Quando l’islamofobia è buddhista

Riflessioni e fatti sulla libertà
religiosa nel mondo – 11
In Myanmar si registrano centinaia di musulmani uccisi e decine
di migliaia sfollati. Recenti episodi di vessazioni anti islam si sono
verificati in Sri Lanka. Anche la voce autorevole del Dalai Lama si è alzata
per condannare le violenze e implorare i monaci buddhisti dei due paesi, benché
non appartenenti al buddhismo tibetano: «Uccidere le persone in nome della
religione è davvero molto triste, impensabile». E il rischio di una reazione uguale e opposta in
altri paesi a maggioranza islamica cresce.

Da un anno, la violenza ha
sostituito un difficile «status quo» nei rapporti tra maggioranza buddhista e
minoranza musulmana in Myanmar. Prima ha colpito i Rohingya, minoranza etnica
che abita prevalentemente nello stato Rakhine, al confine con il Bangladesh, a
cui il governo birmano non riconosce alcuna cittadinanza, e poi le sparse ma
attive comunità islamiche di antica presenza e di piena cittadinanza. I
Rohingya, circa 800mila in Myanmar e 300mila nei campi profughi in Bangladesh,
rappresentano una delle tante «questioni» irrisolte di un paese sottoposto fino
a due anni fa a un regime militare autoreferenziale e intransigente che pare
oggi avviato verso una concreta apertura alle istanze di libertà, benessere e
diritti. I musulmani locali, in parte arrivati in Myanmar con l’esperienza
coloniale britannica, in parte convertiti dal buddhismo nei secoli scorsi, sono
oggetto di una campagna di odio che fa leva sull’islamofobia ma anche sulla
rivalità economica tra le comunità.

In modo inatteso – e nel sorprendente silenzio dei personaggi e
movimenti che stanno guidando la nazione fuori da una delle più gravi
repressioni della storia modea – la nuova realtà politica e istituzionale del
paese ha portato immediatamente in superficie tensioni latenti, ma anche un impensato
nazionalismo e la xenofobia di una parte della comunità buddhista e della
stessa leadership monastica.

Anche in Sri Lanka

Dalla parte opposta del golfo del Bengala, una situazione meno
radicale ma simile nei presupposti sta interessando lo Sri Lanka. Qui, la fine
della guerra civile nel maggio 2009, con la sconfitta della guerriglia espressa
dalla minoranza tamil, ha di fatto costretto al silenzio le voci di dialogo. Il
governo e il presidente Mahinda Rajapakse hanno, senza ormai ostacoli, perseguito
la politica del pieno potere dei singalesi buddhisti, non solo rifiutando gli
interventi estei volti ad accertare, ad esempio, gli abusi compiuti dalle
forze governative su ribelli e civili Tamil, ma anche stringendo la morsa della
censura e della «sicurezza pubblica», e allentando il controllo sul
nazionalismo estremista, il quale ha nell’identità religiosa il suo caposaldo.
Atti di intimidazione e violenze vere e proprie sono stati commessi negli
ultimi mesi soprattutto contro la consistente comunità islamica dell’isola (il
10% su 20 milioni di abitanti), ma non solo.

Buddhismo nonviolento?

Colpisce che nei due casi birmano e singalese sembri mancare un
elemento «scatenante», come sarebbe potuta essere l’infiltrazione nelle comunità
musulmane di membri militanti. Stupisce anche la partecipazione di esponenti
religiosi buddhisti, in molti casi addirittura direttamente coinvolti nelle
violenze.

Da qui nascono domande legittime sulla validità della tradizionale
opinione – diffusa soprattutto in Occidente – per cui la pratica della dottrina
buddhista, nelle sue varie forme storiche, sarebbe di per sé pacifista.

A maggior ragione impressiona l’emergere di un movimento violento
in paesi dove il buddhismo giocò in passato un ruolo essenziale nel processo
indipendentista anti britannico. E se per lo Sri Lanka si può sostenere che la
leadership
religiosa è stata imbavagliata e, soprattutto, tenuta
strettamente legata alle esigenze del potere politico e dei militari, in
Myanmar invece il clero buddhista ha cercato di essere attivo agente di
cambiamento e di democrazia, anche pagando duramente per le sue convinzioni, e
sempre mantenendo un atteggiamento nonviolento.

Vero è che l’identità nazionale in entrambi i paesi è strettamente
legata al buddhismo, e che questo ha spesso messo le minoranze, nella storia
post indipendenza, in condizioni difficili.

Gli eventi violenti degli ultimi tempi, tra l’altro, rischiano di
avere ripercussioni altrove: già oggi si registrano segnali di reazione alle
notizie che arrivano da Myanmar e Sri Lanka in paesi musulmani come Indonesia e
Malaysia.

Il Silenzio di San Suu Kyi

Uno studio sui rapporti tra organizzazione monastica, comunità
buddhista e leadership politica dei due paesi potrebbe spiegare con maggiore
chiarezza la situazione attuale, anche se comunque con ampie aree grigie.

Le recenti dichiarazioni del governo birmano di volere garantire i
diritti alla sicurezza e alla pratica religiosa della comunità musulmana (il 5%
dei 58 milioni di abitanti) contrastano con l’allargarsi delle aree di tensione
anche in regioni (come lo stato Kachin) che sfuggono in parte al controllo
diretto delle autorità centrali. Suscita meraviglia e attira critiche anche il
silenzio di Aung San Suu Kyi, spiegabile forse con la sua candidatura alle
elezioni presidenziali del 2015, o con la coerenza verso il suo impegno a
lavorare per la riconciliazione piuttosto che per la sottolineatura di fratture
già presenti nella composita società birmana. In ogni caso, pochi sembrano gli
spazi per una soluzione pacifica e duratura. Anzi, il rischio è che le violenze
si allarghino, anche davanti all’evidente impotenza della comunità
internazionale che ha – significativamente – lasciato cadere buona parte delle
sanzioni verso il governo erede del regime che per oltre 50 anni ha fatto
affondare il paese nella violenza e nella povertà.

Come sia possibile che il monaco Ashin Wirathu sia emerso come
referente del buddhismo violento e xenofobo in Myanmar, pochi lo spiegano, ma
colui che nel 2012, appena rilasciato dopo nove anni di carcere per incitamento
all’odio religioso, si era dichiarato «il Bin Laden birmano», da un anno spinge
il suo «Gruppo 969» a propagandare l’intolleranza nel paese.

La sua «campagna», orchestrata con ogni probabilità assieme ad
alcuni settori della politica e delle forze armate, cade in un vuoto di moralità
e di legittimazione dell’organizzazione monastica buddhista. Tra i 500mila
monaci ci sono infatti molti che nei monasteri hanno trovato un rifugio da
povertà, violenza, emarginazione. Giovani uomini con un’infarinatura di fede e
uno scarso bagaglio dottrinale pronti a scaricare rabbia e frustrazioni sui
bersagli loro indicati.

Rischi di contagi

Per Shwe Nya Wa, abate buddhista a Mandalay, un moderato, la
situazione segnala come qualcuno voglia accendere seri problemi nel paese per
spingere il governo a intervenire con durezza, come un tempo, e per confermare
la «debolezza» della democrazia e delle sue istituzioni già insinuata dagli
abusi di vario tenore verificatisi grazie all’eliminazione del blocco degli
investimenti stranieri che ha portato nel paese investitori istituzionali e
occasionali, pubblici e privati.

Davanti a oltre 300 morti e 140mila profughi dal giugno 2012,
appare chiaro che non solo la situazione è fuori controllo, ma è anche forte il
rischio di un «contagio» alla vicina Thailandia, anch’essa in maggioranza
buddhista, dove il conflitto in corso da tempo nel Sud tra forze di sicurezza e
ribelli indipendentisti musulmani potrebbe incentivare – se intervenisse una
spinta di carattere religioso-istituzionale – l’ostilità generale verso i
seguaci di Allah, il 4% della popolazione.

Tamil sotto torchio

In Sri Lanka nessun musulmano risulta finora vittima dell’ostilità
dei conterranei buddhisti che comunque fa sorgere preoccupazioni nella società,
oltre a reazioni nel mondo islamico. Durante la devastante guerra civile che ha
interessato il paese dal 1983, i musulmani locali hanno pagato un caro prezzo
per la loro neutralità. Soprattutto ai guerriglieri tamil. Oggi, con i Tamil
totalmente sottomessi al dominio dell’etnia singalese, i musulmani si ritrovano
sotto il giogo dei vincitori.

Vittima, in parte dei sospetti che risalgono ai tempi della
dominazione britannica, in parte degli effetti del radicalismo musulmano di
molte aree del mondo, in parte – ancora – della recente opposizione alla
macellazione secondo i dettami di purità musulmana (halal) o di piccole
rivalità locali, oggi la comunità islamica, pacifica e laboriosa, certamente
lontana delle suggestioni jihadiste, si trova sotto il tiro degli
estremisti del Bodu Sena (la Brigata buddhista), che contro i seguaci di
Maometto tiene comizi, proclama azioni di boicottaggio, condanna la prolificità
delle famiglie devote di Allah o chiama più chiaramente all’espulsione.

Il fatto che alti esponenti del governo di Colombo, e tra questi
il potente ministro della Difesa Gotabhaya Rajapaksa (fratello del presidente)
partecipino a iniziative della Brigata, come l’apertura di centri di
addestramento, e definiscano i monaci nazionalisti come destinati a «proteggere
il paese, la religione e la razza», chiarisce come il rischio di un nuovo
conflitto interno sia reale e le motivazioni del tutto pretestuose, utili solo
al nazionalismo e a chi se ne avvantaggia. Mostra inoltre la debolezza
identitaria, e la scarsa conoscenza del mondo, frutto anche di un’informazione
censurata e parziale.

Il senso di unità nazionale, incentivato da decenni di regimi
oppressivi, la dominanza storica su altre fedi, la preoccupazione per un «contagio
islamista», sia attraverso il potere dei petrodollari, sia attraverso una
volontà dell’Islam di convertire i buddhisti, contribuisce a una reazione che
non ha nelle istituzioni un freno, ma piuttosto un garante.

Stefano Vecchia
 


«Buddhismo e pacifismo»

Il principio della nonviolenza è intrinseco alla pratica
buddhista, come indicato nel Dhammapada, la raccolta di scritti che
raccoglierebbe, secondo la tradizione, l’originaria dottrina del Buddha. Il
primo sutra (aforisma) indica che «se
un uomo parla o agisce secondo un pensiero malvagio, il dolore lo segue come la
ruota segue lo zoccolo del bue che tira il carro».

Dei cinque precetti morali obbligatori per il monaco, il
primo è l’astenersi dall’uccidere esseri viventi. Strumento per raggiungere
pace interiore ed equilibrio, anche la meditazione è indicata negli antichi
testi come idonea a produrre uno stato di «consapevolezza amorevole» verso
tutti.  Storicamente, però, la religione
buddhista, che pure non si riferisce a un Dio onnipotente, a un popolo eletto e
nemmeno ha un carattere prettamente proselitistico e universalistico, ha
dimostrato di essere militante quanto l’Islam e il Cristianesimo. Le cronache
srilankesi ricordano come la dottrina del Buddha si sia affermata sull’isola
nel II secolo a.C., quando re Dutugemunu infilò sulla punta di una lancia una
reliquia del Buddha e guidò alla vittoria contro il rivale induista le sue
truppe che includevano 500 monaci. Fu un massacro, ma le cronache ricordano
come il sangue sparso sia andato a beneficio della fede oggi dominante.
Similmente sovrani indiani, khmer, birmani, thai e indonesiani giustificarono
le loro campagne belliche con la «necessità» di diffondere il buddhismo e
innalzare reliquiari in aree sempre più vaste.

In sostanza, da lungo tempo l’intransigenza dottrinale e il
rigore morale sono stati sovente espropriati nell’ecumene buddhista da
interessi diversi. Oggi fede minoritaria, posta sulla difensiva per ragioni
storiche e demografiche, il buddhismo rischia derive integraliste contrarie non
solo alle sue origini che stanno nel Buddha storico, ma anche ai suoi stessi
principi tramandati.  (S.V.)

Stefano Vecchia




«Chiesa peregrinante verso la Gerusalemme celeste» | Rendete a Cesare 5

«Essi non sono del mondo, come Io non sono del mondo» (Gv 17,16)

Distinzione netta e separazione

Di distinzione netta e separazione efficace, non nella storia, ma nei criteri di valutazione, si parla nel racconto della passione nel IV vangelo. In Gv 18,36 davanti a Pilato, che ribadisce il suo potere politico perché ha l’autorità di giudicare e di mettere a morte, Gesù afferma: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo». Il greco usa l’espressione «hē basiléia, hē emê» che deve essere tradotta in forza del contesto e non materialmente, trasponendo solo le singole parole. «Basiléia» può significare «regno» e «regalità». Nel senso di «regno» si riferisce a un territorio in cui il «re» può esercitare la sua autorità; ma anche «il popolo» su cui la regalità si esercita, oppure la dignità regale in se stessa. Il senso da dare in ogni traduzione dipende dal contesto. Pilato crede che esista un solo «re» in tutto il mondo e quindi è preoccupato che qualcuno diverso da Cesare possa definirsi «re» in concorrenza, e per questo interroga Gesù: per valutare la portata di questa asserita «basiléia». Non può essere riferita ai Romani che riconoscono solo Cesare; resta il senso etnico, quasi razziale di Gv 18,33: «Tu sei il re dei Giudei?».

Pilato non può ammettere altra «basiléia» che non sia riconosciuta da Cesare, il quale ha già nominato Erode «re dei Giudei», cioè suo rappresentante/suddito, pur essendo estraneo al popolo d’Israele: un altro che vuole essere re, o è pazzo o è pericoloso. La domanda, infatti, è densa di preoccupazione squisitamente politica, perché l’orizzonte di Pilato è solo sul piano di quello che vede e sperimenta, non può andare oltre. In bocca al procuratore romano l’espressione può essere anche dispregiativa, mentre in bocca a un giudeo ha un valore nobile, anzi teologico perché corrisponde a «Re d’Israele» come nel grido della folla che lo acclama in Gv 12,13: «Benedetto nel nome del Signore colui che viene, il re d’Israele».

Nel contesto, però, avviene un fatto nuovo, imprevedibile: le autorità religiose giudaiche davanti all’affermazione di Gesù, inorriditi, rifiutano il Messia, «il re dei Giudei», e scelgono Cesare, un idolo con cui sostituiscono il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», il Dio dei Padri: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). Con questa scelta, cessano di essere «il popolo d’Israele» al quale era stato mandato Gesù-Messia, e diventano un popolo qualsiasi, qualificato etnicamente come «Giudei», i quali si accontentano di un re provvisorio, nuovo idolo in sostituzione del Dio del Sinai.

La differenza di regalità

Nell’intervista di Pilato a Gesù è in discussione la natura della regalità/regno di questi: se egli si dichiara «re», in che cosa si differenzia nell’esercizio della regalità da Cesare Augusto, dal faraone o dall’imperatore di Persia o Babilonia? Gli stessi soldati che l’hanno catturato e si sono attardati a divertirsi, burlandosi di lui, lo hanno fatto con gli strumenti del mestiere dei re: il mantello rosso (la clamide), la corona, seppure di spine, lo scettro e infine l’adorazione burlesca (cf Gv 19,2-3). Tutti questi ingredienti, pur in un contesto di burla, mettevano Gesù sullo stesso piano dei re ufficiali e quindi ve lo equiparavano. Questo è un punto nevralgico e decisivo per stabilire la veridicità di quanto abbiamo asserito. La distinzione tra potere politico e potere di Cristo (e di conseguenza della Chiesa) sta nell’affermazione netta e decisa di Gesù: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo/di questa natura» (Gv 18,36).

L’espressione di Gesù, tradotta alla lettera è questa: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo/ordinamento/natura (cioè: non proviene da esso; non è il mondo che dà l’origine a Gesù); se da questo mondo provenisse la regalità, quella mia, le guardie mie avrebbero lottato affinché io non venissi consegnato ai Giudei; ora, dunque, la mia regalità non è di qui [di questo posto]». Esaminiamo il senso profondo. Ci troviamo di fronte a due concetti di «regalità»:

  1. Cesare Augusto, attraverso il suo procuratore Pilato, esercita un dominio che ha usurpato. / Gesù si pone su un altro piano e non contesta Pilato, il quale invece, sentendo odore di «pericolo», indaga per scongiurare qualsiasi equivoco.
  2. Il procuratore romano, in nome di Cesare, riceve Gesù nel pretorio, cioè nel luogo simbolo del potere imperiale, da dove esercita il suo potere, sedendo «in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà» (Gv 19,13). / Gesù si è lasciato condurre e sballottare dai soldati dipendenti del tempio e ora resta in balia dei soldati romani che usano la forza e la violenza come metodo ordinario di tortura e sevizia.
  3. Cesare Augusto va fiero delle sue legioni, immagine stessa di Roma, con le quali va alla conquista del mondo per imporre il suo ordine e la «pax romana» che è sudditanza, spogliazione e tasse a favore dell’occupante. / Gesù che dovrebbe essere il prigioniero e condannato, sta in mezzo, e tutto il potere negativo (Romani e Giudei) ruota attorno a lui.
  4. Senza i soldati, Cesare è nulla e non avrebbe alcuna autorità perché il suo potere si basa solo sulla forza, cioè sull’esercito e quindi sul dominio. / Gesù è disarmato e ha due soli strumenti: la parola e il silenzio con cui fronteggia quello che si crede il potere.

Su questo ultimo punto, Gesù è chiaro e senza equivoci, perché è la sintesi di tutto: «La mia regalità non appartiene a questo ordine di cose». La prova di questa «diversità» sta nel fatto che non si presenta a Pilato con un esercito per difendere il suo diritto regale, né si oppone ai soldati con altri soldati.

Dio impotente e senza forza

Il «senso di onnipotenza» non appartiene alla logica di Gesù; egli non riconosce alla forza, tanto meno alla violenza, la dignità di strumento regale o di autorità. Egli è un re che si pone su un altro piano, un livello che Pilato non può capire e non capisce; nemmeno «i Giudei» capiscono e, infatti, fanno confusione fino ad arrivare alla falsità e all’omicidio pur di togliere di mezzo uno di cui non conoscono nulla, se non il pericolo che rappresenta per il loro potere.

Sta tutta qui la differenza: il potere del «cesare di tuo» usa la forza e la violenza e impone se stesso con le armi e la soppressione della libertà, perché occupa e domina esteriormente. Il potere di Gesù è mite, si accosta con dolcezza a ogni singola persona e si rivolge alla coscienza per svegliarla, se dorme, o per rafforzarla, se veglia. Egli rifiuta violenza e forza come strumenti di regalità fino al punto di subire violenza fino alla morte, fallendo apparentemente, ma senza mai rinnegare la propria «modalità» di essere regale. Per questo e solo per questo può essere «universale», cioè, non si assomma ai regni della terra e al tempo stesso si estende a tutti i popoli fino agli estremi confini dell’umanità (cf At 1,8), cioè fin dove c’è una persona con una coscienza attenta e attiva.

Il regno di Cristo non può essere, infatti, una gestione diretta del potere politico, economico e sociale, ma la convocazione di ogni singola persona alla corresponsabilità del servizio come dimensione del «Regno di Dio». L’autorità di Cristo non esige tassazione e imposizione di tributi, non comporta presenza fisica di dominio con strutture opprimenti. Se così fosse, avrebbe bisogno di militari per imporre e mantenere nel tempo il dominio del suo potere, la sottomissione dei popoli dominati. C’è in Luca un esempio illuminante a riguardo. Un tale ha problemi di divisione di eredità col fratello e chiede a Gesù di intervenire ma Gesù risponde: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (Lc 12,13-14). Anche questo semplice racconto è nella linea dell’esercizio del potere: Gesù ne rifiuta l’esercizio come è svolto dagli uomini, come è strutturato nell’ordinamento umano.

La coerenza di Gesù

Due fratelli non avrebbero dovuto nemmeno porsi il problema; se ricorrono a un estraneo è segno che qualsiasi intervento di qualsiasi potere non potrà più risanare la frattura che si colloca a livello interiore, nemmeno se risolve in modo equo la questione materiale dell’eredità. Al tempo di Gesù, l’eredità non poteva essere frantumata per cui solo il maggiore ereditava l’intero, mentre il fratello minore ereditava un terzo, in linea teorica, ma ricevendone l’usufrutto. Forse è il minore che si rivolge a Gesù (sulla questione v. P. Farinella, Il Padre che fu madre, Gabrielli editore). Gesù distingue nettamente tra due «mondi» o «ordinamenti» che diventano due prospettive, due opposizioni, due visioni di vita e di destino. Il mondo di Cesare è «questo mondo/ordinamento» in forza del quale egli comanda, prende, impone. La logica di Gesù non è «di questo mondo/ordinamento», cioè proviene «dall’alto» (Gv 8,23), da un’altra dimensione, cioè, da un altro progetto di vita.

Gesù non si è adeguato al mondo del suo tempo, e tanto meno alla sua logica; se fosse stato un uomo di buon senso, se si fosse preoccupato di rapportarsi con le autorità «in modo istituzionale», ne avrebbe accettato anche la logica e si sarebbe posto a livello di Cesare, ma egli viene «dall’alto» e resta in alto e non scende in basso, ma chiama chi vuole seguirlo a salire in alto: egli promuove, non mortifica e non umilia.

Cristianesimo ed egoismo non possono coesistere, così come Cristianesimo e interesse personale sono antitetici. I credenti in Cristo gestiscono il potere, ma con criteri assolutamente disinteressati, avendo a cuore i destini dei poveri e degli emarginati in forza della prospettiva delle Beatitudini di quanti la società mette al bando (cf Mt 5,1-9). È un capovolgimento totale della prospettiva. È una contestazione radicale di quanto il mondo ha acquisito come proprio «specificum». È il rifiuto intimo del modo di vedere, di giudicare e di scegliere: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo» significa che non ha come obiettivo il dominio, ma la coscienza consapevole e libera delle persone che servono i propri simili con gli stessi sentimenti di Dio, in forza del principio paolino: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2; cf Fil 2,1-8). È l’affermazione che Dio è «servo», non più onnipotente. Rifiutando l’esercito e la difesa, Gesù veste la sua nudità di non-violenza come statuto del suo essere e afferma un nuovo ordine di cui i suoi discepoli devono essere portatori sani e profeti consapevoli.

In altre parole, la distinzione tra Gesù e Cesare non è solo una questione di competenze o ruoli d’influenza, come generalmente si usa, sbagliando, l’altra espressione (date a Cesare… date a Dio), ma si tratta di premesse che esigono conseguenze coerenti. È la prospettiva stessa del potere che in Gesù si scontra con quella di qualsiasi altro potere che vuole essere «politico». Con l’affermazione netta e inequivocabile: «La mia regalità non appartiene alla logica di “questo” mondo», Gesù pone un atto politico estremo perché stravolge il concetto di potere, di organizzazione, economia, relazione tra gli individui, senso dello stato. Egli non intende spiritualizzare il suo «regno», che tra l’altro deve instaurarsi anche sulla terra e coinvolgere l’umanità intera. E dal contesto non si può evincere la contrapposizione tra cielo e terra, tra spirituale e materiale. Non significa che Gesù ci ha invitato a rivolgerci alle «cose del cielo», come una certa mistica ha interpretato esulando dal testo; al contrario, egli c’invita a piantarci nel cuore degli eventi, a essere come il Lògos, «incarnati» nella vita e nella storia, piena di contraddizioni, e di starvi con criteri di discernimento «opposti» a quelli di Cesare e di chi esercita il potere.

Gesù il politico

La prova di quanto affermiamo sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17, dove Gesù stesso equipara i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo inteso come il complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini, o un disincarnarsi dall’umano, ma un rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia e prevaricazione, del potere basato sulla forza e corruzione. In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

  1. a) il mondo geografico, ambiente materiale;
    b) il mondo come umanità;
    c) il mondo dell’incredulità;
    d) il mondo della fede.

La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo… non sono del mondo», per cui si afferma la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium 48-51). L’indole sta a significare che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio, cioè per creare le condizioni affinché tutti i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non siano ridotti a vivere da schiavi.

Un Esodo al contrario

Il compito dei cristiani e a maggior ragione della gerarchia non è quella di tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi, ma unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e fare in modo che venga distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo. Nel 2010 in Italia, il governo nelle mani di Berlusconi e di Bossi che si fregiavano a ogni piè sospinto di ispirarsi agli insegnamenti della Chiesa cattolica, regalò alla Libia 6 motovedette per pattugliare il mare contro gli immigrati e 5 miliardi per impedire che gli immigrati africani attraversassero il mare, ben sapendo che migliaia di persone sarebbero fatte morire nel deserto libico. Se quei soldi fossero stati spesi per l’integrazione ne avrebbe beneficiato l’Italia e gli immigrati e avremmo costruito un ponte di civiltà verso l’Africa che invece piange i suoi figli. Il Signore della Bibbia gettava «nel mare cavallo e cavaliere» che opprimeva i poveri facendoli schiavi, sedicenti cristiani esercitano il potere per uccidere i poveri, amati da Dio, per una manciata di voti.

Questa è la differenza: chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo», chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto». I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono sempre cristiani o credenti e poi, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e còrrei di corrotti e corruttori, immorali e amorali, siamo non più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro, il giorno 19 maggio 2013. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo, sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. A noi la scelta.

(5 – continua)

Paolo Farinella




Una chiesa del laicato

Reportage dalle Filippine, una terra di contrasti.

Arcipelago di oltre 7 mila isole, 96 milioni di abitanti, le
Filippine è l’unico paese a maggioranza cattolica in Asia (insieme a Timor
Est). Paese di attrazioni turistiche e forti contrasti tra ricchi e poveri,
miseria e lusso, desolazione e speranza. Mons. Broderick Pabillo, ausiliare di
Manila parla di una chiesa vivace e attiva, grazie ai suoi laici impegnati, ma
anche con problemi e sfide per il futuro, come quella dei tossicodipendenti ed
emarginati, di cui si prende cura la «Fazenda da Esperança».

Manila, 7 dicembre 2012, ore 3 del
mattino: avevo lasciato Incheon, in Corea, con 10 gradi sotto zero e Manila mi
salutava con 27 sopra zero. Ho cominciato subito a sudare, tanto che nella
stanza della casa dei missionari Comboniani dove ero ospite ho dovuto accendere
l’aria condizionata per poter dormire, dopo una doccia fredda.

La
visita, che aveva lo scopo di raccogliere materiale per la nostra rivista
coreana La Consolata, è durata una decina di giorni, abbastanza per
avere alcune idee sui forti contrasti economici e sociali del paese e sui
problemi e speranze della Chiesa cattolica. 

Prime impressioni

In vita mia non avevo mai visto così tanti bambini! Tanti e belli.
Sono dappertutto, soprattutto nelle baraccopoli, sparse purtroppo in tutta
Manila, eccetto che in alcuni quartieri più recenti e benestanti. Mi ha
sorpreso vedere coppie giovanissime con tre o quattro bambini, tutti
piccolissimi. La miseria in cui vivono tanti di essi mi ha molto rattristato;
al tempo stesso sono rimasto impressionato dal loro sorriso, nonostante la
situazione in cui vivono.

La strada è il loro parco di divertimenti; la maggior parte delle
baraccopoli sono sovraffollate di baracche, senza spazio per poter giocare.
Moltissimi bambini stanno lì tutto il giorno, perché non hanno accesso alla
scuola.

Il degrado delle baraccopoli è più che impressionante. Sono
entrato tre volte in alcuni di questi quartieri poveri: in uno di essi per
intervistare una suora missionaria coreana; in un altro slum insieme a
padre David, missionario comboniano, portoghese e mia guida, quando si è recato
a benedire un piccolo negozio di un loro dipendente e quando è andato a
celebrare la messa in una chiesetta nel cuore di un altro quartiere. Il
contrasto tra baraccopoli e condomini chiusi o palazzi lussuosi è sconvolgente.

Il traffico è assolutamente caotico, sia perché le strade sono ben
poche sia per l’impressionante quantità di macchine. Tra i mezzi di trasporto,
si distinguono tre tipi ben caratteristici: i jeepney (vecchie jeep
dei soldati americani adattati per trasportare gente e merce), i tricicles
(moto o biciclette per il trasporto di persone) e i vecchi pullman senza
finestrini.

Meno male che padre David è un autista provetto, ma anche lui,
dopo nove anni di presenza nelle Filippine, ogni tanto si arrabbia, e con
ragione, per come guidano i filippini: davvero pazzesco! Dopo questo viaggio,
ho promesso a me stesso di non lamentarmi più del traffico in Corea. Però devo
confessare che mi sono stupito di non aver visto un solo incidente stradale!

Mi ha stupito anche la quantità di Suv, certamente acquistati con
i soldi arrivati da parenti che lavorano all’estero, dato che la disoccupazione
è molto alta nelle Filippine, ma anche segno di divisioni sociali.

Tali contrasti sono ancor più evidenti nei cosiddetti quartieri
chiusi: qui vivono i più ricchi circondati da muri, protetti da guardie armate,
in abitazioni di lusso. Quando abbiamo fatto un giro dentro uno di tali
quartieri di lusso mi sembrava di essere in un altro paese. Tale contrasto tra
lusso e miseria è anche un segno dell’alto livello di corruzione di cui è
impregnata la politica.

Un altro segno del contrasto tra ricchi e poveri sono i cimiteri:
mentre la gente di classe economica più bassa seppellisce i suoi defunti in
cimiteri comunali, alcuni tra i più ricchi costruiscono persino dei mausolei,
con curatori permanenti. Curiosamente, questi cimiteri sono anche usati da
tante persone per fare sport o 
passeggiare, perché i parchi pubblici a Manila sono quasi inesistenti.

Conseguenza di questo contrasto tra ricchi e poveri è
l’impressionante quantità di guardie di sicurezza, sempre ben armate. Sono
proprio dappertutto: banche, ristoranti (persino McDonald’s e altri
simili), negozi di ogni dimensione, oltre che nei cancelli di controllo dei
quartieri chiusi.

Impressionanti sono pure la quantità e la grandiosità dei centri
commerciali, sempre affollati. Siccome a Manila fa tanto caldo e l’umidità è
molto alta, tanti cittadini e famiglie intere vi spendono quasi tutto il week-end
per rilassarsi all’aria condizionata. Per questo tali centri offrono servizi di
ogni genere, come parrucchieri, dentisti… e persino la messa cattolica! Ne ho
visitato uno la domenica prima di tornare in Corea: vi sono state celebrate
quattro messe, oltre ad altre due in un salone per un gruppo carismatico.

Le messe sono molto partecipate, da fare invidia a tante delle
nostre parrocchie qui in Corea. Infatti la fede dei filippini è impressionante:
varie parrocchie hanno sette o otto messe ogni domenica e qualcuna persino 10!

Vangelo e Responsabilità sociale

Una delle sorprese più belle è
stato l’incontro con mons. Broderick Pabillo, ausiliare di Manila. Un vescovo
semplice e accessibile, al lavoro in un angusto ufficio dietro la chiesa del Santo
Niño
(Gesù Bambino), a cui ho posto alcune domande sulla Chiesa nelle
Filippine.

Mons. Pabillo ha cominciato
subito dicendo che la maggior parte dei filippini sono membri della Chiesa
cattolica, una Chiesa con un laicato molto attivo, che supplisce
all’insufficienza di clero. Tale mancanza favorisce il flusso di gruppi
evangelici.

Da parte dei fedeli, è molto
forte il senso di religiosità: il popolo filippino è desideroso di conoscere
Dio ed entrare in comunione con lui. In questi ultimi anni sono fioriti molti
movimenti tra i laici cattolici, specialmente i carismatici e le «coppie per
Cristo». Tutti questi movimenti aiutano il processo di evangelizzazione della
Chiesa.

Tuttavia, nonostante la
religiosità della gente e il numero dei cattolici, ci sono molti problemi nella
società, alcuni dei quali causati dai fedeli, specialmente politici e ricchi.
Molti cattolici ricchi mancano di responsabilità sociale, attratti dalla
globalizzazione e dai profitti, ignorando i bisogni dei più poveri. Anche per
questo il livello di disoccupazione è molto alto e alcune compagnie impiegano
la gente part-time, causando instabilità sociale e maggiore povertà.

Un altro problema è la crisi
ambientale, anch’essa causata dall’ingordigia e mancanza di coscienza sociale,
specialmente da parte di grandi compagnie minerarie; a questa crisi vanno
aggiunti i problemi di molti indigeni nelle varie isole, anch’essi molto
poveri.

Dall’altra parte, alcuni gruppi
laicali stanno crescendo verso una maggiore responsabilità sociale. L’azione
sociale della Chiesa nelle Filippine non è solo orientata ad aiutare le vittime
di povertà o calamità, come nel caso dei recenti tifoni, ma sta facendo lobby
(pressione) perché siano implementate leggi giuste, specialmente nel
riconoscimento dei diritti dei poveri.

Alcuni dei problemi più pressanti
cui mira l’azione sociale della Chiesa include le miniere, la riforma agraria,
uccisioni extragiudiziali, violazioni dei diritti umani, traffico di esseri
umani (specie di donne e bambini)… Altro problema pressante è l’aumento dei
malati di Aids: la Chiesa raccomanda fedeltà e responsabilità, mentre il
governo e alcune Ong insistono sui condom (preservativi). Un altro
argomento scottante è la legge sulla salute riproduttiva, che raccomanda
contraccezione ed educazione sessuale a scuola, oltre a provvedere condom
per i poveri, nel tentativo da parte del governo di frenare la crescita
demografica del paese.

«La soluzione della povertà sta
nel prendersi cura dei poveri – afferma mons. Pabillo -, piuttosto che nella
semplice distribuzione di contraccettivi».

Sognando una Chiesa più Missionaria

I momenti più sentiti nella vita
della Chiesa filippina sono: Natale, la Fiesta (celebrazione del santo
patrono) e la Settimana Santa. «In tali ricorrenze le chiese sono gremite di
fedeli – continua il vescovo -, ma sorge la domanda se si tratti di fede
autentica o di semplici pratiche religiose. È questa soprattutto la sfida della
nuova evangelizzazione: i nostri fedeli hanno bisogno d’imparare sempre più i
contenuti della fede e le conseguenze che ne derivano».

Nel 2021 la Chiesa cattolica
celebrerà il 500° anniversario dell’arrivo della fede nel paese. Per quella
data i vescovi filippini sperano che le loro comunità abbiano mandato più
missionari all’estero di quanti ne entrano nel paese. Una delle ragioni per cui
ci sono ancora pochi missionari filippini è il bisogno di personale e risorse
materiali della Chiesa locale. «Il rapporto è un prete per 8 mila e più fedeli,
e non ben distribuiti – spiega il vescovo -. Ciò significa che la Chiesa deve
essere più autosostenibile, anche perché le risorse e gli aiuti che vengono
specialmente dall’Europa sono diminuiti considerevolmente».

In molti paesi asiatici i vescovi
sono preoccupati per la pastorale giovanile. «A differenza di altri paesi –
continua mons. Pabillo -, qui la gioventù è coinvolta nella vita della Chiesa:
il problema è che ci sono pochi leader per organizzare e istruire la gioventù.
In alcune diocesi la pastorale giovanile è ben strutturata, mentre in altre c’è
la mancanza di personale o di mezzi materiali per la loro formazione».

Un’altra sfida per la Chiesa
nelle Filippine è il dialogo con l’islam. «Nel passato la maggior parte dei
musulmani era concentrata nella provincia di Mindanao – continua il vescovo -.
Ci sono commissioni d’ambo le parti (cattolica e musulmana) che si impegnano in
un dialogo positivo. Ma alcuni gruppi fondamentalisti, come Abu-Sayyaf, non
sono affatto interessati al dialogo».

Attualmente molti musulmani si
stanno spostando in altre province, inclusa Manila, e la maggior parte delle
diocesi non sono preparate per questo, così il dialogo è poco o nullo. Al tempo
stesso, questi gruppi islamici stanno ottenendo più convertiti, anche tra i
cristiani.

Per quanto riguarda i
protestanti, c’è qualche dialogo con loro, ma non con i piccoli gruppi di
evangelici che sono più fondamentalisti. «In un certo senso – conclude il
vescovo – questa sfida del dialogo provocherà maggiore pressione sul processo
di evangelizzazione della popolazione cattolica. E i leader devono essere
pronti ad affrontare queste sfide con speranza e perseveranza».

La Fattoria della Speranza

Una delle esperienze più
significative fatte durante il mio viaggio nelle Filippine è stata la visita
alla «Fazenda da Esperança», nell’isola di Masbate: è il primo centro di
riabilitazione in Asia, aperto nel 2003.

Conoscevo già
quest’organizzazione cattolica da quando fui in Brasile nel 2007. Fu fondata
nel 1983 dal francescano tedesco fra’ Hans Staple, parroco di Guaratinguetá (São
Paulo, Brasile), in una «fazenda» donatagli da un amico, per
l’accoglienza e il recupero di tossicodipendenti e vittime della prostituzione.
In pochi anni altre fattorie furono regalate arrivando a più di 60 in Brasile e
30 in altri paesi, incluse le Filippine. Attualmente sono circa 2.500 le
persone nelle varie fattorie sparse nel mondo, da cui sono uscite più di 20
mila persone, dopo aver compiuto un anno di riabilitazione.

Uno dei responsabili della Fazenda
per ragazzi a Masbate nelle Filippine è Richardson Silva, il quale mi ha
accolto nella sua casa e mi ha raccontato la sua storia. È brasiliano anche
lui, dello stato del Maranhão (Nord del Brasile); ha trascorso un anno in una Fazenda
per curarsi dalla dipendenza dalla droga. Dopo un altro anno di vita fuori
della Fazenda, ne è diventato un volontario.

«Sono stato tossicodipendente per
dieci anni – racconta Richardson -. Ebbi il primo contatto con alcol e droga a
15 anni, dopo il divorzio dei miei genitori. 
Sognavo una famiglia normale, unita, un gruppo di amici, tra i quali
cominciai a drogarmi, divenne la mia nuova famiglia. Mi sentivo bene, felice.
Credevo di di avere il controllo di me stesso, cioè, di poter lasciare la droga
in qualsiasi momento».

Ben presto Richardson divenne
sempre più estraneo alla sua famiglia; spendeva tutto per soddisfare la sua
tossicodipendenza; sperimentò la solitudine più nera, si sentiva sempre più
solo, misero e triste. Si sottomise inutilmente a cure mediche, finché uno zio
lo invitò ad andare in una «Fazenda da Esperança», di cui era venuto a
conoscenza tramite una trasmissione televisiva. Inizialmente il giovane non
diede retta al consiglio dello zio, ma poi decise di tentare l’esperimento.

«Entrato nella Fazenda
continuava Richardson -, fui stupito nel vedere che non c’erano medici,
cliniche o terapie scientifiche, ma soltanto dei cornordinatori missionari che mi
trattavano bene. I primi giorni furono terribili: crisi di astinenza,
allucinazioni, non riuscivo a dormire… Mi era difficile pregare e non capivo
perché dovessi ogni giorno andare alla messa; per la prima volta, a 25 anni, mi
trovavo a recitare il rosario e meditare sul Vangelo. Una volta, mentre ero in
crisi profonda, due cornordinatori trascorsero la notte accanto a me: quando
domandai loro come erano riusciti a sopportare i miei comportamenti, mi
risposero che in quel giorno il Vangelo li invitava ad amare il prossimo come
noi stessi… e io ero il loro prossimo».

Il programma di recupero,
infatti, è basato sul lavoro come fonte di auto sostentamento e sulla vita
comunitaria come strumento di crescita interiore alla luce della Parola di Dio.

Ben presto Richardson cominciò a
sperimentare una gioia intensa; il lavoro nella fattoria lo liberava
gradualmente e gli faceva sentire l’amore di Dio in una forma concreta e
serena. Terminato l’anno di recupero toò a casa, finché decise di ritornare
nella Fazenda di Maranhão come cornordinatore, felice di condividere con
altri ciò che aveva imparato, oltre all’esperienza personale dell’amore di Dio.

«Ho imparato pure a perdonare –
continua Richardson -, a quei giovani che arrivavano nella Fazenda con
atteggiamenti molto aggressivi. Sono riuscito a perdonare anche mio papà e
perfino a chiedergli perdono. Il perdono mi ha liberato e trasformato veramente».

Tale esperienza sconvolse
completamente i piani del giovane Richardson: pensava di continuare gli studi,
ma l’invito a continuare come volontario cornordinatore nella Fazenda lo
convinse a restare dove era veramente felice. Dopo un anno e sei mesi, i
responsabili gli proposero di andare nelle Filippine. Sposato nel frattempo con
Marineya, anche lei cornordinatrice delle ragazze, ora Richardson è uno degli
amministratori della Fazenda di Masbate, incaricato della produzione di
riso e responsabile di un gruppo di giovani in recupero.

«Nella Fazenda produciamo
anche latte, pane e vegetali, che poi vendiamo per il nostro sostenimento
economico. Non è certo facile vivere in una cultura diversa, ma sono contento, fino
a sentirmi padre di questi giovani, anche perché Marineya e io non abbiamo
figli. Questi sono i nostri figli. Infatti, non basta aiutare questi giovani a
riabilitarsi: dobbiamo amarli, aiutandoli a rinascere con la nostra amicizia e
condivisione di vita. E dobbiamo darli a Dio, con atti concreti di amore e di
vita nuova».

Alla fine del mio breve soggiorno
nelle Filippine, non posso dire di conoscere bene questo paese. Padre David mi
ha parlato anche dei problemi degli indigeni che lasciano le loro isole per
aumentare la popolazione degli slum di Manila. Tuttavia ho lasciato il
paese portando con me tante indimenticabili e giorniose realtà, soprattutto la
simpatia, ospitalità, generosità, fervore religioso e semplicità della gente e,
certo, la bellezza dei bambini e il loro sorriso. Questo è il ricordo più caro
che porto nel cuore.

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




Le bizze dei Kim non finiscono mai


Le minacce di Pyongyang, le strategie degli?altri Il giovane Kim Jong-un non è diverso dal padre e dal nonno: pensa e agisce da dittatore. Le necessità della politica intea esigono che il paese abbia un nemico esterno su cui far ricadere tutti i problemi e per compattare la popolazione attorno al presidente. L’alleato cinese osserva perplesso. Per parte loro, Corea del?Sud e Stati Uniti agiscono in maniera provocatoria con protratte esercitazioni militari.

 

Per settimane, tra marzo e aprile, tutto il mondo ha seguito con attenzione ogni comunicato dell’agenzia ufficiale nordcoreana Kcna. In alternativa c’erano i pezzi del Rodong Sinmun, l’organo ufficiale del Partito unico di regime. Erano i giorni della minaccia nucleare dei due missili a medio-raggio Musudan trasferiti sulla costa orientale in una località segreta  e capaci (ipoteticamente) di giungere fino alle basi statunitensi di Guam, oltre che a quelle in Corea del Sud e in Giappone. Un crescendo di toni belligeranti iniziato con il lancio del razzo Unha-3, nel dicembre 2012, in spregio alle risoluzioni Onu che vietano test balistici al regime e con il quale Pyongyang ha superato sul tempo i più modei cugini del Sud nella corsa a piazzare in orbita un satellite. I sudcoreani ci sarebbero riusciti con il Naro soltanto un mese dopo, al terzo tentativo. La crisi ha poi toccato il culmine con il test nucleare sotterraneo del 12 febbraio, costato a Pyongyang nuove sanzioni approvate anche con il via libera della Cina, storico alleato. E proprio nella dirigenza cinese è serpeggiata la presenza di funzionari favorevoli a prendere le distanze da un regime poco propenso a sentire i consigli dei «fratelli maggiori».

La sequenza degli eventi è stata scandita dalla minaccia di un attacco nucleare preventivo contro gli Usa il 7 marzo; il giorno seguente è avvenuto il taglio della linea di comunicazione d’emergenza di Panmunjom (il villaggio al confine tra le due Coree dove fu firmata la tregua) e infine il ripudio dell’armistizio che mise fine alla guerra del 1953 e che di fatto, in assenza di un trattato di pace, regola le relazioni all’interno della penisola coreana.

Kaesong

Un mese dopo la Corea del Nord prendeva la decisione forse più significativa della recente crisi: il ritiro dei suoi 53mila lavoratori da Kaesong, il complesso industriale inter-coreano nell’omonima città, una decina di chilometri a nord della zona demilitarizzata (cfr. Glossario). Kaesong è considerato uno dei frutti più duraturi della politica di distensione tra le due Coree dell’inizio degli anni Duemila. Una sorta di «canarino nella miniera» circa le relazioni tra Pyongyang e Seul, capace di resistere anche alle crisi più gravi come l’affondamento della corvetta Cheonan nel marzo di tre anni fa, nel quale persero la vita 46 marinai del Sud o il bombardamento sull’isola di Yeonpyeong nel novembre successivo, che fece quattro morti di cui due civili. Sopravvisse inoltre con buoni risultati economici ai cinque anni alla Casa Blu di Seul del presidente Lee Myung-bak, fautore di una linea intransigente contro il Nord.  I lavoratori nordcoreani sono impiegati da 123 piccole e medie imprese del Sud, ora messe sul lastrico dal blocco della produzione. Come ha spiegato una fonte intea al sito Daily Nk, vicino agli esuli nordcoreani,  il gesto è stato dettato da motivi  di propaganda. Quanti a Nord del 38esimo parallelo sarebbero stati disposti a credere all’eventualità che la Corea del Sud potesse attaccare il regime con Kaesong ancora in funzione? D’altra parte, se i sudcoreani hanno manodopera a basso costo, per il Nord, Kaesong rappresentava una fonte di guadagno e valuta. Il regime trattiene per sé parte dei salari dovuti agli operai, che vanno invece a rimpinguare le casse di Pyongyang. L’ultimo incasso sono stati i 10 milioni di dollari che il regime si è fatto consegnare per consentire di tornare a casa agli ultimi sette sudcoreani bloccati nell’impianto dopo che anche Seul aveva deciso di richiamare i suoi. Soldi che dovevano coprire gli stipendi di marzo e le tasse e che il Sud ha mandato in contanti, quasi fossero una sorta di riscatto.  

«Il 99 per cento della propaganda nordcoreana è rivolta a un pubblico interno – ha spiegato James Pearson, direttore a Seul del sito Nk News, da noi contattato -. Ci sono ovviamente eccezioni alla regola, come le recenti minacce dirette alle basi statunitensi nel Pacifico, ma il linguaggio estremo usato in questo periodo non è fuori luogo rispetto a quanto la stampa nordcoreana pubblica normalmente. Gli articoli della Knca riprendono normalmente quelli del Rodong, il principale quotidiano del paese. Sono pezzi scritti da esponenti del Partito per altre persone del Partito. Spesso gli autori temono per la loro sicurezza e legittimazione, perciò usano un linguaggio aggressivo e provocatorio».

È la propaganda nordcoreana intea, ha confermato Roger Cavazos, analista del Nautilus Institute. Secondo l’esperto internazionale la propaganda nordcoreana segue principalmente quattro direzioni: istituzionalizzare il carisma del leader, sostenere l’ideologia politica, cementare la successione dinastica della famiglia Kim oggi alla terza generazione con il trentenne Kim Jong-un, figlio del caro leader Kim Jong-il  (morto nel dicembre 2011) e nipote del fondatore dello Stato, Kim Il-sung (morto nel luglio 1994); convertire l’intero Paese alla sfera politica.

 

Una?nazione? «forte e?prospera»

Sul fronte esterno invece il regime di Pyongyang tende a volere creare situazioni di crisi, mostrarsi il più forte possibile per affrontare un ipotetico tavolo delle trattative. Soprattutto vuole gestire l’andamento della narrazione. Molti analisti concordano nel ritenere che l’ultima serie di minacce sia servita per forgiare la figura del giovane Kim Jong-un davanti ai militari che per anni sono stati accanto al padre nella gestione del potere, ha ricordato Pearson. «Deve essere considerata soprattutto in questi termini la recente escalation, non possiamo da un lato farci beffa della propaganda nordcoreana e dall’altro prenderla sul serio».

Nei giorni della crisi due erano i temi ricorrenti: gli armamenti nucleari e lo sviluppo economico. Le due priorità per costruire una nazione «forte e prospera», come recita lo slogan del giovane leader nel suo primo anno di potere.  Nella pratica, ricordano gli analisti, si tratta di linee guida vaghe che possono essere interpretate tanto in termini militari, economici o diplomatici. Non a caso negli stessi giorni in cui giornali, televisioni e radio di tutto il mondo aprivano le edizioni con le minacce di Pyongyang, il Rodong dedicava ampio spazio all’economia, mentre i nordcoreani, prima in stato di massima allerta, si preparavano alla stagione della semina.

Denuclearizzare: sogno realizzabile?

I gesti di Kim Jong-un e dei suoi generali non sono tuttavia catalogabili semplicemente alla voce, «tanto rumore per nulla». La macchina della diplomazia si è messa in moto. Il segretario di Stato americano, John Kerry è volato in Asia in un tour di tre tappe a Seul, Pechino e Tokyo per discutere della crisi con i principali attori coinvolti. Il tema caldo è stato rappresentato dalla denuclearizzazione della penisola, di cui Kerry ha discusso tanto con la presidentessa sudcoreana Park Geun-hye tanto con il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro giapponese Abe Shinzo. 

Si sono poi susseguite le visite nelle quattro capitali degli inviati speciali con particolare attenzione al cinese Wu Dawei dato a più riprese in partenza per Pyongyang per riportare il regime a più miti consigli. Mentre a volare nella capitale nordcoreana è stato per primo l’inviato nipponico Iijima Isao , forse per un canale di dialogo interrotto con il test di dicembre, sebbene i due Paesi non abbiano relazioni diplomatiche e nonostante i contrasti per le atrocità compiute dall’esercito imperiale durante l’occupazione della Corea nella prima metà del secolo scorso e per la questione dei giapponesi rapiti dai nordcoreani.

«La stampa internazionale ha ceduto alla tentazione di spaventarsi da sola. Il Nord non lancerà un attacco nucleare contro gli Stati Uniti o contro qualcun altro. Sicuramente non darà inizio ad alcuna guerra. I coreani tanto del Nord quanto del Sud la pensano così. Ciò che la crisi ha dimostrato è quanto il resto del mondo debba rimettersi al passo per capire la situazione nella penisola coreana», ha sottolineato Pearson. D’altra parte, è opinione comune che l’obiettivo del regime di Pyongyang non sia l’autodistruzione, ma perpetuare il proprio potere.

L’ideologia?del «juche»

Le minacce in qualche modo rientrano in un copione che si ripete di anno in anno in occasione di celebrazioni di primo piano per il regime.  Nei primi quattro mesi dell’anno si susseguono l’anniversario della nascita di Kim Jong-il, il 16 febbraio, quello della nascita di Kim Il-sung, il leader eterno celebrato nella festa del Sole, astro cui è paragonato, il 15 aprile, l’anniversario della fondazione dell’esercito, uno dei pilastri della Repubblica democratica popolare di Corea (nome ufficiale del Nord), il 25 aprile.

In queste occasioni il governo di Pyongyang non ha mancato in passato di fare sfoggio della propria forza con parate militari o come lo scorso anno con test balistici di scarso risultato, prima di quello di dicembre.

Il crescendo delle tensioni è coinciso anche con le annuali esercitazioni congiunte tra statunitensi e sudcoreani, questa volta andate avanti sino alla fine di aprile. Per gli Stati Uniti sono state occasione per far sfoggio di muscoli. Sui cieli coreani si sono visti volare i bombardieri B-52, ricordo del conflitto degli anni Cinquanta, i B-2 capaci di trasportare bombe nucleari e gli F-22, fiore all’occhiello dell’aviazione statunitense. Terminate le esercitazioni il 30 aprile, dopo due settimane di relativa calma durante le quali le minacce di Pyongyang si erano fatte sporadiche, a dare una nuova fiammata, seppur non ai livelli precedenti, è stato l’arrivo nelle acque coreane della portaerei della marina statunitense Uss Nimitz. Una «provocazione» secondo Pyongyang che per tutta la durata della crisi ha fatto leva sul senso di accerchiamento. C’è infine la questione diritti umani, con gli inviati Onu che hanno ricevuto mandato di indagare sulle violazioni nei campi di lavoro forzato dove si ritiene che i detenuti siano almeno 200mila. Uno smacco per Pyongyang tanto più che dei tre componenti la commissione nessuno può essere accostato ai nemici di sempre.

Si tratta infatti di un australiano, Michael Kirby, di un indonesiano, Marzuki Darusman, e di una serba, Sonja Biserko. «La lotta contro l’esterno richiede che ci sia qualcuno cui dare la colpa», ha spiegato Cavazos. Il principio è quello di riunire il popolo attorno ai propri leader, gli unici portatori dell’ideologia del juche, o autosufficienza come vien tradotto, memori anche di un passato in cui il Paese è stato mira delle grandi potenze, prima la Cina, poi il Giappone, poi stretto nello scontro tra i blocchi. «La Corea del Nord è fiera della propria indipendenza. Nessuno può dirle cosa fare», viene ricordato da Brian Reynolds Myers della Dongseo University di Pusan nella sua analisi della propaganda nordcoreana.

Il?ruolo?di?Pechino

E la Cina? Che l’influenza può esercitare Pechino sul riottoso alleato? In una recente analisi del Nautilus Insitute si usa la metafora dell’elefante (la Cina) che entra nel prato schiacciando l’erba. Questa è il timore di Pyongyang in termini di indipendenza. Per Pechino è invece una questione tanto di prestigio internazionale quanto di interesse nazionale. Accettando le sanzioni, aumentando i controlli alla dogana e con la decisione unilaterale della Bank of China di chiudere il conto domiciliato presso i propri sportelli della nordcoreana Foreign Trade Bank, accusata di finanziare il programma nucleare di Pyongyang, la Cina mostra al mondo di essere una potenza responsabile e manda allo stesso tempo un segnale all’alleato.

Il legame «di sangue» stretto ai tempi della guerra di Corea rischia di rivelarsi controproducente per Pechino. Le bizze della Corea del Nord sono un alibi per il mantenimento e per il potenziamento dell’apparato militare statunitense nella regione a sostegno degli alleati sudcoreani e nipponici. Gli Usa hanno già decretato l’Asia come il fulcro della propria attuale e futura strategia estera ed economica. Nelle stesse zone dove la Cina vuole far valere la propria influenza.

Andrea Pira*

 
             Le attività religiose                                                                           

Forze?ostili

L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana garantisce la libertà di culto. La realtà mostra una situazione molto diversa. Come testimonia la vicenda del missionario evangelico Kenneth Bae, condannato a 15 anni di carcere.

Kenneth Bae è stato condannato per aver cercato di rovesciare il governo nordcoreano con attività religiose di propaganda, recita il comunicato dell’agenzia Knca.  Il caso del cittadino statunitense di origine sudcoreana fermato lo scorso novembre e a fine aprile condannato a 15 anni di lavori forzati dalla Corte suprema nordcoreana è corso di pari passo con la crisi nucleare nella penisola e i venti di guerra. Secondo quanto riferiscono i media ufficiali, la 44enne guida turistica, nota anche come Pae Jun-ho con il suo nome coreano, sarebbe la mente della cosiddetta «operazione Jericho» e avrebbe infiltrato nel Paese 250 studenti, spacciati per turisti e istruiti in quella che è considerata la base operativa nella città di Rason. Bae, scrive ancora l’agenzia, era stato inviato come missionario in Cina nel 2006 con  l’organizzazione evangelica Youth for a Mission. Gli sarebbe poi stata data la prospettiva di fare lo stesso a Nord del 38esimo parallelo sfruttando l’opportunità di ricevere inviti a visitare il paese per motivi turistici. La guida è così diventata una nuova pedina di scambio in mano a Kim Jong-un e ai suoi generali nelle ipotetiche trattative con Stati Uniti e Corea del Sud. Un appello diretto al «brillante leader» per la scarcerazione del cittadino statunitense è arrivato dall’ex campione di basket Dennis Rodman, di recente salito alle cronache per un abbraccio con il giovane dittatore dopo un incontro degli Harlem Globetrotters a Pyongyang organizzato dalla rivista Vice. Ancora prima, a gennaio il tentativo, senza risultati, di liberare Bae fu la motivazione ufficiale del viaggio umanitario del numero uno di Google, Eric Schmidt, in Corea del Nord, accompagnato dall’ex ambasciatore Usa all’Onu, Bill Richardson e da Tony Namkung, coreano-statunitense fautore di lunga data del dialogo tra Washington e Pyongyang.

Nello stesso mese la Corea del Nord si è classificata al primo posto per l’undicesimo anno consecutivo nell’indice sulla repressione religiosa stilato dall’organizzazione evangelica per le missioni cristiane «Open Doors». Secondo il rapporto, i cristiani sono considerati forze ostili e puniti con l’arresto, la detenzione e la tortura, se non con la pena capitale, o comunque catalogati all’ultimo gradino nella struttura castale nordcoreana: discriminati. Sempre secondo l’organizzazione, nel paese si starebbe sviluppando una rete di chiese sotterranee che conterebbe circa 400mila fedeli. L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana, si legge nell’ultimo rapporto della Commissione statunitense per la libertà religiosa a livello internazionale, continua a garantire la libertà di culto. Tuttavia lo stesso articolo precisa che la religione non può essere usata per minacciare lo stato, riferendosi in particolare alle attività fuori dal controllo governativo.

Simbolo di questo controllo è la cattedrale di Changchung a Pyongyang,  ricostruita nel 1988 per dimostrare il rispetto del regime per la libertà religiosa, ma senza tuttavia avere alcun vescovo né tanto meno sacerdote. Lo stesso anno fu fondata anche l’Associazione dei cattolici romani di Corea, presieduta da Samule Chang Jae-on. Secondo i dati di Uca news, principale agenzia giornalistica cattolica in Asia, a Nord del 38esimo parallelo i cattolici sono almeno 3mila. Circa 200 partecipano alla messa la domenica nella cattedrale. Nel 1985 il vescovo Daniel Tjie Hak-soon di Wonju fu il primo prelato sudcoreano a visitare la capitale nordcoreana dalla fine del conflitto del 1953.  E dire che lo stesso fondatore della patria Kim Il-sung veniva da una famiglia di ferventi cristiani come rivelato nel 2011 da Kim Hyun-sik, disertore e all’epoca delle dichiarazioni visiting professor a Yale, dopo 38 anni passati al «Pyongyang College Professor».

 

Andrea Pira
 
Glossario

KAESONG: è il complesso industriale inter-coreano di Kaesong, nell’omonima città a una decina di chilometri a Nord della zona demilitarizzata che spacca la penisola. È considerato uno dei risultati più duraturi della politica di distensione tra le Coree avviata a cavallo tra gli anni Novanta del secolo scorso e i primi anni Duemila. Gli impianti furono aperti nel 2003. Nell’area industriale 123 piccole e medie aziende sudcoreane danno lavoro a 50mila nordcoreani. Gli operai sono pagati 128 dollari, gran parte dei quai vanno però a rimpinguare le casse di Pyongyang. Nel 2012, sottolinea il Financial Times, la produzione ha toccato i 470 milioni di dollari, in aumento del 17 per cento rispetto all’anno precedente.

KCNA: la «Korea Central News Agency» è l’agenzia giornalistica di Stato. Fondata nel 1946, è la voce ufficiale del Partito dei lavoratori, il partito unico al potere, e del governo nordcoreano. È accessibile all’indirizzo internet kcna.kp, con dominio coreano, o sul server giapponese all’indirizzo kcna.co.jp.

JUCHE: è l’ideologia alla base del regime. Il termine è tradotto come «autosufficienza». Elaborata da Kim Il-sung è assurta a ideologia grazie all’opera di propaganda del figlio e poi futuro leader Kim Jong-il. Mescola socialismo, maoismo e nazionalismo, spesso puntando l’accento su quest’ultimo ed enfatizzando l’immagine della Corea del Nord accerchiata da potenze straniere e capace di resistere con le proprie forze.

MUSUDAN: spostati sulla costa orientale sono stati lo spauracchio delle settimane di tensione nella penisola. Sono missili a media gittata capaci di coprire 3mila-4mila chilometri, quindi in teoria le basi Usa a Guam. Sono stati mostrati per la prima volta durante una parata militare del 2010. Non è chiaro se siano mai stati testati.

RODONG SINMUN: il quotidiano dei lavoratori è il giornale ufficiale del Partito dei lavoratori coreano e il principale del paese. Fu fondato nel 1945. È considerato una fonte ufficiale su molti temi della politica nordcoreana. Dal 1996 l’editoriale di Capodanno presenta le linee che il paese seguirà per i successivi dodici mesi.

 Andrea Pira
 



Emozioni e sfide

Sulle orme di padre Witold Malej, missionario della Consolata nato
in Bielorussia
Nato in Bielorussia da famiglia polacca, padre Witold Malej
(1922-2006) è l’unico missionario della Consolata di nazionalità polacca.
Ordinato sacerdote nella diocesi di Varsavia, vi lavorò per vari anni, poi
chiese di entrare nell’Istituto. Emessa la professione religiosa, visitò
l’Africa e fu missionario per alcuni anni in Brasile. Poi chiese e ai superiori
e ottenne il permesso di ritornare in Bielorussia nel suo villaggio di origine
a Dzierkowszczyzna, dove fu parroco fino a quando le forze glielo permisero.
Oggi riposa nel cimitero di Alpignano.

Ho l’occasione di visitare la
Bielorussia grazie a un invito, come segretario della Pontificia unione
missionaria (Pum), a predicare una giornata di ritiro spirituale ai seminaristi
della diocesi di Grodno, insieme al mio collega don Bogdan Michalski,
segretario nazionale delle Pontificie Opere per la Propagazione della Fede e di
San Pietro Apostolo in Polonia.

Oltre a incontrare i seminaristi
ci diamo due obiettivi: cercare nel paese un compagno di seminario di don
Bogdan; cercare il villaggio nel quale nacque e lavorò il mio confratello padre
Witold Malej.

Uno sguardo sul paese

La Bielorussia ha una superficie
di 207.600 kmq e una popolazione di quasi 10 milioni di abitanti. Senza sbocco
al mare, conta 11 mila laghi. Viene attraversata da tre fiumi principali:
Neman, Pripyat e Dnepr.

La Bielorussia è relativamente
piatta e ricca di paludi. Il più grande territorio paludoso è Palesse. Il suo
punto più alto è la Dzyarzhynskaya Hara (Colle di Dzyarzhynsk), con 346 m,
mentre il punto più basso sul fiume Neman a 90 m. La capitale è Minsk. La
popolazione è cristiana: circa 80% ortodossa e 20% cattolica. Anche se le
statistiche mostrano un paese cristiano, in realtà è considerevole il numero di
persone atee.

Scopriamo che molto raramente è
parlato un idioma «puro» nel paese. Bielorusso e russo sono le lingue
ufficiali, ma a scuola si insegna più il russo che il bielorusso. Spesso queste
lingue sono mescolate con il polacco, il lituano e l’ucraino a seconda della
regione in cui ci si trova.

La lingua liturgica più amata dai
cattolici è il polacco. Nella cattedrale di Grodno, ad esempio, la domenica si
celebrano otto messe: una in russo, una in bielorusso e sei in polacco. Ciò
facilita il nostro incontro con i seminaristi, anche se don Bogdan parla russo
e io mi sono comprato un tascabile per le frasi elementari. Ma grazie a una
buona conoscenza del polacco ci si può capire anche con quelle persone che non
lo parlano per discendenza, perché parlano una lingua mescolata. L’alfabeto del
bielorusso e del russo è cirillico. La lingua ha molti suoni comuni alla lingua
polacca. La moneta corrente è il rublo bielorusso. Il cambio è di circa 11.000
rubli per 1 euro. È facile essere milionari in questo paese. Uno stipendio
medio di un insegnante si aggira sui 300 euro. La benzina costa poco: circa
8.000 rubli al litro (0,70 euro), ma bisogna fare attenzione a dove la si
compra perché a volte la qualità può essere scadente.

Per passare dalla Polonia alla
Bielorussia occorre il visa: infatti si esce dall’Unione europea e si entra
nella Confederazione degli stati russi. La strada che percorriamo è una delle
più frequentate dai camionisti. La coda di tir che si è formata oggi ci
impressiona. È lunga circa 25 km e il tempo di attesa per varcare il confine
come segnala un cartello è di ben 40 ore! Per fortuna le macchine vanno
spedite, ma parte di questi 25 km di coda è a una sola corsia così avanziamo
lentamente sorpassando quando si può.

Arrivati alla frontiera, troviamo
una lunga coda di auto targate Bielorussia, che subiscono un controllo
speciale. Per quelle con targa dell’Unione europea, come la nostra, non c’è
fila. I vari controlli (ne contiamo almeno cinque) ci prendono circa un’ora e
mezza. Un buon tempo tutto sommato, ci dicono dopo altri.

Il soldato polacco vedendo che
siamo sacerdoti si mostra particolarmente gentile e addirittura ci insegue per
qualche metro chiedendo preghiere per la sua famiglia. Gliele promettiamo e gli
regaliamo un’immagine della Consolata.

Dalla parte della Bielorussia,
dopo aver compilato altri documenti, incontriamo una giovane che si mostra
gentile, spiegandoci ciò che dobbiamo fare, al contrario del suo collega che in
modo sbrigativo ci indica i documenti da riempire.

Incontro con i seminaristi  e i preti di Grodno

Siamo in Bielorussia! Il
seminario che ci accoglie, a Grodno, è molto vicino alla frontiera e in meno di
un’ora arriviamo a destinazione. Padre Tadeusz, il direttore spirituale, ci
accoglie calorosamente insieme al rettore del seminario. Sono loro che hanno
scritto l’invito passato poi per il vescovo.

Abbiamo un’ora prima della cena e
dell’inizio dell’incontro con i seminaristi. Così accompagnati dal diacono
Paolo e lo studente Czeslaw, visitiamo brevemente Grodno. A dare il benvenuto
al visitatore è un carro armato sovietico posto su una colonna e rivolto verso
l’ovest. Segno di difesa.

Siamo ben impressionati da questa
città di circa 350 mila abitanti. È ordinata e pulita. I giovani passeggiano,
vanno al cinema o al teatro.

Ritorniamo in seminario; e dopo
cena incontriamo gli studenti, 40 circa, 10 di questi vivono nelle parrocchie.
Dopo la presentazione reciproca, introduciamo il tema raccontando delle nostre
esperienze di missione, vissute in Perù da Bogdan e da me in Tanzania, dando
così inizio al ritiro, che continuerà domani per tutta la giornata, scandita da
momenti di preghiera e da conferenze, tutte condite da un respiro missionario.

Troviamo nei seminaristi un clima
aperto e raccolto, attento a ciò che raccontiamo. Capiamo subito che per loro
sono esperienze pastorali totalmente nuove. La Bielorussia attualmente non ha
missionari al di fuori del proprio paese.

A tavola parliamo amichevolmente
con il rettore e i padri spirituali, che ci confermano che in questa diocesi (e
nel paese in generale) non c’è una tradizione precedente di incontro con i
missionari; tuttavia li troviamo aperti. Ogni anno essi mandano due seminaristi
agli incontri missionari in Polonia; proprio da uno di questi incontri è nato
l’invito a venire qui a Grodno.

Alla fine della giornata, dopo
avere avuto anche colloqui personali con i seminaristi, vediamo spuntare
germogli di speranza per il futuro missionario della diocesi: due studenti del
4° anno chiedono e ottengono il permesso di fare un’esperienza in missione
durante le vacanze estive e mi pregano di aiutarli a realizzare tale progetto;
un altro studente dell’ultimo anno di teologia, vuole fare un’esperienza
pastorale missionaria all’estero prima di ricevere l’ordinazione diaconale.

Con nostra grande sorpresa siamo
pregati di fermarci ancora un giorno per partecipare al ritiro mensile degli
oltre 100 sacerdoti della diocesi, che si tiene proprio nel seminario dove ci
troviamo, per dare la nostra testimonianza. Durante la messa presieduta dal
vescovo locale mons. Alessandro Kaszkiewicz, Bogdan fa l’omelia. Finita la
celebrazione, ho spazio per presentarmi e parlare dell’Istituto e, con
l’occasione, di padre Witold Malej nato in Bielorussia, in un’altra diocesi, e
divenuto poi nostro confratello.

Ci fermiamo ancora per il pranzo
e per un caffè con il vescovo, che ci accoglie frateamente e ci invita a
ritornare. Insomma, abbiamo avuto un surplus di animazione d’avvero
inaspettato. Ogni sacerdote ha ricevuto un’immagine della Consolata con la
preghiera e il nostro contatto.

Glebokie e Dzierkowszczyzna

Dopo i saluti e i ringraziamenti,
partiamo alla volta di Minsk, la capitale della Bielorussia. Il visa ci concede
ancora quattro giorni per stare nel paese e così ne approfittiamo per
conoscerlo. Minsk da Grodno dista quasi 300 km, che percorriamo senza problemi,
la strada è buona con poco traffico. Incontriamo diversi camion, ma poche
automobili private. Per tutta la lunghezza del viaggio vediamo solo boschi e
campi con chiazze di neve ancora intatta. Ogni tanto qualche piccolo villaggio
molto modesto costituito da poche case di legno.

Abbiamo in programma due
incontri: il primo con un collega di studi di Bogdan, don Mieczyslaw, che
proviene da Wroclaw in Polonia e che da oltre 20 anni lavora in Bielorussia; il
secondo incontro che vogliamo fare è con la comunità di padre Witold Malej, a
Dzierkowszczyzna. Non abbiamo molte informazioni sui luoghi che cerchiamo e non
sappiamo neanche dove siano precisamente.

A questo punto la Provvidenza ci
fa un regalo davvero grande. Scopriamo con gioia che don Mieczyslaw, l’amico di
Bogdan, è attualmente parroco e decano a Glebokie, a nord del paese, a circa
200 km da Minsk. Inoltre veniamo a sapere che la la sua parrocchia confina
proprio con Dzierkowszczyzna, il villaggio dove padre Malej nacque e lavorò,
mentre a Glebokie fece i primi studi scolastici.

A Glebokie la Provvidenza ci fa
incontrare un’altra persona importante: suor Lema, una giovane religiosa della
congregazione delle Suore Francescane della Santa Famiglia. Attualmente suor
Lema vive a Glebokie a fianco della parrocchia ma proviene da Dzierkowszczyzna.
Non solo. Padre Malej fu il parroco che le insegnò il catechismo; e ci confida
anche che, un po’ scherzando, padre Malej le predisse che sarebbe diventata
suora. Aveva avuto ragione!

Senza di lei non avremmo
conosciuto molto di padre Malej, dato che il parroco attuale poco sapeva delle
origini del suo predecessore missionario.

Memoria ancora viva

Guidati da suor Lema partiamo per
Dzierkowszczyzna. Raggiungiamo il villaggio percorrendo una strada a tratti
piena di buche e non asfaltata. Il villaggio è molto modesto e povero. Le case
sono tutte di legno eccetto alcune che sono state rinnovate. Qui vivono circa
1.000 persone, metà delle quali ortodosse e metà cattoliche.

Andiamo nella parrocchia dove ci
attende il giovane parroco don Witalii che vive qui da 4 anni. Visitiamo
l’esterno della chiesa costruita in pietra. Nel giardino dietro la chiesa è
sepolto lo zio di padre Malej, che era stato parroco. A fianco della tomba
dello zio, padre Malej aveva preparato la sua, ma è rimasta vuota, perché è
sepolto ad Alpignano (Torino).

Suor Lema ci guida per il
villaggio e ci porta nel punto in cui sorgeva la casa natale di Malej. Oggi è
solo una rovina. Poi andiamo al cimitero e visitiamo la tomba del papà di Malej
qui seppellito, mentre la moglie è sepolta in Polonia.

Poi prima di celebrare la Messa
facciamo visita dall’unico parente che vive ancora qui. È una persona anziana, Giovanni,
figlio di un cugino che vive con la moglie Anna. Anna racconta e si commuove
ricordando Malej. Ci dice che gli volevano tutti bene perché aiutava molte
persone, e che la gente fu dispiaciuta quando partì per l’Italia dopo aver
lavorato 11 anni qui come parroco.

Dopo l’incontro celebriamo la
Messa con un piccolo gruppo di anziane fedeli. Per l’occasione abbiamo portato
un quadro della Consolata che benediciamo e consegniamo alla comunità per mano
del parroco. Alla fine della celebrazione eucaristica canto il nostro inno «O
Consolata
». Lascio anche le immaginette della Consolata per tutti i fedeli
della parrocchia.

Tuttavia la Consolata era qui già
presente. Malej aveva molte immagini di lei. La più grande è in chiesa appesa a
un muro laterale, mentre altre sono nella casa parrocchiale ancora oggi nelle
stesse posizioni in cui erano ai suoi tempi. Troviamo anche i libri di padre
Candido Bona, con le lettere del Fondatore e la storia dell’Istituto.

Prima di salutarci facciamo cena
dalla signora Stanisława, che è la sacrestana della chiesa. Mentre apparecchia
la tavola, ci mostra le foto della tomba di padre Malej del cimitero di
Alpignano che ha ricevuto dall’Italia con la comunicazione della morte. Al
vedere le foto suor Lema si emoziona ed esclama: «Il mio parroco!».

Dialogando con la signora Stanisława
scopriamo che Malej ha una sorella ancora viva a Białystok in Polonia e nipoti
a Varsavia. Scriviamo il numero di telefono della sorella. 

Alla fine della giornata ci
congediamo. Il parroco ci invita a tornare. Questo luogo per noi è
significativo e in futuro terremo i contatti. Ma lasciamo al Signore guidare i
nostri passi, come chiaramente ci ha guidati in questi giorni. Volevamo
conoscere questo luogo, ma avevamo solo il nome del villaggio… e la Bielorussia
è grande. Anche Bogdan riesce a incontrare il suo vecchio compagno di studi.

Conclusione

Lasciando la Bielorussia dopo
quasi una settimana, passiamo in Lituania e ci fermiamo a Vilnius, la capitale
del paese. La distanza dalla Bielorussia è di poche decine di chilometri, ma le
differenze dello stile di vita sono grandi.

Ci sentiamo arricchiti da questa
missione breve e intensa. Abbiamo visto un paese che pur appartenendo
geograficamente all’Europa è notevolmente diverso da essa. Abbiamo chiara la
percezione di come la Provvidenza ci abbia guidato, soprattutto nella ricerca e
nell’incontro avuto con la comunità nativa di padre Witold Malej. Lasciamo che
la stessa Provvidenza continui a guidarci in questo cammino non facile, ma
affascinante, verso l’Est dell’Europa. Sfida che l’Istituto sente sua,
inviandoci in Polonia e continuando la missione.

Luca Bovio

Luca Bovio




Il medico che realizzava i sogni

2003-2013, Il decennale della scomparsa di Carlo Urbani

Il 29 marzo 2003, a Bangkok, moriva Carlo
Urbani, medico e infettivologo di Castelplanio (Ancona). Veniva ucciso dalla
Sars, il cui virus lui stesso aveva individuato. Abbiamo chiesto a Tommaso, figlio maggiore di
Carlo, di ricordare suo padre, il «babbo», come affettuosamente lo chiama. Ne è
uscito un ritratto speciale, vero e tenero a un tempo.

Negli ultimi mesi sono stato invitato spesso per ricordare
mio padre, per parlare di lui, come medico ma soprattutto come genitore. Sono
arrivato addirittura fino a Taiwan e in Vietnam. L’affetto e la riconoscenza
che ho trovato, anche in chi non lo conosceva, mi ha commosso.

Castelplanio

Per me non è un peso partecipare a queste
cerimonie. Non lo faccio solamente per ricordare, ma soprattutto per portare
avanti il suo, i suoi ideali. Gli ideali per i quali mio padre si è battuto
durante il corso della sua vita, gli ideali nei quali credeva fortemente. Penso
sia importante far conoscere alla gente la sua figura, per fare in modo che ce
ne possano essere altre, per dare uno stimolo e un appoggio a tutti coloro che,
ogni giorno, si battono per la difesa dei diritti umani e l’accesso alla
salute. Perché alla base dell’avventura di vita di mio padre c’erano questi
principi, coltivati sin da bambino, a Castelplanio. Spesso è stato ricordato il
suo impegno con Mani Tese, da ragazzo, o ancora la creazione, assieme ad
altri, del Gruppo solidarietà che si occupava e si occupa tuttora del
sostegno a persone disabili1. Iniziarono poi i primi viaggi all’estero. Insieme ad
alcuni amici raccoglieva medicinali per poi portarli in paesi africani, dove
l’accesso alla salute, alle cure sanitarie di base è un miraggio. Il suo era un
sogno, ma un sogno che doveva diventare un obiettivo: la sua realizzazione lo
avrebbe reso felice. Non accettava le condizioni nelle quali vivevano troppe
popolazioni, dimenticate e vulnerabili. Quindi lui doveva agire, doveva essere
in prima linea per aiutarli. Questo suo sogno lo realizzò quando iniziò a
collaborare con Medici senza frontiere (Msf) prima, e con l’Organizzazione
mondiale della sanità
(Oms) poi. Lo scrive lui stesso in una lettera a suo
fratello: «Sono cresciuto inseguendo i miei sogni, e ora credo di esserci
riuscito». Questa frase riassume un po’ lo spirito che ha accompagnato mio
padre nel corso degli anni, che lo ha portato a realizzarsi nel lavoro, come
nella vita.

Le Crocette sul Calendario  

Lavoro e vita: si tende a pensare che queste
due cose non possano convivere. Se si lavora troppo si rischia di trascurare la
propria vita, la propria famiglia, e viceversa. Per lui non era così. Mio padre
ha sempre avuto la grande capacità di portare avanti entrambe le cose. E non
superficialmente. Ogni minima cosa era fatta con passione. Ecco, questo è il
termine giusto: passione. Era appassionato del suo lavoro, della sua esistenza.

Nei primi anni della mia vita, almeno da
quando ricordo, lavorava a Macerata, collaborava con l’Oms e ogni tanto partiva
in missione. In quegli anni ancora non c’era stata l’esplosione di Inteet, i
voli last-minute non erano un’abitudine, e le comunicazioni erano
limitate… si scrivevano le lettere a mano! Insomma durante quelle missioni
c’era una corrispondenza epistolare in cui mi raccontava (allora ero ancora
figlio unico) il suo lavoro, la sua esperienza, e lo faceva con semplicità, la
semplicità con la quale un padre racconta una fiaba al figlio. Una volta prima
di una sua partenza ero arrabbiato, non volevo lasciarlo andare. Lui mi preparò
una caccia al tesoro, lasciando indizi sparsi in tutta la casa, che dovevo
completare con mia mamma una volta partito. Io non stavo più nella pelle,
aspettavo quindi con ansia la sua partenza.

Una volta trovato il premio però la nostalgia
ricominciava, e con mia madre mettevamo le crocette sul calendario ogni giorno,
aspettando il suo ritorno. Inutile dire la nostra gioia al suo rientro: ci
raccontava dettagliatamente il suo viaggio, con foto, aneddoti, e regalini.

Ricordo con gioia un ultimo giorno di scuola.
Ognuno doveva portare un dolce fatto in casa, una crostata, un ciambellone. Io
chiesi a mia mamma di fae uno, ma si offrì mio padre. Il pomeriggio del
giorno prima, ancora nulla… Iniziavo a preoccuparmi. Lui era in ospedale a
Macerata. La mattina, scendendo in cucina, trovai una casa fatta di biscotti e
marzapane, completamente decorata. Sembrava vera. Lui mi guardò e chiese: «Ti
piace?». Questo era mio padre.

In un modo o in un altro riusciva sempre a
non far pesare la sua mancanza, e devo riconoscere che ci riusciva davvero
bene!

Ricordo con piacere gli anni in cui lavorava
a Macerata, spesso quando si fermava a fare la notte lo raggiungevamo. Avevamo
un piccolo appartamento dove stare. Erano bei momenti, ero felice perché
eravamo tutti insieme. Semplici momenti di quotidianità che, come d’incanto, diventavano
magici.

Da Macerata a Phnom Penh

Quando – era il 1996 – arrivò la chiamata di
Msf per una missione in Cambogia, mio fratello Luca aveva appena un anno.

Mio padre ci propose questa «avventura». Come
risponderebbe un ragazzino di 9 anni se il padre gli chiedesse: «Volete venire
con me in Cambogia per un anno?». Non saprei. Ma so come risposi io. E come
risponderebbe una madre con un figlio appena nato? Probabilmente e
comprensibilmente con un «no». Io ero entusiasta, mia madre di meno. Ma ci
fidavamo di lui.

Quello che faceva mi coinvolgeva in qualche
modo, anche se non lo sapevo ancora. Allora lo vedevo come un viaggio in un
nuovo posto, una vacanza prolungata. D’altronde avevo solo 9 anni. Iniziai a
seguire dei corsi di lingua, là avrei frequentato la scuola francese. La sera a
casa mio padre mi interrogava, dovevo prepararmi al meglio. Ricordo ancora il
giorno della partenza. Un convoglio di amici e parenti ci accompagnò in
aeroporto a Falconara. E prendemmo il volo verso un nuovo mondo, una nuova
vita.

Il primo impatto non fu affatto facile: caldo
torrido, zanzare, scarafaggi, strade dissestate, spazzatura ovunque, tanta
povertà… In Cambogia erano ancora presenti i Khmer Rossi di Pol Pot, quindi la
situazione non era delle più rosee. Ci trovavamo a Phnom Penh, la capitale, e
inizialmente abitavamo nella casa famiglia di Msf. Non fu facile, lo ripeto. Ma
posso dire, dopo diversi anni, che la mia vita quell’anno cambiò. Mio padre mi
fece scoprire la povertà, quella vera, le condizioni nelle quali vivono troppi
bambini. Sembrano cose scontate, risapute, ma credo che non possano essere
capite se non vissute.

Superato l’impatto iniziale fu tutta un’altra
cosa. Dopo alcuni giorni di preparativi era arrivato il momento del colloquio
con il preside della scuola francese. Mi ero preparato minuziosamente il
discorso con mio padre, quindi ero pronto.

Entrammo nella scuola: palazzone giallo in
stile coloniale, campi da calcetto in terra, palme… poi l’ufficio. Il cuore mi
batteva a mille, mio padre cercava di tranquillizzarmi senza successo (mica
poteva far tutto!). Una volta dentro, il preside mi salutò e chiese come mi
chiamassi. Silenzio. Quanti anni hai? Silenzio. Al terzo silenzio intervenne
mio padre. Fu una tragedia. Una vergogna. Uscimmo entrambi sconvolti dalla mia debacle.
Eravamo increduli. Ma fu solo un episodio, poi mi integrai alla perfezione e
dopo un mese parlavo francese meglio del mio babbo! Tutto andava bene, la
scuola, mi ero fatto i primi amici stranieri, mia mamma faceva volontariato in un
orfanatrofio che ogni tanto visitavamo, mio fratello imparava il khmer, e babbo
era felice. Perché era riuscito a coinvolgerci nella sua avventura. Era
soddisfatto del suo lavoro, si assentava spesso per missioni sul campo, durante
le quali eravamo alquanto in apprensione. I Khmer Rossi pattugliavano le
periferie e le campagne, non era molto sicuro andare in giro. Ma era il suo
lavoro. A Phnom Penh c’era il coprifuoco la sera, ma di giorno giravamo
tranquillamente. Una delle cose che mi «eccitavano» di più erano le vacanze al
mare. Partivamo in convoglio con diverse Land Rover di Msf insieme ai colleghi
del mio babbo. Vivevo quei momenti quasi come un film. Ogni due settimane
andavamo a messa nella comunità cattolica francese, ed è lì che feci la mia
prima comunione. Ci venne a trovare anche mia nonna patea. Fu in
quell’occasione che mio padre organizzò un viaggio in macchina, in un altro
paese, il Vietnam. Ero ignaro di quello che sarebbe successo poi. Quel paese
pochi anni dopo sarebbe diventato la mia, la nostra casa. E lo è tuttora.
Ma torniamo alla Cambogia. Un bel periodo
dicevo, sì. Poi però, nel luglio 1997, scoppiò un colpo di stato2.

A Oslo e quel giorno senza Stampa

Quella mattina mio padre non c’era, era
fuori città, doveva tornare in aereo ma non lo facevano atterrare. L’aeroporto
era sotto assedio, e in città c’era la guerriglia. Ero a casa con mia mamma e
mio fratello e sentivamo le bombe esplodere, i carri armati sparare, i
proiettili volare. Uno scenario surreale, quello che sembrava essere un film
era realtà. Ma in quel momento l’unico mio pensiero era rivedere mio padre:
l’aereo riuscì ad atterrare e per fortuna toò a casa. Ci rifugiammo tutti in
un’abitazione vicina, insieme ai suoi colleghi che oramai erano diventati una
grande famiglia, la grande famiglia di Medici senza frontiere. I primi giorni
di attacchi e bombardamenti sembravano infiniti, le mura tremavano, si
sentivano le urla di paura e disperazione della popolazione, le tv
trasmettevano le immagini della città. Strade nelle quali camminavamo tutti i
giorni ricoperte di sangue e cadaveri. Uno spettacolo macabro. Io non capivo,
perché stava succedendo? E probabilmente, anzi sicuramente non mi rendevo
nemmeno conto della gravità della situazione. Un giorno addirittura chiesi a
mio padre di tornare nella nostra casa per prendere dei giochi che avevo
dimenticato. Un suo collega mi rimproverò: «Cosa ti salta in mente? Vuoi che
tuo padre si becchi un proiettile in testa per un gioco?». Ci rimasi male, ma
mi aiutò a rendermi conto che non si trattava di un divertimento. Dopo qualche
giorno i combattimenti finirono, mio padre e i suoi colleghi andavano in giro
per soccorrere eventuali feriti. Dopodiché ci evacuarono a Bangkok mentre la
situazione tornava alla normalità.

Qualcuno potrebbe pensare: «Ma chi è
quell’incosciente che porta la sua famiglia in guerra?». Non è così. Eravamo
una famiglia, lui non sarebbe partito senza di noi, e noi non gli avremmo
impedito di accettare quell’incarico.

Una volta in Italia si toò alla normalità.
Io a scuola a Castelplanio, mio babbo a Macerata, mio fratello all’asilo, mia
mamma al lavoro. Tutto normale, forse troppo. Grazie a mio padre avevo scoperto
nuovi orizzonti, quegli orizzonti che tanto aveva inseguito e raggiunto insieme
a noi. Quella vita mi stava stretta. Figuratevi a lui!

Dopo l’anno in Cambogia aveva capito che
poteva contare su di me per queste cose, un po’ meno su mia mamma. E come darle
torto, portare due figli in Cambogia non era stato di certo come fare una
passeggiata sul monte.

In quegli anni mio padre fu eletto
presidente della sezione italiana di Medici senza frontiere. E nel 1999
l’organizzazione vinse il premio Nobel per la pace. Lui andò insieme a tutti i
presidenti di Medici senza frontiere alla cerimonia di consegna, ad Oslo.
Purtroppo non se ne parlò molto in Italia di quel giorno speciale per Msf.

Non si parlò di quei medici che lottano per
assicurare un minimo di dignità e salute alle popolazioni dimenticate. Non se
ne parlò: quel giorno c’era lo sciopero della stampa.

Coalizzati… per convincere mamma 

Un giorno il mio babbo mi chiamò nel suo
studio. Aveva un libro in mano. C’era la foto di un lago con degli alberi
intorno e al centro un’isoletta con un tempio. «Tommy, questo è il lago di Hoan
Kiem.  Si trova ad Hanoi, la capitale del
Vietnam. La leggenda narra che al suo interno viva una tartaruga gigante, che
durante l’invasione cinese consegnò la spada all’imperatore vietnamita che
liberò il suo popolo dagli oppressori cinesi. Se ti dicessi che c’è la
possibilità di andarci a vivere?». Esplosi in un misto di gioia ed emozione,
non riuscivo a parlare, era tutto troppo bello per essere vero, mi sembrava di
vivere un sogno. La frase successiva fu: «Però devi aiutarmi a convincere mamma».

Nemmeno a farlo apposta, mia mamma era
incinta di Maddalena. Tempismo perfetto! Non fu semplice, ma mio padre con il
suo carisma (e il mio appoggio) riuscì nell’intento.

Mancava solo l’ufficialità. Per me era una
vera sofferenza non poter raccontarlo a nessuno (anche per un po’ di naturale
scaramanzia).

Un pomeriggio di autunno, tornando da scuola,
trovai mio padre seduto nel suo studio, serissimo. «Che è successo?», chiesi. «Non
sono stato scelto per il Vietnam». Sentivo tutta la sua delusione, che si
aggiunse alla mia. Raramente lo avevo visto così, un conto era vederlo
arrabbiato per qualche mio brutto voto a scuola, un altro era vederlo così. Poi
la sorpresa. Un suo collega della Cambogia, suo grande amico, gli aveva voluto
fare uno scherzo. In realtà ancora non s’era deciso nulla. Lo odiammo entrambi.

Arrivò il 6 gennaio 2000. Il giorno
dell’epifania, a Castelplanio, era usanza lanciare i palloncini dalla piazza
del comune, dopo la messa. Ero lì con mia mamma e mio fratello. Mio babbo era
rimasto a casa per lavorare.

Ad un certo punto lo vedo arrivare in
lontananza. Un sorriso a trentasei denti stampato in faccia. Capii al volo. Gli
corsi incontro e gli saltai addosso. «Andiamo in Vietnam, Tommy!». Non
dimenticherò mai quel giorno.

Sei mesi dopo partimmo tutti insieme, con un
passeggero in più, Maddalena, nata da due mesi.

La partenza fu diversa rispetto alla
Cambogia. Ad Hanoi mio padre aveva trovato una casa, e la situazione era
completamente diversa. Noi eravamo diversi. Eravamo pronti per questo nuovo cambiamento,
che sarebbe stato definitivo. Mio padre infatti, accettando l’incarico
dell’Oms, si era licenziato dall’ospedale rifiutando l’incarico di primario.

Hanoi e l’asilo di Maddalena

L’arrivo in Vietnam fu magico. Odori, rumori,
immagini che ho stampate in mente e nel cuore. Ogni volta che rimetto piede in
quel paese mi sento a casa. E questo grazie a mio padre.

Credo che in Vietnam raggiunse l’apice della
sua carriera. Era molto impegnato, come sempre, anzi forse più del solito. Ma
di nuovo faceva di tutto pur di farci essere felici. Non sto parlando di
benessere materiale, ma interiore.

Per noi era una gioia girare con lui. Non
erano dei banali giri turistici. Tutt’altro. Scoprivamo la cultura, le usanze,
i difetti di quel popolo (li adoro, ma i vietnamiti sono molto testardi!), ci
mescolavamo tra loro, condividevamo tutto con loro. Io e mio fratello
frequentavamo la scuola francese, mentre mia sorella era stata iscritta
all’asilo vietnamita. Bellissimo, anche se a casa avevamo bisogno dell’interprete,
dato che Maddalena parlava solo vietnamita.

Mio padre era fiero di tutto ciò. Era
riuscito in qualcosa di straordinario. E non sto parlando del lavoro. Ma della
famiglia. Era riuscito, attraverso il suo impegno nell’aiutare gli altri, a
farci capire cosa sia la vera felicità, il vero amore, la vera gratitudine. Che
troppo spesso pensiamo solo a noi stessi quando in troppi soffrono perché
perdono «la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la
diarrea, i risparmi per un ladro», come scrisse in una lettera.

Era felice di vedere mia sorella parlare
vietnamita, mio fratello giocare con i vicini di casa, me che raccontavo le
birre di troppo prese con gli amici. I suoi sogni si erano avverati, realizzati
sia nella vita che nel lavoro. E in tutto questo era riuscito anche a crescere
i suoi figli.

Un Uomo, Un Medico (Ma non un Eroe)   

Tutti sanno cosa è successo il 29 marzo del
2003. Mi crollò il mondo addosso. A me, a mia madre Giuliana, a mio fratello
Luca (mentre – per fortuna – mia sorella Maddalena era ancora troppo
piccola).  A famigliari,
amici, colleghi. Mio padre è stato spesso chiamato «eroe». Non sono d’accordo.
Mio padre è stato un medico, un uomo che si è messo a disposizione dei più
bisognosi. Ma non è l’unico. In tutto il mondo ci sono persone che rischiano la
loro vita per aiutare i più deboli, i più sfortunati… questo non va
dimenticato.

In molti mi chiedono se, ogni tanto, rimprovero
mio padre per la scelta che ha fatto. Lui mi manca. Ci manca. Ma sono convinto
che, se dovesse rivivere quel periodo, mio padre farebbe esattamente le stesse
scelte. Era la sua vita, la sua passione. E nessuno glielo rimprovererà.

Sono passati dieci anni dalla sua morte,
eppure molti dei suoi insegnamenti li colgo solo ora. Cerco di impegnarmi nel
quotidiano per provare a rispettare i valori che egli ha difeso con tanta
passione e amore. E, come detto all’inizio di questo ricordo, continuo ad accettare
gli inviti che ricevo in Italia e nel mondo, per trasmettere il suo messaggio,
per ricordare la sua figura di medico e uomo.

Sono convinto che da lassù mio padre mi
guardi. E probabilmente, considerando l’ironia di cui era largamente provvisto,
si faccia pure due risate.

Tommaso
Urbani*

* Tommaso
Urbani, primogenito di Carlo Urbani, è studente universitario. Partito da Forlì
(Scuola interpreti), passato per Bruxelles (per un master), frequenta
attualmente l’Università di Trieste. Appassionato di musica, suona il sax.

       Note             
1 – Il Gruppo solidarietà ha sede a Moie di Maiolati. Questo
il suo sito: www.grusol.it.
2 – Ebbe luogo tra luglio e agosto del 1997. Si trattò di
una lotta intestina tra i due uomini forti del governo: Hun Sen e il principe
Norodom Ranariddh. Il primo ebbe la meglio.

 
           Carlo Urbani e Missioni Consolata                                                      


COME STA FATOU?

Carlo Urbani è stato un nostro amico e collaboratore. Fu lui
stesso a stabilire il titolo della sua rubrica: «Come sta Fatou? In viaggio tra
malattie e sottosviluppo». Il primo articolo uscìnel gennaio del 1999.

Conobbi Carlo nell’ormai lontanissimo 1988. Ci incontrammo
in un viaggio alternativo in India e Nepal che lui stesso guidava. Fu immediato
capire che persona fosse: ironica, estroversa, curiosa. Appassionato di
fotografia, ma anche di cibo. E poi c’era il Carlo-medico, gentile e
competente. Fu un viaggio unico, anche per gli inconvenienti occorsi. Ci
rivedemmo ancora sia a casa mia, in Trentino, che a Castelplanio. Nell’autunno
del 1998 gli chiesi se volesse curare una rubrica di medicina per Missioni
Consolata. Rispose subito di sì e propose anche il titolo: «Come sta Fatou? In
viaggio tra malattie e sottosviluppo». Curò la rubrica fino alla partenza per
Hanoi, dove nel marzo del 2003 si ammalò. Seppi della sua morte poche ore dopo
il fatto. Cinzia, una comune amica di Castelplanio, mi telefonò per avvertirmi.
Pensai subito che scherzasse, ma purtroppo mi sbagliavo.

Nell’introdurre la sua rubrica – era il gennaio 1999 – Carlo
aveva scritto: «In questa rubrica (…) ci racconteremo qualcosa che riguarda
la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati,
dove povertà e malattia si generano a vicenda». Carlo non è morto a causa di
una delle malattie descritte nei suoi scritti, ma per la Sars, una patologia
fino ad allora sconosciuta il cui virus egli stesso aveva individuato.

Prima di chiedere a Tommaso di scrivere un ricordo di suo
padre, ci ho pensato molto. Mi sembrava di essere invadente, irrispettoso, come
sanno essere molti giornalisti. Poi ho capito che, dal giorno della sua
scomparsa, Carlo Urbani non è più soltanto un individuo ma un’icona pubblica,
un simbolo positivo. Di più: in questa Italia disastrata e senza speranza Carlo
Urbani rappresenta un esempio luminoso, un italiano di cui parlare ed essere
orgogliosi.

Paolo Moiola

Tommaso Urbani




Segni di risurrezione

Gruppo «fede e impegno» della parrocchia di Arvaiheer
Il tasso di disoccupazione è molto alto e il pericolo di cadere
nell’alcolismo è sempre in agguato; così durante l’inverno del 2012 nella
missione di Arvaiheer abbiamo formato con alcuni uomini il gruppo «fede e
impegno», offrendo loro un’opportunità di aggregazione basata sulla condivisione
di vita, sul lavoro manuale e la realizzazione di manufatti artigianali. Con
tali impegni dimenticano l’alcol e riacquistano la propria dignità.

Enkhamgalan (Amgaa per gli amici) è
un giovane medico dell’ospedale di Arvaiheer. Ci siamo conosciuti quando
insegnavo inglese alla biblioteca comunale. Da allora siamo rimasti in contatto
e nel tempo è nata una bella amicizia. Quando ne abbiamo bisogno, viene a
trovarci per consulti medici.

Così è stato anche pochi giorni
fa, mentre, fuori, il neonato gruppo di uomini stava lavorando a rimuovere lo
spesso strato di neve accumulata sotto le finestre. Finita la visita, Amgaa si è
fermato nell’ufficetto parrocchiale e abbiamo scambiato due parole. Gli ho
raccontato del gruppo itgel zutgel («Fede e impegno») e ne è rimasto
colpito.

Il lavoro fuori era ormai finito
e gli uomini entravano per salutare; allora ho pensato di trattenerli ancora un
poco per far fare loro conoscenza con Amgaa. In pochi minuti il piccolo ufficio
si è riempito: Boldoo, Renchin, Ganaa, Henchmedhev, Jigmedsuren e Chuka
siedevano intorno alla scrivania, mentre introducevo brevemente l’amico Amgaa.
Era la prima volta che ci trovavamo solo tra uomini, l’atmosfera era
interessante.

Dopo la mia
breve presentazione di Amgaa (troppo povera di elogi), lui stesso ha preso la
parola e subito la musica è cambiata: era iniziata una vera conversazione tra
mongoli, fatta di frasi brevi, quasi sbiascicate, spesso interrotte da suoni
rauchi e spezzati, come di chi aspira velocemente una consonante, bloccandola
in gola. È il loro modo di annuire. Amgaa raccontava la nostra amicizia dal suo
punto di vista e mi ha colpito quello che diceva: «Ho tanta stima di questa
gente straniera che è qui con voi; pur non essendo mongoli, per il vostro
cambiamento in meglio stanno facendo più loro che i nostri politici…». Poi ha
continuato: «Io non sono della stessa religione, ma non posso che restare
ammirato di quello che vedo: si prendono cura di voi, dei vostri bambini e
giovani; adesso vi hanno proposto questo radunarsi tra uomini: io ricordo le
facce di alcuni di voi, quando avete avuto bisogno del medico perché vi avevano
trovati ubriachi per strada» – e qui ha alzato il capo per la prima volta, dopo
esser rimasto chino sulle braccia appoggiate pesantemente su un angolo della
scrivania. Lo sguardo non era di critica, ma di compassione.

Nell’aria si sentiva che c’era
intesa tra loro: «Quando ho varcato lo spazio di questa staccionata ho visto
che vi davate da fare con la neve e ho riconosciuto le vostre facce. Siete
diversi, ve ne rendete conto?».

La frase, spezzettata varie
volte, è finita in crescendo e in risposta si sono elevati altri «tkhhhh» e
brevi cenni di assenso. «Se volete, potremmo pensare di vederci qualche volta,
per parlare di salute».

Questa infatti era la mia
proposta: invitare Amgaa e altri medici a parlare di temi legati alla salute,
per offrire momenti formativi. L’idea è piaciuta; ma è piaciuto ancora di più
il fatto di trovarsi insieme come uomini dignitosi, seduti compostamente al
termine di una giornata di lavoro. Cosa che quasi nessuno ricordava di aver
vissuto di recente.

Quando è squillato il telefono di
Boldoo e lui ha risposto: «Aspetta, sono in riunione», un altro gli ha fatto il
verso. Non erano abituati a sentirsi considerati.

Poi Amgaa è ritornato sul loro
cambiamento: «Io so cosa vuol dire avere in casa uno che beve. Mio padre ai
tempi del comunismo era responsabile di una brigata di costruttori. Quando il
sistema è crollato chi aveva un posto come lui ha trovato il modo di accaparrarsi
qualcosa, lui – che era molto onesto – no. Così in breve tempo si è trovato con
l’acqua alla gola. È andato giù di morale e ha cominciato a bere».

Il silenzio era palpabile; non
c’era artificio nel discorso di Amgaa. Diceva sempre che «nella vita di un uomo
prima o poi arriva il giorno in cui ti si apre la mente e capisci; per me quel
giorno dev’essere arrivato quando avevo 17 anni. Ho visto le mie tre sorelle
minori non mangiare nulla per 48 ore e mi son detto: non farò mai questo ai
miei figli».

Qualcuno
aveva gli occhi lucidi; nessuno lo ha interrotto. «Mio padre poi si è ripreso;
io sono andato all’università e sono diventato medico. Adesso che ho un bambino
di tre anni mi accorgo che lui ripete tutto quello che faccio e dico. Bisogna
che diamo un buon esempio ai nostri figli. I vostri figli e nipoti adesso
saranno contenti di vedervi così».

È sembrato un passaggio di testimone. è stato Renchin, il più anziano, a
prendere la parola: «Oggi è stato molto bello; abbiamo lavorato tutto il
giorno, non c’è stato il tempo neanche di pensare a bere. Io per anni ho
lavorato al teatro di Arvaiheer come cantante stabile. Poi ho cominciato a bere
e mi hanno buttato fuori. Dopo un po’ un conoscente mi ha dato un’altra
possibilità: andare a Ulaanbaatar, per entrare nel gruppo folkloristico di
stato. Mi hanno preso subito. Quello che guadagnavo
lo finivo subito con gli amici bevendo. Mi hanno cacciato anche di là».

Chuka, il nostro guardiano,
sembrava il più entusiasta: «Anch’io sotto il comunismo ero un capo, in una
piccola unità produttiva della campagna qui vicino. Lo scaffale era sempre
pieno di vodka. Anche ultimamente, da quando lavoro qui per la Chiesa, bevevo.
Poi, 10 mesi fa, mia madre mi ha detto: “Finché tua madre è in vita, non darle
questo dispiacere: smetti di bere. E io ho smesso”». Davvero, il suo è un caso eclatante; noi missionari ne siamo testimoni.
«Ho scoperto che si può anche fare a meno di bere e stai meglio, la gente ti
rispetta, riesci a lavorare – ha continuato Chuka -. Prima mio figlio, che
studia a Ulaanbaatar, al telefono chiamava solo mia moglie, chiedendole se papà
era ubriaco; adesso telefona direttamente a me! Capite? Mio figlio adesso
telefona direttamente a me!».

Piccoli segni di vera
risurrezione. «Anch’io ho lavorato a lungo per il teatro di stato, come attore.
Sono un buon pittore e ho decorato la stupa che si trova su quella
collina» ha detto Ganaa.

«Però, qui siete proprio tutti
artisti!» ha esclamato Amgaa. «Ebbene – ha continuato Ganaa -, quello che
ricordo è il trovarmi rannicchiato vicino alla porta, perché non riuscivo a
mettere le chiavi nella toppa. Sempre sbronzo. Adesso non bevo più; da quando
vengo qui le cose sono cambiate. Come gruppo vorremmo metterci a fare qualche
lavoretto, poi si vedrà».

Gli altri non hanno parlato, ma
era come se l’avessero fatto. Mi è venuto spontaneo intervenire: «Dovete
ringraziare molto le vostre mogli, se adesso siete così; è la loro pazienza e
la loro fede che vi hanno tenuti in vita». Sorridevano approvando. Sono state le
donne ad avvicinarsi per prime alla Chiesa e poco alla volta li hanno cambiati.

Ho provato una sensazione molto
bella, quella di essere spettatore di un miracolo più grande di noi e dei
nostri sforzi; c’è Qualcuno che ha tessuto la trama di queste vite e ora le
porta verso di Sé. Nessuno avrebbe detto che questi uomini si sarebbero trovati
qui un giorno a raccontarsi la loro vita. Neanche noi missionari e missionarie.
È vero, abbiamo messo in opera certe iniziative, è necessario e giusto farlo;
ma quello a cui stiamo assistendo va ben al di là dei nostri sforzi. Forse
quello che conta allora non è tanto il nostro affannarci dietro le tante cose
da fare, correndo di qua e di là, ma l’accorgerci di questo passaggio dello
Spirito. Esserci, con fede e pazienza. Questo è ciò che ci è richiesto. Al
Signore è sufficiente per compiere la Sua opera.

Giorgio Marengo

Giorgio Marengo




Il gigante lusofono

Il grande produttore di greggio,
tra passato e futuro.

L’Angola ha vissuto una guerra
civile lunga 33 anni che ha disintegrato la società. Ma oggi registra un Pil in
crescita a due cifre. E la ricostruzione è visibile. Anche il rispetto dei
diritti umani registra dei progressi. Saranno
i benefici dell’oro nero e del rapporto stretto con la Cina? Intanto il presidente
José Eduardo dos Santos continua a regnare.

L’Angola è oggi uno dei giganti
africani. Con 20 milioni di abitanti, una superficie quattro volte l’Italia, è
il secondo produttore di petrolio del continente, dopo la Nigeria. Importanti
sono anche i giacimenti di diamanti, mentre l’agricoltura è in rapido sviluppo.
Il suo Pil ha visto una crescita a due cifre dal 2004 al 2008 (17,3% di media)
toccando il 22,6% nel 2007. Indicatore che poi ha frenato segnando 3,9% nel 2011.

Eppure
il suo passato è tragico. Nel
1961 inizia la guerra contro i coloni. Alla proclamazione dell’indipendenza,
nel 1975, il conflitto continua sotto forma di guerra civile, che sarà la più
lunga del continente. Si contrappongono l’Mpla (Movimento popolare di
liberazione dell’Angola) guidato da José Eduardo dos Santos e appoggiato dal
blocco dei paesi socialisti, e l’Unita (Unione nazionale per l’indipendenza
totale dell’Angola), appoggiata da Sud Africa e coloni portoghesi. Solo nel
2002, con la morte di Jonas Savimbi, capo storico dell’Unita, si raggiunge una
vera pacificazione. Il paese è in ginocchio, le zone rurali devastate, le
infrastrutture distrutte, la struttura sociale annullata, 4,5 milioni di
sfollati, ancora diversi milioni di mine antiuomo nascoste ovunque. Dos Santos,
divenuto presidente nel 1979, alla morte di Agostino Neto (padre della patria),
è tuttora in carica ed è stato rieletto per cinque anni nell’agosto del 2012.

Grazie
alle proprie risorse e al partenariato strategico con la Cina, l’Angola si
configura come una delle potenze africane di oggi e di domani. Mettiamo
a confronto il punto di vista di un intellettuale angolano e quello di un
cornoperante italiano che ha vissuto e lavorato tre anni nel paese.

Il Sociologo Angolano

Il professor José Feandes, è agronomo e sociologo, con un master in psicologia sociale. Da
oltre 22 anni lavora nel campo dello sviluppo sociale e umano, e vanta
un’esperienza sia nel governo del suo paese (nel ministero dell’Agricoltura),
sia in varie Ong. Attualmente è consulente indipendente, nell’area dello
sviluppo sostenibile, da circa otto anni. Si focalizza sullo sviluppo umano e
appoggia strutture governative per sviluppo locale. È inoltre docente
universitario, in sociologia della stratificazione, disuguaglianza e classi
sociali, sociologia del cambiamento e conflitti sociali e sociologia della
cultura. Gli abbiamo chiesto di darci un quadro del suo paese oggi.

L’Angola è una delle economie del mondo a crescita più veloce, ma
molti angolani vivono ancora in condizioni di povertà. Perché persistono queste
grandi disuguaglianze sociali?

«L’Angola sta crescendo economicamente, ma solo dal punto di vista
macroeconomico. In termini di microeconomia, il paese ha ancora molti problemi.
Le limitazioni nell’accesso ai beni, opportunità e servizi: sono la radice
principale della disuguaglianza. Il contesto sociale è caratterizzato dalla
nascita di una nuova élite, che è presente in tutte le aree sociali: politica,
economica, culturale, scientifica e tecnologica, dei trasporti. Questo non
permette un processo di inclusione sociale perché si tratta di un piccolo
gruppo che controlla tutte le aree, e che ha accesso a beni, servizi e
opportunità.

Un’altra questione chiave è il concetto meritocratico, che non è
ancora una realtà alla base dell’occupazione di posti nella struttura sociale.
Le competenze sociali e professionali, non sono ancora considerate come valori
chiave. Quello che conta è il clientelismo o l’appartenenza a una famiglia.
Esistono dunque disuguaglianze profonde e ben visibili tra i cittadini angolani
che possiedono e quelli che non hanno nulla o quasi».

La gran parte del Pil angolano è fornito dal petrolio. Come sono
gestite queste risorse dal potere? Sono investite in infrastrutture e in qualità
della vita per la popolazione?

«L’economia dell’Angola ha come principali fonti di reddito il
petrolio e il gas, insieme al settore diamantifero. Ma anche altri settori come
l’agricoltura cominciano ad avere un peso nel contributo al Pil. I proventi del
settore petrolifero e diamantifero sono stati usati soprattutto per la
costruzione di infrastrutture di base, come strade, scuole e ospedali. Il
programma di ricostruzione del paese è visibile e questo fa sì che la qualità
della vita del cittadino in generale migliori poco a poco. Tuttavia le sfide
restano grandi e importanti, e l’investimento dei fondi provenienti da questi
settori potrebbero essere usati in modo più efficace per creare benefici
diretti alla popolazione. In passato non c’era chiarezza sull’utilizzo di
questi soldi, mentre oggi la più grande impresa petrolifera dell’Angola, la
Sonangol, rende pubblici i propri bilanci, il che è un notevole passo avanti.
Dall’altro lato, le infrastrutture sono importanti, ma non è da meno
l’investimento nel capitale umano, e la diversificazione dell’economia, come
l’aumento dell’investimento nell’agricoltura, tanto a livello famigliare che
delle grandi fattorie».

L’Angola è il secondo fornitore mondiale di petrolio della Cina.
Può parlarci degli interessi della 
potenza asiatica in questo paese? Come descriverebbe il partenariato
Angola – Cina?

«La Cina ha una strategia chiara sull’Angola, come su molti altri
paesi africani, ad esempio Namibia, Mozambico, Sud Africa. Questo interesse è
reciproco, perché anche l’Angola ha bisogno della Cina, in questa fase di
costruzione e ricostruzione del paese.

La Cina possiede un know how di cui l’Angola ha bisogno per
crescere. Nel settore ad esempio delle costruzioni esiste una forte cooperazione
tra i due paesi. Occorre dire che quando l’Angola aveva bisogno di fondi per
iniziare il processo di ricostruzione del paese, tutte le istituzioni come Bm,
Fmi, impedirono che si organizzasse una conferenza di donatori per l’Angola. La
Cina fu l’unico paese che si offrì di finanziare questo processo mettendo a
disposizione prestiti. È chiaro che in questo senso i cinesi si sentono
privilegiati nello sfruttamento del petrolio dell’Angola. Si tratta di uno
scambio commerciale sulla base di interessi reciproci».

José Eduardo dos Santos, dopo 33 anni come
presidente della repubblica, è stato rieletto per altri 5 anni nell’agosto
2012. Come vedono i diversi settori sociali la non alternanza al potere? C’è
opposizione politica in Angola?

«La questione dell’alternanza al potere in Angola deve essere
analizzata tenendo conto di variabili politiche, militari, sociali e
soprattutto culturali. Il popolo angolano non pensa come il popolo occidentale
o orientale. Per questo l’analisi dell’elezione del presidente dos Santos, ha
il suo inquadramento sociologico e politico basato su due aspetti: il primo è
associato all’esistenza di un sistema monopartitico dal 1975 al 1991. Questo
vuol dire che dal 1979 (anno in cui dos Santos accede al potere) fino al 1991
(firma degli accordi di Bicesse), non esisteva la possibilità di elezioni.

Nel 1992 furono realizzate le prime elezioni, nelle quali dos
Santos fu eletto come primo e più votato, ma senza avere la maggioranza che lo
consacrasse presidente. Poi si ritoò alla guerra civile, che fece retrocedere
il paese rispetto ai progressi democratici. È importante dire che fu l’Unita a
riprendere la guerra. Il secondo aspetto è associato al processo di pace
interno e alla necessità di consolidarlo. Passarono ancora dieci anni, dal 1992
al 2002, per arrivare finalmente alla pace.

Come realizzare elezioni ed eleggere un nuovo presidente in uno
scenario di guerra reale, passato dal contesto rurale a quello dei principali
centri urbani? Così passarono 23 anni dal 1979 al 2002. I primi 6 anni di pace
furono impiegati nella pacificazione degli animi e in una gestione del governo
condiviso con l’Unita, chiamato Gu (Goveo di unità e riconciliazione
nazionale), sulla base degli accordi di pace. Obiettivamente solo nel 2012, con
la nuova Costituzione, si arrivò alla seconda vera elezione presidenziale nel
paese. La questione chiave è che il presidente dos Santos non avrebbe, di
fatto, potuto lasciare il potere prima del 2012. Se non per un golpe o per
rinuncia».

Dos Santos è un leader amato dalla popolazione?

«Come tutti i leader che stanno molto tempo al potere, in un paese
all’inizio della costruzione democratica, dos Santos è amato da alcuni,
idolatrato da altri e odiato da altri ancora. In ogni caso è riconosciuto come
persona che ha condotto il paese verso la pace e questo aiuta molto a
equilibrare la sua immagine. D’altro lato, l’Mpla è il partito politico con
maggior numero di sostenitori in Angola, il che significa
che la maggioranza degli angolani appoggia dos Santos e si riconosce nelle sue
politiche. Questo non vuol dire che non esistano contestatori, soprattutto
rispetto ad alcune politiche in relazione con il processo di inclusione
sociale. Ma globalmente lui ha tanti supporter».

Cosa
ci può dire rispetto alla società civile in Angola?

«La società civile è emergente in Angola. In questi anni
iniziano a nascere istituzioni che lavorano su temi specifici, per esempio i
diritti umani, l’uguaglianza sociale, gli obiettivi del millennio, la riduzione
della povertà. Storicamente la società civile pensava di essere contro il
governo e agiva in modo non allineato e disarticolato con le necessità della
popolazione, a diversi livelli. Questo generava diversi conflitti, e faceva in
modo che il governo non le desse spazio per condurre le proprie attività
normalmente. Oggi la società civile inizia a essere in linea con le attese
della popolazione e si è creato uno spazio di dialogo con il governo. Ad
esempio è grazie all’intervento delle associazioni che il governo ha creato un
segretariato dei diritti umani. Vediamo così segnali positivi nelle
realizzazioni della società civile».

Ci
parli allora del rispetto dei diritti umani in Angola? C’è libertà di stampa?

«I
diritti umani stanno evolvendo in Angola, per esempio la pena di morte è stata
abolita da parecchio tempo. Una parte dei diritti civili iniziano a essere
riconosciuti: come il diritto alla casa, alla salute, all’educazione, alla cura
dei figli e degli anziani, che sono la parte più vulnerabile di ogni società.
Iniziano a esserci investimenti e anche alcuni progressi a livello di
legislazione che regola alcune questioni del cittadino. Si osserva un
miglioramento. Intanto però continuano violazioni di alcuni diritti di base,
come il diritto a manifestare, molte volte represso dalla polizia. Questo
condiziona i progressi registrati. Si deve intendere la questione dei diritti
umani come un processo e soprattutto un mutamento di mentalità da parte di chi
detiene il potere politico.

Per
quanto riguarda la libertà di stampa dipende dal livello di analisi. Ad esempio
esistono vari giornali privati, radio e canali di televisione. Il più grande
partito di opposizione, l’Unita, ha una radio che è autorizzata a Luanda
24h/24. Ma questo non significa che tutto sia perfetto, come per i diritti
umani. È necessario lavorare di più per migliorare la libertà di stampa. Ad
esempio nella radio e nella televisione pubblica o statale, alcuni programmi
sono censurati. Ma esistono segnali di miglioramento nel trattamento di questi
temi da parte del governo».

Ci
sono problemi di libertà religiosa in Angola?

«No,
in Angola non esistono problemi di libertà religiosa. Il 90% della popolazione è
cristiana e sono state costruite alcune moschee che stanno funzionando,
svolgono il culto e non hanno mai avuto problemi. Probabilmente esiste troppa
libertà, perché ogni giorno che passa nascono nuove sette religiose, che creano
grande confusione nel cittadino comune».

Marco Bello 

Sull’Angola
MC ha pubblicato «Piedi a mollo nel petrolio», febbraio 2010.


        Testimonianza / La voce del cornoperante italiano                   


Gente forte, con cicatrici profonde

«In Africa un leader lo è dalla nascita. Non viene messo in discussione.
C’è qualcosa di magico. La guerra ha distrutto le famiglie. Ha messo fratelli
contro fratelli. In campagna mancava tutto. Ma oggi vedo solo voglia di
riscatto. Nessuna vendetta».

Simone Teggi ha lavorato in Angola tra il 2003 e il 2006 per
circa tre anni. I suoi progetti erano in aree rurali, soprattutto in zone
dell’Unita: Kuito Bié e Mavinga. Ci racconta come la gente comune che ha
conosciuto vede il presidente dos Santos.

«La gente vede dos Santos come un regnante piuttosto che un
presidente. Dalla parte Unita, la gente continuava ad aspettare Jonas Savimbi,
che nelle zone di sua influenza era considerato una figura magica, un
immortale. Ogni due tre mesi girava la voce che Savimbi stava tornando e la
luce della speranza per molti si riaccendeva.

È strano, ma come in molti altri posti d’Africa, il
presidente è legato a un aspetto magico. Il leader è leader di nascita, e
quindi non può essere spodestato, perché ha la protezione dei fetiseros (stregoni). La gente, non ha
quasi mai un’ideologia chiara e sicuramente questa non contrappone Mpla e
Unita. La popolazione vive assieme, e accetta la propria guida quasi per
vocazione. La magia tradizionale in Angola è fortissima e la realtà spesso si
mescola alla fantasia. La rassegnazione al leader fa il resto».

Anche nei partiti politici di opposizione c’è stata una
certa assimilazione. «Qualcuno ha cercato di creare nuovi partiti di opposizione,
ma come per magia i loro leader scomparivano dopo pochi mesi. Inoltre i
generali Unita, poco a poco sono stati comprati con i diamanti da dos Santos,
perché li metteva a gestire le miniere, o li lasciava fare. Dopo la guerra, gli
accordi di pace prevedevano una divisione del potere amministrativo tra i due
partiti, ma poco a poco i capi dell’Unita si sono piegati alla volontà del Mpla
e ai soldi del petrolio e dei diamanti».

Petrolio, diamanti e
morti di fame

Simone ha vissuto e lavorato in zone rurali e ha anche visto
una grande differenza con le città. «I proventi del petrolio non si sentivano nelle campagne.
C’era Luanda, Benguela, Lobito (le grandi città) da un lato e il resto del
paese dall’altro. La gente in Angola era abituata a vivere bene, prima della
guerra. I servizi di base erano garantiti. Poi la distruzione e l’assenza,
almeno nelle campagne, del governo. E l’inesistenza di una struttura economica.
Si vedevano enormi cornoperative agricole distrutte. A metà anni 2000, l’unica
moneta erano il baratto o i diamanti, nell’interno del paese. Ci sono i ricchissimi (molto oltre i nostri ricchi) e chi
muore di fame. Niente borghesia, e gli stessi portoghesi a volte facevano i
meccanici, a volte avevano un chiosco o un piccolo bar».

Ma la gente si organizzava in associazioni? Si può parlare
di una società civile? «Gli angolani, hanno la tempra da leoni, sono forti, ma 30
anni di guerra, tra fratelli, blocca e distrugge ogni forma di società civile.
Le associazioni erano abbastanza assenti dopo la guerra, ma in poco tempo si
stavano ricostituendo. Io lavoravo per il rafforzamento di una associazione di
donne nata nel 1995. Ma la cosa interessante è che era continuata a crescere a
livello locale, mentre si era dissolta a livello di associazione. Quando è
finita la guerra, è bastato mettere in contatto i vari gruppi e ne è nata una
organizzazione a livello nazionale, abbastanza forte e con buone prospettive».

Angolani: persone
splendide

Simone si è trovato bene con gli angolani, nel lavoro e
nella quotidianità dei rapporti sociali. «La gente è calda, animata e dei gran
bevitori. Ma sono anche persone che hanno vissuto un conflitto interminabile.
Non vogliono più guerre, e per questo si sono inchinati alla morte di Savimbi. Ho
conosciuto persone splendide, che nascondono cicatrici e dolori immensi, che
spesso si riflettono sulla voglia di riscatto. Due aneddoti. Una delle donne
con cui lavoravo, un giorno, parlando della sua famiglia, mi fa vedere la
schiena, piena di cicatrici. Mi racconta che di sera mentre la sua famiglia era
in casa (Otto fratelli e i due genitori) sono stati bombardati. Lei è l’unica
superstite, ma non esiste pianto né commiserazione, solo voglia di riscatto per
la loro vita. La seconda storia riguarda il logista dell’Ong per cui lavoravo.
Un giorno mangiamo e beviamo assieme, eravamo rimasti soli. A un certo punto
lui, un omone tranquillo e apparentemente sereno, si mette a piangere. Dice: “Non
volevo farlo, non capisco come mi sia trasformato in una bestia”. Poi mi
racconta di quando faceva il militare. Quando vedeva morire i suoi amici, e
arrivava a conquistare un villaggio, l’unica idea era riprendere la vita di
altre persone, per soffocare il dolore della perdita dei suoi cari. Stupri,
gente tagliata a pezzi, insomma orrore.

A Kuito Bié, cittadina in cui ci sono stati 8 mesi di
conflitto, la gente di una stessa famiglia in parte era presa dall’Unita,
mentre il resto era preso dall’Mpla. Quindi la gente combatteva il giorno,
fratelli contro fratelli, e la sera si ritrovavano per mangiare insieme. Qui
una parte sostanziosa della popolazione era senza gambe, faceva impressione. Ma
con il trascorrere dei mesi,  sembrava
quasi normale».

Città e campagna

Le città e le campagne hanno vissuto la guerra in modo
diverso. «La città non ha mai vissuto la guerra e imprese, bianchi e ricchi si
installavano là, tra prostituzione, lusso e menefreghismo verso il resto del
paese. La situazione era incredibile. In campagna nessuno sapeva
cos’erano elettricità e acqua. La gente di campagna che andava in città,
pensava che con i soldi si potesse fare tutto, anche scappare da un paese che
per anni ha conosciuto solo l’inferno».

Distruzione del
tessuto sociale

Simone assiste alla profonda disgregazione sociale: «Come
Mao aveva fatto in Cina, in Angola le famiglie erano state distrutte, così
l’unica referenza era il comandante. Una volta a Kuito, incontro un ragazzo che
da 26 anni non vedeva nessuno della sua famiglia. Aveva circa 34 anni. Era
arrivato per cercarla, con un’emozione e paura enorme. Ma nel suo villaggio non
aveva trovato più nessuno, solo desolazione, e qualche zio.

Un giorno andiamo in un villaggio, e uno dei leader è un
personaggio ambiguo. Mi spiegano che era un cecchino. Ognuno sapeva dire che
membro della famiglia gli aveva ucciso. Rimango perplesso: la gente, dopo
trent’anni di distruzione ha imparato a perdonare e il miliziano era stato
accettatornin maniera incredibile».

Ricordi schioccanti: «La gente, soprattutto nel 2003,
saltava sulle mine ogni giorno. Contadini, bus pubblici scoppiavano, ma la
gente ne era abituata. Un giorno una donna è saltata per aria usando un ordigno
inesploso per pestare il mais nel mortaio. Un’altra volta un uomo che cercava
legna è saltato su una mina anti-uomo collegata a due mine anti-carro. È
rimasto solo un buco enorme.

Le mine erano nascoste ovunque, nelle scuole, lungo i ponti,
vicino alle fonti d’acqua e perfino negli alberi da frutta. A Kuito Bié,
durante la guerra la gente non poteva seppellire i propri cari e quindi lo
faceva nel giardino di casa. Mentre abitavo lì, avevano deciso di riesumare i
corpi. Più di 10.000 persone.

Ogni giorno, dei funerali rendevano l’atmosfera sempre più
pazza e, andando al lavoro, passavo attorno a fosse comuni in cui la
popolazione si scannava per identificare qualche cumulo di ossa come il proprio
caro».

Marco Bello

Marco Bello




Sotto il cielo di Corumbá

 


Nella cittadina brasiliana di Corumbá un missionario salesiano, nativo del Veneto, ha fondato un’organizzazione che segue neonati, bambini e ragazzi di famiglie bisognose. Da 0 a 18 anni, centinaia di giovani entrano nelle tre strutture di padre Pasquale Forin. Per crescere attraverso il gioco, l’istruzione e una sana alimentazione. Un’organizzazione efficiente che vive grazie al volontariato e alle donazioni internazionali. E alla perseveranza del suo fondatore. Ecco cosa abbiamo visto e cosa lui ci ha raccontato.

 

Corumbá. Ci avviciniamo a una fermata di mototaxi. Fa caldo, caldissimo. «No, oggi non è
caldo», ci spiegano i conduttori. Prima di infilare il casco, proviamo a convincerci che hanno ragione loro. Partiamo.

Sulla scia di Ernesto Sassida

Le strade di Corumbá, cittadina di 100 mila abitanti nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud, sono comode e poco trafficate. Le moto avanzano veloci.
Passiamo davanti alla Citade Dom Bosco, la Città Don Bosco, una grande struttura – comprende scuole, centri ricreativi e assistenziali – fondata da padre Ernesto Sassida, salesiano sloveno scomparso nel marzo 20131. Sulla stessa Rua Dom Aquino sta la parrocchia São João Bosco, nostro luogo di destinazione. La chiesa è una costruzione moderna, semplice ed elegante ad un tempo. Davanti all’ingresso campeggia un grande quadro con il volto inconfondibile di san Giovanni Bosco. Ci accoglie il parroco. Lui si chiama Pasquale Forin, missionario salesiano nato nella provincia di Padova, «ma – precisa – con familiari in Piemonte, a Nizza Monferrato e Alessandria». Veneto o piemontese poco importa ormai: padre Pasquale è in Brasile da 53 anni e a Corumbá da 26.
Corumbá è sorta a lato del fiume Paraguay e del Pantanal, una grande pianura alluvionale dalle caratteristiche uniche (leggere riquadro). «Forse a causa delle mie origini contadine – spiega padre Pasquale -, fin dal mio arrivo ho sempre accompagnato il cammino delle comunità rurali del Pantanal». Il missionario segue gli insediamenti contadini per un totale di 1.500 famiglie, comprese quelle degli indigeni guató. L’appoggio va dall’assistenza legale per difendere la terra dagli appetiti altrui fino al microcredito.
Basterebbe il lavoro svolto con le comunità rurali per qualificare come fuori dell’ordinario l’opera del salesiano. Ma esso non è che un aspetto della sua attività. Con la parrocchia padre Pasquale ha dato vita a tre progetti: un ospedale diurno per bambini denutriti (Casa de Recuperação infantil padre Antonio Müller, Cripam); un centro di doposcuola per ragazzi dai 7 ai 18 anni (Centro de Apoio Infanto Juvenil, Caij); una struttura per bambini abbandonati (Casa Irma Marisa Pagge). Per capirne la portata occorre visitarli.

 

Via dalla strada, via dalle tentazioni

Il bairro (quartiere) si chiama Cristo Redentor. Il Caij è in un’ampia costruzione circondata da mura color verde pallido.
«Non è una scuola – ci spiega padre Pasquale -, ma un centro d’accoglienza per ragazzi dai 7 ai 18 anni provenienti da famiglie povere e con problemi. Arrivano da noi quando non c’è scuola. È un modo per evitare che stiano sulla strada, dove ci sono molti pericoli, soprattutto quelli legati alla droga (consumo e spaccio). Come in tutto il Brasile, anche qui si può comprare una dose di crack, maconha o cola con un solo real2».
Il Caij ospita 560 ragazzi, a cui viene offerto tutto: lo svago, i pasti, l’assistenza. E poi un aiuto scolastico in accordo con gli istituti. Un impegno notevole, come dimostrano le 30 persone che vi lavorano.
Entriamo. Una targa affissa al muro ricorda che il padiglione del Caij è stato costruito con risorse provenienti da Spagna, Italia, Slovenia e Belgio.
Le aule sono state costruite attorno a un campetto sportivo, protetto da una copertura e dotato anche di una piccola tribuna. È occupato da un folto gruppo di ragazze e ragazzi che, divisi in gruppi, stanno gareggiando accompagnati dal sottofondo musicale regalato da un’orchestrina. «Gli istruttori sono ragazzi cresciuti qui dentro, che ora sono diventati volontari», spiega padre Pasquale.
Entriamo nel refettorio. La cucina è divisa dalla sala mensa da un semplice muretto. Tre donne – Maria, Cristiane e un’altra Maria – stanno preparando il cibo per l’imminente pranzo. Tutto è ordinato e pulitissimo. Sui fornelli, posti al centro della cucina, bollono alcune pentole: carne, verdure, gli immancabili fagioli. Una cuoca è intenta a spellare cipolle e spicchi di aglio. Un’altra sta preparando un impasto. «Se vuoi punire un ragazzo, digli che andrà a casa senza pranzo» racconta sorridendo padre Pasquale. Il comune di Corumbá offriva il cibo fino a gennaio 2013, poi ha smesso per – così è stato spiegato – problemi di bilancio.
Accanto al Caji, c’è la struttura del Cripam. Si tratta di un ospedaletto diurno per minori denutriti da 0 a 6 anni. Uno dei pochi esistenti in Brasile.
Entriamo in una stanza dove ci sono una quindicina di bambini, alcuni dei quali con problemi psicomotori. Stanno giocando sotto lo sguardo vigile delle maestre. «Andiamo a prenderli ogni mattina con un pullmino. E la sera li riportiamo alle loro case» spiega padre Pasquale.
Nelle stanze a fianco, disposte in file ordinate, ci sono una trentina di culle di colore bianco. Ventilatori al soffitto, pareti rallegrate con disegni colorati, giochi. Non manca nulla.
È ora di mangiare. Le maestre mettono i più piccoli sui seggioloni e i più grandicelli sulle sedie attorno al tavolo. Un paio debbono essere presi in braccio a causa dei problemi fisici.
Prima di uscire, c’è tempo per un’altra sorpresa. Scopriamo che in una sala si preparano gelati. «È un modo per autofinanziarci», spiega padre Pasquale. I gelati si chiamano Sabor da solidariedade, il sapore della solidarietà.

 

Volontarie

L’ultima tappa del nostro tour all’interno dell’organizzazione fondata da padre Pasquale è alla Casa Irma Marisa Pagge, così chiamata in ricordo di una suora italiana dell’Operazione Mato Grosso3. Come le precedenti, anche questa è una bella costruzione, con tre case indipendenti collegate da un giardino molto curato, con alberi in fiore e altalene.

Nella struttura sono ospitati bambini da 0 a 6 anni che sono stati abbandonati o che sono stati tolti, per gravi motivi, alle famiglie d’origine. «Rimangono qui – spiega il padre – finché saranno reinseriti in famiglia oppure dati in adozione».

Due targhe poste all’entrata ricordano i principali benefattori: varie città italiane (Torino, Alessandria, Valenza, Pietra Ligure, Desenzano, Borghetto) e l’associazione Rotary. Anche in questo caso i soldi raccolti sembrano stati impiegati al meglio. Il luogo appare molto accogliente, pulitissimo e funzionale.

Incontriamo due volontarie internazionali: Venus è un’insegnante di Londra che si fermerà un anno; Maria Vicenta è basca ed è qui da 5 anni, pur avendo figli e nipoti in Spagna. Maria ci accompagna nella stanza dove, nelle culle, stanno dormendo due bambini di pochi mesi, un maschio e una femmina. La bambina è stata portata al Centro perché la mamma è una consumatrice di droghe. «Nella quasi totalità dei casi i bambini – ci viene spiegato – provengono da famiglie composte dalla sola mamma».

Pane e liberazione

«Non riesco a parlare di Dio a chi non ha da mangiare», confessa padre Pasquale. Pare un’affermazione della teologia della liberazione, un mondo a cui i salesiani – per scelta e per tradizione – non sono mai stati molto vicini. «Questa – spiega convinto il missionario – è la vera teologia della liberazione. Quella di Hélder Câmara e Luciano Mendes». In verità, poco importa incasellare l’azione di padre Pasquale Forin. Mai come nel  suo caso vale il detto popolare: «Più delle parole contano i fatti». Fatti che a Corumbá si possono vedere e toccare con mano.

Paolo Moiola
  Note             

1 – Padre Eesto Sassida è morto il 13 marzo 2013 all’età di 93 anni.
2 – Il crack è un sottoprodotto della coca; la maconha è la marijuana; la cola è la colla; il real (reais, al plurale) è la moneta brasiliana. Un euro vale 2,7 reais (quotazione a giugno 2013).
3 – Nome di un movimento di volontariato nato nel 1967, legato ai salesiani.



     Il bioma del Pantanal                                                  

Uno?scrigno?sotto?assedio

Il Pantanal, la più grande zona umida del mondo, è in pericolo. Il cambio climatico sta modificando l’alternanza delle stagioni secca e piovosa. Le monocolture e le mandrie bovine distruggono la vegetazione e uccidono i fiumi. A?pagae le conseguenze, è l’intero ecosistema. E gli abitanti più poveri.

Corumbá. Dalla terrazza si ammira il corso placido del Rio Paraguay e dietro di esso un’estensione verde e piatta che si perde all’orizzonte. È la pianura del Pantanal, con la sua vegetazione a prevalenza di arbusti e manto erboso. Il Pantanal – che in portoghese significa «palude» – ha una superficie di circa 210 mila chilometri quadrati distribuiti su tre paesi: la Bolivia, il Paraguay e soprattutto il Brasile. È infatti quest’ultimo che ospita quasi il 70% del bioma. Precisamente nel sud dello stato di Mato Grosso e nel nord-est dello stato di Mato Grosso do Sul.

Durante la stagione delle piogge (da ottobre a marzo), l’acqua defluisce dagli altipiani circostanti alle terre basse del Pantanal ingrossando i fiumi che straripano inondando gran parte del territorio. Durante la stagione secca, l’acqua si ritira nei letti dei fiumi, le lagune e i piccoli canali (corixos) si riducono o addirittura scompaiono. A causa delle sue peculiarità, il Pantanal è un santuario della biodiversità, ospitando un campionario di animali, pesci, uccelli e piante che non ha eguali nelle Americhe. Oggi anche questo bioma unico è in pericolo.

I rischi e i danni ambientali arrivano dal cambio climatico (che ha prodotto inondazioni devastanti o siccità), ma anche e soprattutto dalle attività umane sugli altipiani circostanti, nel Mato Grosso e nel Mato Grosso do Sul: l’espansione delle attività agroindustriali (con annesse deforestazioni e uso di prodotti agrochimici, soprattutto per la coltivazione della soia), la crescita esponenziale dell’allevamento bovino1 (con un enorme impatto ambientale), le attività minerarie (estrazione aurifera in testa) hanno contaminato le acque che arrivano nel Pantanal; la costruzione di dighe ha modificato, ampliato o reso permanenti una parte delle zone inondate.

Con oltre 25 anni di permanenza nel Pantanal padre Pasquale Forin può testimoniare personalmente i cambi avvenuti nell’ecosistema naturale e umano.  «In alcune colonie – racconta il missionario -, prima si arrivava in barca, adesso si cammina per ore e ore dal fiume fino alle case. In questi anni io ho visto le trasformazioni del Rio Taquari, uno degli affluenti principali del Rio Paraguay: il suo corso naturale è stato deviato, il suo letto ridotto dai sedimenti, la vita nelle sue acque ammazzata dai fertilizzanti chimici». I mutamenti nel Rio Taquari sono testimoniati da un dato impressionante: nel corso dell’ultimo decennio, la pesca nel fiume è diminuita di sette volte, passando da 485 tonnellate all’anno a soltanto 622.

I cambi nell’ecosistema si sono riflessi pesantemente anche sugli abitanti del Pantanal. Relativamente pochi (poco più di 200 mila, 2 per chilometro quadrato), essi si distinguono in Pantaneiros (compresi alcuni gruppi indigeni: Kadiwéu, Guató, Terena, Umutina, Bororo, spesso composti da poche decine di individui) e in assentados. Questi ultimi sono arrivati con le assegnazioni di terra da parte dell’Istituto per la riforma agraria (Incra)3.

«Ai contadini assegnatari di terra hanno dato un contentino – si lamenta padre Pasquale -. La misura minima doveva essere 25 ettari. Qui l’Incra ha dato 13-16 ettari. E la terra è quella del Pantanal, che non è fertile come quella di altri stati brasiliani. Dopo uno-due anni la terra non è più produttiva, soprattutto in presenza di acqua calcarea, non adeguata per le coltivazioni. Da coltivatori i coloni diventano allevatori. Ma lo spazio necessario è di due ettari di terra per ogni capo di bestiame. Si prendono così capi di bestiame di qualità inferiore per produrre un po’ di latte per l’autoconsumo o per il mercato. Noi interveniamo per costruire pozzi e cisterne per l’acqua potabile e con progetti di microcredito, per consentire l’acquisto di sementi o di strumenti di lavoro. Tuttavia, in questa situazione di precarietà molti giovani lasciano gli insediamenti rurali, dove rimangono soltanto i vecchi a coltivare manioca in attesa di raggiungere l’età della pensione. Senza dire di quelle famiglie che, a causa di un’inondazione, hanno perso tutto e hanno dovuto indebitarsi o abbandonare la terra».

Poi ci sono – in Brasile non mancano mai – i latifondisti (terratenientes), proprietari delle fazendas. L’ultimo rapporto redatto dalla Commissione pastorale della terra (Cpt)4, encomiabile come sempre, segnala numerosi conflitti per la terra tra latifondisti e gruppi indigeni locali negli stati del Mato Grosso e Mato Grosso do Sul.

Come in tutto il Brasile, anche nel Pantanal ci sono famiglie o gruppi indigeni che si tramandano la terra da generazioni, ma che spesso non ne hanno la proprietà formale. Di questa situazione cercano di approfittare i latifondisti attraverso la pratica del grilagem5.

«Anche noi abbiamo dovuto – racconta padre Pasquale – difendere molte famiglie dai latifondisti perché non fossero sfrattate da un giorno all’altro. E abbiamo rischiato la vita: questa è gente che non scherza. Arrivavano con i trattori per buttare giù le loro case. E le donne con i bambini si mettevano davanti ai mezzi. Mi hanno raccontato di un grileiro che ordinò all’autista di passare sopra alle persone che si opponevano e che questi era sceso dal trattore rispondendo “Se vuole, lo faccia lei”. Oggi, per fortuna, la maggioranza delle famiglie da noi seguite ha il titolo di proprietà».

Nell’anno 2000 dichiarato dall’Unesco Patrimonio naturale dell’umanità e riserva della biosfera, il Pantanal ha accresciuto in questi anni la propria visibilità, richiamando un numero crescente di turisti. Come si sa il turismo è un’attività economica non esente da rischi, anche gravi. Tuttavia, se gestito in maniera adeguata, può essere la scelta meno impattante per preservare un bioma unico ma fragilissimo.

Paolo Moiola
   Note                 
 1 – I dati sulle mandrie bovine sono impressionanti. Il Mato Grosso, con una popolazione di appena 3,1 milioni di abitanti, ha 28,6 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Indea Mt). Il Mato Grosso do Sul, con una popolazione di soli 2,5 milioni di abitanti, conta 21,5 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Ibge).
2 – «Instituto Nacional de Colonização e Reforma agrária». Il sito: www.incra.gov.br.
3 – Dati dell’«Instituto de Preservação e Control ambiental» diffusi da Embrapa Pantanal: www.cpap.embrapa.br.
4 – Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conflitos no Campo Brasil 2012, aprile 2013. Il sito: www.cptnacional.org.br.
5 – Termine con cui si indica una falsificazione di documenti per divenire proprietari di una terra.
 

 

Il volontario                                        

«Per fare la mia parte»

Giorgio Roz, di Chieri (Torino), arrivò a Corumbá con l’«Operazione Mato Grosso». Da quel giorno sono trascorsi 12 anni.

Corumbá. «Anche a Madonna di Fatima, il bairro dove abito, gira molta droga. Fino a qualche mese fa c’era una boca – un punto di vendita – anche vicino a casa mia. Il problema della droga deriva spesso da altre questioni, sia sociali che personali. Giovani e adolescenti entrano in quel mondo perché alle spalle non hanno una struttura familiare forte. A sua volta questa mancanza è conseguenza della povertà che sovente porta a una destrutturazione della famiglia».

Giorgio Roz, 47 anni ben portati, è un volontario di Chieri, comune non lontano da Torino. È arrivato a Corumbá tramite l’«Operazione Mato Grosso», un movimento fondato nel 1987 da alcuni missionari salesiani1 che operavano nella regione brasiliana2. Il movimento, diffuso in tutta Italia, ha come obiettivo la crescita dei giovani attraverso il lavoro gratuito in favore dei più poveri.

«Sono cresciuto – racconta Giorgio – in ambienti di parrocchia, con i salesiani ma anche con i gesuiti. Il gruppo cui appartenevo era in contatto con padre Pasquale Forin, missionario a Corumbá, che ci visitava a ogni suo rientro in Italia. Un giorno, come avevano fatto altri amici, decisi di tentare anch’io un’esperienza di volontariato. Dopo due periodi (uno di un anno e un altro di un mese), al terzo – era l’ottobre del 2000 – decisi di fermarmi».  Perché?, gli domandiamo. «Per fare la mia parte», risponde Giorgio con invidiabile semplicità. «All’epoca il Mato Grosso era una regione di povertà totale, materiale e spirituale. Quando arrivai qui, in molte zone della periferia c’erano soltanto capanne e baracche fatte con materiale di recupero. La necessità principale era quella di alimentarsi».

Da allora le cose sono cambiate. Il Brasile è divenuto la sesta potenza mondiale. «Ma – osserva Giorgio -, se vediamo certe zone, è ancora Terzo mondo. Il Brasile è il paese dei contrasti, delle contraddizioni assurde. Si passa dalla ricchezza estrema alla povertà estrema. Oltre alla questione della distribuzione della ricchezza, io credo che il problema maggiore sia quello dell’educazione (il paese è agli ultimi posti nel mondo), seguito da quello sanitario. Esistono poche strutture sanitarie pubbliche, mentre quelle private non sono accessibili da parte dei poveri».

Chiediamo a Giorgio della riforma agraria, che avrebbe dovuto costituire un punto qualificante della presidenza del Partito dei lavoratori (Pt), prima con Lula e oggi con Dilma. «A Corumbà – spiega -, da 15 anni fa a oggi, sono stati distribuiti molti lotti di terra nella zona rurale. Peccato che non siano stati foiti anche i mezzi per coltivarla. Oltre tutto si tratta di terreni di piccola dimensione. Succede così che una parte dei coloni, quella che sputa sangue, riesce a tirare fuori il proprio sostentamento, mentre gli altri sopravvivono male. Per contro, anche qui esistono latifondi lunghi decine di chilometri dove vengono usati trattori enormi guidati dal Gps e vengono sparsi diserbanti con piccoli aerei».

Nel Mato Grosso do Sul la crescita economica è rilevante3 ma i problemi, le contraddizioni e le ingiustizie del sistema sono ben visibili come in tutto il paese. Per i volontari come Giorgio Roz il lavoro e le sfide di certo non mancano.

Paolo Moiola
       Note                

1 – I padri Pietro Melesi, Luigi Melesi e Ugo De Censi. Il movimento, oltre che in Mato Grosso, opera in Ecuador, Perù e Bolivia. Il sito
ufficiale dell’Operazione Mato Grosso: www.operazionematogrosso.it.
2 – Nel 1979 lo stato del Mato Grosso venne diviso in due entità indipendenti: il Mato Grosso e il Mato Grosso do Sul.
3 – Ad aprile 2013, il governatore del Mato Grosso do Sul,?André Puccinelli, è stato in tour in Italia per incontrare imprenditori disposti a
investire nello stato brasiliano. Puccinelli ha parlato di grandi opportunità e di forti incentivazioni fiscali per gli investitori.


 



Cari Missionari

Correzione: Le cornordinate giuste di Sererit in Kenya (vedi
MC 5/2013, p 21) sono 1°40’47.08” N e 37°10’37.31” E e non quelle indicate che
si riferiscono invece alla chiesa di San Bartolomeo a Serle, Brescia. Scusate
lo svarione. Inoltre Sererit significa «acqua che scorre» e non «acqua scarsa»
(Sereolipi).

RITORNO IN ETIOPIA

Egregio
direttore,
amare e vivere la vita è donarsi agli altri. Il tempo corre veloce e il «mal
d’Africa» aumenta sempre di più. Da poco sono ritornato dal quinto viaggio
nella mia amata Etiopia. Altre emozioni, altre esperienze e altri orizzonti e
realtà vissute. Pensavo di conoscere già la gente dei villaggi di Weragu e
Minne, il loro modo di vivere, di comportarsi ma ho costatato che ho molto
ancora da apprendere. Nei villaggi sono ormai di casa, sono uno di loro fra
loro. I bambini, le donne e i giovani mi vogliono bene. Ho potuto fotografarli
anche all’interno delle loro capanne. Sono stato accolto con amicizia da una
famiglia cattolica, una musulmana e una ortodossa. Le suore della clinica ogni
due-tre sabati al mese si recano in un villaggio vicino, distante due ore di cammino,
per insegnare a leggere e scrivere agli adulti, e le norme igieniche e
comportamentali. Ho portato a p. Angheben Paolo la somma raccolta in Borgo e
valle, frutto della generosità dei benefattori che hanno donato con amore. Dal
profondo del cuore un grazie sentito, sincero, affettuoso con l’augurio di ogni
bene. La somma è servita per pagare lo stipendio per quaranta maestri che
insegnano a 1.200 bambini nella scuola primaria e secondaria dei due villaggi.
Lo studio è una tappa fondamentale per lo sviluppo di quel paese. Lo stato non
dà nulla ma pretende il rendiconto dei soldi ricevuti: ora anche le bambine,
anche quelle musulmane, vanno a scuola come i coetanei maschi. Nella biblioteca
di Debre Selam (rifugio di pace), ora funzionante, circa 5.000 studenti possono
studiare, scambiarsi libri e imparare a usare il computer e l’internet. P.
Paolo è ritornato a Modjo: la missione stava morendo ed ha portato una ventata
di fede, di entusiasmo e di speranza. Ora il bellissimo centro di animazione
missionaria e vocazionale è funzionante. I nuovi progetti di p. Paolo sono: la
costruzione di una sala mensa per 180 bambini della locale scuola matea
(costo circa 20.000 euro) e una chiesetta chiesta da un collega missionario
senza mezzi, in un villaggio vicino (costo circa 7.000).

La
fede profonda del padre, la solidarietà vera dei benefattori e l’onestà della
ditta del geometra Caevale faranno un altro prodigio.

A
p. Paolo, uomo di preghiera, di azione, di poche parole, schivo ma grande
psicologo e apostolo di anime, vada il mio grazie infinito. A tutti i
missionari, suore e fratelli della Madonna Consolata di Torino, sparsi sui
cinque continenti, testimoni di Cristo e della Vergine Maria, di cuore un
grazie sincero con affetto filiale e spirituale. Siete luce di verità, di amore
e di altruismo per tanta gente povera, abbandonata, oppressa e dimenticata dai
popoli ricchi. Attraverso p. Oscar, superiore dei missionari in Etiopia, un
grazie a tutti i missionari per l’ospitalità ad Addis Abeba (nuovo fiore) e nelle
altre missioni.

Con
affetto e un forte abbraccio di amicizia e cordialità.

Giovanni
De Marchi

via email, 2/5/2013

PADRE GIANNI, UNO CHE C’ERA

Oggi
siamo qui. Sono passati trent’anni eppure è come ieri. Noi abbiamo capelli più
o meno bianchi, rughe più o meno marcate eppure siamo noi. È passata una vita,
la nostra vita, abbiamo fatto lavori diversi, scelte diverse, percorso strade
diverse eppure siamo noi. Ci siamo ritrovati, un po’ storditi e commossi,
quando abbiamo saputo della sua morte, inattesa anche se conoscevamo le sue
condizioni di salute. Ci siamo ritrovati dove eravamo sempre stati con lui,
nella parrocchia Maria Regina delle Missioni, per ricordarlo nella preghiera,
con i suoi confratelli.

Ben
poco oggi ci unisce ancora, se non l’amore che abbiamo ricevuto da lui. Due
amori anzi: la sua amicizia, umana, tenera e profonda, e l’Amore, con la «a»
maiuscola, quello di Dio, che proprio lui ci ha fatto incontrare e sperimentare
negli anni dei gruppi giovanili. Trenta anni fa, quando noi eravamo i «suoi»
ragazzi.

Non
si dava delle arie p. Gianni, non conosceva la dinamica di gruppo, allora tanto
di moda, la psicologia, la sociologia…

Lui
semplicemente «c’era». Era lì, sempre a nostra disposizione, quando casualmente
«passavamo» vicino alla parrocchia. Era lì, spesso a fare i lavori più
semplici, raddrizzava un cartello, spostava un vaso di fiori, metteva in fila
le sedie…

Era
lì e ci accoglieva sorridendo. Con una battuta, una frase scherzosa.

Sembrava
svagato, ed invece era sempre tutto per noi, ci vedeva «dentro», come eravamo
davvero oltre l’esteriorità. Di ciascuno di noi ricordava tutto: vicende,
aspirazioni, problemi, ma anche la data del compleanno, le ricorrenze che si
sono via via aggiunte con il passare del tempo. Anche da lontano, negli anni in
cui è stato in Brasile, nel giorno giusto, dall’altra parte del mondo, arrivava
immancabilmente un suo biglietto, un sms, un saluto, un ricordo, una preghiera.
E non parole generiche, ma personali, sentite, profonde…

P.
Gianni c’era, ma era ugualmente pronto a «sparire», a tirarsi indietro, a farsi
da parte tanto era umile e schivo. Un merito, un successo non se lo prendeva
mai, ma lo attribuiva agli altri, sempre pronto invece a chiedere scusa, a
camminare in punta di piedi per non disturbare…

Non
so cosa abbia rappresentato per le persone che ha incontrato nei molti anni di
missione, posso immaginarlo a partire dalla nostra esperienza. Ma so che,
quando ci parlava di loro, emergeva un insieme di persone vive, concrete, alle
quali p. Gianni aveva voluto bene nello stesso modo in cui aveva amato noi:
singolarmente, ad uno ad uno come persone, ciascuna importantissima ai suoi
occhi e nel suo cuore. E sono convinta di una cosa: è stato proprio questo suo
modo di volerci bene che ha fatto «sperimentare» a tutti e a ciascuno la
profondità e la concretezza dell’Amore di Dio su di noi.

Claudia
Carpegna

(giovani di Maria Regina delle Missioni, anni 70-80), 15/5/2013

 

P. Gianni Basso, nato a
Quinto di Treviso nel 1949, ordinato sacerdote nel 1973, ha esercitato il suo
ministero sacerdotale dapprima in Italia e poi per molti anni in Brasile.
Rientrato per ragioni di salute, è stato alcuni anni a Vittorio Veneto,
ultimamente aveva iniziato il suo servizio missionario a Olbia, in Sardegna. Là
la morte lo ha colto all’improvviso il 17 aprile scorso come conseguenza di un
ictus. Sepolto al suo paese di origine, a Torino è stato ricordato con molto
affetto dai «suoi ragazzi» nella parrocchia Maria Regina delle Missioni.

AL DIO DELLE SAVANE

Caro
direttore,
ti allego la mia poesia “Al Dio delle Savane” segnalata al Concorso S. Sabino”
di Torreglia (Padova) lo scorso 5 maggio:

«O Dio di queste bellezze selvagge
che susciti canti da gole riarse
e accogli preghiere
impastate di terra e sudore.

Dio che ti fai dono
invisibile
sotto tettornie
di lamiera ardente,
che scendi e ti adagi
là dove si annida
la fame
e morde e grida forte
la sua esigenza
impellente.

Dio che ti fai insolito pane
di anime senza attese,
cibo di una fame
diversa
che non chiede
latte o sangue
ma sorsate d’amore,
di speranza,
di condivisione.

Dio, lampada di una notte
senza luna né stelle,
notte di angosce
e di dolori,
di mute invocazioni.

Busso forte
alla tua porta o Dio,
ti tempesto
di richieste.

Dio che mai spegni
il sorriso
sul volto di questi bambini,
dona pioggia e
ristoro,
pace e riconciliazione,
pazienza e saggezza.

Conserva il sacro senso della vita
da rispettare e trasmettere
con umiltà e fiducia
qui, dove il tempo è così lento
e l’attesa infinita
ma mai priva di
speranza.

A te affido Dio
la gente di questa
savana».

Giulia
Borroni

Wamba – Kenya, marzo 2011

Francesco e rinnovamento nella Chiesa

Molte sono le novità apportate da Francesco «vescovo» di
Roma, positive, condivisibili, accattivanti. E tuttavia mi pare che il
rinnovamento della Chiesa, per la fedeltà al Vangelo meriti un approfondimento.

Egli ha subito invitato i fedeli a chiedere la
misericordia di Dio, senza stancarsi, perché essa è infinita. Dunque un
rapporto verticale tra l’uomo e la divinità, proprio comunque di ogni
religione. Ma Cristo introduce anche un altro rapporto, correlato al primo,
essenziale, cui dedica tutti i suoi insegnamenti: quello orizzontale tra l’uomo
singolo e gli altri uomini. Quest’ultimo condiziona lo stesso rapporto con Dio,
perché non è concesso ottenere da lui misericordia, se poi la si nega agli
altri e privi di compassione si calpestano i loro diritti fondamentali. Una
parabola del Vangelo è eloquente: quella in cui si parla d’un debitore che
chiede e ottiene la remissione del debito ma poi strozza, senza pietà, chi a
lui deve qualcosa. L’importanza del rapporto con gli altri uomini viene poi
sottolineata dal passo in cui Gesù afferma: «Se stai per deporre l’offerta
sull’altare e là ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la
tua offerta vai prima a riconciliarti con lui». E soprattutto là dove vengono
enunciati i criteri secondo cui saremo giudicati: avevo fame, sete, ero ignudo,
prigioniero.

È dunque chiaro che per Dio i rapporti con gli altri
uomini sono essenziali, primari; non ci può essere amore per lui se non nel suo
spirito, che dobbiamo attuare nel mondo in cui viviamo. Gesù viene in terra per
rivolgersi a tutti gli uomini, ma nello stesso tempo, pone una linea netta di
demarcazione: chi vuole seguirmi, deve conformarsi ai miei comandamenti, al mio
spirito. C’è un dovere di giustizia innanzitutto ed è chiarito dalla parabola
di Lazzaro e il ricco epulone. Il negare agli altri i propri diritti – e dunque
dare la preferenza al proprio egoismo anziché all’amore e al rispetto – pone
l’uomo al di fuori del rapporto con Dio, tra gli ingiusti, e Gesù verso
Epulone, non dimostra alcuna pietà, non gli dà alcuna chance.

Le ingiustizie, l’appropriarsi dei beni, lasciando
l’altro nella miseria, non si attuano tanto principalmente nel rapporto tra
uomo e uomo, ma soprattutto attraverso regole ingiuste imposte mediante
l’organizzazione sociale.

Don Camara affermava la necessità di chiedersi: come mai
tanti poveri?
Nella situazione
attuale, occorre aver ben presente gli strumenti mediante cui le nostre società,
che riteniamo e si dicono cristiane, realizzano l’ingiusta ripartizione dei
beni e il dominio sulla terra. Al di là delle leggi di mercato, che penalizza e
riduce alla fame chi potere contrattuale non ne ha, nonché tutti gli altri
strumenti economici che conseguono lo stesso fine, v’è qualcosa di più
terribile, immorale e devastante. La guerra in primis, attuata in forza
della propria superiorità tecnologica, usando ogni tipo di armi, le più
micidiali: gli embarghi, le destabilizzazioni, il terrorismo.

La Chiesa dovrebbe farsi una domanda: quale educazione ha
fornito ai suoi fedeli e quale contributo ha dato alle strutture che hanno
formato e formano le nostre società? Com’è possibile una devianza così
macroscopica dai comportamenti che dovrebbero discendere dal Vangelo?

Lo scandalo delle ingenti somme destinate alle armi,
quando una moltitudine di persone nel mondo sono prive di cibo e medicine.

Gesù pone altresì un’altra barriera, invalicabile: tra
Dio e «mammona». Mammona è la logica e la pratica del mondo per ottenere
successo, onori, prestigio, danaro, potere, senza alcun riguardo e a danno
delle altre persone. Opposte sono le strade volute da Dio e le logiche cui
conformarsi. La Chiesa attuale, che mette al primo posto la propria immagine,
la sostiene usando mezzi non dissimili da quelli del mondo, evitando di
guardare le sue pecche e di prendere atto dei gravissimi danni provocati, ad
esempio, col proporre «l’ingerenza umanitaria», non è in linea col Vangelo;
semmai la sua immagine deve generarsi, spontaneamente, dai comportamenti fedeli
al Vangelo e dai cambiamenti che essa riesce a realizzare nei rapporti tra gli
uomini indirizzandoli alla giustizia e all’amore.

Se la Chiesa avesse il coraggio di guardare alla sua
storia, di ricercare il perché di tanti e gravissimi peccati di cui ha chiesto
perdono, vedrebbe come questi siano stati generati dal connubio con i poteri
temporali, dalla pretesa d’usarli come braccio secolare, dal pensare che sia
compito degli stati formare dei buoni cristiani (e dunque d’esercitare delle
pressioni in tal senso ed addivenire a dei compromessi) quando tale compito è
invece della Chiesa soltanto. Non solo le politiche che attualmente gli stati
cattolici o cristiani perseguono, del tutto immorali, escludono ciò, ma nella
differenza sostanziale tra i fini e i mezzi proposti da Cristo (la libera
scelta del suo messaggio, che si pone agli antipodi del pensare del mondo), e
quelli naturali degli stati (di cui è propria la coercizione e il cui fine, nel
migliore dei casi, è quello di organizzare una buona convivenza), sta la
necessità che ciascuno dei due poteri non interferisca con l’altro.

Questo non significa che il singolo cattolico non ispiri
il suo agire in politica, l’essere cittadino, alla luce del Vangelo o che la
Chiesa non possa insegnarlo, ma senza pretendere d’imporlo a chi in essa non si
riconosce.

Giuseppe Torre
Arenano 08/04/2013

a cura del Direttore