Pastori: non mollate il gregge

Parla monsignor Philippe Ouedraogo



Dalle stragi di Lampedusa all’integralismo islamico in
Africa. Dalla crisi di valori nella società burkinabè alle sfide della sua
Chiesa. Dall’impegno dei cattolici in politica alla formazione delle coscienze.
Colloquio con l’arcivescovo metropolitano di Ouagadougou.

Monsignor Philippe Ouedraogo è arcivescovo di Ouagadougou
dal 2010. Fin dal 1996 è stato vescovo di Ouahigouya, città nel Nord, a grande
maggioranza islamica. Lo incontriamo nel salone dell’arcivescovado, proprio
mentre nelle strade della capitale si festeggia la vittoria calcistica del
Burkina Faso sull’Algeria.

(Clicca sulla foto o sul simbolo per ascoltare l’intervista in francese su Youtube)

Monsignor Ouedraogo, come legge il dramma di Lampedusa?

«Oggi se si parla di Africa in Europa si parla di
Lampedusa. Un giornalista ha confrontato le migliaia di africani periti
nell’Atlantico a causa della tratta degli schiavi con i morti della migrazione
dall’Africa all’Europa. Forse è un po’ forzato come paragone. Le motivazioni
non sono le stesse e la situazione neppure.

Il Papa ha denunciato la mondializzazione
dell’indifferenza. In questo l’Europa è colpevole e ha anche delle
responsabilità: la colonizzazione, poi le indipendenze. Ora siamo in una
situazione catastrofica di povertà, di insicurezza a causa delle guerre, e
tutto questo contribuisce a far partire le persone. Ma noi, gli africani, cosa
abbiamo fatto per rendere vivibili i nostri stati? I responsabili si sono
riuniti ad Addis Abeba in questi giorni, hanno passato il tempo a parlare della
loro sicurezza, rispetto alla Corte penale internazionale, ma hanno trascurato
questo problema che è il più importante. Se i nostri governanti rubano, bisogna
giudicarli. L’autorità non è niente altro che un servizio. Se i dirigenti non
realizzano che sono in quella posizione per fare il bene del popolo, per il
bene comune, se saccheggiano le magre risorse, occorre giudicarli, a qualsiasi
livello.

Questa situazione di miseria che si perennizza, è sfida
enorme, e la responsabilità è grande sia a livello di chi governa sia della
popolazione. Bisogna lavorare, avere iniziativa, prendere il nostro destino in
mano. Dunque le responsabilità sono condivise».

Lo scorso luglio voi vescovi del Burkina Faso avete
scritto una lettera pastorale (box) critica nei confronti
dell’istituzione del Senato, voluto dal presidente. Una presa di posizione
coraggiosa.

«I vescovi sono dei pastori, dei servitori del popolo di
Dio. Se la situazione sociale, umana, sanitaria, alimentare, educativa, di sicurezza
della gente non interessasse noi pastori sarebbe una vera catastrofe. Abbiamo
una responsabilità comune e dobbiamo essere la voce dei senza voce. Siamo in
mezzo al popolo, siamo solidali con esso, abbiamo quotidianamente delle sfide
da affrontare, sulla povertà e sull’avvenire di questa gente. Siamo dei
cittadini come gli altri, e penso che abbiamo voce in capitolo. “Alla parola in
famiglia è convocato ogni membro della famiglia – diciamo in moore – al
lavoro della famiglia devono essere convocati tutti i membri della famiglia”,
compresi i vescovi: siamo anche noi membri della famiglia. Se la gente ci
rifiuta il diritto di parlare e vuole che stiamo confinati nelle nostre
sacrestie noi non siamo d’accordo, siamo qui e abbiamo una missione da compiere.
Abbiamo sottolineato che noi non abbiamo un ruolo politico, un ruolo
deliberativo, ma abbiamo un contributo da portare e teniamo a salvaguardare la
nostra neutralità e la nostra libertà per poter comunicare il Vangelo al
servizio di tutti gli uomini. È  per
questo che abbiamo preso la parola, perché ci sono quelli che non riescono a
farsi sentire, i poveri e i dannati della terra, gli analfabeti, chi vive in
campagna. Poi c’è la minoranza di coloro che vivono nell’agio e hanno tutto in
mano. Bisogna riequilibrare le cose, in modo che tutti abbiano, ognuno al
proprio livello, una parte irrinunciabile nel costruire il bene comune, a
cominciare dai responsabili».

Le parole di papa Francesco vanno un po’ in questo
senso. Hanno influenzato la vostra iniziativa?

«In Africa e in Burkina Faso siamo stati molto contenti
ed entusiasti dell’elezione di papa Francesco. Il fatto di essere un non
europeo è un segno molto forte. La Chiesa è universale, occorre un cambiamento
di mentalità, in particolare che i cristiani d’Europa cambino, a cominciare dal
Vaticano. E il papa ha centrato il problema. Qui abbiamo un’opzione pastorale
fondamentale: “Chiesa famiglia di Dio”. Il sinodo speciale per l’Africa del
1994 ha generalizzato questa opzione fondamentale per tutta la chiesa africana:
costruire la Chiesa famiglia di Dio attraverso le piccole comunità cristiane di
base. Siamo contenti che questo papa arrivi dall’altro lato del mondo e abbia
un’esperienza e una sensibilità particolare, che porterà qualcosa alla Chiesa.

Sono stato a Roma recentemente, ho partecipato
all’udienza del mercoledì, e sono anche andato ad Assisi e ho concelebrato con
il papa. Questo uomo è straordinario! Il fatto stesso che abbia scelto il nome
Francesco è un segno forte: riportare la Chiesa al Vangelo. Come dice Charles
de Foucault: “Se non viviamo il Vangelo, Gesù non vive in noi”. Costruire
insieme, come ha detto Bergoglio, una Chiesa al servizio, una Chiesa umile,
fratea. Io sono in profonda comunione con lui e quando l’ho potuto salutare all’udienza
gli ho detto: “Santo Padre noi vi amiamo”. E lui: “Pregate per me”».

Come è stata accolta la lettera pastorale nelle
parrocchie?

«La lettera è stata letta nelle chiese. Un uomo politico è
venuto da me a lamentarsi perché dopo la lettura la gente ha applaudito:
scandalo! “La Chiesa fa politica. Non mi ritrovo più in questa Chiesa”. Gli ho
detto: “Calmati, il prete ha letto la lettera, non ha chiesto alle persone di
applaudire. Voi organizzate le manifestazioni, e forse le persone vi
partecipano perché le pagate. Ma ci sono altre manifestazioni a cui la gente
partecipa senza essere pagata”. Questo significa che le persone si sono
ritrovate nelle parole della lettera.

Non tutti l’hanno apprezzata, i cristiani non hanno tutti
la stessa sensibilità politica. Alcuni sono furiosi contro il loro pastore: “Si
immischiano in cose che non li riguardano” pensano. Oppure: “Dovevano dare la
lettera a Blaise (Compaoré, presidente del Burkina Faso, ndr), senza
pubblicarla”. La Chiesa ha la sua maniera di lavorare. Noi vogliamo assumere il
nostro ruolo morale e spirituale, non politico. Per questo rifiutiamo di andare
all’Assemblea Nazionale a deliberare, ma se ci sono delle istanze di
concertazione, siamo disponibili. Sempre restando nella prospettiva della
dottrina sociale della Chiesa: la dignità della persona, il bene comune, la
solidarietà e il principio della sussidiarietà. La lettera va in questo senso.
I sacerdoti l’hanno accolta e l’hanno distribuita al popolo di Dio. La
parrocchia universitaria ne ha diffuso 20.000 copie. Non vogliamo l’unanimità
totale. Abbiamo alimentato il dibattito, la gente si interroga, e penso questo
possa contribuire alla maturazione politica.

Non abbiamo scritto la lettera per fare la lezione alle
altre confessioni. Abbiamo letto su Inteet: “Anche i musulmani e i
protestanti devono pronunciarsi”. Ma non abbiamo la stessa organizzazione o lo
stesso metodo di lavoro. Noi siamo in armonia con loro».

E qual è stata la reazione a livello del governo?

Sono stati piuttosto discreti. Mesi fa avevamo dato la
nostra posizione rispetto alla modifica dell’articolo 37 della Costituzione, e
loro hanno scritto contro di noi. Noi non abbiamo replicato. Ma questa volta
non ci sono stati scritti che ci attaccavano. Siamo stati convocati dal
presidente, al quale abbiamo spiegato il perché della lettera: non è per creare
problemi al paese, al contrario. Si può dare un’altra lettura, ma il nostro
obiettivo non è la sovversione, non è rovesciare Blaise, ma contribuire al bene
comune, alla pace e alla coesione sociale, che è una delle nostre ricchezze».

Ci sono esperienze di dialogo interreligioso a livello
nazionale o della sua diocesi?

«A livello della conferenza episcopale esiste una
commissione per il dialogo interreligioso, organizzata con gruppi nelle diocesi
e nelle parrocchie. Nell’arcidiocesi di Ouagadougou abbiamo una commissione
diocesana. In Vaticano c’è un Consiglio pontificio per il dialogo
interreligioso. Ogni anno produce una lettera rivolta ai musulmani, noi la
trasmettiamo ai nostri fratelli islamici che la leggono alla preghiera o
talvolta durante le feste.

In tutte le famiglie c’è una certa tolleranza. I legami
di sangue sono più forti dei legami di religione. Inoltre ci sono dei matrimoni
interetnici e questa è una fortuna per noi e in Burkina Faso non abbiamo
problemi. Nella mia famiglia la maggioranza è musulmana, poi ci sono cristiani,
e chi segue la religione tradizionale. Ci ritroviamo per gli avvenimenti felici
e tristi. A Natale i cristiani offrono da mangiare ai musulmani, e viceversa
per le feste islamiche.

In questi ultimi anni vediamo crescere un certo
integralismo, ma è davvero recente e noi lottiamo per salvaguardare la
tolleranza tra differenti comunità religiose ed etnico culturali.

Da parte mia tentiamo di avere relazioni fratee:
conoscersi, stimarsi reciprocamente. I musulmani non sono indifferenti a
questo.

Ogni anno durante la festa islamica della Tabaski vado
alla preghiera alla grande piazza della Nazione. Tra Natale e Capodanno il
presidente della comunità musulmana, il grande imam e una decina di imam
sono venuti qui a salutarmi. Questo ha provocato la reazione di alcuni giovani
integralisti, che sono andati ad assediare il grande imam per chiedergli
conto della sua visita all’arcivescovo. Chi c’è dietro a questi giovani? Ma
capi religiosi hanno scritto una lettera molto chiara nel senso del dialogo
interreligioso e noi andiamo nello stesso senso, perché è un’opzione della
Chiesa. Gli integralisti hanno
mandato a dirmi di non andare più alle feste islamiche. Ma io ci andrò a causa
di Gesù. È un po’ come diceva Martin Luther King per l’apartheid: “Voi
potete umiliarci e gettarci in prigione, ucciderci, ma non potrete mai
impedirci di amarvi”. Questa è la forza del Vangelo: la forza di amarsi.

Esiste un documento del Consiglio pontificio, “Dialogo
ed evangelizzazione”. Non si tratta di proselitismo, ma non ci dimentichiamo
che abbiamo anche noi un messaggio da proporre».

Nei paesi confinanti, Mali e Niger, c’è la guerra e il
pericolo Al Qaeda.

«I contesti sono simili ma diversi. Ad esempio la
proporzione di musulmani è molto più elevata in Mali e Niger. In Niger 95%, in
Mali 90%. In Burkina le statistiche ufficiali dicono che ci sarebbe il 60% di
musulmani, il 19-20% di cattolici, 5% di protestanti e il resto di religioni
tradizionali. Ma non sappiamo come hanno fatto queste stime. Quel che è certo è
che non si deve dare troppa importanza a questi dati, altrimenti si rischia di
scivolare nel confronto etnico-religioso. Anche in Niger e a livello delle
famiglie c’è la stessa configurazione di solidarietà di qui anche se l’islam è
maggioritario. L’islam sub sahariano è diverso da quello dell’Africa del Nord,
dove nella stessa famiglia non si tollera la conversione, mentre qui si accetta
che l’altro sia differente, di un’altra religione».

Il Burkina può essere considerato una frontiera per
l’integralismo islamico?

«Ci rendiamo conto che l’equilibrio è fragile: quello
che succede nei paesi vicini potrebbe anche arrivare qui: al Qaeda, Ansar Dine,
Boko Haram (vedi MC novembre 2012). Anzi, è possibile che ci siano già.
Dobbiamo essere molto vigili e lavorare insieme a livello delle diverse
confessioni e delle autorità per promuovere una cultura di tolleranza, a
partire dalla scuola e anche dalle prediche. La reazione dei giovani agli
auguri degli imam per Natale ha avuto un risvolto positivo, perché ha
causato una presa di coscienza nei musulmani, e nelle prediche hanno parlato a
favore della tolleranza e contro l’integralismo.

Siamo di fronte a delle sfide importanti, non solo a
livello di Burkina, ma a livello mondiale. Occorre cornordinare gli sforzi di
tutti per una cultura di tolleranza, come direbbe papa Giovanni Paolo II: “La
civiltà dell’amore”. Se non arriviamo a rispettarci di più, amarci, vivere come
fratello e sorella, sarà una catastrofe. E in questo la Chiesa ha un ruolo
unico perché ha un messaggio insostituibile per il bene dell’umanità: il
Vangelo».

In Burkina Faso esiste una frattura sociale tra la città
e la campagna?

«Non sono scompartimenti stagni. C’è chi vive in città,
ma ha la mentalità rurale. Poi i legami famigliari sono tali per cui il
cittadino resta in osmosi permanente con i parenti in campagna. Un funzionario
non può isolarsi rispetto alla famiglia al villaggio.

Nonostante questo, ci sono problemi. Dovremmo fare di più
per accompagnare i giovani. C’è analfabetismo, ignoranza, Aids. Tutto questo ha
delle conseguenze nefaste per la vita dei giovani. Poi il problema della
mancanza di lavoro. Chi è in campagna è più stabile di chi vive in città e non
ha nulla da fare. La tentazione è il banditismo. Ci sono delle nuove povertà in
città alle quali dobbiamo far fronte. I mendicanti, i bambini di strada. Stiamo
cercando di organizzarci per queste situazioni che non troviamo in villaggio,
dove c’è più solidarietà famigliare. La Chiesa non è sempre attenta o
attrezzata. Ma se non è la Chiesa dei poveri non è la Chiesa di Gesù Cristo.
Dobbiamo avere occhi e cuore aperti e attenti a queste situazioni vissute da
una grande parte della nostra popolazione.

In campagna c’è una grande mancanza di servizi di base,
come l’acqua potabile. Ma ci sono famiglie in città che non possono avere il
loro pasto ogni giorno e l’acqua nei quartieri periferici non c’è. Occorre
vedere caso per caso».

I vescovi del Burkina parlano della necessità di una
trasformazione profonda della società. Qual è il ruolo della Chiesa?

«La scuola è il luogo della trasformazione della mentalità.
I media, la televisione: la gente vede immagini da tutto il mondo con le
antenne paraboliche. Come Chiesa cerchiamo di essere al servizio di una società,
con queste grandi sfide. Non abbiamo la pretesa di risolvere tutti i problemi,
ma vogliamo essere presenti, un po’ come il buon samaritano che ha pietà del
povero ferito al bordo della strada. Ci sono molte donne e uomini feriti al
bordo della strada, e cerchiamo di portare quello che possiamo. A livello di
scuole primarie, secondarie e università. Abbiamo due università cattoliche
(Ouagadougou e Bobo-Dioulasso) e un istituto superiore a Kaya. Nella sanità
abbiamo l’ospedale Paul VI che ha difficoltà, ma rende servizio alla
popolazione. Nelle parrocchie ci sono i comitati di salute per la visita dei
malati. Inoltre esistono molte associazioni parrocchiali per aiutare i meno
abbienti. Tutto questo è modesto e insufficiente rispetto all’ampiezza delle
sfide».

Come vede l’impegno dei cattolici in politica in Burkina
Faso?

«È complesso. Due anni fa ho fondato la parrocchia
dell’università. Ha il compito di seguire le scuole superiori, circa 100 sulle
300 di Ouaga, le scuole professionali e le università. Io credo nella pastorale
dei gruppi sociali, ovvero la pastorale tra pari. I medici sono organizzati con
i Camilliani, ci sono gli uomini d’affari cattolici, i banchieri, i
parlamentari e un’organizzazione parrocchiale che forma l’élite intellettuale
alla dottrina sociale. L’idea è di contribuire alla formazione dei decisori
della nostra società».

Perché parlate di giustizia, riconciliazione, pace?

«Il riferimento è al Sinodo per l’Africa del 2009.
Queste restano le grandi sfide per tutta l’Africa. Anche per il Burkina Faso:
abbiamo bisogno di una società più riconciliata, abbiamo la nostra storia, con
la rivoluzione, le ferite profonde, e non è sicuro che esse siano guarite. Se
c’è stata una reazione forte dei vescovi rispetto alla creazione del Senato è
per salvaguardare la pace sociale: se un’istituzione deve essere creata e far
scoppiare l’insieme della società, qual è il bene di questa istituzione? È una
priorità?».

Marco Bello
Burkina Faso: mosse politiche del presidente padrone

 
Rotta verso il 2015: tempi difficili

In sella da 26 anni Blaise Compaoré le studia tutte per
restare al potere. Adesso sta creando un Senato alle sue dipendenze. Ma il
popolo non ci sta. E le manifestazioni di piazza sfociano nella violenza.

Il Burkina Faso si prepara a giorni travagliati in vista
del 2015, anno delle elezioni presidenziali. In quella data, infatti «scadrà»
Blaise Compaoré, al potere indiscusso dal quel lontano 15 ottobre 1987, quando
fece assassinare il presidente Thomas Sankara e 12 suoi stretti collaboratori.
Blaise, così viene chiamato in Burkina, è passato indenne attraverso elezioni,
multipartitismo, assassinii politici eccellenti del suo regime (come quello del
giornalista Norbert Zongo, ucciso il 13 dicembre 1998), lotte intee del suo
partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), modifiche
costituzionali. Ed è proprio la Costituzione del 1991, modificata nel 2005, che
ha ridotto la durata della presidenza da 7 a 5 anni, e imposto il limite a due
mandati. Compaoré rieletto nel 2005 e 2010, sarebbe, il condizionale è
d’obbligo, al suo ultimo mandato. Ma da mesi ormai, il presidente e i suoi
lavorano per cambiare quel famoso articolo 37 della Costituzione, che limita i
mandati presidenziali.

L’ultima trovata è la creazione di un Senato, che
porterebbe il Parlamento a un sistema bicamerale (attualmente si basa
sull’Assemblea Nazionale di 111 membri). Creazione anacronistica, visto che in
altri paesi della regione, come in Senegal, il Senato è stato soppresso per
tagliare i costi della politica. Così il 21 maggio scorso i deputati hanno
approvato la legge sul Senato che sarà composto da 89 senatori, di cui 29
nominati direttamente dal presidente, 39 eletti o designati dalla collettività
territoriali e 21 indicati dalla società civile.

Il calcolo politico è chiaro: con un Senato sotto il suo
controllo, il Cdp avrebbe con tutta probabilità la maggioranza qualificata di
due terzi dei parlamentari per modificare l’articolo 37.

Ma i burkinabè, popolo mite e tollerante, questa volta
sembrano non essere d’accordo. L’idea del Senato manda in ebollizione la società
del paese. Diverse manifestazioni investono le strade della capitale
Ouagadougou e di altre città del paese, a maggio, giugno e luglio. Alcune, in
particolare condotte dagli studenti, sfociano in atti violenti come sequestro e
distruzione di vetture di passaggio,  e
chiedono le dimissioni di Blaise. I giovani, il 59,1% dei burkinabè è sotto i
20 anni, diventano la spina nel fianco del presidente.

E la Chiesa non sta a guardare: il 15 luglio i vescovi
del Burkina Faso, che già si erano espressi in passato contro la modifica
dell’articolo 37, diffondono una Lettera pastorale dai toni pacati ma fermi,
che critica le nuove mosse del potere (vedi box).

Usa e Francia vorrebbero mantenere il paese nella
stabilità, vista la turbolenza che ha investito tutta la regione da circa due
anni (guerra in Mali, attentati qaedisti in Niger, gruppi integralisti in
Nigeria, ecc.). C’è chi dice che anche Blaise voglia farsi da parte (e per lui
si cerca una posizione di prestigio in una organizzazione internazionale), ma
il suo partito non è pronto e si scatenerebbe una guerra di successione. In
prima fila il fratello minore, François Compaoré, testa calda e implicato, tra
l’altro, nell’assassinio del giornalista Norber Zongo.

Marco Bello


La lettera pastorale dei vescovi del Burkina Faso
L’avvenire pieno di pericoli

Basta con clanismo, clientelismo e corruzione. Il Burkina ha
bisogno di una maggiore redistribuzione di ricchezza, trasparenza ed etica. I
vescovi prendono la parola contro la polveriera sociale.

Il 15 luglio scorso, i 16 vescovi
del Burkina Faso pubblicano una lettera pastorale sulla situazione del paese.
Esplicita sul malgoverno, è una presa di posizione forte. Nel testo, i prelati,
espongono la loro preoccupazione per la situazione politico-sociale del paese e
per le tensioni e agitazioni che lasciano trasparire un «malessere della società
burkinabè». Facendo un’istantanea la lettera descrive una società profondamente
cambiata, in cui l’alfabetizzazione e le conoscenze sono raddoppiate (dal 16%
al 32%), con un maggiore accesso all’informazione, grazie alle nuove tecnologie
e una maggiore presa di coscienza delle donne. Ma la «frattura sociale» sta
aumentando, con la base della povertà che si allarga, mentre il potere politico
ed economico interessa un gruppo sempre più ristretto. La lettera denuncia la «Crisi
di valori» con il denaro diventato valore di riferimento, più importante della
famiglia, della nazione, di Dio. I giovani sono sempre più emarginati e
rigettano e sfiduciano chi governa. Il malcontento profondo e il sentimento di
ingiustizia sfocia in un aumento della violenza.

«In questo contesto di grande
povertà e bisogno essenziali di base non coperti, quali salute, educazione,
lavoro, casa, cibo, che valore aggiunto fornisce il Senato?» si chiedono i
vescovi. Secondo l’opposizione, la camera alta costerebbe allo stato tra i 5 e
7,5 milioni di euro all’anno. «Le istituzioni sono legittime se sono
socialmente utili», continuano i vescovi.

La denuncia al potere assume
termini forti: «clanismo, clientelismo, corruzione finanziaria», da sostituire
con «democrazia consensuale, consultativa e inclusiva», perché «una democrazia
senza valori etici si trasforma facilmente in totalitarismo dichiarato o
soione in dispotismo legale». Il documento porta la proposta della Chiesa: «Affinché
il Burkina Faso non diventi una polveriera sociale occorre ricercare la
giustizia sociale, operare per una trasformazione sociale e democratica
profonda promuovere i valori cardinali di solidarietà e sussidiarietà. Questa
deve essere la preoccupazione di chi governa». E le raccomandazioni: «Più equità
nella distribuzione della ricchezza, più trasparenza nella gestione degli
affari pubblici, più etica nei comportamenti sociali e politici».

Marco Bello



Mons Philippe Ouedraogo è stato creato cardinale da papa Francesco il  22 febbraio 2014.

Marco Bello




Jampi Wasi, la casa della salute

Il diritto alla salute in Perù / 2:


A Lima, come in quasi tutte le metropoli del mondo, ci sono
le periferie delle periferie. A Corona, Pradera e in altri «insediamenti umani»
le persone arrivano dalle zone intee del Perù per cercare un nuovo inizio. Si
installano su una terra desertica, dove manca tutto. Vi trovano però anche
Gianni Vaccaro e Nancy Ortiz, una coppia che, attraverso una associazione solidale,
li aiuterà con servizi per la salute, l’educazione e il lavoro. Rifuggendo ogni
patealismo.

Tablada de Lurín. Il taxi cholo1 è scomodo,
traballante e rumorosissimo, ma per muoversi a Tablada – città di 60 mila
abitanti – è perfetto. Ci facciamo lasciare ai piedi del Cerro de las
conchitas
, la «Collina delle conchiglie», un nome poetico per un luogo che
poetico certamente non è. Percorreremo a piedi un paio di chilometri fino alla
sommità. La via è una ripida strada di sassi e sabbia che s’inerpica lungo la
collina. Le abitazioni sono abbarbicate sul pendio polveroso. La maggior parte
sono costruite con materiali poveri: tavole di legno di recupero, onduline di
eternit, cartoni, teloni di plastica, pareti di esteras2. Tuttavia,
oggi – sono ormai molti anni che frequentiamo questo luogo – un numero
crescente, benché ancora esiguo, di case (pur rimanendo molto umili) è in
mattoni, cemento e finestre dotate di vetri.

Corona Santa Rosa – questo il nome dell’insediamento
umano (asentamiento humano) – si è sviluppato sopra e sotto la strada
sterrata. Vi abitano oltre 1.500 persone, discendenti di quelle che, negli anni
Settanta3, invasero queste terre desertiche in cerca di
un’esistenza più dignitosa.

Nonostante i dati del Perù da anni evidenzino una
crescita economica importante, una parte rilevante della popolazione continua a
vivere in povertà, nell’interno del paese o in periferie come questa. Mancanza
di un lavoro stabile, cattiva alimentazione, assenza di controlli sanitari
regolari, violenza intrafamiliare, bambini e adolescenti che crescono senza una
normale istruzione scolastica, ragazze che rimangono incinte in età
adolescenziale, questi sono i principali problemi che ancora oggi affliggono la
popolazione.

CINQUE SOLES DI SALUTE

Le persone che incrociamo lungo la strada
salutano la nostra guida con un amichevole «professor Gianni…». Gianni
Vaccaro, sposato con Nancy Ortiz, quattro figli maschi, qui è una vera
istituzione. Nel settembre 2001 ha fondato l’Asociación de Desarrollo
Solidario Yachay Wasi
, un’associazione che a Corona si occupa di salute,
educazione, microcredito ed ecologia. Negli ultimi 13 anni la condizione degli
abitanti di Corona è migliorata soprattutto per merito suo. Oggi infatti essi
possono usufruire di un centro di salute, un centro educativo, un laboratorio
tessile e servizi altrimenti inimmaginabili in luoghi come questo.

Ecco la sede di Jampi Wasi, la «Casa della
salute». Il nome è in quechua, perché questa è la lingua madre della
maggior parte degli adulti. Ma esso serve anche a chi è nato qui e parla
soltanto spagnolo. «È un modo semplice – spiega Gianni – per ricordare alle
nuove generazioni la cultura di provenienza».

Un portone in ferro introduce in una stanza
che è un poliambulatorio in miniatura: c’è una piccola farmacia, un banco con
prodotti naturali e la reception dove si pagano, tra l’altro, i 5 soles4 della
visita (un costo dimezzato rispetto ai centri più economici). E poi ci sono due
stanze: in una si pratica l’agopuntura, nell’altra si fanno le visite.

Spiega Gianni: «A Villa María del Triunfo, il
distretto urbano di appartenenza, abbiamo solo un ospedale del ministero della
Salute e quindi un centro medico come il nostro è necessario per creare una
rete d’assistenza che possa filtrare i casi non gravissimi. Inoltre, noi
cerchiamo di lavorare molto per formare una cultura della salute in persone
che, per povertà e per ritrosia, vanno
in un centro medico soltanto se stanno estremamente male».

Le pareti sono piene di manifesti: per
riconoscere i farmaci contraffatti, per difendersi dal dengue, in favore
dell’allattamento al seno, per incentivare la donazione di sangue e altro
ancora. L’informazione serve per far crescere una cultura della salute e quindi
della prevenzione. 

Come il programma denominato Cred – «Crecimiento
y Desarrollo
» (crescita e sviluppo) -, dedicato a bambini da 0 a 5 anni per
prevenire eventuali problemi di salute. Spiega Gianni: «Controllando per tempo
psicomotricità, vista, udito, linguaggio, possiamo scoprire eventuali problemi
e curarli con maggiori possibilità di successo».  

Entriamo nell’ambulatorio di Luz Arevalo, una
medico giovane e timida con lunghi capelli neri e un bellissimo sorriso.
Scambiamo qualche parola, anche se le sottili pareti di compensato non agevolano
la conversazione. «Molti dei miei pazienti sono vicini di casa – racconta la
dottoressa -. Questo mi piace molto». Le chiediamo quali siano i problemi
principali che si trova ad affrontare. «Sono le patologie respiratorie. E poi
anemia e denutrizione, soprattutto con riferimento ai bambini». Domandiamo cosa
pensi di una sanità pubblica che è a pagamento o per persone assicurate. «Per
fortuna – ricorda Luz – esiste il Sis5, che offre cure mediche gratuite ai più
poveri. Certamente, se potessi fare una richiesta ai politici, direi loro che
sarebbe importante ampliare l’offerta medica nei confronti della popolazione.
Troppe persone non vedono mai un dottore». In Perú ci sono abbastanza medici,
ma mancano gli specialisti. Per questo Luz lascerà (temporaneamente) il centro
per dedicarsi agli studi specialistici. «Spero in chirurgia», ci dice al
momento dei saluti.

Adiacente alla prima, il centro medico
possiede una seconda, piccola sede, caratterizzata da scritte e disegni dai
colori sgargianti che vivacizzano un panorama generale dominato dal grigio.
Tramite i disegni si raccontano i diritti della persona e si mostra – con la
piramide alimentare – quale sia l’alimentazione più corretta per i bambini. Qui
vengono ospitati alcuni ambulatori e un piccolo laboratorio di analisi.

Il centro medico Jampi Wasi è frequentato da
una media di 450 persone al mese. «Ma in questo numero – precisa Gianni con una
punta di orgoglio – non sono incluse le persone raggiunte attraverso le nostre
campagne». Le campagne mediche sono visite che per un giorno, normalmente una
domenica, si offrono gratuitamente a tutta la popolazione, chiamando
specialisti in varie discipline (pediatria, ginecologia, nutrizione, ecc.).

Solidarietà, dignità, responsabilità 

Lasciamo le strutture di Jampi Wasi e ci
incamminiamo verso la sommità del Cerro de las conchitas, poche decine
di metri più in alto, dove l’associazione gestisce altre due strutture con
finalità diverse.

Nel piccolo laboratorio tessile di taglio e
cucito –Taller La Corona si chiama – lavorano una decina di signore del
posto. Progettano e confezionano maglie, tovaglie, borse. E soprattutto
insegnano ad altre una professione che non sia quella – consueta per gran parte
di queste donne – di venditrice ambulante.

Sul costone più alto della collina, al
termine della strada, c’è l’edificio delle attività educative: Yachay Wasi,
ancora un’espressione quechua per indicare la casa (wasi) del sapere,
della cultura, della saggezza (yachay). Ospita un frequentatissimo asilo e un
doposcuola per bambini e ragazzi delle scuole primarie e secondarie. Qui
lavorano 16 persone tra insegnanti ed educatori.

Come si paga tutto questo?, chiediamo,
scusandoci con Gianni per l’arida concretezza della domanda. «Siamo finanziati
– ci spiega – da strutture laiche (come alcune Ong italiane) e da alcune entità
religiose (come la Conferenza episcopale italiana). E poi ci sono gruppi di
amici che si autotassano mensilmente, a dispetto della crisi».  

Salute, lavoro, educazione: l’Associazione di
sviluppo solidale opera a 360 gradi, perché l’obiettivo – molto ambizioso – è
lo «sviluppo integrale della persona».

Cosa spinge una persona con moglie e figli a
dedicare la propria esistenza agli emarginati? Gianni Vaccaro, che ha una
giovinezza da seminarista, è molto legato alla teologia della liberazione (nata
proprio in Perú).

«Nel nostro lavoro la applichiamo con la
scelta preferenziale dei poveri, nella lotta contro una povertà ingiusta,
escludente, che uccide di morte lenta. Sono per una Chiesa dove la missione
religiosa non possa essere disgiunta dalla missione sociale urgente. Secondo
me, essa è chiamata a mettersi al lato dei deboli e degli oppressi, lottando –
appunto – per la loro liberazione. Se Giovanni Paolo II pensava l’appartenenza
cattolica come identità contro il comunismo, papa Francesco sembra voler
privilegiare la problematica sociale come contesto per l’evangelizzazione».

Nelle attività di aiuto ai meno fortunati il
pericolo si nasconde soprattutto nel patealismo, ma anche nella
sopravvalutazione di sentimenti quali la compassione e la carità. Gianni e
Nancy hanno evitato di cadere in questi errori agendo sempre nel solco di tre
concetti forti: solidarietà, dignità, responsabilità. Questa filosofia ha una
traduzione concreta: ogni struttura costruita dall’associazione di Gianni e
Nancy è proprietà dell’insediamento umano Corona Santa Rosa, entità
giuridicamente riconosciuta. Inoltre, la gestione delle stesse avviene in forma
comunitaria, coinvolgendo il personale e i dirigenti dell’asentamiento. «Soltanto
in questo modo – chiosa Gianni – i poveri possono assumere il ruolo di soggetto
attivo della trasformazione sociale».

Polvere e speranza

Siamo in cima alla collina pietrosa di
Corona. In lontananza, sul fondovalle, s’intravvede la grande fabbrica di cemento
(accusata di arrecare seri danni alla salute dei residenti)6. A destra,
sulle aride pendici si vedono le prime umili abitazioni di Pradera,
insediamento più giovane e più povero. Poco sotto di noi c’è un campetto di
cemento dove stanno giocando un gruppo di ragazzi. Un venticello rinfrescante
ma inevitabilmente polveroso (considerato che siamo in un deserto) porta
sollievo. Mentre la luce del tardo pomeriggio rende meno aspro il paesaggio
circostante.   

Paolo Moiola
Note
 1 – Mototaxi, si tratta di veicoli a tre ruote, tipo Piaggio Ape.
Vengono chiamati popolarmente «taxi cholo» perché sono usati soprattutto dai cholos, i migranti di origine
andina e amazzonica.
2 – Le esteras sono stuoie e canne di bambù intrecciate.
3 – In particolare negli anni 1968-1975, durante il governo di Juan
Velasco Alvarado.
4 – Un euro vale 3,7 soles (ottobre 2013).
5 – Sis, «Seguro integral de salud». Ne abbiamo parlato nella prima
puntata.
6 – Cementos Lima (gruppo Unacem). La fabbrica nega qualsiasi
inquinamento. Secondo il Copdes (www.copdes.org), l’inquinamento dell’aria
prodotto dall’attività è invece molto grave.

Tra pubblico e privato


L’ospedale è «nella» parrocchia

Quando lo stato è assente o troppo debole, quando le risorse
private sono insufficienti, per molte persone l’esistenza diventa ancora più
precaria. A Tablada de Lurín la locale parrocchia offre servizi – medici,
giuridici,

Tablada de Lurín.
Se non fosse per il nome che campeggia sul muro – Parroquia San Francisco de Asis (Parrocchia San Francesco d’Assisi) – , si potrebbe
pensare che l’edificio sia un centro civico che ospita una serie di servizi:
medici, giuridici, assistenziali. L’entrata della chiesa omonima si affaccia
sulla piazza, recentemente sistemata, di Tablada de Lurín, nella parte
conosciuta come «zona antica». I molteplici uffici si trovano invece sulla via
laterale. A guidare la parrocchia è padre Stuart Flores, ma il lavoro è portato
avanti da laici e volontari, soprattutto donne. Come Ines Villanueva che
indossa una maglietta contro la violenza sulle donne, fenomeno molto diffuso: «Ferma
la mano – recita la scritta -. Il maschilismo uccide e maltratta la donna» (Para la mano. El machismo mata y maltrata a la mujer). O come Rosa Pajares che, entusiasta, ci vuole
mostrare il centro medico, di cui è cornordinatrice.

L’ingresso è poco appariscente,
segnalato da una piccola targa che ricorda soltanto gli orari di apertura. Ma
dietro quella porta si scopre – con sorpresa del cronista – un piccolo mondo
fatto di ambulatori, medici, infermieri e naturalmente di pazienti. Sulle
pareti ci sono una pluralità di manifesti che pubblicizzano le vaccinazioni per
i bambini, ma anche per gli adulti: antipolio, antitetanica, quelle contro
epatite B, febbre gialla, morbillo, papilloma virus e altre ancora. Vicino alla
cassa, un avviso ricorda che le visite mediche costano 10 soles. Il centro
medico offre servizi di medicina generale, ostetricia, odontorniatria,
psicologia.

Rosa
ci apre le porte di alcuni ambulatori. Ecco le infermiere con un camice bianco
su cui è ricamato un San Francesco. Ecco il dentista che – impegnato su un
paziente – ci fa con la testa un segno di saluto.

Il
centro medico della parrocchia di San Francesco funziona e merita parole
d’elogio. Tuttavia, l’inadeguatezza, se non l’assenza, dello stato fanno
riflettere. Per troppi peruviani le cure mediche non sono un diritto acquisito
ma una conquista individuale da strappare ogni giorno. Con i denti, le unghie e
una buona dose di fortuna.

Paolo Moiola
 

Paolo Moiola




Natale, ancora Natale, ma quale Natale?

Potrebbe sembrare strano, eppure di Gesù, sul piano storico,
sappiamo poco, e quel poco che i vangeli riportano per noi è molto, anzi
tantissimo. I vangeli non sono «una storia di Gesù», ma una catechesi per chi
crede già in lui come Figlio di Dio e Messia. Di conseguenza i quattro libretti
sono un catechismo, originariamente predicato in forma orale dagli apostoli,
dai catechisti, dai predicatori e da chi aveva conosciuto Gesù (famiglia,
paesani, amici, ecc.). A distanza di 40-80 anni dalla sua morte, sono stati
messi per iscritto per due motivi: per conservare la memoria di quanto accaduto
e suscitare la fede in lui anche nelle generazioni future e per poterli usare
come «Scrittura» di compimento dell’Antico Testamento nell’Eucaristia delle
Chiese, ormai diffuse in tutto l’oriente fino a Roma.

Di
Gesù sappiamo …

Marco, il
primo degli evangelisti scrittori, non parla affatto della nascita di Gesù; in
compenso Giovanni, l’ultimo degli evangelisti scrittori, accenna all’eternità
del Lògos che per volere di Dio «s’incarna», cioè diventa uno di noi in un
preciso paese (Israele), in una determinata cultura (Giudaismo), in una
specifica religione (Ebraismo), in un tempo ben definito (fine del sec. I a.C.
e sec. I d.C.), nel cuore di specifici eventi (occupazione romana della
Palestina). Chi, invece, parla della nascita di Gesù in maniera esplicita, sono
i due evangelisti Matteo (capp. 1-2) e Luca (capp. 1-2), ma non dicono le stesse
cose perché hanno prospettive diverse e si rivolgono a comunità diverse.

Un elenco
schematico di ciò che sappiamo di Gesù, potrebbe essere il seguente:

• è nato
intorno al 6/7 a.C. (v. Box) da una ragazza-madre, appena adolescente,
di nome Miriàm/Maria;

• non si
conoscono il giorno, il mese e neanche le condizioni della nascita;

• è nato a
Betlemme, a sud d’Israele, patria di Davide da cui discende Giuseppe, il padre
legale di Gesù;

• è nato in
una zona periferica, considerata dalla religione «impura» perché abitata da
pastori;

• è stato
circonciso all’ottavo giorno dalla sua nascita ed e stato chiamato «Joshua-Gesù»
dopo 40 giorni;

• ha
trascorso la sua vita a Nàzaret, nel Nord della Palestina;

• a
compimento del 12° anno di età (inizio del 13°), nel tempio di Gerusalemme ha
celebrato il rito della «Bar-mitzvàh – Figlio del comandamento», che per gli
Ebrei è l’inizio della maggiore età (cf Lc 2,41-50);

• ha
predicato per la Palestina e anche fuori i confini per circa un anno, un anno e
mezzo, all’età di 34-35 anni;

• non
apparteneva alla casta sacerdotale, ma era un laico;

• si è
scontrato con il potere religioso e il potere politico che alla fine si sono
coalizzati e lo hanno fucciso, condannandolo a morte come «rivoluzionario»: il
Sinedrio ha emesso la sentenza di crocifissione e i Romani, nemici alleati per
l’occasione, l’hanno eseguita;

• è morto
all’età di circa 36 anni (30/33 d.C.?), la stessa età di Isacco quando fu
legato sul monte Moria per essere sacrificato (cf Gen 22,1-23);

• è risorto
da morte alle prime luci dell’alba del giorno dopo il sabato, dando inizio
all’avventura della nuova Alleanza;

• non ha
lasciato nulla di scritto, ma solo undici apostoli e altre apostole che inviò
nel mondo;

• il suo
insegnamento è stato raccolto in quattro vangeli che persone innamorate di lui
hanno scritto per i loro contemporanei e per noi che li ascoltiamo e vogliamo
tramandare a chi verrà dopo di noi.

Nota storica
sulla data di Natale

Nei sec. II-III dell’èra
cristiana in tutto l’Oriente, alla data del 6 gennaio, si celebrava una festa
generica detta Epifania (manifestazione) che inglobava tre memoriali: Natale
(manifestazione agli Ebrei), Magi (manifestazione ai Pagani) e Sposalizio di
Cana (manifestazione nel segno dell’alleanza universale). In Spagna nel sec. IV
si celebrava il Festum Nativitatis Domini Nostri Jesu Christi. San
Giovanni Crisostomo (345 ca.-407) in un’omelia sul Natale, pronunciata nel 386,
dichiarava che nella chiesa di Antiochia già da dieci anni vi era l’uso di
celebrare la Nascita del Salvatore il 25 dicembre. Anche nella chiesa di Roma,
come in quella di Milano, fin dal 336 si celebrava il Dies natalis Domini
sempre al 25 dicembre, considerato il giorno genetliaco di Gesù. Papa Liberio
nel 354 scorporò la festa in due, assegnando Natale al 25 dicembre e l’Epifania
al 6 gennaio. Nella chiesa ortodossa e armena, invece, le due feste sono ancora
accorpate al 6 gennaio (cf Dictionnaire de Spiritualité, f.
LXXII-LXXIII, Paris 1981, 385). I cristiani del Nord del mondo celebrano il
Natale in inverno, mentre i cristiani del Sud lo celebrano d’estate. Il 25
dicembre è una data convenzionale perché in relazione al 25 marzo, giorno in
cui, secondo la tradizione, nella casa di Nazaret l’Angelo annunciò a Maria il
concepimento di Gesù. Maria partorì il Figlio nove mesi dopo, cioè il 25
dicembre. è il Natale.

Il 25 dicembre è anche il
solstizio d’inverno, in cui si ha il giorno più corto dell’anno e la notte più
lunga. Sia in Oriente che a Roma questo giorno era dedicato al «dio Mitra»,
divinità di origine persiana, venerato come il «Sole Invitto». La festa,
centrata sul simbolismo della luce, ebbe una diffusione enorme nell’impero
romano tra i sec. I-III d.C., tanto che l’imperatore Diocleziano (284-305 d.C.)
dovette proclamare il dio-Mitra «sostegno del potere imperiale»,
incrementandone il culto. Durante i giorni di festa, tutto diventava lecito
perché veniva meno ogni freno inibitore e si scatenava ogni sorta di
trasgressione specialmente sessuale che si concretizzava in riti magici,
baccanali e orge, in cui avevano un posto privilegiato le «vergini» che
sacrificavano al dio della luce la loro verginità. Non di rado la festa era
occasione per vendette personali fino all’omicidio. I cristiani opposero a
queste licenziosità l’austera memoria del Lògos incarnato che nacque in una
stalla, nella povertà più estrema, fissando il Natale appositamente al 25
dicembre, compimento esatto dei nove mesi della gestazione di Maria, dal 25
marzo, giorno dell’annunciazione, equinozio di primavera. Per contrastare i riti
delle vergini che offrono la loro integrità al «dio Mitra» in baccanali
orgiastici, i cristiani esaltarono la
nascita «verginale» di Gesù, «sole che mai tramonta», offerto al mondo
da una «vergine» che si abbandona al disegno di Dio.Nello stesso periodo,
almeno da oltre due secoli, il 25 del mese di Kislèv, corrispondente a
una data tra il 15 e il 25 dicembre ca., i Giudei celebravano (ancora oggi
celebrano) la festa ebraica di Chanukkàh (= inaugurazione/dedicazione),
detta anche Chàg Haneròth (Festa dei lumi), Chàg Haurìm (Festa
delle luci) e Chàg Hamakkabìm (Festa dei Maccabei), per fare memoria
della riconsacrazione del tempio che Antioco IV dissacrò con una statua di Zeus
e che Giuda Maccabeo con la sua famiglia riconquistò nell’anno 165 a.C., ricostruendo
e riconsacrando l’altare del sacrificio. La Chiesa per non isolare i cristiani
accerchiati dal culto pagano del dio-sole/Mitra e dalla ebraica Festa delle
luci, inventò la celebrazione del Natale del Signore, il Sole che sorge e mai
tramonta. A Natale non domina solo il simbolismo della luce che contrasta il
buio della notte, ma si celebra Cristo stesso, «Luce che illumina le genti» (Lc
2,32), «Stella luminosa del mattino» (Ap 22,16), sapienza di splendore «che non
tramonta» (Sap 7,10). Celebrare il Natale in pieno inverno è anche un atto di
coraggio e di speranza, un invito a guardare oltre le apparenze: il seme appare
morto e perduto nei solchi, le giornate sono brevi e buie, il senso di morte
tutto pervade; al contrario, la nascita di un bimbo è una grande profezia che
illumina il mondo e anticipa la primavera, quando la vita danzerà e sconfiggerà
la morte in vista dell’estate che porterà la gioia del raccolto e
dell’abbondanza, simbolo di pienezza di vita.

Nota:
L’autore di uno scritto anonimo, Adversus Judaeos/Contro i
Giudei (8,11-18, CCL 2, 1954, pp. 1360-64) attribuito da alcuni a Tertulliano
(150/160-220), già nella seconda metà del sec. II, riteneva che Cristo fosse
nato il 25 marzo e fosse anche morto lo stesso giorno. Doveva essere così perché
la perfezione della natura divina di Cristo esigeva che gli anni della sua vita
sulla terra fossero anni interi senza frazioni. è evidente che siamo
in piena speculazione teologica fuori da ogni spiegazione storica. Clemente
d’Alessandria (160-240) testimoniò che i cristiani copti celebravano non solo
l’anno, ma anche il giorno della nascita del Salvatore e cioè il 25° giorno del
mese di Pachòn (15 maggio) o il 25 del mese Pharmùth (20 aprile)
e sostenne che non esisteva una tradizione univoca e condivisa sulla data
esatta della nascita del Salvatore (Stromates I, 21, PG 8,888).

Sul culto
misterico di Mitra

Il culto del
dio Mitra, raffigurato con in mano una fiaccola e un coltello, sviluppa una
forma religiosa riservata agli iniziati per cui è caratterizzato dalla
segretezza; per questo i rituali, che si chiamavano «culti misterici», si
celebravano in luoghi sotterranei, detti mitrei, cui potevano accedere
solo gli adepti, ammessi dopo prove e cerimonie che comprendevano sette gradi
per essere ammessi al mistero della conoscenza: corvo, ninfo, soldato, leone,
persiano, corriere del sole, padre. Pare che lo stesso imperatore Nerone fosse
uno di questi iniziati. Il culto di Mitra fu introdotto nel mondo greco-romano
dai pirati di Cilicia, deportati da Pompeo nel 67 a.C. in Grecia. Da qui al
seguito delle legioni romane (molti soldati erano iniziati) si diffuse
velocemente in Italia, in Dacia (Romania-Moldavia), Pannonia (parte di
Ungheria, Austria e Slovenia), Mesia (Bulgaria), Britannia e Germania.

Mitra è
circondato da «miracoli»: con il lancio di una freccia fa scaturire acqua da
una roccia, segno di vitalità e purificazione; stipula un patto con il dio
Sole, a cui è associato fino a identificarsi con esso. Anche il dio Veruna (il
greco Urano) è associato a Mitra, e insieme personificano la notte e il giorno:
Veruna castiga i malvagi (notte) e Mitra protegge la giustizia e gli uomini
onesti (giorno). Il centro del culto è la tauroctonìa (il sacrificio del
toro), simbolo della fecondità universale e sempre presente in tutti i mitrei.
Accanto al toro vi sono altre figure simboliche: il serpente che beve il sangue
del toro, lo scorpione che gli punge i testicoli (per impedire la fecondità
della terra), il cane che bevendone il sangur acquista energia e vitalità che
trasferisce alla terra perché dalla sua coda germoglia il grano (simbolo della
risurrezione della terra) e un corvo che fa da tramite tra il sole-Mitra e la
terra. Il dio Mitra è accompagnato da altre due divinità, Catèus e Cautòpates,
raffigurati sempre con le fiaccole, simbologia plastica di una trinità solare
che raffigura il ciclo quotidiano del sole all’aurora, a mezzogiorno e al
tramonto.

Il
mitraismo, pur con tante somiglianze cristiane (verginità, trinità,
luce-tenebra; sangue-vita, visione apocalittica, ecc.), fu uno dei principali
antagonisti del cristianesimo sul quale sicuramente avrebbe prevalso senza
l’apostolo delle genti, Paolo di Tarso e la sua opera di evangelizzazione e di
diffusione del Cristianesimo in forma capillare in tutto il Medio Oriente, la
Grecia, parte dell’Asia fino Roma, cuore dell’impero, segnando così il declino
del mitraismo. Il Cristianesimo, infatti, nato come «sètta giudaica», tale
sarebbe rimasto, senza l’impeto paolino che di fatto creò la religione
cristiana come «sistema» teologico e organizzativo. Il sec. I d.C. fu un secolo
di passaggio, segnato dalla decadenza di ogni sistema ideologico, morale e
religioso, frutto inevitabile della fine di un millennio e inizio di uno nuovo.
In un contesto di «pensiero debole» e di corruzione che aveva minato lo stato
in ogni suo ambito, forte era il bisogno di spiritualità e «pulizia», di aria
pulita e di rinnovamento. In questo contesto, Paolo predicò la verginità come
misura del provvisorio (il mondo sta per finire, bisogna prepararsi e restare
liberi), il matrimonio come comunità stabile e regolata, la Chiesa come
orizzonte escatologico, cioè come compagna di viaggio che stabilisce le regole
in vista della fine del mondo. Ebbe successo perché proponeva un ideale forte e
controcorrente. Gesù ne era il modello, ma la sua predicazione e le sue parole
furono adattate e adeguate alle nuove circostanze. Gesù aveva annunciato il
Regno di Dio, Paolo dava vita alle «Chiese locali»; Gesù agì da profeta, Paolo
operava da uomo dell’istituzione.

Nota:
Mitraismo e il
Cristianesimo
sono due religioni
apocalittiche: rappresentano l’eterno combattimento del bene contro il male,
dei figli della luce contro i figli delle tenebre. L’imperatore Aureliano
(270-275 d.C.) eleva il culto del Sole a religione di stato. Costantino che
deve la sua prima vittoria ai cristiani, ribalta la situazione con l’editto del
313 d.C. a favore del Cristianesimo. Giuliano l’Apostata (361-363 d.C.) cerca di
riportare in auge il culto di Mitra, ma inutilmente perché  nel 394 d.C. con la vittoria di Teodosio su
Eugenio, il Cristianesimo diventa religione di stato e i mitrei  saccheggiati e distrutti per fare posto alle
nuove chiese e basiliche cristiane. Famosi in Roma sono i mitrei del Circo
Massimo e S. Clemente ancora oggi visitabili.

Natale:
il capovolgimento di Dio

Natale per
i cristiani di routine è la festa civile del buonismo a buon mercato, risolto
in una prassi scontata di regali, odiati da chi li fa. Per chi crede, Natale è
la contraddizione di Dio che non potendo essere visto e conosciuto, decide di
farsi conoscere: egli stesso diventa esegeta di sé (Gv 1,18). A Natale Dio
spiega Dio nell’unica maniera che a noi è possibile capire: facendosi uno di
noi e rivelando il volto nascosto di Dio Padre nel volto visibile dell’Uomo. E
perché nessuno possa avere anche la minima possibilità di avere paura, sceglie
la forma più indifesa e più disarmante: il bambino. Nella cultura del tempo di
Gesù, il bambino non ha alcun titolo e conta nulla perché senza valore
giuridico; per questo egli lo assume come «metro» del Regno: «Se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei
cieli» (Mt 18,3). Non basta. Dio vuole svelarci il suo volto di bambino povero
e perseguitato, profugo, straniero, emigrante, clandestino: nessuno nel Regno
di Dio ha le carte in regola per essere accreditato, nessuno è più in regola di
un altro. Una sola condizione è necessaria: essere figli di Dio. Questo è il
Natale, questa la nostra speranza. Diventiamo anche noi esegeti di Dio,
manifestando in pieno la sua umanità, riconoscendo negli altri la loro dignità
di esseri umani e figli di Dio.

A Natale
tutto si capovolge. La logica umana non regge quella divina perché Dio è capace
di sorprenderci sempre, oltre ogni aspettativa, rovesciando i criteri e i «valori»
del mondo: all’imperatore potente, contrappone 
una ragazza inerme; a chi pretende di «contare» (censimento) l’umanità
contrappone un uomo, una donna incinta e un bambino appena nato;
all’onnipotenza della religione, contrappone la fatica di vivere la volontà di
Dio; allo splendore della reggia e del tempio, contrappone la povertà e
l’autenticità della vita. Per questo a Natale bisogna sapere e avere coscienza
che il Bambino che chiede di nascere ancora:

• è un
extracomunitario perché è un palestinese di Nazaret;

• è un
emigrato in Egitto, perché perseguitato politico e religioso fin dalla nascita;

• è vittima
delle leggi razziali e razziste delle politiche di espulsione, perché senza
permesso di soggiorno;

• è ebreo
di nascita e ricercato per essere eliminato;

• è un
fuorilegge perché clandestino e ricercato dalla polizia;

• è un poco
di buono perché figlio di una ragazza-madre, appena adolescente;

• è
oppositore del potere religioso e politico ed è ammazzato per vilipendio della
religione;

• è povero
dalla parte dei poveri e «deve» essere eliminato;

• è un
laico, credente atipico e controcorrente;

• è poco
raccomandabile perché frequenta lebbrosi e prostitute;

• è Dio
perché i suoi pensieri non sono mai i pensieri dei benpensanti (Is 55,8).

È Natale! La speranza di essere uomini e donne nuovi per
un mondo nuovo è possibile perché Natale è l’annuncio profetico che la
Resurrezione è la mèta della Storia. Anche oggi, anche adesso. Anzi è già
compiuta e noi possiamo rinascere e risorgere ogni giorno, perché Gesù non ha
bisogno di nascere di nuovo, essendo eterno, ma noi abbiamo necessità di
rinascere anche oggi a vita nuova. Questo è Natale: Dio-con-noi-Emmanuel (cf Mt
1,23). Buon Natale a tutte e a tutti i lettori e le lettrici di MC.
Paolo Farinella

Avviso importante:
Con questo articolo don Paolo Farinella sospende temporaneamente
la sua collaborazione con la rivista Missioni Consolata e, quindi, anche la
rubrica «Così sta scritto» con cui, fedelmente, ci ha accompagnati per otto
anni, dal febbraio 2005. Don Paolo ha chiesto una pausa per preparare un «Corso
biblico» che esporrà nella sua città, Genova, e che pubblicherà anche sulla
nostra rivista, molto presumibilmente dalla primavera del 2014, a partire da
maggio. Nell’attesa, lo ringraziamo e salutiamo frateamente e, su sua
esplicita richiesta, abbracciamo con affetto ciascun lettore e lettrice di MC,
nei cui confronti si sente debitore e grato perché lo hanno costretto a «stare
sulla Parola». Chi volesse, può consultare sul nostro sito www.rivistamissioniconsolata.it tutti gli articoli di don Paolo già
pubblicati, o andare sul suo sito www.paolofarinella.eu
per leggere o stampare la liturgia della domenica, cliccando prima su blog e poi su Liturgia.

 

Paolo Farinella




Lasciamoli in pace

La questione dei popoli incontattati.


Le tribù indigene
incontattate non sono un’invenzione degli ambientalisti. Che fare con esse?
L’esperienza storica dimostra che il contatto con l’uomo bianco per loro è
stato quasi sempre fatale. Per le malattie, la violenza o la prevaricazione. Il
nostro dibattito sul tema continua ospitando le riflessioni dell’organizzazione
internazionale «Survival».

Molti
ricorderanno le immagini della tribù amazzonica isolata fotografata alla fine
del maggio 2008 in Brasile, appena al di qua del confine peruviano. Nonostante
il tono sensazionalista con cui molte testate diffusero la notizia, le immagini
raggiunsero l’obiettivo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica
mondiale sulla minaccia che gravava sui popoli della zona. L’esistenza delle
tribù incontattate non poteva più essere considerata una leggenda tipo quella
del mostro di Loch Ness, come affermavano l’allora presidente del Perú Alan
García e i portavoce della compagnia petrolifera di stato nel tentativo di
svicolare dalle proprie responsabilità. E nemmeno «un’invenzione degli
ambientalisti». Pochi mesi dopo, il giornale britannico The Observer,
responsabile di aver insinuato che le fotografie fossero una farsa e una
«bufala», dovette presentare le sue scuse ufficiali ai lettori e a Survival
per aver fornito una versione «menzognera e distorta» dei fatti.

A scattare quelle immagini aeree e ad affidarle a Survival
era stato José Carlos dos Reis Meirelles, un funzionario della Funai (il
dipartimento governativo agli affari indigeni del Brasile) preoccupato per il
drammatico esodo verso il Brasile di alcuni gruppi di indiani incontattati del
Perú. Le loro terre erano invase in modo crescente da taglialegna illegali e
compagnie petrolifere autorizzate dal governo peruviano a compiere prospezioni
e trivellazioni anche negli angoli più remoti della foresta, dimora ancestrale
di alcuni dei popoli più isolati del paese. Quelle attività rischiavano di
decimare o addirittura sterminare la tribù all’insaputa del resto del mondo,
com’era già accaduto troppe altre volte nel passato.

Quanti
sono i popoli incontattati contemporanei e quali minacce pendono sul loro
futuro? Secondo le nostre stime, i popoli indigeni che vivono senza alcun
contatto con il mondo esterno sono almeno un centinaio. La loro consistenza
numerica varia molto. Da un solo sopravvissuto, come nel caso «dell’uomo della
buca» individuato nel 2006 nello stato brasiliano di Rondônia, fino a cento o
duecento persone. Vivono in ambienti diversi: dagli angoli più remoti della
foresta amazzonica fino alle isole dell’Oceano indiano. Non è dato sapere
quanti esattamente siano, ma sappiamo con certezza che esistono: lo provano le
tracce che lasciano dietro di sé (utensili e case abbandonate frettolosamente sotto
l’avanzare degli invasori), e alcuni incontri fortuiti e fugaci.

In Asia li troviamo nelle Isole Andamane e in Nuova
Guinea. Nell’America del Sud, dove si ha la concentrazione maggiore, ci sono
almeno 60 tribù. Oltre 40 risiedono entro i confini del Brasile, 15 in Perú. Il
resto vive tra Bolivia, Colombia, Ecuador e Paraguay. Ognuno di questi popoli è
unico e le loro lingue, le loro culture e le loro visioni del mondo sono
insostituibili. Sono sicuramente i popoli più vulnerabili del pianeta.

Dei popoli incontattati si sa poco, se non che il loro
isolamento è sempre frutto di una scelta obbligata, compiuta per sopravvivere
alle invasioni. Molti di loro hanno sofferto la perdita dei loro cari per mano
dell’uomo bianco nel corso di decenni di massacri silenziosi o per effetto del
dilagare di epidemie. Sono proprio le malattie introdotte dall’esterno,
infatti, a costituire la principale causa di morte tra loro, perché non hanno
difese immunitarie contro virus da noi molto comuni come l’influenza, il morbillo
o la varicella.

Spesso, sono essi stessi dei sopravvissuti, o discendono
da sopravvissuti ad atrocità commesse in epoche precedenti. Violenze
raccapriccianti che hanno lasciato segni indelebili nella loro memoria
collettiva, inducendoli a rifuggire da ogni contatto con il mondo esterno. Gli
antenati degli attuali popoli amazzonici isolati furono sterminati dal fenomeno
brutale e devastante della schiavitù che accompagnò il boom del caucciù alla
fine del XIX secolo. Il 90% di loro morì. I popoli incontattati vivono tutti in
modo autosufficiente: di ciò che la foresta dona loro. Le loro vite sono
profondamente legate a quella del loro ambiente. Per questo, la protezione
delle terre che abitano e delle risorse che utilizzano è fondamentale per la
loro sopravvivenza. Spesso lo stile di vita nomade o seminomade (basato sulla
caccia, sulla pesca e sulla raccolta) è il risultato delle persecuzioni che
hanno sofferto, come nel caso degli Awá brasiliani. Si pensa infatti che un
tempo gli Awá fossero agricoltori stanziali, e che si siano solo
successivamente frammentati in gruppi di 20-30 persone sotto l’avanzata dei
bianchi, passando poi alla vita nomade, che offriva più alte possibilità di
sopravvivenza. Nessuno sa con esattezza quanti siano (probabilmente 460, di cui
un centinaio vive completamente isolato nelle foreste dello stato del
Maranhão), ma possono certamente essere considerati la tribù più minacciata
della Terra. Sette di loro morirono nel 1979, avvelenati con la farina intrisa
di un pesticida letale lasciata «in dono» dai coloni… Oggi sono assediati da
orde di taglialegna illegali che, quando li vedono, li uccidono. La maggior
parte dei popoli incontattati vive ancora oggi in fuga perenne. Cercano di
sopravvivere rifugiandosi in luoghi sempre più remoti. Tuttavia, l’avanzata
della cosiddetta «civilizzazione» sta rendendo sempre più difficile la loro
stessa sopravvivenza. In ogni paese del mondo sono circondati su tutti i
fronti: le compagnie petrolifere e di disboscamento invadono i loro territori
in cerca di risorse naturali, i coloni usurpano le loro terre e le convertono
in allevamenti di bestiame e aziende agricole. Le strade attraversano le loro
terre aprendo le porte a bracconieri, missionari fondamentalisti e turisti, e
introducendo il rischio di incontri violenti e malattie. Le foreste da cui
dipendono per il loro sostentamento vengono tagliate a ritmi vertiginosi; la
selvaggina è sempre più scarsa.

Alcuni pensano che i popoli tribali, in particolare
quelli incontattati, siano reliquie del passato, reperti archeologici destinati
inevitabilmente all’assimilazione culturale ed economica, oppure
all’estinzione. Ma non è così. Certamente, la loro estrema vulnerabilità alle
aggressioni estee è aggravata dal mancato riconoscimento del loro diritto
specifico all’isolamento volontario. Eppure, la storia dimostra che laddove le
loro terre vengono riconosciute legalmente e protette in modo adeguato, il loro
futuro è assicurato. Al contrario, il primo contatto forzato costituisce sempre
un’enorme minaccia e, quasi invariabilmente, qualsiasi sia la ragione per la
quale viene compiuto, si trasforma in una catastrofe fatta di impoverimento,
malattia, disperazione e morte.

In
Perú, padre Piovesan (vedere riquadro di pagina 28, ndr) – alla radio e
su altri mezzi di comunicazione – continua a porre ai suoi ascoltatori una
domanda solo apparentemente innocua: «Si salva un popolo se lo si isola o se lo
si integra? Si migliora una comunità mettendola a contatto con altri o
mantenendola isolata?». A lui Survival e tutti coloro che hanno a cuore la vita
dei popoli indigeni non possono che rispondere in un solo modo: «Se, come e
quando interagire con il mondo esterno è una decisione che spetta solo a loro,
e a nessun altro». Riconoscere e proteggere il diritto alla proprietà della
terra dei popoli indigeni, inclusi quelli incontattati, è la chiave della loro
sopravvivenza. Solo così potranno mantenere il controllo delle loro vite e
decidere autonomamente del loro futuro lasciandosi alle spalle secoli di
colonizzazione e patealismo. Il diritto alla terra e all’autodeterminazione
sono sanciti oggi anche dalla Convenzione Ilo 169, che è la legge
internazionale più importante in materia di popoli indigeni, e dalla
Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni e tribali approvata dall’Onu nel
settembre 2007. Non possiamo cambiare il passato ma possiamo certamente evitare
che la storia si ripeta semplicemente facendo rispettare la legge.

Francesca
Casella*

*
Dal 1989 Francesca Casella è direttrice della sede italiana di Survival Inteational.
Collaboratrice di varie testate giornalistiche, ha curato l’edizione nazionale
del volume Siamo tutti uno. Omaggio ai
popoli indigeni della Terra
. SITO: www.survival.it

Scheda ______________________

I popoli isolati del Perú


Basta un raffreddore

Nelle regioni più remote del Perú
vivono almeno 15 popoli isolati distinti. Alcuni entrarono in contatto con il
mondo esterno tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, durante il boom
del caucciù che li decimò e li spinse a scegliere l’isolamento per assicurarsi
la sopravvivenza. Altri gruppi, invece, potrebbero non essere mai entrati in
contatto con l’esterno. Tra i gruppi di cui si conosce il nome ci sono gli
Isconahua, i Capanahua, i Cacataibos, i Murunahua, i Mastanahua, i Machigengua,
i Nanti, gli Ashaninka e i Mashco-Piro.

Sono quasi
tutti cacciatori-raccoglitori nomadi e vivono di caccia e pesca. Amano le uova
di tartaruga, che raccolgono lungo le rive dei fiumi in primavera, quando le
acque si ritirano. Alcuni coltivano piccoli orti. Sono concentrati soprattutto
nel Perú Sud orientale, ma ci sono stati avvistamenti anche nel Nord-ovest,
vicino al confine con l’Ecuador, e a Nord-est, al confine con il Brasile. Tra i
fiumi più frequentati ci sono il Tahuamanu, il Las Piedras, il Los Amigos, il
Manu, il Purús, il Curanja, lo Yurua e il Serjali.

Oltre la metà
dei Nahua, che all’epoca erano incontattati, fu sterminata nei primi anni ’80,
quando iniziò l’esplorazione petrolifera nella loro terra. La stessa tragica
sorte toccò ai Murunahua a metà degli anni ’90, dopo il contatto con i
taglialegna che abbattevano illegalmente il mogano. Jorge è uno dei Murunahua
sopravvissuti, e ha perso un occhio durante il contatto. «Con i taglialegna
arrivò anche l’epidemia – ha raccontato a noi di Survival -. Prima non
sapevamo nemmeno cosa fosse un raffreddore. La malattia ci ha uccisi. La metà
di noi sono morti. Mia zia è morta, mio nipote è morto. È morta la metà del mio
popolo».

Nonostante
siano state create cinque riserve a uso esclusivo degli indiani isolati, i loro
territori continuano a essere invasi diffondendo violenze e malattie letali. La
situazione è particolarmente grave là dove si trovano alcune delle ultime
riserve di mogano rimaste al mondo: approfittando della mancanza di efficaci
controlli da parte dello stato, i taglialegna illegali saccheggiano le foreste
liberamente mettendo a repentaglio la vita dei popoli isolati che vi abitano.
Il governo peruviano ha anche autorizzato alcune compagnie petrolifere a
condurre prospezioni nelle terre di queste tribù, facilitando ulteriormente
l’ingresso di coloni e taglialegna in zone che un tempo erano remote. Altre
gravi minacce vengono dalla ricerca mineraria, dalla costruzione di nuove
strade e da missionari estremisti che vogliono entrare in contatto con gli
indiani isolati a qualsiasi costo.

Survival sta
cercando anche di fermare l’espansione del gigantesco progetto energetico
Camisea all’interno della Riserva Nahua-Nanti, promosso dalle compagnie
petrolifere Pluspetrol, Hunt Oil e Repsol. I lavori comporterebbero il
disboscamento di aree di foresta pluviale, la detonazione di migliaia di
cariche esplosive e la perforazione di pozzi. L’espansione viola sia le leggi
peruviane sia quelle inteazionali, ed è contestata anche dalla Commissione
Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale (Cerd), che ha chiesto la
sospensione immediata del progetto.

Francesca
Casella

Opinione ________________________

Purús (Perú): Una lettera da «Survival Inteational»


Una questione di vita o di morte

I commenti di padre Miguel Piovesan
e monsignor Francisco González Heández – pubblicati da MC nell’ottobre 2013 (Senza
uscita
) – sono estremamente faziosi e omettono dettagli importanti sui
problemi che deriverebbero dalla costruzione di una strada di collegamento tra
le città di Puerto Esperanza e Iñapari. Vi scriviamo quindi per chiarire alcuni
punti e permettere ai Vostri lettori di comprendere meglio la vicenda.

Puerto
Esperanza è una comunità isolata del Perú sud-orientale, al confine con il
Brasile. Come molte altre città amazzoniche (anche grandi come Iquitos), Puerto
Esperanza non è raggiungibile su strada ma solamente via fiume o,
limitatamente, per via aerea. Una parte degli abitanti è costituita da coloni,
ed è soprattutto la loro voce che padre Miguel Piovesan e monsignor Francisco
González Heández hanno riportato nelle loro lettere. Tuttavia, l’80% della
provincia del Purús è abitata da diversi popoli indigeni che vivono sia
all’interno della città sia in insediamenti estei.

Non solo. In
questo angolo isolato del Perú vivono anche altri gruppi di persone. Sono gli
indiani incontattati: gruppi che non hanno alcun contatto pacifico con il mondo
esterno e attraversano frequentemente il confine tra Perú e Brasile. Si pensa
appartengano alla tribù dei Mashco-Piro e sono state raccolte molte prove della
loro esistenza proprio lungo il percorso proposto per la strada. Cancellarli
dal dibattito significa omettere la ragione principale per la quale questa
strada non può essere costruita, né legalmente né eticamente.

Gli indiani
incontattati sono tra i popoli più vulnerabili del pianeta. Non hanno difese
immunitarie verso le malattie portate dall’esterno e, spesso, è accaduto che in
pochissimo tempo almeno la metà di una tribù sia stata sterminata dalle
epidemie introdotte con il «primo contatto».

Oltre a
questi pericoli immediati dovuti al contatto, la costruzione della strada
provocherebbe anche la rapida distruzione della loro foresta. Prove evidenti si
trovano poco distante da lì, in Brasile, proprio a Est della strada proposta.
Le immagini satellitari mostrano quello che è definito l’effetto «a spina di
pesce» provocato dalla costruzione della strada BR 317: una volta aperto
l’accesso a terre un tempo remote, la regione è stata invasa da voraci
taglialegna e ampie zone di foresta sono state disboscate.

Secondo padre
Miguel Piovesan e monsignor Francisco González Heández, per la popolazione
del Purús la strada costituirebbe «la salvezza» poiché porterebbe, dichiarano,
lo «sviluppo» di cui hanno bisogno i poveri abitanti del luogo. È innegabile
che in quest’area vi sia una vergognosa mancanza di sostegno da parte del
governo. Allo stesso tempo, però, è indubbio che la strada porterebbe più
problemi che benefici non solo ai gruppi incontattati ma anche ai popoli
indigeni locali, la maggioranza dei quali si è detta fermamente contraria al
progetto.

Survival difende i diritti dei popoli
incontattati, in Perú e nel resto del mondo. Le tribù incontattate non possono
essere consultate sulla strada o su qualsiasi altro progetto di «sviluppo» che
li riguardi. Per loro, la strada proposta nel Purús causerebbe solo la
diffusione di malattie, la distruzione della loro terra e, in conclusione,
segnerebbe la loro fine. Sono gli abitanti originali di questa regione, com’è
possibile ignorare i loro diritti territoriali?

Padre
Piovesan ha definito gli indiani «arretrati» e tecnologicamente «preistorici».
Durante la sua trasmissione radiofonica settimanale, che si scaglia con
veemenza contro qualsiasi individuo o organizzazione si opponga alla «necessità
urgente» di costruire la strada, si è riferito agli indigeni del Purús
chiamandoli addirittura «porci e vermi»1. Ma è impossibile immaginare in
che modo questo progetto possa portare qualche tipo di «sviluppo» positivo agli
indiani incontattati del Purús. Per questi cacciatori-raccoglitori nomadi,
infatti, la terra non è solo sacra, ma è anche essenziale per la sopravvivenza.
Senza la foresta, cesserebbero semplicemente di esistere.

Infine, non
si deve dimenticare che la costruzione della strada sarebbe illegale sia
secondo la legge peruviana sia secondo quella internazionale, e che il progetto
è stato definito «impraticabile» e «incostituzionale» da tre ministri
peruviani. Se la strada venisse comunque approvata, le conseguenze sulle vite
di migliaia di indigeni sarebbero devastanti2. Per risolvere il problema
dell’isolamento della regione non si possono spazzare via interi popoli.

Rebecca
Spooner, Survival
Inteational*, Londra

Note
(1)  Radio Esperanza: riportato nel documento
dell’organizzazione indigena Feconapu, giugno 2012, pagina 2, punto 4 (leggere nota del direttore di MC
a pagina 29, ndr).
(2)  Per maggiori informazioni, consigliamo di
leggere il rapporto di «Global Witness»: www.globalwitness.org.

(*)
Fondata nel 1969, Survival aiuta
i popoli indigeni di tutto il mondo a difendere le loro vite, a proteggere le
loro terre e a decidere autonomamente del loro futuro. Con sedi e centri di
supporto in Europa e negli Stati Uniti, Survival lavora perché vengano
riconosciuti ai popoli indigeni i loro diritti fondamentali contro ogni forma
di violenza, persecuzione e genocidio. Apartitica e aconfessionale, lavora a
stretto contatto con le organizzazioni indigene locali offrendo loro assistenza
legale e un palcoscenico da cui rivolgersi direttamente al resto del mondo;
promuove campagne di informazione e pressione per il largo pubblico e porta
nelle scuole laboratori di educazione alla diversità e alla pace. Sito multilingue:
www.survivalinteational.org.

Nota di redazione ________________

Un reportage da Madre de Dios di
Paolo Moiola, pubblicato nei mesi di giugno, luglio e agosto 2012, ha suscitato
l’indignazione del parroco di Puerto Esperanza (Purús), p. Piovesan, che lo ha
letto solo nel 2013 tornando in Italia per una vacanza. Su sua richiesta
abbiamo riconosciuto al sacerdote il diritto di replica sulla rivista di
ottobre 2013. Nell’articolo p. Piovesan e il suo vescovo, mons. Heández,
accusano amaramente i «Wwf-ecologisti» di manipolare dal di fuori la
situazione, non per il bene della gente locale ma per i propri fini.
L’organizzazione Survival Inteational, coinvolta nella vicenda, ha chiesto a sua volta il diritto di
replica, che concediamo volentieri in questo numero, pur non condividendone
alcune parti troppo ad personam.

Per noi, come rivista MC, il
dibattito circa la strada del Purús finisce qui. Non vogliamo diventare veicolo
di scambio di accuse a distanza tra persone e organizzazioni (da noi stimate)
che, pur avendo a cuore la stessa realtà, hanno visioni molto diverse e, almeno
al momento, non sembrano molto disponibili ad ascoltarsi.

Gigi Anataloni, Direttore di MC

 

Francesca Casella




Il lago che dà vita

Reportage dal Lago Mweru


Al confine tra Zambia e Congo Rd, il Lago Mweru è una
risorsa per decine di migliaia di persone. Ma negli ultimi anni i pesci sono
diminuiti, mentre i pescatori sono aumentati a dismisura. Occorre puntare su attività
alternative, come la piscicoltura. Mentre la Cina sta invadendo il mercato di
pesce surgelato.

Mweru significa «lago» in alcune lingue Bantu, per
questo, spesso, quando la gente del posto si riferisce al lago Mweru, lo chiama
semplicemente Mwelu (la pronuncia locale sostituisce la r con la l). Da sempre
le acque del lago, che fanno parte del bacino del fiume Congo, secondo per
portata d’acqua solo al Rio delle Amazzoni, hanno costituito un’immensa fonte
di ricchezza per gli abitanti dei due paesi confinanti: lo Zambia, sull’argine
meridionale e la Repubblica Democratica del Congo al Nord.

Nonostante la passata gloriosa ricchezza delle acque,
oggi pescatori, commercianti e contadini fanno tutti la stessa constatazione: «Nel
lago Mweru non ci sono più pesci».

La pesca dagli anni Settanta è diventata in queste zone
un’attività sempre più attrattiva. Essendo libera, perché non è richiesta
alcuna licenza, e priva di regolamentazione, il numero di pescatori è cresciuto
immensamente e nel 2011 sul lago se ne contavano oltre 22.000. Per contrastare
l’impoverimento delle acque dal 1986 lo Zambia ha attivato un periodo annuale
di divieto di pesca, che va dal primo dicembre al primo marzo, per permettere
ai pesci di riprodursi. Nel 2011 è stata anche promulgata una legge che
istituisce il reato della pesca illegale: chi durante il periodo di divieto
viene sorpreso a pescare o in possesso di pesce è sanzionabile con multe e con
la reclusione. Tuttavia, le autorità responsabili non hanno mezzi sufficienti
per garantire l’applicazione del divieto. Eest Ngula, del Dipartimento della
Pesca nel municipio di Nchelenge, lo dice chiaramente: «Le barche che abbiamo
per il pattugliamento sono vecchie, non abbiamo sufficiente benzina e non
sempre siamo scortati dagli agenti della polizia».

Risorse da condividere

Come ci spiega Joyce Nsamba, la
rappresentante per il ministero dell’Agricoltura e Allevamento dello Zambia
(che si occupa anche di pesca) nella provincia di Luapula, nel Nord del paese,
il fiume Luapula, che traccia il confine tra Zambia e Rd del Congo prima di
gettarsi nel lago Mweru, non è una vera frontiera. I pescatori di entrambi i
paesi ne traggono la loro unica fonte di sostentamento e lo attraversano
quotidianamente.

Sono numerosi i congolesi che vivono sul
versante dello Zambia. Pochi sono registrati ufficialmente, ma preferiscono
questo lato perché i servizi e le infrastrutture, malgrado siano scarse, sono
migliori che sull’altro versante. In generale non ci sono problemi di
convivenza, ma non ci sono neanche politiche di gestione comune, né un sistema
condiviso per raccogliere informazioni sullo stato delle risorse ittiche.

Lo stesso vale per il lago Mweru. Anzi, gli
approcci utilizzati sono molto distinti. Lo Zambia ha optato per una
co-gestione della pesca, ovvero un sistema dove vengono coinvolti in comitati
locali i pescatori, le autorità tradizionali e i funzionari del ministero, per
promuovere una gestione sostenibile delle risorse anche attraverso la
sensibilizzazione e la diversificazione delle fonti di reddito. In Congo,
invece, il sistema di controllo è gestito dall’esercito, spesso corrotto.

A inizio giugno, un pescatore dello Zambia è
stato ucciso dai militari perché trovato in acque congolesi mentre praticava la
pesca illegale. In passato, si sono spesso verificati casi di arresti e
detenzione, ma la morte del pescatore ha suscitato scalpore. Il presidente del
distretto di Nchelenge, Mudenda, spiega che adesso anche dal lato dello Zambia
arriveranno alcuni contingenti dell’esercito per aiutare nel controllo del lago
e per ridurre la pesca illegale. Malgrado sia necessaria una gestione più
uniforme ed efficace del lago, il rischio in questo modo è di promuovere una
militarizzazione delle acque.

La pesca è vita

I pescatori sono persone semplici e a basso
reddito, spesso la pesca è la loro unica fonte di sostentamento e con l’attuale
stato delle risorse ittiche, usare metodi illegali è diventato per loro il solo
modo per riuscire a sopravvivere. I metodi più diffusi sono l’utilizzo di reti
molto fini, come le zanzariere, per riuscire a catturare i pesci anche di
piccola taglia, ma si ricorre anche a esplosivi rudimentali e al veleno
chiamato localmente ububa. Di notte nel lago si possono vedere delle
tenui luci galleggianti: sono i pescatori che cercano di scappare ai controlli.

Il dottor Abila, esperto di risorse ittiche
che lavora nella Provincia di Luapula per fornire assistenza tecnica al
ministero dell’Agricoltura e Allevamento, è convinto che occorra insistere sul
principio di co-gestione della pesca e promuovere attività alternative per i
pescatori, in particolare l’acquacoltura: «Il pesce fa parte della dieta
locale, la domanda di questo prodotto è superiore all’offerta disponibile, e
per questo la pesca di allevamento ha potenziali enormi. Però occorre appoggio
tecnico, e un credito iniziale per avviare l’attività. Ci sono già oltre 2.000
vasche di allevamento nella regione, ma la produttività è bassa e poco
redditizia, specie per il costo degli alimenti da dare ai pesci. Stiamo
portando avanti il principio di allevamento integrato, ovvero associare
all’acquacoltura, la produzione agricola e l’allevamento di polli, galline e
maiali, perché gli scarti animali e vegetali sono un ottimo alimento per i
pesci. Ma ci va del tempo per avere risultati, e i cinesi sono già dietro
l’angolo con i loro pesci surgelati, pronti a invadere il mercato».

Attualmente infatti si calcola che l’80% del
pesce consumato in Zambia sia importato da Cina e Zimbabwe. In Cina la pesca
d’allevamento è sussidiata e i prezzi sono più competitivi, mentre in Zambia
l’acquacultura è ancora molto disorganizzata, non beneficia di economie di
scala e non riceve sufficiente supporto dalle politiche governative.
L’agricoltura è sempre stata sussidiata dallo stato, attraverso la
distribuzione di fertilizzanti e l’acquisto del mais a un prezzo sovvenzionato,
invece la pesca e l’allevamento non hanno beneficiato di analoghi incentivi.

Commercio al femminile

Se la pesca sul lago Mweru è attività
principalmente maschile, la commercializzazione dei pesci è riservata alle
donne. Si riuniscono all’alba sulle rive del lago e aspettano, armate di
bacinelle, l’arrivo delle piccole barche sgangherate dei pescatori, che sono
letteralmente prese d’assalto ancora prima di toccare terra. «Siamo troppe
commercianti, ormai è diventato durissimo ottenere il pesce da vendere. È una
vera lotta, ogni mattina. Non c’è abbastanza pesce per tutte» spiega Janet, del
quartiere di Queens, municipio di Nchelenge. Lei, insieme ad altre donne, fa
parte dell’Associazione della Pesca di Luapula. Hanno uno spazio dove fare il
mercato, i prezzi sono prestabiliti e la qualità è garantita.

Il principale prodotto del lago è la tilapia,
la comprano a unità, sei pezzi costano 50 kwacha (la valuta locale,
circa sei euro), e li rivendono a 60 kwacha. In media vendono circa
sessanta pesci a giornata, per un ricavo totale di 60 kwacha. I prezzi
variano in base alla stagione, ma il ricavato è abbastanza costante.

Poi c’è il periodo del divieto della pesca,
dove è proibito commercializzare il pesce fresco. Resta il pesce sotto sale e
affumicato che si conserva a lungo. Disposti sui banchi, infatti, si vedono
anche ordinati i pesciolini dorati e bianchi, conservati con delle tecniche
tradizionali tipiche degli isolani.

«I pesci secchi li preparano gli indigeni
delle isole, è da loro che li compriamo» ricorda Janet. Nel lago Mweru ci sono
varie isole flottanti, e sul versante dello Zambia due sono le più estese e
abitate da oltre 28.000 persone. Sulle due isole però non c’è alcun tipo di
servizio: né scuole, né ospedali, né elettricità. In queste comunità, la piaga
dell’Hiv è ancora preoccupante: l’alta mobilità dei pescatori, le relazioni di
potere con le commercianti, i flussi transfrontalieri e lo scarso accesso a
strutture sanitarie ne favoriscono la diffusione, malgrado si possa constatare
una generale consapevolezza e informazione sulla malattia.

Lungo la strada che costeggia il fiume Luapula
si vedono ragazzini con pesci in mano che cercano di vendere alle rare macchine
che passano. Chisela ha un sorriso fulminante mentre mostra la sua «preda»: è
un pesce gatto di oltre quattro chili. Il dottor Abila spiega che i pesci nella
stagione della pioggia, tra maggio e ottobre, risalgono dal lago il corso del
fiume dove si riproducono. «Vedendo pesci di questa taglia è difficile
affermare che ci sia un sovra-sfruttamento biologico delle risorse ittiche; è
invece più corretto parlare di sovra-sfruttamento economico delle acque dovuto
a una crescita sproporzionata del numero di pescatori, barche e reti. Oggi, per
darvi un dato chiaro, la resa della pesca annuale di un pescatore è di circa la
metà di quindici anni fa: si è passati da 1,3 tonnellate a 0,6».

Morgan, cornordinatore del comitato per la
gestione della pesca del villaggio di Chitondo lo dice chiaramente: «Mwelu non è
più quella miniera d’oro che era in passato; dobbiamo prendee atto, e
comportarci di conseguenza».

Ermina
Martini


Insieme per il lago

Nella regione di Luapula il ministero dell’Agricoltura e
l’Allevamento, supportato dai programmi di cooperazione  promossi da Finlandia e Giappone, ha
istituito 136 comitati di villaggio per la gestione della pesca. Sono gruppi di
volontari, in media otto per ogni comitato, eletti a livello di villaggio, che
hanno ricevuto formazioni specifiche e assumono la responsabilità di promuovere
il rispetto delle norme della pesca attraverso la sensibilizzazione e il
controllo.

Fare parte del comitato è vissuto come un onore, ma non
mancano le frustrazioni. Spesso i membri dicono di non avere nessuno strumento
per operare, e usare il controllo sociale e dare il buon esempio non sono
sufficienti.

Bisogna promuovere attività alternative per i pescatori, come
l’agricoltura e l’allevamento, ma il ministero manca dei mezzi. Nelle
sensibilizzazioni si parla anche dell’aspetto ambientale per prendere coscienza
di come il lago stia cambiando e del problema dell’Hiv.

E.M.

Ermina Martini




Dove i contadini sono poeti

Sertão / Incontro con Zé Vicente,
Il sertão è una regione semiarida del Nord-est brasiliano. A Orós, nello stato di Ceará, abbiamo incontrato Zé Vicente, noto poeta e musicista, vicino alla Teologia della liberazione e alle Comunità ecclesiali di base. L’artista è anche ideatore di «Sertão vivo», un progetto di sviluppo alternativo che – partendo dall’arte, dall’educazione ambientale, dalla salvaguardia delle tradizioni contadine – cerca di costruire il bem-viver, il «buon vivere».

Orós (Ceará).
«Il problema del sertão non è la siccità ma il recinto
del padrone»1 recita un detto popolare del Nord-est
brasiliano. Ancora oggi è questa la realtà sociale della regione semi-arida del
Brasile, che Zé Vicente, poeta-contadino-ecologista, mistico, cantante e autore
di musica popolare celebrativa, descrive nelle sue composizioni. Rime e ritmi
che hanno le radici nella tradizione nordestina dei repentistas, maestri
dell’improvvisazione, e degli agricoltori poeti del Ceará, come Patativa de
Assaré, che trovava nel lavoro della terra i motivi della sua ispirazione.

Negli anni ’90, Zé Vicente ha ideato il progetto «Sertão
vivo», con questa convinzione: uno sviluppo alternativo è possibile e, nel caso
del sertão, significa imparare a con-vivere con la siccità, partendo dal
rispetto della natura, riscattando e valorizzando i saperi tradizionali. Contro
la logica delle grandi opere che devastano l’ambiente e sradicano dai loro
territori migliaia di persone.

Per intervistarlo siamo andati nel municipio di Orós,
centro-sud dello stato del Ceará, a 400 km dalla capitale Fortaleza, nel sitio2 Aroeiras, sede del «Sertão
vivo». Qui si realizzano attività di arte ed educazione ambientale rivolte agli
abitanti delle comunità vicine e si incontrano alternativamente teologi della
liberazione e operatori olistici, custodi delle sementi e «profeti della
pioggia» per apprendere e celebrare l’arte del bem-viver (buon vivere)
nel sertão.

Zé Vicente, innanzitutto vorrei chiederti
qual è la definizione che più ti si addice: artista, attivista/ecologista,
educatore popolare, mistico o piuttosto tutte queste cose insieme?

«Sono un essere umano, poeta-agricoltore, innamorato del
mio popolo e della mia terra, del pianeta e delle sue radici sacre. Vivo nella
costante ricerca di una dimensione superiore. Attraverso la poesia e la musica
solidarizzo con la mia gente e con tutti coloro, soprattutto i giovani, che
sono in cerca di una fede matura e impegnata di fronte alle profonde
trasformazioni sociali ed ecologiche del nostro tempo».

Zé, tu sei molto attivo in campo sociale
nello stato del Ceará ed in altri stati del Nord-est collaborando con le
Comunità ecclesiali di base (Cebs). Secondo te, che capacità ha oggi la Chiesa
brasiliana di negoziare con le istanze politiche del tuo paese legate a un
modello economico «sviluppista» che produce conseguenze ambientali irreparabili
e che aumenta le diseguaglianze sociali?

«Penso che stiamo attraversando un momento molto
delicato: la situazione della vita sulla terra e dello stesso pianeta desta
molta inquietudine e preoccupazione. Siamo in una situazione di emergenza. Di
fronte a tutto ciò le Chiese e le religioni, così come tutte le altre grandi
istituzioni economiche e politiche non possono restare a guardare ma al
contrario devono incoraggiare i popoli ad assumere le attitudini necessarie ad
affrontare questa situazione. Non bastano i grandi meeting, i congressi,
i documenti, i culti: c’è bisogno di intraprendere azioni che abbiano impatto
in tutti i campi della società. Anche noi artisti possiamo, anzi, abbiamo
l’obbligo di esprimere, attraverso l’arte, l’utopia e di dare voce alle
rivendicazioni del nostro tempo. Se poi le chiese rimarranno in silenzio, nuove
forze nasceranno per fare clamore e lottare.

Io credo che i settori rappresentativi della Chiesta
cattolica abbiano ancora la forza morale e l’obbligo etico di dialogare e far
pressione su tutte le istanze del potere e sui governi affinché prendano
decisioni in difesa della giustizia, della pace e della vita in tutti i settori
della società, specialmente in favore delle moltitudini di esclusi ed
emarginati dal sistema».

Zé, so che hai rapporti stretti con alcuni
esponenti della Teologia della liberazione: Marcelo Barros, Carlos Mesters, tra
gli altri. Ritieni che si tratti di una corrente ancora espressiva in Brasile?

«È vero, ho buone relazioni con gli amici e le amiche
della Teologia della liberazione. Credo che essa rappresenti ancora oggi un
riferimento vivo nella nostra “camminata”.

Devo dire però che mi sento ancora più legato alle
piccole pratiche quotidiane realizzate nella base e ai tanti leader
popolari che agiscono nell’ombra, lontano dai media. Sono loro che, a mio
parere, fanno la differenza. Sono giovani, lavoratrici e lavoratori, che
troviamo per le strade, nelle campagne, senza terra, senza tetto e senza molte
altre cose, ma pieni di volontà.

Finché esisterà una sola persona esclusa, oppressa, la
Teologia della liberazione avrà significato e dovrà vivere per annunciare la
buona novella della liberazione, che Gesù ci ha dato e che lo Spirito rivela
ogni momento».

Ho avuto l’opportunità di conoscere
personalmente il progetto di sviluppo alternativo che porti avanti nella tua
terra d’origine, il sertão cearanse. Un progetto basato sulla
sensibilizzazione, coscientizzazione e lavoro rivolto alla sostenibilità
economica, socio-ambientale e culturale a livello familiare e comunitario.
Potresti raccontarci la nascita e le finalità del progetto? Si tratta di un
caso isolato o può funzionare da modello di riferimento nella regione, nello
stato del Ceará e in altre zone del Brasile?

«L’esperienza che ha portato alla nascita del progetto
“Sertão vivo” è il segno più concreto della mia passione artistica, come poeta
e musicista, per la camminata del mio popolo. La mia arte sarebbe incompleta se
non sapessi creare nella mia famiglia e nella gente della mia regione
l’“incanto” per qualcosa di più immediato, più concreto, più vicino alla vita,
come la cura della terra, dell’ambiente e dell’essere umano.

Ogni mese da Fortaleza, città dove sono emigrato, too
nel sitio Aroeiras, nella casa dei miei genitori, per mantenere vivo il
legame con la mia famiglia, con gli antenati e sensibilizzare la mia comunità
attraverso le giornate di “Arte e Vita”: seminari sull’alimentazione naturale (na
roça e na comida sertão vivo com mais vida
3, lo slogan utilizzato
per questa giornata) e nuove pratiche agricole
e di preservazione della natura di cui siamo parte – per coltivare senza
bruciare il terreno e senza usare agrotossici, camminate ecologiche, laboratori
di musica, teatro, pittura, medicina naturale e alternativa, incontri con i
“custodi delle sementi e delle esperienze della pioggia”4,
senza trascurare le nostre feste tradizionali come San Giovanni, celebrata nel
mese di giugno, dove la gente, tra canti e danze, esprime una fede
profondamente radicata nella cultura. Tutte queste attività sono realizzate
utilizzando il linguaggio e l’essenza dell’arte come punto di partenza e di
arrivo e adottando una mistica di rispetto e dialogo con le differenze
culturali, politiche e religiose, cercando di riunire sempre più persone per la
grande mobilitazione che il presente e il futuro dell’umanità e del pianeta
richiedono.

Questo, in breve, è quello che realizziamo attraverso la
nostra micro esperienza. Non abbiamo la pretesa di essere un punto di
riferimento per altre iniziative, ma qualora accadesse ne saremo felici. Anche
se una maggiore visibilità comporta sempre sfide e rischi e questo mi preoccupa».

Come valuti lo stato di salute dei movimenti
sociali in Brasile e le manifestazioni che hanno percorso il tuo paese nei mesi
scorsi?

«Rispetto alla salute dei movimenti sociali e popolari,
tutto quel che accade in Brasile non è separato da quel succede in tutti gli
angoli del mondo. Stiamo in un momento di passaggio. Si parla di cambiamento
epocale, totale, planetario e, pertanto, abbiamo bisogno di molta ricerca,
studio, silenzio e impegno per comprendere e costruire nuovi cammini. Io voglio
continuare a dare il mio contributo, con la poesia e la musica, affinché la
gente alimenti la Speranza, la meraviglia di fronte allo spettacolo della vita
e l’allegria di lottare sempre per la vera trasformazione dell’umanità e della
terra». 

Quest’anno
(2013) Zé Vicente ha lanciato il suo ultimo album Zé Vicente da esperança,
nuovo nome del poeta ecologista e contadino, figlio del sertão, delle forze
della natura e del tenace popolo nordestino che non abbandona mai la speranza. «Perché
è la speranza – dice Zé Vicente -, che ci fa vincere il deserto e arrivare alla
terra dell’abbondanza, della giustizia, della pace».

Silvia
Zaccaria

Note:

1 – In portoghese: «O problema do sertão não è a seca,
mas a cerca do patrão». Il verso gioca sull’assonanza tra la parola seca
– siccità – e cerca – recinto.
2 –  «Piccola
proprietà», tenuta agricola, ma anche «locus amenus», ritiro, riparo.
3 –  «Nel campo e
nel piatto sertão vivo, con più vita».
4 – L’obiettivo dell’iniziativa è quello di mantenere
viva la tradizione, la memoria degli antenati che nei mesi di dicembre e
gennaio erano soliti fare previsioni sull’inverno che nel sertão indica la
stagione delle piogge. I partecipanti agli incontri sono contadini che, sin da
bambini, accompagnavano i nonni nelle loro esperienze di previsione delle
piogge, sulla base della direzione e potenza del vento e l’osservazione della
natura. L’incontro si chiude con scambio dei semi non transgenici con
l’obiettivo di creare una banca di semi nativi. 

 
         Il sertão, tra siccità e ingiustizie                       

Il sertão (dal portoghese «desertão»)
è una regione semi-arida che abbraccia gli stati del Nord-est brasiliano:
Bahia, Sergipe, Alagoas, Peambuco, Paraiba, Rio Grande do Norte, Piauí e Ceará
e il Nord dello stato di Minas Gerais. La vegetazione caratteristica di questa
regione è la caatinga, che consiste principalmente di cespugli bassi e
spinosi, capaci di adattarsi al suo clima estremo. Tra le specie originarie
della caatinga c’è il cactus mandacarù, i cui frutti rossi
spiccano nella macchia. La zona è soggetta periodicamente a secas
(siccità), causando spesso negli anni gravi carestie. Durante quella del 1877,
considerata la peggiore di tutte, solo nel Ceará morirono 500.000 persone,
dando origine al fenomeno dei retirantes, migranti che, abbandonato
tutto, andavano verso le grandi città costiere o verso il sud del paese in
cerca di fortuna e di migliori condizioni di vita. Una migrazione che non si è
mai fermata.

Questa regione ha ispirato una
ricca ed originale produzione letteraria e cinematografica, tra cui spiccano il
romanzo Grande Sertão di João Guimaraes Rosa e il film Deus e o diabo
na terra do Sol
(«Il dio nero e il diavolo biondo») di Glauber Rocha: in
una terra senza stato, dove vige la legge del più forte, vaccari e piccoli
contadini cercano di sfuggire alla miseria e allo sfruttamento dei padroni
mettendosi al seguito di santoni fanatici o dei banditi, i cangaçeiros.
La siccità e i retirantes, i movimenti millenaristi e l’epopea del cangaço
sono inoltre il tema ricorrente della letteratura di cordel (lett. «dello
spago») illustrata con la tecnica della xilografia, della musica e della poesia
popolare, di cui uno dei maggiori esponenti è stato il cearense Patativa do
Assaré (1909-2002). Zé Vicente si inserisce nella tradizione inaugurata da
Patativa, che conobbe da giovane e da cui, come dice lui stesso, fu
influenzato. La principale tematica dell’opera di Patativa è la seca,
problema cronico del sertão, mentre Zé Vicente addita un nemico ancora
più odioso: l’ineguale distribuzione delle terre e la mancanza di accesso
all’acqua.

Silvia Zaccaria

       TEMPO DI POESIA                            

«Per questo nostro tempo trafitto
dal dolore,
segnato dalla guerra,
di notti insonni
porto in me una meta:
la poesia concreta
esplicita
lucida
attraente
fatta corpo
emancipato
nella primavera della vita!

Ho qui nel mio petto
un progetto:
il nostro campo
un rifugio
da piantare
coltivare
ricreare
e raccogliere,
i fiori
e i frutti
del sogno vivo
divenuto alimento
cibo per gli sposi
e per le feste,
con sapore, intenso,
d’amore!

Metto sulle labbra
di questo giorno
qualcosa di più.

La certezza dell’incontro
della comunione,
superando l’indifferenza
colmando l’assenza,
lasciando che succeda
la più bella sapienza:
stare insieme
danzare insieme…

La canzone degli intenti
delle rime
dei riti
dei ritmi
del bene più grande
dell’allegria piena!

Il nostro canto!»

Zé Vicente*,
dicembre 1996
(inedita)

* Per leggere e ascoltare le poesie
di Zé Vicente:
www.letras.mus.br.

Silvia Zaccaria




Cari Missionari

Scriveteci!

Che problema avete? Non vi cerca più nessuno? A volte mi
verrebbe da scrivervi, fosse anche un disappunto, ma non ne ho il tempo, poi ne
passa troppo e infine penso, «tanto a voi cosa ve ne frega della mia opinione? È
comunque in contrasto con la vostra, perché scrivere?». Posso dirvela una cosa?
Finché non ho letto tutto il dossier della rivista di ottobre, avevo
un’angoscia dentro, «una tristezza da spararsi», meno male che nelle ultime due
pagine mi tirate su il morale. So che la mia vita da cristiana non è perfetta e
me lo spiaccicate in faccia come una sberla, il cammino lungo e faticoso della
conversione non finisce con l’incontro con Cristo – c’è la sequela, la coerenza,
e questo è un altro punto dolente.

[…] Con mia nipote, classe 1981, ho provato a fare «proselitismo»
(se così si può dire) richiamandola al suo battesimo. La reazione è stata
violenta. «Zia basta. Siete tutti bigotti, credo in Dio e non nella chiesa! La
verità la sto cercando, e non l’ho ancora trovata». A me non resta che piangere
e pregare per lei e tanti altri familiari. È riduttiva la fede vissuta in casa?
Intendo dire: la crisi m’impedisce di prendere l’auto ogni giorno per andare a
messa, e a volte gli orari non combaciano con il mio tempo libero. Allora mi
metto in casa davanti al crocefisso. Ma secondo voi è sempre una fede da poco,
da gente tiepida, troppo prudente, non azzardata, accomodante, pigra, inetta
fino al rigurgito di Cristo.

Che dire di altri sacerdoti che ho incontrato: alcuni
troppo hard e altri rigorosi fino al rifiuto dell’assoluzione. […]
Adesso capisco perché la Madonna a Medjugorje insiste con il pregare per i
sacerdoti. Siete sotto attacco? O lo siete sempre stati nel mirino del Nemico?
Mi piace molto anche quando Papa Francesco chiede di pregare per lui.

Ciò che vorrei chiedervi è questo: una conferma o una
smentita. Mi han detto che ci sono dei missionari cattolici che sono costretti
a sposarsi, per non essere diversi dagli altri, sennò non sono credibili
nell’annuncio. Ho obbiettato dicendo che vivranno da fratelli e sorelle! La
risposta è stata: «No, no! Fanno figli e anche tanti. Dovrebbero essere in
Oceania». Me ne sto zitta poiché non conosco tutto il mondo missionario […].
Un’altra cosa volevo dirvi. Un nostro amico circa dieci anni fa fece
un’esperienza vocazionale in Ecuador con dei missionari. Ne toò sconvolto
perché ci disse che là ogni prete ha minimo dieci donne a disposizione. Noi gli
abbiamo detto: «Esagerato!». Risultato, lui non frequenta più la chiesa,
obbiettando che è un moralismo inutile, un’ipocrisia lampante.

Avete il coraggio di dire la verità? Caspita, se lo
trovate avete un fegato da vendere! Cordiali saluti.

Piccola
figlia della Luce,
San Zenone degli Ezzelini, 13/10/2013

Gentile
lettrice,
grazie di averci scritto. Provo a essere breve.

Scrivere. Ci sembra
un modo importante per una comunicazione a due vie, non autoritaria, come
rischia comunque di essere quella stampata. Il diritto al dissenso è importante
e una contestazione argomentata e intelligente ci aiuta ad approfondire idee e
argomentazioni o ci obbliga a spiegarci meglio.

Sacerdoti. È pregare
per i sacerdoti è bello ed essenziale, perché il sacerdote ha bisogno del
sostegno della comunità. L’ordinazione non rende il sacerdote invulnerabile al
peccato, inattaccabile dalla tentazione. Il sacerdote è e rimane sempre un uomo
e come tale percorre un cammino di conversione continua, rinnovando ogni giorno
il suo sì a Dio. Come uomo può cadere, sbagliare ed essere contraddittorio.
Qualche volta può cercare la popolarità facendo il moderno e il disinibito,
altre volte può usare la tradizione e l’intransigenza senza misericordia come
scudo alle sue paure. Ma la maggioranza vive con umiltà («timore e tremore»
scriverebbe Kierkegaard) il proprio stato sapendo che il Salvatore è uno solo:
Gesù Cristo. Certo, il cammino del prete è più impegnativo di quello dei
semplici cristiani, perché se un sacerdote cade, non è solo lui a cadere, ma fa
male a tanti. «Nel mirino del Nemico», dice lei. È vero. E il Nemico si serve
anche di tanti buoni cristiani che invece di sostenere i loro sacerdoti, li
criticano, credono a mille dicerie, generalizzano e malignano. E anche di
quelli che confondono la Chiesa col prete, si dimenticano che per il battesimo
anch’essi sono Chiesa diventando giudici impietosi che si difendono accusando
di «bigottismo, ipocrisia e falso moralismo». Purtroppo non solo è più facile
far così, tirandosi fuori «dal gruppo», ma il nostro sistema stesso di vita
oggi incoraggia questo individualismo assoluto per cui uno risponde solo a se
stesso (al suo «dio»).

Missionari che si sposano? Onestamente è la prima che sento parlare di missionari che si devono
sposare, per non essere diversi. Da secoli i missionari «sono diversi» e non
solo per il celibato. Sono diversi per il colore della pelle, per la lingua che
non conoscono, per il modo di vivere e «anche» perché non si sposano. Nella
storia, più di uno ha pagato con la vita la fedeltà al celibato che lo rendeva «diverso»
e anche pericoloso agli occhi di certi popoli. Che poi ci siano dei missionari
che abbiano amato una donna, generando anche dei figli, non dovrebbe stupire
nessuno, eccetto coloro che li ritengono degli automi programmati e non degli
uomini in carne e ossa. Ma che questa sia la situazione normale e accettata («dieci
donne a testa»), è tutto da provare. La realtà è ben diversa. Quando si sentono
voci sui preti, bisognerebbe avere più senso critico, più amore della verità
(come dice anche lei), tanta misericordia e un po’ di autocritica.

Fede da poco. L’ultima
cosa che vogliamo fare è sottovalutare la fede delle persone e la grazia di
Dio. La fede non è mai «da poco». È vero, scrivendo si rischia di generalizzare
ed enfatizzare. Anzi, a volte si deve alzare il tiro per riallinearci alle
esigenze della Parola, quella vera, senza diluirla nel «minimo comun
denominatore» della mediocrità del «fan tutti così». Ma il cuore delle persone
solo Dio può giudicarlo.

La teocrazia iraniana

Caro p. Gigi,
condivido il suo no comment al lettore che ha
disdetto l’abbonamento a causa del suo editoriale di luglio. Non l’avevo letto
a suo tempo, ma, incuriosito, l’ho cercato e letto dal vostro sfogliabile
(ottima iniziativa) e davvero non c’è nulla da dire.

1. Sono favorevole alla vostra scelta di articoli
lunghi, cosa per la quale mi risulta che altri vi critichino. Adesso è diffusa
la mania di dover scrivere poco perché la gente si stanca a leggere e ha poco
tempo per farlo. Allora lasci perdere di leggere. […]

2. Nel dossier di A, Lano sull’Iran (MC, ago. 2013)
sembra che quella nazione sia lo stato migliore del mondo. Può essere che sia
davvero così, anch’io diffido della comunicazione di massa che orienta
l’opinione pubblica, quindi sono naturalmente e favorevolmente predisposto
verso l’informazione «alternativa». Ciò premesso, però, avrei fatto domande più
«dure» all’interlocutore. Ad esempio, è vero o no che il precedente presidente
voleva la distruzione dello stato di Israele? E ora come la si pensa in
proposito? Su altra rivista missionaria l’Iran non è definito una repubblica
così meravigliosa, chi sbaglia?

Giovanni Guzzi
Vimercate (MI), 11/10/2013

Caro
lettore,

non
ho descritto l’Iran come una «Repubblica meravigliosa», ma come una Repubblica
islamica teocratica basata su meccanismi della cosiddetta «democrazia». È una
democrazia teocratica con molti problemi da affrontare e risolvere, dunque non
certo perfetta. Ma esiste una democrazia perfetta? Gli Stati Uniti lo sono,
forse, con la loro pena di morte, le extraordinary renditions, i tanti
dissidenti «missing» e lo spiare anche gli alleati? Lo sono gli stati
europei, con una repressione sempre più forte delle proteste dei cittadini? Lo è
Israele, stato mediorientale che bombarda civili?

Nel
mio dossier ho poi paragonato alcuni principi chiave dello sciismo con quelli
del sunnismo, deducendone una maggiore possibilità d’interpretazione razionale
e libertà di pensiero del mondo sciita, che, nella mia pluridecennale
esperienza di studiosa sul campo di Islam, ho notato più «colto» e interessato
alla cultura di quello sunnita.

Questo
non toglie che durante l’era di Ahmadinejad ci fossero molti problemi interni,
oltre che estei, dovuti al suo populismo e a posizioni  estremiste, nonché censure di vario tipo –
tra cui internet -, di cui ho parlato nel mio articolo.

L’era
di Rohani sembra aprire nuove frontiere e nuove speranze, e molti critici
interni del passato regime stanno appoggiando con fiducia il nuovo presidente.

Quanto
alle invettive contro Israele, ormai famose, in parte si è trattato di
traduzioni errate dal farsi – la famosa frase “scomparirà dalla mappa
geografica” aveva altro significato che non la fine fisica di Israele -, in
parte di retorica populista dell’ex presidente.

Le
offro un consiglio, comunque: faccia un viaggio in Iran, e capirà che paese e
che popolo accogliente è. Poi vada in qualche altro stato del Golfo, tipo
l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi. O anche solo l’Egitto, e ci racconterà
cosa ne pensa.

Angela Lano

Ancora
Yanomami

Carissimo Fratel Carlo (Zacquini), prima di tutto ti
voglio ringraziare; grazie perché mia figlia Martina, dopo aver parlato della
tua intervista e delle condizioni del popolo Yanomami (MC, ott. 2013) mi
ha detto di te qualcosa che mi ha toccata profondamente: che «Conoscerti è
stata una vera fortuna», che «tu ci aiuti a diventare persone migliori. Siamo
tutti persone “normali” che stanno sedute aspettando che siano altri a cambiare
il mondo. [Se] poi c’è una persona che si alza e prova a cambiare il mondo,
quella è una persona migliore e m’insegna che anch’io posso e devo alzarmi
dalla mia normalità-mediocrità e diventare migliore» […].

A volte gli amici mi chiedono perché mi interessano
tanto gli Yanomami. È semplice: perché sono dei nostri fratelli. Punto.
Condividono con noi la fortuna di far parte di questo meraviglioso creato. E
non è abbastanza? Noi apparteniamo alla razza che si sente padrona del creato,
superiore agli indigeni di qualsiasi parte del mondo, e con il nostro egoismo e
la nostra presunzione non riusciamo e non cerchiamo di comprendere altre
culture. Possibile che non ci sia una via percorribile di evoluzione e di
progresso in cui non venga calpestata la dignità umana? In cui sia presente la
dovuta tutela dell’ambiente dal quale tutti indistintamente dipendiamo? Oggi ci
sono uomini che distruggono la foresta e ingannano i popoli che ci vivono,
ricchi che diventano sempre più ricchi a scapito della cultura, degli usi e dei
costumi degli indigeni che vengono sfruttati e resi dipendenti dal dio denaro
che tutto permette di avere. Bisogna alzarsi e combattere per un mondo più
giusto.

Ci sono molte persone che ti sono vicine in tutto il
mondo, ma forse ancora non bastano. Credo che sia necessario coinvolgere più
persone possibili […].

È molto triste quando tu dici che gli stessi brasiliani
si vergognano dei loro fratelli indigeni, ma lo comprendo. Anche qui gli
immigrati cercano di nascondere le loro origini il più possibile, ma, per i
popoli indigeni della foresta deve essere diverso, loro sono i fratelli custodi
di quella grande foresta di cui tutti noi abbiamo bisogno. Mi piacerebbe
invertire il loro status da vittime a protagonisti orgogliosi che con la
loro vita e cultura e rispetto salvano la foresta di cui tutti abbiamo bisogno.
Non più esseri inferiori, e i paesi che li ospitano devono sentirsi orgogliosi
di occuparsi di loro. Caro Carlo se questa inversione di considerazione non
avviene, prima o poi un governo o un altro troverà un «buon motivo» per
annientarli per sempre in nome della civiltà.

Con immenso affetto e riconoscenza.

Nicoletta Testori
18/09/2013

La formica alla cicala

Egregio direttore, ho appena letto la risposta che Lei
si è permesso di dare al sig. Giorgio Rapanelli (MC ott. 2013) e ne sono
rimasto profondamente indignato. Il sig. Giorgio può sicuramente permettersi di
parlare a nome degli italiani, quantomeno di quelli che pagano le tasse. Non so
invece a chi si riferisca Lei quando scrive che «siamo noi che continuiamo a
rubare». Spero che si riferisca a chi vive a scrocco degli altri e non agli
italiani che lavorano e che si sono faticosamente guadagnati il loro benessere
senza per questo doversi sentire in colpa.

Egregio direttore, sono un italiano che paga le tasse
(quindi anche il suo 8 per mille), cattolico praticante e volontario in Africa
(sempre a spese mie). Ho girato l’Africa in lungo e in largo quindi posso
affermare con sicurezza che gli europei hanno dato all’Africa molto più di
quello che hanno preso, sia in termini di infrastrutture che in termini di
aiuti umanitari. Sono europei quei tanti suoi confratelli missionari e
volontari laici che in Africa fanno solo ed unicamente del bene, spendendo la
loro vita al servizio degli altri, anche a costo del martirio. Che poi ci siano
anche le multinazionali è un altro discorso, anche perché queste ultime non
sfruttano solo l’Africa ma chiunque e qualunque cosa. Smettiamola di dare
sempre la colpa all’Occidente! Vede, credo in Dio e non nel denaro, ma
l’esperienza mi ha insegnato che coloro i quali dicono che il denaro non è
importante solitamente non sono abituati a guadagnarselo e tendono a vivere
sulle spalle degli altri e in questo, probabilmente, Lei non fa eccezione.

Se ha voglia di contestarmi, mi parli della sua dichiarazione
dei redditi e di quanti migranti lei ospita a casa sua e a spese sue. Il
benessere che noi italiani ci siamo guadagnati (lei escluso) deriva dal lavoro,
e chi lavora onestamente e faticosamente (senza tanti “pole pole”) non deve
certamente sentirsi in colpa del proprio benessere né responsabile di tragedie
che sono imputabili unicamente alla disperazione e a coloro che, sulla tratta
delle persone, costruiscono le loro fortune economiche. Anche nelle missioni si
chiudono a chiave le porte di casa, eppure Lei ci viene a dire che dovremmo
fare entrare in Italia chiunque, senza alcun controllo, quando l’immigrazione
clandestina è considerata illecita in tutto il mondo, anche nei paesi africani
dove addirittura sono previste pene molto più severe per chi entra nel paese
illegalmente.

Vede, egregio direttore, la solidarietà è un valore
cristiano ma non la si può imporre, e gli ipocriti non sono i più adatti a
insegnarla. Se Lei si sente in colpa per le tragedie dei migranti, vada ad
aiutarli a casa loro o li accolga a casa sua, ma lo faccia in silenzio e a
spese sue, e non sempre a spese di Pantalone. Solo così, sarà un buon cristiano
e, se vorrà, potrà venirci a insegnare l’accoglienza con meno ipocrisia. Smetta
di fare la cicala e inizi a fare la formica, come tanti suoi confratelli che
lei disonora con le sue parole offensive per tutti noi che la solidarietà la
facciamo in silenzio, a spese nostre.

Alessio
Anceschi
Sassuolo (MO), 14/10/2013

Caro Sig. Anceschi,
quando scrivo che «siamo noi che continuiamo a rubare», non lo dico io, ma
statistiche che sono pubblicamente disponibili.

Sistema «che ruba». Segnalo solo pochi dati. Il «nostro» mondo, troppo semplicisticamente
definito «l’Occidente», ha il 20% della popolazione e consuma l’80% delle
risorse mondiali. L’Italia consuma ogni anno quattro volte più della sua
biocapacità; fa meglio di altri paesi, ma è sempre sopra il livello di guardia.
L’Europa butta il 15% del cibo che produce; in Italia il 25% del cibo comperato
finisce nella pattumiera.

È vero che la maggior parte degli italiani
sono grandi e onesti lavoratori (o candidati a esserlo, visto l’incredibile
livello di disoccupazione), ma è anche vero che siamo dentro un sistema che non
funziona e si regge sulle spalle di chi vive sotto la soglia della povertà
grazie a un sofisticato sistema di rapina delle risorse di cui nessuno sembra
essere responsabile. Le famose multinazionali che oggi sfruttano tutto e tutti,
anche noi (il mostro che mangia se stesso!), non sono un prodotto della
fantasia dei poveri, ma il frutto più alto e perverso del sistema economico di
cui noi viviamo.

Rifugiati.
I paesi africani ospitano molti più rifugiati di quanti noi non ne riceviamo in
dieci anni. Da noi non esiste una realtà come il campo profughi di Daabab in
Kenya, con le sue centinaia di migliaia di disperati provenienti dalla Somalia.
E quanti sono i rifugiati in Congo RD, in Ciad, in Sudafrica, in Ruanda, in
Tanzania, tanto per nominare solo alcuni paesi? Le statistiche parlano di oltre
quattro milioni. Tutti clandestini schedati dalla polizia?

Lascio poi ai lettori il resto del suo
intervento.

La cicala ipocrita. Per quel che mi riguarda – mi permetta questa autodifesa -, preciso
che da quando ho finito gli studi nel 1976 e sono stato ordinato sacerdote,
lavoro una media di 8-12 ore al giorno – fine settimana incluso -, e non ho
pesato sull’8×1000 e neppure sul sistema sanitario nazionale fino ai 60 anni
compiuti. Quando nel 2010, rientrato in Italia dopo 21 anni di servizio in
Kenya, sono diventato viceparroco (mentre i miei coetanei andavano in
pensione), ho ricevuto il mio primo stipendio di 699,00 euro netti al mese,
tasse pagate, che mi lucra un totale annuo di ca. 8200,00 euro, tredicesima
compresa, troppo per essere esente dal ticket sanitario.

Quanto ai migranti, o potenziali tali, li ho aiutati
quando ero a casa loro e continuo ad aiutarli da qui, perché ritengo che la
cosa migliore sia metterli in condizione di vivere una vita dignitosa restando
a casa propria. Come fanno tanti miei confratelli in Africa, America Latina e
Asia, cui dò voce attraverso questa rivista, e come possono testimoniare le
centinaia (non ho mai tenuto il conto!) di ragazzi e ragazze che ho fatto, e
continuo a fare studiare con l’aiuto di tanti amici. Essi – ragazzi e amici –
sanno bene che sono più una formica e che una cicala, anzi più un «canale che
una conca», per dirla col Beato Allamano, perché quello che «mendico» dagli
amici e benefattori va tutto per aiutare chi è nel bisogno, creando non poche
ansietà al mio amministratore con i miei conti perennemente in rosso.

Che il Signore e i lettori mi perdonino questo momento
di vanità. •

Risponde il Direttore




GRAZIE

È una parola che da sola vale più di mille altre
scribacchiate a fatica. «Grazie» riassume tutto quest’anno vissuto insieme, e
anche il dono del Natale che ci prepariamo a rivivere e il nuovo anno che
aspettiamo tra timori e speranze. «Grazie». Una parola a volte così difficile
da dire. Perché detta col cuore richiede il rifiuto del «tutto (mi) è dovuto e
garantito» e l’apertura giorniosa al dono e alla gratuità. Allora…

Grazie per padre
Benedetto Bellesi che è arrivato alla méta del suo lungo cammino e per gli
altri 17 missionari e altrettante missionarie della nostra famiglia che negli
ultimi dieci mesi (gennaio – ottobre) sono stati accolti al Grande Banchetto di
tutti i popoli.

Grazie per tutti i missionari: preti, fratelli, suore e
laici, che in umiltà e fedeltà si mescolano come lievito nella pasta
dell’umanità per far emergere i segni del Regno. 

 Grazie a voi lettori,
parenti, amici e benefattori, sostenitori, membri di Onlus e Ong amiche, perché
anche in questo anno difficile ci siete stati molto vicini nonostante gli
obiettivi problemi economici, sociali e politici che tutti stiamo vivendo.
Grazie perché insieme a noi credete ancora che è possibile un mondo di condivisione,
di rispetto, di riconciliazione e pace, un mondo più giusto dove la vita sia
accolta, amata e rispettata, dove i popoli – nella loro diversità – possano
cantare insieme la meravigliosa sinfonia dell’amore di Dio che è Padre di tutti
e ha cura di tutti e di ognuno.

Grazie per il dono del Natale che ci offre la possibilità di
riscoprire il volto umano dell’amore divino. Un avvenimento che non solo ci
parla dell’amore «senza se e senza ma» di Dio, ma ci stimola ad «amare da Dio»
gratuitamente e liberamente, accogliendo coloro con cui Gesù stesso si è più
identificato: «poveri, orfani, vedove e stranieri».

Grazie anche per questi tempi difficili, per questa crisi
che ci offre un’occasione insperata – anche se dura – per ripensare il nostro
stile di vita. Non per tornare alla povertà di una volta, ma per recuperare
quei valori di umanità che abbiamo buttato via assieme alla povertà: sobrietà,
condivisione, semplicità, risparmio, tempo per stare insieme e far famiglia,
valorizzazione di risorse locali, cura dell’ambiente…

Grazie per il nuovo anno che viene, un nuovo dono della
pazienza di Dio, amante della vita, che non si è ancora stancato di noi e ci dà
altro tempo per crescere, capire e tornare a lui tornando agli altri,
raccogliendo soprattutto la sfida della giustizia e della pace, del perdono e
della riconciliazione nel mondo.

Da tutti i missionari e le missionarie della Consolata:
grazie a voi. Non vi mandiamo regali, non vi promettiamo favori. Vi assicuriamo
solo il nostro impegno a essere quello che il nostro Fondatore, il beato
Giuseppe Allamano, voleva che noi fossimo: dei canali di amore verso i più
poveri, più lontani, oppressi e dimenticati, e delle conche, non pozzanghere,
ma laghi, dove l’amore di Dio possa riversarsi in abbondanza per tutti. Pregate
per noi. Mentre chiediamo con insistenza il riconoscimento della santità del
beato Allamano, vorremmo davvero prima di tutto imitarlo nell’amore per Dio e
il prossimo.

Buon Natale e auguri per un 2014 benedetto.

Gigi Anataloni




Armi: commercio trasparente?

Ad aprile l’Onu ha approvato il trattato
sul commercio delle armi. Gli stati dovranno dichiarare la destinazione delle
armi prodotte. Ma l’accordo entrerà in vigore solo con la ratifica di 50 paesi.

Sembra
paradossale, ma un effetto positivo la crisi lo ha avuto: le spese mondiali per
armamenti nel 2012 sono diminuite dello 0,5%. È la prima volta in dieci anni.
Le nuove guerre del terzo millennio, che si sono sommate a quelle vecchie, e la
lotta al terrorismo hanno fatto crescere smisuratamente gli investimenti in
armi che oggi superano i livelli del periodo della guerra fredda: nel 2012 sono
stati spesi 1.750 miliardi di dollari, il 2% per prodotto mondiale lordo. La
diminuzione rispetto all’anno precedente è dovuta alla contrazione della spesa
nei paesi occidentali colpiti dalla crisi, in compenso hanno speso di più le
nuove potenze economiche: la Cina registra un 8% in più, la Russia ben il 16%.
Insomma non si tratta di un’inversione di tendenza, il pianeta continua a
essere super armato e il commercio delle armi fiorente, al primo posto nella
classifica degli esportatori rimangono gli Stati Uniti, in contrasto con le
crociate di Obama contro le troppe armi in casa propria, poi la Russia e più
distanti Germania e Francia, l’Italia non sfigura piazzandosi all’ottavo posto.
I migliori clienti sono in Asia: India, Cina, Pakistan, Corea, ma anche i paesi
del Nord Africa hanno aumentato le importazioni.

Questo è il commercio, per così dire, legale, in cui le
transazioni sono registrate dai governi, poi c’è quello clandestino che
alimenta i conflitti più spaventosi, come quello della Siria, 200 mila vittime
e un milione e mezzo di rifugiati.

In Italia, timida e inascoltata dalla politica, si è
alzata la voce dei movimenti pacifisti contro gli F-35 che non
solo costano al bilancio della stato decine di miliardi, che investiti
diversamente potrebbero far ripartire l’economia e l’occupazione, ma sono
mostri attrezzati per trasportare armi nucleari telecomandate. Nel nostro paese
mancano le risorse per la ricerca contro le malattie e le varie associazioni, come
l’Airc (Associazione italiana ricerca sul cancro) devono contare sulla
generosità dei cittadini, eppure l’industria italiana degli armamenti continua
a disporre, anche grazie ai finanziamenti pubblici, di sostanziosi mezzi per lo
sviluppo tecnologico.

In
questo scenario desolante, lo scorso aprile si è aperto uno spiraglio: dopo
sette anni di complicate mediazioni, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha
approvato a larga maggioranza il Trattato internazionale sul commercio delle
armi
. Scopo dell’accordo non è quello di bloccare l’import e l’export di
armamenti convenzionali: dai carri armati alle pistole, dagli aerei da guerra
ai sistemi di artiglieria, piuttosto di porvi dei limiti, scoraggiando la
vendita a paesi sotto embargo, come la Siria o l’Iraq, o a paesi responsabili
di gravi violazioni dei diritti umani, come l’ Uzbekistan o il Congo
Rd.

Il governo degli Stati Uniti che, pressato dalle lobby
dell’industria bellica, ha contribuito alla lungaggine delle trattative, ha
dichiarato che si tratta di un accordo storico perché contribuirà a «ridurre la
violenza nel mondo». Gli Stati continueranno legittimamente a produrre ed
esportare armi, ma dovranno dichiarare dove sono destinate, evitando che
vengano utilizzate da paesi e gruppi colpevoli di genocidi, crimini contro
l’umanità o atti di terrorismo. Amnesty Inteational, che avrebbe sperato in
un trattato vincolante che prevedesse divieti e sanzioni, ha dichiarato: «Non è
l’accordo che avevamo sperato, ma è un effettivo passo avanti, in quanto
obbliga tutti gli stati ad una maggiore trasparenza»

L’opinione pubblica potrà sapere e intervenire, questo è
l’aspetto più importante dell’accordo che, occorre ricordarlo, entrerà in
vigore solo quando almeno 50 paesi l’avranno ratificato. Sotto questo profilo
l’Italia può fare da scuola, infatti, grazie alla pressione di Ong e Istituti
missionari e all’impegno di molti parlamentari, già nel 1997 ha adottato la legge
n. 185/97 che pone vincoli precisi all’export italiano, obbligando tra l’altro
le banche a segnalare le transazioni che effettuano nel settore, inclusi gli
importi finanziari e i paesi destinatari.

Gli istituti di credito hanno espresso a più riprese la
loro protesta, anche con qualche ragione (l’obbligo riguarda solo le banche
italiane), ma le più attente alla propria reputazione hanno capito che è
controproducente fare affari sulla morte e sulle stragi e si sono dotate di policy
per regolamentare il proprio intervento nel settore delle armi.

Un grande aiuto è venuto dal professor Umberto Veronesi
che, insofferente allo squilibrio tra spese per la difesa e per la ricerca
scientifica, ha dato vita da due anni a questa parte a un tavolo di confronto
tra banche e società civile che ha portato all’adozione di un codice di
condotta condiviso.

Sabina Siniscalchi




Carità? Per carità!

Due libri provocano un acceso dibattito sulla cooperazione: «L’industria
della carità» di Valeria Furlanetto e «La carità che uccide» di Dambisa Moyo.
Il primo, recentissimo, si riferisce alla cooperazione delle organizzazioni
no-profit, il secondo, del 2010, è critico sugli aiuti mandati da nazioni ed
enti inteazionali. Quando la cooperazione si riduce a carità» – non certo
quella evangelica – invece di far crescere può uccidere o mantenere nella
dipendenza.

La carità che non funziona

Feste
a base di alcol e musica cornol in mega-ville stile Califoia alle porte
di città africane martoriate dalla guerra, jeep che sfrecciano sugli sterrati
del Sud del mondo per portare i cooperanti dall’ufficio alla palestra e poi al
ristorante di lusso, bilanci non pubblicati o non trasparenti, donazioni che si
perdono per strada, milioni di euro spesi in marketing e pubblicità. E
ancora: volontari che strattonano vecchiette terremotate per trascinarle
davanti a una telecamera e farsi riprendere mentre le «aiutano»; offerte
investite in titoli azionari invece che inviate sul campo; bambini fatti
diventare magicamente orfani con un tratto di penna su un documento per darli
in adozione a ignare coppie nel Nord del mondo; organizzazioni no-profit
tramandate ereditariamente di padre in figlio come fossero aziende; manager
strapagati e accordi con i «cattivi» delle multinazionali. Il mondo della
beneficenza che Valentina Furlanetto descrive nel suo libro L’industria
della carità
, uscito nel gennaio 2013 e edito da Chiarelettere, assomiglia
più a un brutto cine-panettone che all’ambiente virtuoso dove opera «l’Italia
migliore che non teme il mondo», come l’ex ministro per la Cooperazione Andrea
Riccardi ha definito gli operatori della solidarietà internazionale al Forum di
Milano dello scorso autunno.

Criticato
ancora prima che uscisse, il libro è stato definito dai suoi (tanti) detrattori
«scientificamente inconsistente» (Stefano Zamagni, presidente della non più operativa Agenzia per il Terzo Settore), «un
pasticcio dove si mescolano tutto e il contrario di tutto» (Andrea Pinchera di Greenpeace),
«un’occasione persa» (Konstantinos Moschochoritis di Medici senza Frontiere),
solo per citare alcune opinioni. Che realtà anche molto diverse (Ong, onlus,
cornoperative, livello nazionale e internazionale, aiuti pubblici e privati)
vengano nel libro superficialmente sovrapposte e appiattite è un dato di fatto;
che lo stile dell’autrice tradisca a volte la volontà di polemizzare più che
quella di mantenere l’obiettività – tante lo occasioni in cui dice: «dovrebbe
essere così. Peccato che sia cosà» – è pure vero. Che alcuni dati
citati siano discutibili o approssimativi è indubbio. Infine, che a pagina 189
la lingua dell’Etiopia diventi l’aramaico (invece che l’amarico) fa perfino un
po’ sorridere.

Al
netto di questi tanti limiti anche chi scrive trova che il libro della
Furlanetto sia un’occasione persa, ma per motivi opposti a quelli dei critici
citati sopra: è un’occasione persa per fare autocritica. E per provare a
spiegare al pubblico come stanno le cose senza facili indignazioni, altezzosa
autoreferenzialità e quell’orribile linguaggio «sviluppese» che non solo è
sgradevole, ma anche incomprensibile ai più, vediamo in dettaglio alcuni punti.

Cose che il libro non dice

Furlanetto
non dice che il mondo del no-profit è tutto un magna-magna. Non
sono forse di cooperanti delle Ong (Viviana Salsi, Enrico Crespi, Silvana e gli
altri) le critiche più feroci al «circo umanitario» citate nel libro? Segno che
l’autrice sa che la solidarietà (o beneficenza, che però è tutta un’altra cosa;
ma su questo toeremo dopo) non consiste solo in sprechi, errori, distrazioni
di fondi, ma è fatta anche di persone e organizzazioni oneste e appassionate.
Di Medici Senza Frontiere, ad esempio, Furlanetto ricorda la serietà di cui
l’organizzazione diede prova, nel 2004, nel comunicare che i fondi raccolti per
lo tsunami avevano superato le capacità operative dell’organizzazione e
nell’offrire ai donatori di scegliere tra farsi restituire i soldi o dare
l’assenso perché fossero impiegati altrove.

Fatta
eccezione per questi contenuti, l’autrice non parla del buono e dà ampio spazio
al marcio. Ma il titolo del libro non è «Trattato sulla cooperazione», non ha
pretese di esaustività e analizza dichiaratamente un lato, o un volto, di un
fenomeno. Si trattasse anche di un Giano bifronte, se non di un poliedro a più
facce, resta chiaro che c’è almeno un altro volto e che, semplicemente,
Furlanetto non lo sta raccontando.

La
giornalista trevigiana, però, sembra sbilanciata (forse un po’ demagogicamente)
verso il lato dei piccoli donatori interessati a sapere che fine fanno i loro
soldi, mentre la sensazione è che la presenza di questo interesse da parte di
chi dona non sia sempre così scontata. Siamo sicuri che chi invia due euro via
sms dopo aver visto il viso sfigurato dal pianto di un bambino di Haiti voglia
davvero sapere, vedere, toccare con mano il fatto che quei due euro sono
diventati il riso che quel bambino sta mangiando? In Italia gli utenti iscritti
a Facebook sono ventidue milioni: possibile che chi è tecnologicamente
alfabetizzato abbastanza per scambiarsi battute su un social network con gli
amici non sia anche in grado di scrivere una mail a un’associazione per
chiedere conto dell’utilizzo dei fondi? Eppure non succede, o succede solo
molto di rado: perché? Perché spesso la solidarietà in Italia è appunto solo
carità (non nel senso usato nell’editoriale di MC 3/2013, ndr), se non
una mera reazione di pancia, non interessata a capire e conoscere quello che
sta attorno all’immagine del bambino che piange e come quell’attorno,
passaggio dopo passaggio, arrivi fino al nostro quotidiano, al carrello delle
spesa, al telefonino che compriamo, al mezzo con cui ci spostiamo.

La
misura del fallimento della solidarietà internazionale – italiana come estera –
non è solo nel saldo fra danno e utile nelle azioni compiute sul campo, ma
anche, e forse soprattutto, nei numeri irrisori di persone che le
organizzazioni sono state fin qui capaci di sensibilizzare e informare davvero.
Se ci fosse un modo semplice ed efficace per illustrare, ai donatori e al
pubblico in generale, come quello che scegliamo di comprare, mangiare, usare ha
conseguenze molto più ampie di quel che sembra e rischia di elidere i benefici
portati da una donazione, la solidarietà internazionale cambierebbe
radicalmente. Ma un modo semplice non c’è. Ed è proprio nella ricerca di un
metodo efficace che le organizzazioni di solidarietà internazionale si sono
miseramente arenate, cedendo invece a un marketing a volte pietistico
che nulla ha a che fare con lo sforzo di informare – «educare» è un termine di
cui preferiamo non abusare – l’audience esposta ai messaggi promozionali.

Cose che il libro dice

Furlanetto
parla di sprechi, di truffe e di cooperanti che in Italia pagherebbero duecento
euro per un letto in una stanza doppia alla periferia di una grande città e
invece sul campo hanno begli appartamenti con cuoco, servizio di pulizia,
autista e guardiano; di funzionari che parlano di «progetti che vendono», di
manager di Ong inteazionali che guadagnano quanto i loro omologhi delle
multinazionali, di colossi del profit che si lavano coscienza e immagine
collaborando con enti no-profit e di Ong che si prestano a questi
connubi sostenendo che in tal modo possono meglio controllare i «cattivi».

Che
faccia più notizia uno di questi eccessi di quanto lo facciano i progetti e le
realtà che funzionano non è nulla di nuovo; ciò non toglie che gli eccessi
esistano davvero e chiunque è stato nel Sud del mondo per più di una settimana
ha avuto modo di imbattersi in una o più di queste situazioni. Molte delle
critiche al libro utilizzano la formula: «È vero, la mala gestione esiste, ma
le cose che funzionano sono di più di quelle che non funzionano». Ma è anche
vero che ci sono tonnellate di campagne di promozione dei progetti e di
comunicati stampa che ci spiegano quanto bene operino le organizzazioni attive
nell’umanitario o nelle emergenze e quante belle cose facciano. Per questo le
bordate à la Furlanetto – ovviamente quando verificate, ben documentate
e equilibrate – controbilanciano quell’incensare se stesse in cui le
organizzazioni spesso finiscono per indulgere.

A
questo proposito, l’autrice insiste molto proprio sulla grande quantità di
risorse che vengono impiegate dalle Ong per marketing e promozione.
Furlanetto non è sola nell’avanzare perplessità. Il 43° World Economic Forum
di Davos, Svizzera, ha dedicato un approfondimento proprio al mondo delle Ong,
rilevando che queste appaiono sempre più perse nella burocrazia e sottolineando
che chi vince nella raccolta fondi è spesso non chi fa meglio il proprio lavoro
ma chi è più efficace nella comunicazione.

La carità che uccide

Ma
non è solo quello che non funziona che merita di essere dibattuto e il rischio
connesso alle discussioni provocate da L’industria della carità è quello
di spostare l’attenzione da temi che stanno un passo indietro (o un gradino
sopra) rispetto alla mala gestione, e cioè la riflessione sul perché, più che
sul come, della cooperazione.

Un
merito del libro della Furlanetto è quello di riprodurre in modo abbastanza
fedele il punto di vista del grande pubblico attraverso semplici scelte
lessicali: termini come «beneficenza», «carità», «generosità» e «aiuto» ci
dicono forse molto di più di quello che era nelle intenzioni dell’autrice e cioè
che nel nostro paese (e probabilmente anche all’estero) la solidarietà continua
a essere percepita più come un gesto di buoni sentimenti a senso unico che una
effettiva partecipazione a bisogni e assunzione di responsabilità che sempre di
più travalicano i confini nazionali e riguardano la comunità umana nel suo complesso.
Nei forum sulla cooperazione continuano a emergere in maniera sempre più
chiara una serie di dati di fatto che mettono in discussione il senso stesso
della cooperazione, se è vero che il più grande contributo al benessere dei
paesi del Sud del mondo viene dalle rimesse dei loro stessi cittadini emigrati
all’estero e che paesi un tempo beneficiari degli aiuti sono ora potenze
economiche in ascesa.

Non
solo. Non si era ancora spenta l’eco delle polemiche suscitate dal libro della
sociologa camerunese Axelle Kabou, E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?
– uscito in Italia nel 1995 e fortemente critico nei confronti delle élite e
delle popolazioni africane a suo parere responsabili del sottosviluppo quanto,
se non di più, dei paesi ex colonizzatori e delle istituzioni finanziarie
inteazionali – che l’economista zambiana Dambisa Moyo ha rincarato la dose
con il suo La carità che uccide.

Il
testo di Moyo, anch’esso criticatissimo, parte dalla constatazione che dopo
cinquant’anni di interventi e mille miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo
riversati sul continente nero dalle istituzioni inteazionali (Moyo non si
occupa di Ong) l’Africa sta peggio di prima e si chiede, quindi, se non sia il
momento di interrogarsi seriamente sul senso stesso di questo aiuto che ha
creato nazioni di mendicanti condannate a una perenne adolescenza economica.
Secondo l’economista zambiana, la via che l’Africa dovrebbe seguire per uscire
dalla dipendenza sarebbe quella di prendere esempio dalle economie emergenti
asiatiche, incoraggiare le politiche cinesi di investimento su larga scala in
Africa, battersi per una reale apertura al libero commercio in ambito agricolo,
promuovere la microfinanza, rendere meno costoso per gli emigrati l’invio delle
rimesse e riconoscere agli abitanti delle baraccopoli il titolo di proprietà
legale sulla casa in modo che questa possa essere usata come garanzia. Kabou e
Moyo concentrano la loro attenzione sull’Africa; ovviamente Asia e America
Latina meriterebbero una trattazione a parte dei loro problemi specifici.
Tuttavia, molte delle riflessioni sulla dipendenza creata dagli aiuti e sulla
differenza fra carità e giustizia valgono anche per continenti diversi
dall’Africa.

Ben
vengano i dibattiti provocati da libri che raccontano storie di mala
cooperazione. Quella di una comunità umana con legami sempre più inestricabili
che vive drammi globali tangibili per tutti, però, è un’altra storia e non si
racconta né si fa con un sms.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti