibile che il mondo abbia creduto ad una cosa tanto incredibile, è incredibile che pochi uomini, sconosciuti, inermi, senza cultura abbiano potuto far credere con tanto successo al mondo, e in esso anche ai dotti, una cosa tanto incredibile!». Difficile non scorgere in questi avvenimenti il piano di Dio.

Cos’ha di così affascinante la Buona Notizia di Gesù di Nazareth da coinvolgere così tante persone e far loro cambiare drasticamente il genere di vita che conducono?

Felicita: Per noi schiavi il messaggio di Gesù di Nazareth è qualcosa di sconvolgente e meraviglioso allo stesso tempo. Nella scala sociale siamo considerati all’ultimo posto e la nostra vita è legata agli umori dei nostri padroni. Venire a sapere che puoi rivolgerti a Dio chiamandolo Padre e scoprire che la tua dignità di persona vale tanto quanto quella dell’imperatore, è sufficiente perché questo nuovo stile di vivere ti conquisti e tu non desideri altro che vivere il Suo amore dando testimonianza di ciò che ha insegnato.

Perpetua: Lo stesso discorso, anche se in maniera diversa, vale per i nobili della società dell’Impero Romano. È straordinario scoprire l’umanità di chi ti circonda e scoprire che nel mondo non conta avere tanti benefici se si ha un cuore arido incapace di accogliere la tenerezza di Dio e l’affetto del prossimo. Il messaggio del Vangelo va ben oltre le aspettative esistenti di un cambiamento, in quanto ciò che viene realmente modificato è il proprio cuore e la propria coscienza, per cui anche coloro che possiedono molto, sentono impellente e bruciante il bisogno di condividere i propri beni con altri più sfortunati di loro.

Come avvenne il vostro arresto?

Perpetua e Felicita: Durante la persecuzione, scatenata contro i cristiani dall’imperatore Settimio Severo, venne emanato un editto in cui ai governatori delle province veniva data la possibilità di «stanare» i cristiani, obbligandoli a bruciare incenso alla statua dell’imperatore, ritenuto dalla religione pagana un dio in terra. Questo per la nostra fede è inaccettabile, quindi fummo fatti sfilare davanti alle autorità romane, le quali avevano messo un braciere acceso ai piedi della statua dell’imperatore e venimmo invitati a gettare un po’ di incenso nel fuoco, attestando così lo status di divinità dell’imperatore. Ovviamente noi ci rifiutammo e fummo arrestati.

E che successe dopo?

Perpetua e Felicita: Nella disgrazia fummo fortunate; in carcere c’erano dei cristiani che alimentavano in noi la speranza, non di essere esentati dai supplizi e dai tormenti, ma di incontrare presto il Signore nel suo Regno e di stare con lui per l’eternità. E siccome noi non avevamo completato l’iniziazione cristiana, essendo ancora dei catecumeni, con noi in carcere era finito anche Satiro, il nostro catechista, il quale provvide, nelle lunghe giornate in cui aspettavamo la sentenza, a completare la nostra formazione e a battezzarci, offrendoci così quella grazia santificante e quella fortezza di spirito più che mai necessaria per affrontare quelle terribili prove che ci aspettavano.

Quali erano le condizioni del carcere?

Perpetua: Terribili! In ambienti angusti, con poca aria e luce a disposizione, erano rinchiuse molte persone, anche se tutti si mostravano gentili e disponibili verso di noi, in quanto io avevo il mio bambino ancora lattante con me, mentre Felicita contava i giorni che la separavano dal lieto evento della nascita di una creatura che aveva in grembo.

Felicita: Pur essendo rinchiusi in celle umide e malsane e con numerosi compagni imprigionati come noi per la loro fede, la mia amatissima sorella Perpetua aveva delle visioni che prefiguravano la nostra entrata nel Regno dei Cieli dopo quella terribile prova, che è paragonabile a ciò che visse Gesù sul Calvario.

E il processo come fu?

Perpetua e Felicita: Fu una farsa, era già tutto stabilito. Gli atti dei nostri interrogatori sono una delle poche pagine giunte sino a voi di come procedeva la giustizia romana verso coloro che considerava dei nemici. Agli inviti che i giudici facevano a noi affinché - vista la nostra condizione - abiurassimo la nostra fede e così ci salvassimo per rimanere accanto ai nostri figli, rispondevamo che alle nostre creature avrebbero pensato i nostri familiari, a noi premeva restare fedeli a Colui che ci aveva dato il vero senso di vivere, il significato di un’esistenza la cui fedeltà a Lui nel momento della morte ci avrebbe spalancato la porta del Regno dei Cieli.

E come vi comportaste voi?

Perpetua e Felicita: Alle domande che ci venivano rivolte rispondevamo con libertà e franchezza, non temevamo affatto il confronto con i nostri persecutori. In alcuni momenti avevamo la sensazione quasi palpabile che a parlare non fossimo noi, ma prestavamo la nostra voce alle risposte che Gesù stesso dava ai nostri inquisitori. Scoprimmo quell’atteggiamento che va sotto il nome di «parresia», ovvero quella franchezza di linguaggio che ci permetteva di rispondere a testa alta e senza remore alle domande più subdole e ai tranelli più iniqui che i funzionari dell’impero romano, ci tendevano.

Come viveste la sentenza?

Felicita: Nel momento in cui veniva pronunciata la condanna a morte che per noi fu applicata nel modo più orribile che si immaginasse a quei tempi, cioè tramite bestie feroci che ci avrebbero sbranati, il marito di Perpetua, che era ancora pagano, proruppe in alte grida invitandola a rinnegare la propria fede, ma la mia padrona, o meglio mia sorella nella fede, rimase ferma nel suo proposito di essere fedele al Signore Gesù e quindi, deposto tra le braccia del marito il suo bambino, si avviò tranquilla verso la gloria dei martiri.

Perpetua: Dopo la sentenza, nei giorni passati in carcere, in attesa che arrivasse una festa in cui ci fossero dei giochi e tra questi lo spettacolo orribile offerto alla folla di belve scatenate che si avventavano contro i cristiani, la mia cara Felicita partorì una creatura che fu affidata a una sua parente. Dopo alcuni giorni, tenendoci per mano, insieme ad altri cristiani, cantando entrammo nell’arena. Lì, guardando con occhi solo umani, si sarebbe consumato il nostro sacrificio, che noi, invece, dal punto di vista della fede, consideravamo l’incontro con il Signore Gesù, questa volta per rimane accanto a Lui per sempre.

Perpetua durante il periodo del carcere mantenne un diario in cui annotò tutto quello che stava vivendo lei e la sua schiava Felicita, ma non poté narrare l’epilogo della loro vicenda. Altri cristiani che assistettero al loro martirio scrissero, descrivendo gli ultimi istanti della loro vita, completando così la loro testimonianza di fede. Ciò che restò come documento scritto divenne un punto di forza e di edificazione. Dalla semplicità dello stile si coglie una fede diamantina e un amore sconvolgente per Gesù, certezza assoluta dei primi martiri cristiani; c’è il coraggio e la fermezza con la quale seppero affrontare i patimenti e la morte nel nome di Cristo, che, gioverà ricordare, ha assicurato ai discepoli di ogni tempo, che i persecutori e gli aguzzini possono uccidere il corpo, ma non possono nulla contro le anime, le coscienze e gli ideali che essi incarnano. Le annotazioni di Perpetua furono poi raccolte nella «Passione di Perpetua e Felicita», opera - si dice - di Tertulliano, padre della Chiesa d’Africa dei primi secoli, per essere consegnati alla memoria futura delle generazioni cristiane.

 
Don Mario Bandera
Direttore Missio Novara
Mario Bandera




Processo di pace: facciamo il punto

In queste pagine offriamo un quadro sintetico della situazione
di conflitto endemico tra stato e guerriglia che da anni insanguina la
Colombia. In questo contesto nel Caquetá, sta nascendo il progetto «Centri
d’incontro e ascolto» da un’idea di p. Renzo Marcolongo, missionario della Consolata
e psicologo clinico con un’esperienza di 24 anni come terapeuta e moderatore di
seminari sull’ascolto empatico.

Colombia. Sviluppo rurale,
partecipazione politica, smobilitazione, narcotraffico e diritti delle vittime
del conflitto. Sono questi i cinque temi discussi dal governo colombiano
guidato dal presidente Juan Manuel Santos e dalle Farc (Fuerzas Armadas
Revolucionarias de Colombia
) nel corso delle negoziazioni lanciate
nell’ottobre 2012 a Oslo, in Norvegia, e continuate poi con i colloqui a
l’Avana (Cuba). I colloqui hanno avuto uno stallo dopo che un momento di
tensione a fine gennaio – il sequestro da parte delle Farc di due agenti di
polizia e l’uccisione di quattro militari – ha rischiato di far saltare il
tavolo delle trattative, ma a marzo il settimo round di negoziazioni si è
svolto regolarmente. Ognuno dei cinque punti nasconde un’insidia sia per il
governo colombiano, che non può permettersi di concedere troppo, sia per i
vertici delle Farc, che non possono permettersi di ottenere troppo poco.

I protagonisti

Il
governo di Santos ha nell’estate 2014 la scadenza per presentarsi al paese con
un successo in tasca: l’anno prossimo, infatti, si svolgeranno le elezioni
presidenziali e legislative e il partito del presidente, a prescindere dalla
decisione di Santos di correre o meno per un secondo mandato, avrebbe un
fondamentale punto a suo favore nella campagna elettorale se potesse affermare
di essere stato la forza politica capace di chiudere il conflitto armato che da
oltre mezzo secolo devasta il paese.

I
rappresentanti delle Farc, dal canto loro, devono fare i conti con
l’indebolimento ormai evidente della loro forza militare, che nel corso degli
ultimi anni ha visto ridursi il numero dei combattenti dai ventimila delle prime
negoziazioni con il governo (tardi anni Novanta) ai circa ottomila della fine
del secondo mandato del presidente Alvaro Uribe (2010). Sotto la presidenza
Uribe, le Farc hanno ricevuto duri colpi dall’esercito colombiano e hanno visto
decapitata la propria dirigenza. Il 2008 è stata l’anno della scomparsa, fra
gli altri, di Pedro Antonio Marín, alias Tirofijo, capo fondatore delle
Farc. Se Tirofijo è morto di infarto, il suo successore, noto come Alfonso
Cano, è caduto invece in seguito a un bombardamento da parte dell’esercito
nella regione del Cauca. Il capo supremo è oggi il cinquantaduenne Rodrigo
Londoño, detto Timochenko, cui spetta il difficile compito di
traghettare fuori dalla clandestinità una compagine in cui fra l’altro esiste
un forte scollamento fra vertici e retrovie.

Secondo
padre Feando Patiño, missionario della Consolata colombiano, una delle chiavi
di volta per i successi dell’esercito sulle Farc è stata la superiorità
tecnologica: «Basta pensare», spiega padre Feando, «a come hanno catturato el
Mono Jojoy, capo militare e secondo nella linea di comando delle Farc, tradito
da un paio di stivali nei quali l’intelligence era riuscita a infilare un
microchip prima della consegna a Jojoy, individuando così l’esatta posizione
Gps del campo nel quale lui si trovava».

Il fantasma del Caguán

Le
attuali negoziazioni non sono le prime nella storia del conflitto fra governo
colombiano e Farc. Il precedente è rappresentato dai colloqui intercorsi fra il
1998 e il 2002 durante la presidenza di Andrés Pastrana. In quell’occasione, il
presidente decise di smilitarizzare la zona del Caguán e di svolgere lì i
colloqui, ma il processo si concluse con un pesante fallimento e con un
rafforzamento delle Farc, che approfittarono dell’assenza di controllo militare
governativo nel Caguán per far entrare grandi quantità di armi. Oggi, però, ci
sono differenze rispetto ai primi anni Duemila, differenze che possono far
pensare a una conclusione positiva dei colloqui. Nel settembre 2012, il
settimanale colombiano La Semana sintetizzava così queste differenze: «Oggi
c’è uno stato più forte da un punto di vista sia politico che militare, mentre
la guerriglia ha vertici molto indeboliti; c’è una strategia chiara per porre
fine al conflitto, strategia che include un pre-accordo e delle regole di
funzionamento; i colloqui si svolgono all’estero e non esigono la sospensione
immediata delle ostilità; infine, pesano l’influenza del defunto presidente
venezuelano Hugo Chavez e dell’accompagnamento internazionale [di Norvegia, Venezuela,
Cuba e Cile, ndr] nei colloqui e il contesto interno colombiano, a metà
di una legislatura di un governo con prospettive di rielezione».

La
scomparsa del presidente venezuelano ha aperto qualche interrogativo sul ruolo
del Venezuela nelle negoziazioni. Il successore, Nicolas Maduro, da Caracas, fa
sapere che in ossequio al giuramento fatto al suo comandante (Chavez, appunto)
il Venezuela continuerà a impegnarsi nel processo di pace colombiano. Christian
Völkel, analista dell’Inteational Crisis Group, osserva poi che per
quanto il ruolo del Venezuela sia stato importante nella fase segreta dei
colloqui, ora le negoziazioni hanno abbastanza forza in se stesse per reggersi
senza bisogno di supporti estei.

I rospi da ingoiare

Bastano
alcuni esempi per farsi un’idea della complessità della situazione. A proposito
del primo punto, relativo alla distribuzione delle terre, secondo Marco Romero,
analista della Consultoría para los Derechos Humanos y el Desplazamiento,
i colloqui dovranno trovare un punto di convergenza fra il modello di sviluppo
agroindustriale, che pare più vicino alla linea politica del governo e agli
impegni che la Colombia ha assunto con i trattati inteazionali di libero
commercio, e l’appoggio al campesinado, cioè ai piccoli agricoltori, che
le Farc indicano come prioritario.

Altro
aspetto da affrontare sarà la partecipazione politica delle Farc: una prima
difficoltà sarà di natura legale, poiché in Colombia una legge impedisce
l’entrata in politica a chi ha pendenze con la giustizia. C’è poi la questione
dei diritti delle vittime del conflitto, a sua volta strettamente legata alla
distribuzione delle terre e alle modalità della partecipazione politica delle
Farc: secondo i critici del processo, una pace davvero sostenibile non può basarsi
sull’impunità dei perpetratori delle violenze.

In
nome della pace, avverte il presidente Santos, occorrerà comunque «ingoiare
qualche rospo». Resta da vedere se la digestione di questi rospi sarà
abbastanza indolore da tenere in piedi un processo di pace che, rispetto al
precedente, sembra avere davvero il potenziale per liberare la Colombia da uno
dei suoi conflitti più sanguinosi. Anche nell’ipotesi di successo resteranno in
Colombia molti nodi da sciogliere, relativi ad esempio alla presenza dei
paramilitari e al peso del narcotraffico. Ma nessun effetto domino di
pacificazione del paese sembra possibile senza la caduta della prima tessera,
rappresentata appunto dall’accordo fra governo e Farc.

Chiara Giovetti
__________________

Arturo
Wallace
di Bbc Mundo ha sintetizzato in modo molto efficace le sfide
connesse a ciascuno dei cinque punti sul tavolo delle negoziazioni: la sua
analisi è disponibile all’indirizzo web

http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2012/10/121006_colombia_proceso_de_paz_nudos_aw.shtml 

Chiara Giovetti




Gratta e Perdi: Il gioco d’azzardo (prima parte)

L’Italia è uno dei primi paesi
al mondo per i giochi d’azzardo, addirittura il primo in assoluto per quelli on
line. Nel 2012, la spesa pro-capite è stata di 1.450 euro. Le entrate per le
esangui casse pubbliche sono elevate, ma – una volta sottratti i costi diretti
e indiretti dovuti ai pesanti effetti collaterali per la collettività – lo
Stato-biscazziere non è un buon affare. Nel frattempo, i malati a causa del
gioco sono in costante aumento, e sempre di più giovani.

Qualche settimana fa, mentre ero
ferma al rosso, l’occhio mi è caduto su una sala giochi, a pochi metri
dall’incrocio. Curiosamente accanto alla sala, c’era l’ufficio di una
finanziaria. Mi è venuto da pensare che quella vicinanza fosse tutt’altro che
casuale. Voltando lo sguardo ho pure notato un cartello pubblicitario che
reclamizzava una sala scommesse. Facendo un giro per la città, mi sono resa
conto che locali come questi sono sempre più diffusi e soprattutto molto
frequentati. Poi, entrata in una tabaccheria con terminale della Lottomatica,
per pagare il bollo dell’auto, mi sono ritrovata a fare la coda dietro a
diverse persone, tra cui alcuni anziani. Questi stavano scommettendo su dei
numeri (a loro dire sicuri) e poi – per non lasciare alcunché d’intentato –
prima di uscire hanno comprato anche alcuni «Gratta e Vinci». Scene sempre più
frequenti in un’Italia, che – nel giro di pochi anni – è diventata uno dei
paesi al mondo in cui si gioca di più. Basti pensare che in Europa ci
contendiamo il primato con l’Inghilterra per le giocate di tutti i tipi, mentre
siamo terzi al mondo tra i paesi dove si gioca di più e addirittura primi per i
nuovi giochi d’azzardo on line, quelli che chiunque sia dotato di un cellulare,
un computer o un tablet può fare.
Bastano una connessione ad internet, una carta di credito e la maggiore età, ma
attenzione: per attestare quest’ultima è sufficiente l’autocertificazione. Ciò
significa che qualunque minorenne può accedere a questo tipo di giochi,
dichiarando di avere 18 anni e magari usando la carta dei genitori.

NUMERI DA RECORD

Secondo un dossier sul gioco d’azzardo del mensile Valori
(febbraio 2013), nel 2012 il fatturato legale (raccolta) del gioco d’azzardo è
stato di quasi 90 miliardi di euro, con una spesa pro capite, neonati compresi,
di 1.450 euro. Si stima che in Italia circa l’80% della popolazione adulta
partecipi saltuariamente a lotterie ed a scommesse, mentre il 13% degli
italiani gioca alle lotterie ed alle slot machine quasi ogni settimana
ed il 5% due o tre volte alla settimana. Il gioco d’azzardo è diventato la
terza industria in Italia, con  5.000
aziende e 120.000 persone che vi lavorano. Visto che il gioco d’azzardo è stato
legalizzato dal governo italiano nel 1992 per risanare le casse dello Stato,
poi nel 2006 con la legge Bersani-Visco è stato concesso alle agenzie straniere
di entrare liberamente nel mercato italiano del gioco e che infine nel 2011 il
governo Berlusconi ha liberalizzato il gioco d’azzardo on line, si
potrebbe pensare che, con un fatturato del genere, ogni anno gli introiti in
tasse sui giochi siano per lo Stato una vera e propria panacea, ma non è così.
Negli ultimi otto anni infatti, il fatturato da gioco d’azzardo è
quadruplicato, mentre le entrate fiscali sono rimaste per lo più stabili, se
non addirittura in leggera flessione. Ciò è dovuto al fatto che la tassazione è
molto diversa per i vari giochi. Si va dal 44,7% per il superenalotto e dal 27%
per il classico lotto al 3% per le videolottery e allo 0,6% per i casinò
on line. Nel 2012 le entrate fiscali legate al gioco sono state di circa
8 miliardi. Nel 2004 a fronte di un fatturato di 24,8 miliardi (rispetto ai 90
attuali), le entrate fiscali da gioco furono di 7,3 miliardi. Questo fatto, se
da un lato si può spiegare con l’enorme diffusione dei giochi d’azzardo on
line, favorita da una tassazione veramente esigua, dall’altro si può spiegare
con un megabusiness legato alle macchinette dei videopoker delle
sale giochi e dei bar, che non sempre vengono collegate via modem con la Sogei
(la «Società generale di informatica», che presiede ai controlli sul pagamento
delle imposte), favorendo così i guadagni della criminalità organizzata.
Secondo il dossier «Azzardopoli» di Libera, l’associazione contro le mafie
fondata da don Luigi Ciotti, il fatturato illegale da gioco d’azzardo del 2011 è
stato di circa 10 miliardi di euro ed è stato spartito da 41 clan mafiosi.

Consideriamo inoltre che, se da un lato l’erario ha incassato 8
miliardi nel 2012, si stima che, tra costi sanitari diretti ed indiretti e
costi legati alla perdita della qualità della vita, la collettività nello
stesso anno abbia subito un danno compreso tra i 5,5 ed i 6,6 miliardi di euro,
a cui vanno aggiunti 3,8 miliardi circa per mancati versamenti dell’Iva.

IL GIOCO,
UNA DROGA SOTTOVALUTATA

È chiaro quindi che la legalizzazione del gioco d’azzardo non è
riuscita a contribuire al risanamento delle casse dello Stato. È invece
riuscita a fare aumentare enormemente i casi di ludopatia o «Gioco d’azzardo
patologico» (Gap), che colpiscono fasce sempre più estese della popolazione,
con punte di spicco soprattutto tra quelle più deboli e meno istruite. Sono
sempre più numerosi i casi di persone, che non riescono più a staccarsi dal
gioco e che arrivano a distruggere i rapporti familiari e di lavoro, perdendo
tutti i loro averi e finendo spesso col diventare vittime di usurai. Sempre più
spesso tra i malati di gioco d’azzardo si trovano persone anziane e giovani,
anche minorenni sebbene ad essi il gioco sia vietato. A questo proposito è
possibile vedere su Youtube un video del Secolo XIX, in cui è filmato un
ragazzino di 14 anni, che entra in diverse tabaccherie di Genova acquistando
dei «Gratta e Vinci» da 5 euro e sigarette, senza che i titolari delle
tabaccherie battano ciglio sulla sua minore età. Solo in un esercizio su 5 il
ragazzo non viene servito perché minorenne. Il ragazzo entra poi in una sala
giochi e riesce a giocare alle slot machine ed ai videopoker senza problemi.
Quanto visto a Genova non è certamente un caso isolato. La situazione è la
stessa in ogni angolo del nostro paese. I giovani rappresentano una categoria
particolarmente a rischio di cadere nella ludopatia, poiché tendono a misurarsi
con il mondo degli adulti per evadere dal proprio. L’opinione pubblica e i
genitori soprattutto sembrano non essersi resi ancora conto di questo nuovo
rischio, probabilmente perché pensano che i maggiori pericoli di dipendenza
possano derivare solo dal consumo di droghe, di alcolici e di tabacco. In realtà,
siamo di fronte ad un tipo di dipendenza senza droga e nel giro di pochi anni
l’aumento del gioco patologico tra i giovani ha assunto caratteristiche
allarmanti. La Polizia postale segnala un aumento delle scommesse on line
soprattutto tra i giovanissimi, tra i quali la comparsa di un comportamento
patologico nei confronti del gioco è favorita dalla facilità di accesso a
questo tipo di giochi in assoluta segretezza, dalla pubblicità che ne viene
fatta ormai su buona parte dei mass media e dalla fragilità insita nella
giovane età. Secondo Mark Griffiths della Nottingham Trent University,
la media europea dei giovanissimi giocatori è superiore a quella degli adulti
di circa 4 volte. Il motivo dell’aumento del gioco patologico tra i giovani è,
secondo Paolo Bagnare, psicologo e consulente del Tribunale di Milano,
un’espressione di disagio. Per gli adolescenti, che non si sono ancora lasciati
completamente alle spalle il pensiero infantile, la vincita facile ha effettivamente un aspetto magico. L’adolescenza è
un periodo di transizione caratterizzato da una forte fragilità, durante il
quale i giovani tendono a cercare un appoggio esterno, per supplire alla
carenza di definizione e di forza interiore. Inoltre, in questo periodo, i
giovani sono particolarmente inclini a sfidare il mondo degli adulti, ma non
sempre sono completamente consapevoli delle loro azioni. Purtroppo, in questo
caso, i giochi on line, che si trovano in internet consentono di entrare in
contatto con un’attività da adulti, che trasmette forte eccitazione e permette
di dimenticare i problemi della quotidianità, facendo entrare i giovani in una
dimensione illusoria. Scivolare nella dipendenza diventa perciò facilissimo.

INIZIATIVE CONTRO LA DIPENDENZA

Alcune associazioni cominciano a muoversi verso questa nuova forma
di dipendenza giovanile. Tra queste ci sono l’«Associazione And» di Varese,
rivolta ai giovani tra i 17 ed i 25 anni, la cornoperativa sociale «Pars» di
Civitanova Marche, per giovani maggiorenni e, nel torinese, la comunità
terapeutica «Lucignolo & Co.», struttura pubblica del Dipartimento di
Patologia delle dipendenze dell’Asl To3 di Torino.

Per valutare la diffusione del gioco d’azzardo tra i giovani in
Italia, è stato fatto uno studio esplorativo a livello nazionale secondo gli
standard adottati dall’indagine europea Espad1 (The European School Survey Project On Alcohol And Other Drugs), che
prevedeva la compilazione in forma anonima di un questionario distribuito nelle
classi di alcune scuole superiori selezionate casualmente. Nel 2000 i giovani
che hanno dichiarato di giocare con una frequenza tra «poche volte all’anno» e «quasi
ogni giorno» sono stati il 39% degli studenti italiani, ma la percentuale è
drasticamente salita nel 2009, raggiungendo il 51,6%. In generale sono i maschi
ad essere più dediti al gioco; nell’indagine condotta, pur essendo i
maggiorenni a giocare di più, tra i minorenni che giocano, quelli che hanno
riferito di avere giocato denaro almeno una volta nell’ultimo anno sono il
55,5% maschi ed il 34,6% femmine. Tra i giochi preferiti dai giovani di
entrambi i generi in pole position c’è
il «Gratta e Vinci», seguito dalle scommesse sportive e dal
lotto/superenalotto. Molto più diffuse tra i maschi sono le macchine da gioco
elettroniche. A differenza dei giocatori adulti, per i quali il denaro è quasi
sempre la molla, che spinge a giocare, per i giovani esso non è il fine ultimo
del gioco, ma il mezzo per potere continuare a giocare.

All’inizio del 2012, i Monopoli di Stato hanno intrapreso la
campagna «Giovani e Gioco», che prevedeva la distribuzione di un Dvd a 70.000
studenti, a partire da quelli della Campania, Puglia, Sicilia, Abruzzo e
Lombardia, per estendersi 
successivamente alle altre regioni italiane ed agli studenti di età
minore. Secondo diverse associazioni, tra cui Assoutenti, Libera,
l’associazione Giovanni XXIII, il Conagga (Coordinamento Nazionale Gruppi per i
Giocatori d’Azzardo), il Cnca (Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza)
ed secondo il cardinale Bagnasco di Genova, sotto le mentite spoglie di una
campagna per insegnare ai giovani a giocare in modo responsabile, c’è una vera
e propria istigazione al gioco. In questo Dvd, un giovane – che non gioca, ma
anzi telefona all’Asl se il padre trascorre tutto il tempo alle slot – viene visto come un bacchettone.
Per non parlare della frase «Evolve chi si prende una giusta dose di rischio,
mentre è punito chi non rischia mai o chi rischia troppo» contenuta nel Dvd, la
quale lascia chiaramente intendere che, per essere Ok, bisogna giocare almeno
un poco.

SOMMERSI DAGLI SPOT

Come accennato, una delle cause che spingono verso la dipendenza
da gioco sia i giovani, che gli adulti è la pubblicità dei giochi d’azzardo
fatta ormai su quasi tutti i media. Si vedono spot e pubblicità di giochi
ovunque: al cinema, in Tv, in internet sotto forma di banner e di link,
sui giornali e nei cartelloni stradali, che sempre più spesso pubblicizzano i
casinò on line gestiti da aziende private. Il mondo del gioco d’azzardo
investe in pubblicità circa mezzo miliardo di euro all’anno. Per tentare di
porre un argine a questo fenomeno, il Consiglio nazionale degli utenti (Cnu),
organismo istituito presso l’Agcom (Autorità garante per le telecomunicazioni),
nel 2011 ha proposto al governo di equiparare la pubblicità dei giochi
d’azzardo a quella del fumo, da anni bandita da tutti i media per la sua
riconosciuta pericolosità sociale. Per tutta risposta l’8 novembre 2012 è stato
convertito nella legge n. 189 il decreto-legge n. 158 o decreto Balduzzi, che
proibisce gli spot dei giochi d’azzardo al cinema, durante la proiezione dei film
per i minori, sulla stampa per l’infanzia e durante le trasmissioni Tv per gli under 18 (anche mezz’ora prima e dopo).
Inoltre tale legge prevede l’obbligo per i gestori delle sale da gioco e di
tutti gli esercizi, in cui vi sia la possibilità di giocare d’azzardo, di
esporre all’ingresso ed all’interno dei locali il materiale informativo
predisposto dalle Asl, diretto ad evidenziare i rischi correlati al gioco ed a
segnalare la presenza sul territorio di servizi di assistenza pubblici e del
privato sociale per la cura e il reinserimento delle persone con patologie
correlate al gioco d’azzardo. È inoltre vietata la possibilità, in ogni
esercizio pubblico, di giocare d’azzardo nei casinò on line. È previsto
il raddoppio dei controlli annui (saranno 10.000) destinati al contrasto del
gioco minorile, negli esercizi dove sono presenti le slot machine.
Inoltre queste potranno essere collocate solo lontano da zone sensibili come
scuole, ospedali e luoghi di culto. La pubblicità dei giochi dovrà indicare le
probabilità di vincita. Questa legge ha inoltre riconosciuto la ludopatia come
una patologia da curare presso i servizi pubblici per le dipendenze. In realtà,
purtroppo l’inserimento della ludopatia nei livelli essenziali di assistenza
non è accompagnato da una copertura finanziaria. I limiti posti dalla legge
alla pubblicità dei giochi d’azzardo sono decisamente poco incisivi perché
riguardano solo i minorenni e solo determinate forme di comunicazione. Inoltre,
sotto la pressione delle lobby del
gioco, è stato anche diminuito il limite di distanza dai luoghi sensibili,
portato dai 500 metri previsti dal decreto Balduzzi ai 200 metri della legge.
Per non parlare del fatto che ora è possibile portarsi un casinò nel cellulare
o nell’Ipod, quindi in tasca.

I PADRONI DEL BANCO

A proposito di lobby, chi sono gli azionisti principali,
che alimentano il gioco d’azzardo in Italia e quindi guadagnano sulla pelle dei
giocatori? Ecco qualche nome: De Agostini, Mediobanca, Lottomatica, Snai,
Assicurazioni Generali, Toro Assicurazioni, Ina Assitalia, Intesa Vita,
Alleanza Assicurazioni, Generali Horizon, Fata Assicurazioni, Genertel, Banca
Generali ed Emilio Silvestrini. Dobbiamo ricordare che, in questi tempi di
crisi, i giocatori che arricchiscono queste compagnie sono sempre più spesso
disoccupati e pensionati, che sperano di migliorare la loro condizione
economica tentando la fortuna ma che invece si rovinano, perché è matematico
che «il banco vince sempre».

Nella prossima puntata cercheremo di capire chi è più a rischio di
diventare vittima di ludopatia, cioè quali caratteristiche biologiche e
psicologiche presentano i giocatori compulsivi.

 
Rosanna Novara Topino
(fine prima parte – continua)

Rosanna Novara Topino