CARLO E GERY, CUORE ASHÁNINKA

Lui è un prete e missionario, lei un’infermiera. Arrivarono in Perú dalla provincia di Caserta rispettivamente 32 e 25 anni fa. Lui opera nella selva
centrale, tra le popolazioni indigene (shipibo, asháninka ealtre) calpestate dallo stato e dalle multinazionali. Lei
lavora nella periferia urbana di Lima con la popolazione a rischio, bambini e
adolescenti soprattutto.Si chiamano Carlo e Geremia (Gery) Iadicicco, fratello e sorella. Questa è la
loro storia. Piena di sorprese.


Villa El Salvador. 
Sulla maglietta bianca scende un rosario di fattura indigena, sul viso
forte un vecchio paio di occhiali a goccia. Carlo Iadicicco, prete e missionario fidei donum, ha 67
anni, ma mette in mostra un fisico sportivo e un’energia coinvolgente che esce
prepotente dalla voce e dalla gestualità. 
Padre Carlo è di passaggio a Villa El Salvador, periferia di Lima. 

«Sono in Perú da 32 anni. A parte qualche
capatina in Italia, un breve periodo sulla costa e qui a Villa, la metà di
questi anni li ho trascorsi nella Cordigliera centrale delle Ande, in Ancasch.
Dal 1995 vivo invece nella selva subtropicale, conosciuta come bosco umido
amazzonico o selva bassa. Però, in quanto “missionario itinerante”, mi muovo in
un territorio vasto quanto l’Italia meridionale». Quell’Italia meridionale da
cui padre Carlo proviene: Bellona, provincia di Caserta. Mamma Anna e papà Ciro
Iadicicco hanno fatto le cose in grande: undici figli, di cui due emigrati in
Perú. Qualche anno dopo la sua partenza per il paese andino, Carlo è stato
infatti seguito dalla sorella Geremia detta Gery, maestra e infermiera, che a
Villa El Salvador vive e lavora.

DA GUSTAVO
GUTIÉRREZ AGLI INDIOS

«Erano gli anni Settanta ed io – racconta padre Carlo – ero
un giovane di belle speranze dentro il contesto della Chiesa. Ci fu un
terremoto devastante, che fece oltre 80 mila vittime. Io però cominciai a
interessarmi di Perú non soltanto a causa di quel tragico evento, ma anche
perché vi operava una Chiesa che faceva un cammino molto interessante,
capeggiata dal vescovo di Chimbote, mons. Bambarén1. A Chimbote c’erano le
prime conferenze di Gustavo Gutiérrez sulla teologia della liberazione2. Io ne
ero affascinato sia dal punto di vista intellettuale che umano. Qualche anno
dopo questi eventi, riuscii a farmi mandare in Perú».

Oggi padre Carlo lavora nel dipartimento di Ucayali, nella
zona centro-orientale del Perù, al confine con il Brasile. Ha una parrocchia
nella cittadina di Bolognesi, provincia di Atalaya. Tuttavia, egli si descrive
come un «missionario itinerante».

«La maggior parte della mia quotidianità la passo andando di
comunità in comunità. E ciò mi impedisce di avere una équipe pastorale, con la
quale sarebbe difficile muoversi. C’è stata anche una circostanza scatenante
che mi ha fatto pendere per questo stile di vita. È stato quando ho cominciato
a seguire un gruppo di indios – un sottogruppo di Nahua – che erano stati
cacciati dai luoghi dove vivevano da un’invasione di madereros (tagliaboschi).
Il mio primo contatto è stato invece – era il 1995 – con gli indigeni della
famiglia asháninka del Basso Urubamba e del Tambo. Da allora ho scoperto che io
potevo dare senso alla mia vita di missionario e di uomo sposando la causa
indigena». 

Per raggiungere i diversi villaggi, si muove specialmente
via lancia o canoa, percorrendo il grande Ucayali e i suoi affluenti. Oltre che
con gli Asháninka, padre Carlo lavora con gli Shipibo-Conibo, ma ha contatti
anche con gruppi di Yaminahua, Amahuaca e Cashinahua.

Spesso, almeno per le persone estranee alla tematica, gli
indigeni sono un’entità unica e omogenea. Non è così.

«Quello indigeno – spiega il missionario – è un mondo di
straordinaria ricchezza e varietà. Tuttavia, esiste una matrice comune che lo
attraversa e che lo rende differente dal nostro Occidente. Il mondo indigeno
non prevede un’esistenza fatta di accumulazione di beni. In secondo luogo, noi
occidentali, a partire dalla cultura greca e dalla filosofia socratica in
particolare, abbiamo diviso il mondo in Dio, uomini e natura. I popoli indigeni
non prevedono una divisione tanto meccanica. Al contrario, cercano una vita di
armonia con se stessi, con la natura e con gli spiriti».

Padre Carlo ha idee sue. Come quando nega l’esistenza dei
popoli isolati («un’esagerazione di etnologi e antropologi», sostiene) o quando
contesta il sistema delle Nazioni Unite sulla riduzione delle emissioni dovute
alla deforestazione3. Ma diventa serio e perentorio quando spiega le emergenze
attuali.

IL VIRUS E L’UTOPIA

«Il primo problema è il collasso dell’Amazzonia. Io non mi
iscrivo dentro il grande, rispettabile e ammirevole movimento ambientalista. Né
voglio fare del terrorismo ecologico. Io sono semplicemente un prete che vede
nella natura e nell’Amazzonia una creazione di Dio. A me interessa la vita, sia
essa umana, animale o vegetale. Il fatto certo è che la sopravvivenza delle
popolazioni indigene è legata in maniera indissolubile all’ambiente in cui esse
vivono. Tre quarti del territorio amazzonico del Perú è in concessione a
compagnie straniere che vanno ad operare direttamente su terre, territori e
risorse dei popoli indigeni».

Dal punto di vista dello sfruttamento petrolifero, la vasta
zona geografica dove opera padre Carlo corrisponde al Lotto 1264. Titolare
della concessione è la True Energy, società petrolifera a capitale canadese. «Si
sono piazzati con alcuni pozzi anche se il petrolio è di pessima qualità e
molto profondo. Con un prezzo oltre i 100 dollari al barile anche un prodotto
scadente genera profitti. Questi stanno rovinando tutto e non hanno nessun
contatto con le popolazioni indigene del luogo. Arrivano con l’elicottero,
usato per portare di tutto, fin’anche l’acqua in bottiglia per gli operai. La
mia avversione non è soltanto verso l’inquinamento ambientale, ma anche verso
un inquinamento che è etico, morale e civile».

La tracotanza delle compagnie minerarie è conosciuta. In Perú,
nulla è cambiato dopo i fatti di Bagua (i tragici scontri tra indigeni e
polizia)5 e dopo l’approvazione della legge di consultazione preventiva delle
popolazioni indigene6. Nel Perú della crescita economica su base estrattiva, il
«pericolo-tenaglia» è concreto: nel sottosuolo ci sono le risorse petrolifere,
sopra c’è il legname pregiato, in mezzo i popoli indigeni.

«Purtroppo – spiega padre Carlo -, si è diffuso un virus che
vede l’Amazzonia come un magazzino di beni da depredare. L’utopia è sempre
migliore della realtà. L’utopia ha mosso i grandi uomini, da san Francesco al
Mahatma Gandhi. La soluzione utopica sarebbe di rendere l’Amazzonia off-limits».

LA PASSIONE PER IL POSSIBILE

Se l’utopia non è praticabile (almeno per il momento), la
domanda è: cosa si può e deve fare?

«Facciamo un esempio – spiega -, comparando la situazione
del Canada e della Svezia a quella dell’Amazzonia. Da secoli il Canada e la
Svezia riescono a vendere i propri pini senza compromettere i loro boschi,
perché il Perú non potrebbe vendere il cedro e il mogano senza distruggere le
proprie foreste? Ecco, almeno uno sviluppo sostenibile di questo tipo andrebbe
perseguito. Certamente non è facile, considerando che queste imprese
transnazionali sono più forti degli stati, soprattutto di stati come il Perú».

Padre Carlo è un uomo di cultura: sa spaziare con cognizione
di causa dalla Bibbia a Gramsci. Ma è anche e soprattutto un uomo pratico che,
al cospetto della realtà, vuole poter agire concretamente. «Con Gery, ho sempre
sostenuto che la nostra filosofia deve essere dettata dalla “passione per il
possibile”. Che significa: facciamo quello che possiamo fare, partendo da
relazioni microsociali. Se cerchiamo lo scontro, dobbiamo sapere che
storicamente i poveri e dunque anche gli indigeni hanno quasi sempre perso.
L’importante è ricordare che gli indigeni non sono relitti storici. Né sono
quelli descritti da Rousseau con il mito del buon selvaggio7. Faccio un esempio
banale: se dai a un indigeno un cellulare, puoi essere certo che non se lo
scollerà dall’orecchio finché vive. Oppure si guardi ai giovani indios che
studiano in città. Quando tornano al villaggio, passano con totale disinvoltura
dall’indossare scarpe e occhiali a camminare a piedi nudi e con le frecce in
mano. Io li chiamo “pendolari della cultura”».

LA CAUSA INDIGENA È CAUSA DELL’UMANITÀ

Chiediamo a padre Carlo se, a suo parere, la causa indigena
non finisca per interessare soltanto a ristretti gruppi di persone come, ad
esempio, antropologi, etnologi e ambientalisti.

«Non lo credo. Gli indigeni sono essenziali per il mondo non
soltanto a motivo dell’ecosistema in cui essi si muovono ma anche per le
alternative di vita e di modello economico che portano avanti. Per questo ne ho
la certezza: la causa indigena non riguarda soltanto i popoli indigeni ma tutta
l’umanità».

Geremia detta Gery ha ascoltato in rispettoso silenzio la
nostra conversazione con il vulcanico fratello missionario. Ma anche lei ha
molte cose da raccontare (la sua storia qui sotto)8. Una, la più
bella tra tutte, le siede accanto. Sono Shany e Gery, sorelline asháninka, che
lei ha adottato e che ora si stringono attorno allo zio Carlo. Prete italiano
dal cuore asháninka.

Paolo Moiola
 

Note

1 – Sulla figura di mons. Bambarén si legga l’intervista La
vita prima del debito (MC, maggio 2000), a cura di Paolo Moiola.

2 – Su Gustavo Gutiérrez si leggano le interviste Gli esclusi
non si arrenderanno (MC, febbraio 1998) e Ma i giovani statunitensi mi dicono
che… (MC, dicembre 2003), entrambe a cura di Paolo Moiola.

3 – Si tratta del programma delle Nazioni Unite denominato «Redd».
Il sito ufficiale: www.un-redd.org.

4 – Sulla questione dei lotti in cui è stato suddiviso il
Perú, si legga: Paolo Moiola, Splendori e miserie del lotto 122, MC, novembre
2011.

5 – Gli scontri avvennero il 5 giugno 2009. Lasciarono sul
terreno almeno 33 morti, tra indigeni e poliziotti. Il numero reale di vittime
potrebbe però essere stato maggiore.

6 – Si tratta della Legge 29785, del 6 settembre 2011, dal
titolo di: «Ley del derecho a la consulta previa a los pueblos indígenas u
originarios, reconocido en el convenio 169 de la Organización inteational del
trabajo (Oit)».

7 – Secondo il «mito del buon selvaggio», in origine l’uomo è
un animale buono e pacifico, corrotto successivamente dalla società e dal
progresso.

8 – Le foto di questo reportage e la foto della copertina
del numero sono di Annalisa Iadicicco e Marlon Krieger:  www.annalisaiadicicco.com.

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Box:

Geremia Iadicicco
A VOLTE, LE FAVOLE SI AVVERANO

Dagli ospedali dell’Italia ai centri di salute della selva
amazzonica. Dalle scuole italiane a quelle di Villa El Salvador. Un percorso professionale
ma soprattutto di vita.

Villa El Salvador. Non diremo l’età di Geremia detta Gery
perché non sta bene. Diremo soltanto che porta benissimo i suoi anni. Quando ha
poco meno di 18 anni, parte da Bellona, provincia di Caserta, per andare a lavorare
al Nord, in Liguria, con il suo diploma di maestra sotto il braccio. Lavora
come maestra-educatrice per 5 anni in vari istituti dove, prima della riforma
della scuola, si tenevano i bambini con qualche problema. Dopo la riforma,
questi istituti vengono chiusi e Geremia decide di frequentare una scuola per
infermieri professionali all’ospedale Galliera di Genova. Ottenuta la
qualifica, per 13 anni rimane fedele al suo ruolo di infermiera-caposala. Poi
la svolta.

«In quegli anni – racconta – maturai il desiderio di
viaggiare e inserirmi in un altro contesto sociale e politico, per darmi
l’opportunità di vivere, in una forma più coerente e autentica, i miei ideali
cristiani, politici e sociali. Scelsi il Perú perché lì viveva da molti anni
mio fratello Carlo, sacerdote e missionario, con cui condividevo molti di
quegli ideali».

Gery parte da Genova 25 anni fa con la Ong Mlal (Movimento
laico America Latina), inserita in un progetto di «Salute comunitaria», che si
svolge alla periferia di Lima, in una città in costruzione chiamata Villa El
Salvador, dove tuttora vive. Negli anni successivi, lavora per diversi progetti
sociali e di sviluppo, sempre all’interno di gruppi  professionali impegnati con i settori della
popolazione più a rischio, come bambini e adolescenti. Trova aiuto e supporto
in molte persone: «Sono stata costantemente accompagnata – ricorda lei con
riconoscenza – da persone di alto valore morale e grande sensibilità sociale,
sia peruviani che italiani. Mio fratello Carlo, la mia famiglia, amiche e amici
inseparabili hanno fatto e fanno il possibile per aiutarmi – non soltanto dal
punto di vista economico – nella realizzazione dei progetti a cui mi sono
dedicata e ancora oggi mi dedico».

Gery trascorre tre dei suoi venticinque anni in Perú nella
selva amazzonica, accompagnando il fratello nella sua missione dedicata ai
nativi di varie etnie. Lavora in un piccolo progetto di salute, con i promotori
di varie comunità indigene, asháninka soprattutto. Condivide le proprie
conoscenze della medicina occidentale, ma impara anche i fondamenti della
medicina indigena.

«Questi anni vissuti nella selva furono per me i piú
significativi, soprattutto sul piano umano e personale. Dalla selva infatti
portai a Villa El Salvador il regalo più bello: una bimba asháninka a cui demmo
il nome di Shany. Aveva solo un anno, ora ne ha 16 ed è stata raggiunta dalla
sorellina Gery di 11 anni, che vive con noi da 6».

A vivere con loro c’é anche la nipote Paola, che collabora
nel programma di cui Geremia Iadicicco è responsabile. Si tratta di un progetto
educativo che si svolge nella periferia di Villa El Salvador. «Circa 13 anni fa
– racconta -, al ritorno dalla selva, insieme ad un gruppo di persone iniziammo
un lavoro con bambini e adolescenti della zona periferica della città. Era la
zona più povera, abitata da una popolazione emarginata ed esclusa. Creammo due
programmi. Il primo è formale: una scuola matea, “Arenitas del Mar”, che
adesso è anche elementare. Il secondo è invece un doposcuola comunitario –
l’abbiamo chiamato “Escuela Deporte y Vida” (Scuola sport e vita) -, aperto a
tutti i bambini, bambine ed adolescenti, che cercano uno spazio dove poter
risolvere le loro necessità: fare i compiti, stare insieme facendo sport, arte,
manualità, così come dice il nome». Questi programmi sono gestiti dal Cedec («Centro
de educación y desarrollo comunitario»), un’associazione senza scopo di lucro
di cui Gery è presidente. 

I progetti di Geremia Iadicicco e del fratello Carlo hanno
trovato l’entusiastico appoggio di molti abitanti di Bellona, loro paese
natale. Tanto che, nella cittadina casertana, sono nate due associazioni di
supporto, la recente «Pachacamac» e soprattutto «Alas de Esperanza»1.
Quest’ultima è nata come gruppo musicale che suona musica andina con strumenti
tipici della tradizione musicale latinoamericana. Quando una favola diventa
realtà, anche la musica deve essere all’altezza.

Paolo Moiola
 
Nota:1 – Il sito ufficiale dell’associazione e gruppo musicale «Alas
de Esperanza» (Ali di speranza): www.alasdeesperanza.it. Sul sito è possibile
ascoltare brani della loro musica.

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Paolo Moiola




Cari Missionari

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FILATELIA
Rev. p. Direttore,
ho letto, con piacere,
sul n. 11 di novembre 2012 che avete riesumato un’attività morta da molti anni:
la filatelia. Congratulazioni! Sono un vecchio abbonato e, in passato,
attingevo volentieri alle vostre offerte filatelico-numismatiche. So che un
tempo, con il ricavato dei francobolli, sostenevate i vostri seminaristi, sia
in Africa che in America Latina. Sarebbe bello poter continuare quell’opera
meritoria.
Mi piacerebbe anche
sapere se tra le donazioni che ricevete avete anche cartoline e buste, antiche
e modee; e i santini delle nonne, roba dell’800, e cartamoneta fuori corso.
In attesa di una sua risposta, la ringrazio per la sua attenzione. Preghiamo a
vicenda.
Gian Carlo Alessandri


Piacenza, 11/11/2012

Gentilissimi della Redazione,
nella pagina 5 della
rivista del novembre scorso ho letto la lettera di nonno Ludovico che vi fa
dono delle sue raccolte di francobolli a lui tanto care. Non sono per niente
d’accordo con le vostre risposte in merito. Pare che nonno Ludovico vi faccia
un dispiacere e che consideriate nulla la sua offerta. Se volete trasformare in
«polenta» la sua collezione dovrà essere polenta molto ma molto «biologica». Se
questo è ragionare da sacerdoti, allora! Penso che non pubblicherete questa
mia. A me basta che ci riflettiate sopra.
Bottoni Elena


Roletto, 08/11/2012

Sig. Gian Carlo,
è vero, un tempo su
questa rivista c’erano sempre delle pagine dedicate alla filatelia. Io stesso,
da studente di teologia, agli inizi degli anni settanta, cornordinavo il gruppo
filatelico del seminario attraverso il quale ci autofinanziavamo per procurarci
materiale audiovisivo per la catechesi. Poi i tempi e le regole sono cambiate,
ma l’attività filatelica non è mai morta sia perché ci sono sempre dei
benefattori che ci fanno dono delle loro collezioni, sia perché, anche tra i
missionari, chi è filatelico rimane filatelico per sempre. Noi siamo grati,
veramente, a chi ci aiuta anche attraverso i francobolli o tutti gli altri
oggetti da «mercatino» che lei menziona. Se sul numero di novembre e qui scrivo
alla sig. Elena ho dato l’impressione di disprezzare il dono del sig. Ludovico,
me ne dispiace. Non era certo mia intenzione, anzi. La mia risposta rifletteva
solo una po’ di amarezza circa la situazione della filatelia che, pubblicizzata
per anni anche come investimento sicuro per il futuro, si sta invece rivelando
un grande imbroglio ai danni degli appassionati.


Non voglio fare delle
polemiche sterili. Quanto sta succedendo ci dimostra ancora una cosa
importante: la filatelia si pratica solo per passione, non per lucro. Se poi
questa passione può aiutare chi è nel bisogno, tanto meglio. I francobolli
donati dal sig. Ludovico e da tanti altri ancora, attendono di essere
trasformati in «polenta biologica». Se qualcuno fosse interessato può scrivere
alla nostra email oppure direttamente a filatelia@missionariconsolata.it, e il
«padre filatelico-numismatico» sarà ben lieto di dare tutti i chiarimenti
necessari.

DOSSIER CONCILIO VATICANO
II

Caro p. Gigi,
uno, quando si alza il
mattino, dovrebbe iniziare la giornata con le Lodi. Io oggi ho iniziato col tuo
editoriale e ti scrivo subito. Vi ho trovato tutte cose che in teoria sapevo
già, ma il vederle lì belle, chiare, nette ecc. mi ha riempito di gioia. Il
constatare che tanti si sentono a posto, perché fanno le cose bene (preghiere
alle ore giuste, astensione dalle cai nel giorno stabilito, messa la domenica
sempre, l’elemosina quel tanto per sentirsi a posto), alle volte mi fa nascere
un po’ d’invidia. Anch’io infatti vorrei sentirmi tranquilla dentro per una
rigorosa osservanza dei precetti e essere felice e a posto davanti al Signore.
Una vita ricca di religione! Invece mai che mi riesca: le cose bene non le
faccio, e per di più la fede ogni giorno mi mette davanti delle scelte, anche
alla mia non più giovane età. Anche con i figli sovente too su questo
argomento e dico: io, come ho saputo e potuto, vi ho dato l’esempio; ora (da
tempo, perché i figli sono tutti negli “anta”) tocca a voifare prevalere la
fede sulla religione, ma non dimenticate la religione, perché, se praticata
bene, aumenta la fede e viceversa. Con i nipoti faccio lo stesso, ma è ben più
difficile. Continuo a seminare e mi dico: «Signore, io cerco di seminare al
meglio, ora irriga tu e fa’ crescere la pianta, se vuoi». Quel «se vuoi» mi
mette allegria, perché so che anche Lui è coinvolto nel mio lavoro di
educatrice, e io sono coinvolta nel Suo di creatore e redentore. Che ne dici?
Sono fuori strada?

In quanto al Vaticano II,
iniziò pochi giorni dopo il mio matrimonio ed ero alle prese con la tesi di
laurea che conseguii a febbraio mentre ero incinta della nostra prima figlia,
felice più per la creatura che portavo dentro di me che per aver raggiunto la
tanto agognata meta. Leggevo sui giornali del Concilio (ero fissa a quello di
Trento che «mi aveva opposto» ai miei compagni di scuola valdesi e al Vaticano
I che aveva proclamato ancora una volta l’infallibilità del papa), ma ero
talmente presa dal lavoro tra casa e scuola che non mi rendevo conto di quel
miracolo che stava succedendo. Papa Giovanni lo amavo molto, ma al momento non
capii la portata del suo gesto. Ma don Domenico Mosso, che allora era
viceparroco a Santa Teresina in Torino, nella seconda metà degli anni ’60, un
bel giorno ci spiegò la Messa: le parole in italiano e il significato
dell’essere rivolto verso di noi da un altare quasi circolare; ci fece cantare
e ci disse che potevamo anche mangiarci una caramella di menta per cantare
meglio e che avremmo potuto fare lo stesso la comunione (il digiuno dalla
mezzanotte era finito e ci si poteva pure lavare i denti senza timore di
ingerire l’acqua) e masticare (sic!) l’ostia! Fu allora che mi si aprì nel
cuore un canto di gioia: era finita la religione, per me cominciava la Fede.

Negli anni seguenti
tornai sui banchi di scuola, mi iscrissi all’Istituto Superiore di Scienze
Religiose, frequentai per quattro anni i corsi e la ricchezza dei testi del
Vaticano II insieme a quella delle Scritture mi riempì la vita. Imparai a
lavorare e ricercare con battisti, valdesi e metodisti, e pure con quelli della
Comunità ebraica. Allora abitavamo in San Salvario e la vicinanza di sinagoga,
chiesa di San Pietro e Paolo e tempio valdese, tutti racchiusi in un piccolo
spazio, fu di grande aiuto al lavoro insieme. Hai ragione, quando sottolinei
«l’universale e fondamentale chiamata alla santità come pienezza della vita
cristiana e perfezione della carità». è su questo punto che dobbiamo lavorare.

Bene, incomincio l’anno
sociale nella mia parrocchia piena di questa pagina/editoriale che tu mi hai
personalmente regalato. Grazie.

Paola Andolfi – email, 29/09/2012

Caro p. Gigi,
ho ricevuto tre giorni or
sono il numero di ottobre: visto il tema del dossier, mi ci sono buttato a
capofitto. Per coloro che hanno la nostra età, o giù di lì, il Concilio
Ecumenico Vaticano II ha rappresentato e rappresenta uno spartiacque tra il
prima e il dopo. Questo noi, vecchietti, lo sappiamo. Senza ulteriormente
dilungarmi, desidero esprimere a te personalmente e ai tuoi collaboratori il
mio grandissimo plauso. Una citazione particolare va a Mario Bandera: mai era
successo di leggere scritto da un altro il mio preciso e circostanziato
pensiero. Non c’è da modificare una virgola: ciò che espone nel suo contributo…
è come l’avessi scritto io! Grazie.
Ezio Venturelli – email, 30/09/2012


ESTREMISMI

È molto interessante la
rivista Missioni Consolata di novembre, soprattutto l’editoriale, il dossier
Jihad africana ed Armi low cost al suo interno. I nemici più pericolosi della
democrazia e del benessere sono i diversi gruppi estremisti, che possono
danneggiare la società. La violenza usata per promuovere la falsa democrazia,
il falso bene e il falso bene comune, corrompe dall’interno. Oggi, il mondo sta
subendo grandi movimenti di popolazioni, cambiamenti radicali, e l’assenza di
buon senso e di virtù morale e generosità, sta facendo prosperare l’egoismo e
la violenza. Il Novecento è stato il secolo del terrore e degli orrori, per
questo c’è la necessità di creare sistemi di valori forti e radicati,
altrimenti gli esseri umani vivranno in una società sempre più simile alla
distopia di «1984» di George Orwell.

Ci troviamo in una
situazione di limite, perché stiamo consumando le risorse del pianeta in modo
esponenziale. La vita è vissuta consumando e non elevando la cultura, la
spiritualità e la moralità. Per questo motivo ci sono sprechi, guerre, persone
che muoiono per fame e malattie facilmente curabili (se ci fossero farmaci a
basso costo e non ci fosse corruzione). Ci troveremo a vivere in un pianeta
ridotto a un’enorme struttura semi artificiale per creare cibo, per ospitare
edifici e per avere sistemi di mantenimento delle poche risorse che rimarranno.
Stiamo sfruttando al massimo il suolo, esaurendo il petrolio e i luoghi dove è
relativamente facile estrarre i minerali, stiamo cambiando il clima del pianeta
e avvelenando la terra, il mare e l’atmosfera in modo assai pericoloso.
Distruggendo le risorse al ritmo attuale stiamo preparando i conflitti futuri,
che si innescheranno per la sopravvivenza dei popoli e delle nazioni più forti,
quando il più spietato e il più progredito tecnologicamente sarà il vincitore.
Cosa faremo fra trent’anni quando la popolazione mondiale raggiungerà i 10
miliardi?

La cultura dello spreco,
del consumismo e dell’arraffa quello che puoi e disinteressati delle altre
nazioni e popoli, è arrivata alla fine. Se non si farà il necessario, ci
saranno eventi disastrosi per l’umanità. Cosa accadrà alla dignità umana,
quando ci saranno problemi come il poter vivere dignitosamente, quando ci saranno
grandi distese di case e catapecchie che non avranno i servizi igienici,
l’acqua potabile e non ci sarà cibo a sufficienza per tutti? Ci ridurremo come
nel film “2022, i sopravvissuti” (Soylent Green, di Richard Fleischer, 1973)?
Cordiali saluti.

Paolo Sanviti – email, 09/11/2012

STRAGE DI INNOCENTI IN
AFRICA

Si dibatte sempre sulla
morte di tanti bambini africani innocenti, ma vorrei far presente: Non esiste
la famiglia africana (le tribù sono quasi scomparse). Gli uomini africani, dopo
avere generato, lasciano la donnache si sobbarca l’allevamento dei figli come
può. L’occidente, dopo aver dato ai paesi africani i vaccini, gli antibiotici e
le medicine salvavita, doveva dare anche i profilattici; se li ha foiti,
perché non sono stati distribuiti? Non credete che le organizzazioni religiose
presenti in Africa si debbano assumere le loro responsabilità? Tuttavia, non è
troppo tardi per cambiare atteggiamento e affidarsi al buon senso! Grazie
dell’ascolto.

Elvira, email – 05/11/2012

Credo che su questo
argomento abbiamo una visione ben diversa. Il suo giudizio sulla famiglia
africana è tranciante, e se può corrispondere a molte delle situazioni che
dominano nelle periferie disumanizzate delle grandi città, non rispecchia la
realtà. La famiglia è ancora un’istituzione solida in Africa. Quanto alle
tribù, fosse vero che sono scomparse. Purtroppo il tribalismo è sempre forte ed
è ancora una delle cause di tanta violenza. In più sono arrivate anche delle
nuove tribù: i wazungu (europei), gli asiatici, i cinesi, che hanno introdotto
nuovi fattori di tensione.


L’occidente ha certo
delle responsabilità, ma di sicuro non quella di non aver dato profilattici;
anzi ne ha dati in quantità industriali. E non ha fornito solo condoms, ma
anche le cliniche per l’aborto, la sterilizzazione forzata delle donne,
l’imposizione di legislazioni contro le tradizioni e culture africane
riguardanti la famiglia, e il traffico di persone per sesso.


Quel che non ha dato,
invece, è giustizia, commercio equo, lavoro, dignità, rispetto e speranza. Si
sono «rubati» campi e acqua per fiori e ortaggi da esportazione, per cereali
destinati a bestiame da macello e i biocombustibili, per la produzione di cibo
per nazioni potenti e danarose. Si cacciano tribù dalle loro terre ancestrali per
far posto a impianti estrattivi, per costruire grandi bacini idroelettrici, per
sfruttare e distruggere foreste antichissime. Si sono imposti prezzi tali sulle
materie prime, minerali e prodotti agricoli, che i lavoratori sono ridotti a
livelli di schiavitù, obbligati a lavorare per sopravvivere senza avere le
risorse per curare le proprie famiglie: casa decente, scolarizzazione dei
figli, assistenza sanitaria e tempo libero.


Si continuano ad
alimentare guerre e violenze locali (vedi la situazione della zona dei Grandi
Laghi che, forse, ha fatto ancora notizia a fine novembre) per mantenere lo
sfruttamento selvaggio di minerali preziosi e strategici (come il coltan dei
nostri telefonini). Si dirà che è la corruzzione caratteristica dell’Africa che
causa tutto questo. Ma chi sono i corruttori? Chi davvero ci guadagna? Le
organizzazioni religiose, come i missionari della Consolata, sanno che la prima
risposta al problema della morte di «tanti bambini africani innocenti» non sono
i profilattici o l’aborto (che invece hanno un’efficacia letale nell’aumentare
le vittime innocenti), ma l’investimento nell’educazione (scuola per tutti),
nella promozione della giustizia e della pace (no alle guerre, al tribalismo,
al razzismo, sì al commercio equo), nella prevenzione sanitaria (difesa della
salute e del diritto alla vita) e nella creazione di posti di lavoro dignitoso
giustamente pagato (diritto al lavoro). Una coppia che abbia un’educazione di
base forte e un lavoro stabile su cui contare e la prospettiva di una pensione,
cercherà di farsi una casa che sia casa, non catapecchia, di mandare i propri
figli a una scuola di qualità, e, dovendo fare i conti con le proprie forze e
le proprie ambizioni, pianificherà anche il numero dei figli, che non saranno
mai più di tre o quattro.


Questa non è teoria. Sono
fatti osservati sul terreno in 21 anni di Kenya, vissuti a contatto con le
realtà più contradditorie: dalla vita tribale del Nord agli slums di Nairobi,
dai quartieri bene della nuova borghesia africana alle periferie rurali delle
regioni centrali e della Rift Valley.


Vogliamo davvero dare un
futuro ai bambini africani? Vogliamo tolglierci la paura di diventare troppi (o
meglio, che diventino troppi!) e di non aver più risorse per tutti? La
soluzione c’è: equa distribuzione delle risorse; rapporti inteazionali
controllati dalla politica e non dalle multinazionali del profitto; educazione,
salute e lavoro per tutti; meno condoms e più libri; meno armi e più medicine;
meno cliniche abortiste e più medicina preventiva; meno schiavitù e più fiducia
nelle responsabilità delle persone; meno farci giudici degli altri e più senso
di appartenenza paritaria alla stessa famiglia umana.


Il bello di tutto questo?
Che il futuro, lo vogliamo o no, appartiene agli africani che ancora credono
nella vita e nei bambini, non a noi che ci stiamo eutanasiando nel nostro
sterile benessere. Peccato che anche per l’Africa il nostro modello di vita
consumistico ed egoista sia una tentazione a volte irresistibile.

VOLONTARIATO
Buongiorno,

io mi chiamo Giulia e
sono un’assistente dentista professionale di Savona. So che non sono un medico
e non sono laureata ma mi piacerebbe comunque sapere se fosse possibile poter
dare il mio contributo. Attualmente lavoro in uno studio dentistico di Savona.
Io ho circa due mesi di ferie libere l’anno e vorrei davvero poter fare
qualcosa.

Giulia S. Savona,
30/10/2012

Ho già risposto a Giulia,
grazie alla rapidità della rete. Riceviamo spesso richieste d’informazioni da
parte di persone desiderose d’impegnarsi come volontari al servizio degli altri
nei paesi più poveri. Ci scrivono medici, infermieri e professionisti vari; ci
scrivono giovani come Giulia e pensionati che sentono di avere ancora tanta
energia e competenza professionale da condividere. Le richieste variano
dall’impegno «mordi e fuggi» del tempo delle ferie, a quello più stabile di un
servizio a tempo indeterminato o di alcuni anni. Questo è un tipo di
volontariato che è diverso da quello dei gruppi o persone singole che vanno per
un breve periodo in una missione a dare una mano per costruzioni, animazione o
altre attività spicciole. Oggi, tutte le attività «professionali», anche
volontarie, sono bene regolamentate in ogni paese del mondo, forse con
l’eccezione del Sud Sudan, per cui sono necessari permessi di lavoro e
riconoscimento locale dei titoli professionali. Per questo è importante
appartenere a organizzazioni di cooperazione internazionale competenti nel
settore. Ce ne sono tantissime in Italia. Esistono anche i laici Fidei Donum
cornordinati dalla Chiesa Italiana, e i missionari hanno i «Laici degli Istituti
missionari», il cui primo convegno si è effettuato all’inizio dello scorso
dicembre.


Non so se esista un
vademecum del volontariato missionario (tema di uno dei nostri prossimi
dossier?). Intanto continuate a scriverci, faremo del nostro meglio per
offrirvi delle risposte precise.

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Risponde il Direttore




(Cana 38 – ultimo) DAL MIRACOLO AL SEGNO

«Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra» (Gen 9,135)
Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in Cana di Galilea,
manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi discepoli».
(Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs en Kanà tês Galilàias
kài ephanèrōsen tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài autoû).

Ci fermiamo ancora su Gv 2,11 perché è un versetto inesauribile e pregnante. Nella puntata precedente lo abbiamo tradotto mettendo in seconda linea l’aspetto «miracolistico» (mentre faceva questo principio dei segni) e ponendo in risalto «la rivelazione» della gloria di Gesù che suscita la fede dei discepoli (cominciarono a credere in lui). Se questo, come crediamo, è il punto focale di tutto il racconto di Cana, significa che la narrazione ha come scopo e obiettivo due momenti: la manifestazione della gloria e la fede, come conseguenza della rivelazione. Di nuovo siamo proiettati nell’esodo, ai piedi del Sinai, dove il popolo per mezzo di Mosè «vide» la Gloria di Dio che suscitò la fede che si espresse nella professione: «Quanto il Signore ha detto, noi faremo e ubbidiremo» (Es 24,7).
Il Sinai è il monte principe, anzi «il principio» della rivelazione, la prima manifestazione «spettacolare» di Yhwh a cui partecipa tutta la natura con «tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno» (Es 19,16). Cana è un villaggio anonimo, dove Gesù pone «il principio» della sua personalità che si manifesta come ripresa del tema dell’alleanza che deve essere rinnovata. Sul Sinai Dio espose il suo Nome attraverso la Toràh; a Cana Gesù toglie il velo alla sua «Gloria», cioè alla sua personalità e consistenza ed esige un’adesione di fede.

Il «principio» dalla Genesi a Cana
A conclusione del racconto di Cana, quasi a darcene la chiave, Gv presenta il primo gesto pubblico di Gesù come «principio dei segni» (archên tôn sēmèiōn), cioè fondamento, radice, profondità di quanto segue. La conclusione del racconto di Cana richiama l’inizio del IV vangelo: «In principio era il Lògos» (en archêi ên ho Lògos) che a sua volta richiama il «principio» assoluto della Bibbia, la prima parola della Scrittura, in Genesi 1,1 nell’atto di Dio creatore: «Nel principio del “Dio creò il cielo e la terra”…» (ebraico: bereshìt barà ‘èlohim hashammàim we’et ha’arez; greco: en archê1 epòiēsen ho thèos ton ouranòn kài epì ghên).
Ci troviamo di fronte a tre «principi»: al fondamento della creazione, all’origine del Lògos e sua relazione col Padre, alla svolta della vita di Gesù che inaugura il Regno. Il primo «principio» genera la vita, il secondo «principio» svela la natura di Dio, il terzo rivela la persona di Gesù.
Nel primo «principio» Dio fa alleanza con il creato e il cosmo, umanità compresa; nel secondo «principio» è Dio stesso che prende dimora nella caducità creata (il Lògos carne fu fatto di Gv 1,14); il terzo «principio», di Cana, riporta il creato e l’umanità, attraverso il Lògos, all’«origine» della vita di relazione: all’alleanza garantita dalla Toràh del Sinai. Il creato fa da sfondo superbo all’azione di Dio, Israele fa da sfondo all’ingresso del Lògos nel tempo, l’anonimato di un comune sposalizio a Cana, villaggio senza storia, fa da sfondo alla rivelazione di Gesù, che inaugura, come è suo costume, la nuova logica di Dio, il quale sceglie «quello che è stolto per il mondo… quello che è debole… quello che è disprezzato… quello che è nulla» (1Cor 1,27-28).
A Cana, forse, la madre ha appreso l’esultanza dello spirito perché vi ha trovato «il principio» dell’umiltà della sua serva (Lc 1,47-48). La logica dell’incarnazione porta inevitabilmente il Figlio ad accettare radicalmente la prospettiva umana fino al punto di «svuotare se stesso» (Fil 2,7) della divinità, cioè della sua natura. Paolo infatti usa il verbo «ekènōsen» che ha il senso della privazione/mancanza/impoverimento. Nel momento in cui Gesù mette piede a Cana e dà inizio al «principio dei segni», Dio rinuncia per sempre alla sua onnipotenza per essere il Dio svuotato che può essere conosciuto solo nella rivelazione del volto del Figlio, volto umano e non più divino, volto opaco che bisogna indagare, scrutare, riconoscere e amare.

Dio è «pesante»
La «Gloria» che egli manifesta a Cana è solo un altro «principio» che si compirà alla fine del suo percorso, sulla croce, dove l’impotenza di Dio diventerà il fondamento della salvezza universale, quando Dio rinuncia per sempre a dare «spettacolo» a buon prezzo, scendendo dalla croce, per essere per sempre «uomo tra gli uomini», umano tra gli umani con la fatica di sopportare il limite, la ricerca e la morte. La «Gloria» che comincia a manifestarsi a Cana si compirà a Gerusalemme, cuore della fede e dell’alleanza di Israele che è il tempio della Città Santa.
In ebraico «Gloria» si dice «kabòd» (in greco dòxa) e l’idea originaria di fondo è «il peso», cioè la consistenza, la stabilità. Una persona è «gloriosa» se ha «peso», cioè se ha un essere consistente e solido; per questo l’orientale ama il «grasso»: la persona grassa è più pesante e ha più consistenza e quindi è più «gloriosa». La persona mingherlina è senza valore perché non ha «peso/essere», o quanto meno ne ha poco.
Gesù a Cana manifesta per la prima volta il suo «peso», cioè fa intravvedere la sua profonda personalità, che è solida e stabile perché suscita la reazione dei discepoli, che a loro volta si mettono in moto perché «cominciarono a credere».
La Gloria del Dio dell’alleanza nuova non può non manifestarsi sulla croce, quando l’ora di Gesù segna il tempo di Dio, perché «bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26). Mosè visse per poter vedere la Gloria del Dio del Sinai: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18), ma dovette accontentarsi di sentire Dio di striscio, anzi per «intuizione» perché non era ancora arrivata «l’ora della croce» che è la sola che segna la Shekinàh nuova di Dio in mezzo all’umanità:

«19Rispose: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te… 20Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. 21Aggiunse il Signore: “… 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere”» (Es 33,19-23).

Da Cana alla Croce, il desiderio di Mosè è compiuto perché, nel suo abitare in mezzo a noi, il Lògos si rende sperimentabile e palpabile (1Gv 1,1-4) e si offre alla nostra contemplazione: «…e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno della grazia della verità» (Gv 1,14). In altre parole, Cana è «il principio», cioè il punto fondamentale e iniziale della nuova rivelazione, che non si sostituisce a quella del Sinai, ma la riprende per portarla a compimento (Mt 5,17).
Si potrebbe dire che Cana è la chiave di lettura di tutto il vangelo e senza Cana non si può comprendere quello che segue. Tutte le parole, i discorsi, le azioni di Gesù riportate dal IV vangelo devono essere lette alla luce di quanto avviene a Cana dove Gesù apre la cantina del monte Sinai che custodisce il vino messianico e lo distribuisce a quanti sono disponibili per la purificazione e ricevere la nuova Toràh che non è più una coppia di pietre scritte, ma la persona stessa del Figlio che abolisce la distanza che impediva a Mosè di vedere la Gloria.
Ora chiunque può vedere la Gloria e misurae la consistenza e il peso, basta che «cominci a credere», cioè si apra all’incontro che segna «il principio» dell’alleanza nuova per dare inizio a un nuovo esodo che porterà non tanto a una terra da possedere, ma al Calvario, a un Dio che offre la sua vita come «principio e fondamento» del nuovo tempio di Dio: l’umanità stessa di Dio e di ogni creatura.

Il «segno» non è un miracolo
Abbiamo tante volte fatto riferimento al termine «segno», distinguendolo dal termine «miracolo» per evitare confusioni. Oggi, nonostante siamo nel terzo millennio, indugiamo facilmente al miracolistico, spesso banalizzando anche il comportamento di Dio che viviamo come proiezione del nostro agire. Per la nostra cultura, «miracolo» è qualcosa che avviene contro o almeno superando le leggi di natura e quando non abbiamo risposte immediate a situazioni o eventi, diciamo con superficialità «è un miracolo», per dire di cosa inattesa, improvvisa, impossibile.
Non solo, usiamo il «miracolo» e lo esigiamo come «prova». Per la beatificazione o la santificazione di qualcuno, si chiede «un miracolo» come prova che Dio è dalla sua parte. Se vogliamo entrare nella mente dell’autore del vangelo, dimentichiamo questo modo di ragionare «ragionieristico» che appartiene alla religione dell’efficienza e siamo disponibili a entrare nel mondo della fede che non chiede prove o miracoli da mostrare, ma cerca il Volto da contemplare.
L’autore del IV vangelo usa il termine «sēmèion» che vuol dire «segno», dove ricorre 17 volte: 8 volte nel racconto dell’evangelista che narra (Gv 2,11.23; 4,54; 6,2.14; 12,18.37: 20,30), 7 volte lo usano i Giudei per giustificarsi nella loro incredulità verso Gesù (Gv 2,18; 3,2; 6,30; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47) e 2 volte soltanto lo usa Gesù (Gv 4,48; 6,26). Se osserviamo bene, escluso uno (Gv 20,30), tutte le altre 16 volte il termine è utilizzato solo ed esclusivamente nella prima parte del vangelo, quella che appunto viene chiamata e distinta come «Vangelo dei segni», mentre la seconda parte è detta «Vangelo dell’ora». La prima parte del vangelo è propedeutica, è introduttiva alla seconda e ci aiuta a penetrare il momento drammatico della «morte di Dio», che paradossalmente diventa la vita degli uomini: è un atto creativo del nuovo Adam ed Eva che è il Regno di Dio, la Chiesa, la nuova Umanità.
Il «segno» non è un miracolo, tanto meno un gesto con cui si vuole dimostrare qualcosa. Se Giovanni avesse voluto parlare di dimostrazione avrebbe usato un altro vocabolario, come «dýnamis – potenza» o «tèras – miracolo/prodigio», anche perché in Gv 4,48 è Gesù stesso che rimprovera questo tipo di religiosità: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» e usa i due termini «sēmêia kài tèrata», distinguendo così le due parole anche da un punto di vista semantico.
Il «segno» è un indirizzo, un’indicazione, una direzione, un simbolo, una prospettiva, un modo di vedere e di pensare. Esso esige attenzione più che meraviglia, perché l’attenzione prestata al «segnale» deve condurre eventualmente a scelte di vita.
Se il «miracolo» ha l’obiettivo di colpire l’immaginario e lasciare storditi, per cui è indirizzato all’emotività, il «segno», al contrario, si rivolge alla coscienza e alla ragione, cioè al pensiero e quindi alla decisione.

Il segno, il segnale, la contemplazione
Il «segno di Cana» ci svela l’inganno delle apparenze: quello che sembrava non è e quello che non appariva si manifesta: lo sposo non è il malcapitato del racconto che resta senza vino, ma lo «Sposo» è Gesù, che dà inizio al tempo delle nozze dell’umanità sulla scia dell’alleanza incompiuta del monte Sinai.
Nel secondo «segno» che Gesù compie (Gv 4, 46-54) e cioè la guarigione del figlio del centurione romano «il segnale» sta nel fatto che Gesù si presenta non più come sposo, ma come il Dio creatore che dà la vita. Le nozze e il figlio del centurione sono i primi due «segni» e avvengono tutti e due «a Cana di Galilea», cioè nella regione che era considerata pagana. Un «segno» (le nozze) si compie in ambito ebraico e uno (guarigione) in ambito pagano.
Lo stesso paradigma avremo ai piedi della croce, dove «stanno» quattro donne ebree/credenti e quattro soldati romani/non credenti (Gv 19,23-25). È evidente che l’evangelista vuole mandarci «un segnale» di grande valenza: Gesù non è venuto solo per i Giudei, ma per tutti, e fin dal primo momento (Cana) nessuno ha escluso dalla sua prospettiva e dalla sua azione. Si afferma così il principio della fede universale.
«I segni» che Gesù compie hanno il compito di rivelarci le diverse angolature della complessa personalità di Gesù. Si potrebbe dire che «i segni» sono il nuovo monte Sinai che «svela» la vera natura di Gesù, il volto nuovo di Dio divenuto accessibile; per renderci più facile il cammino ci lascia indizi e segnali perché non ci smarriamo.
Un segno infatti rimanda sempre a una realtà ulteriore che non è sperimentabile e quantificabile. Nel vangelo di Giovanni sono riportati solo «sette segni», più uno verso cui convergono i primi sette, quasi a dire che essi sono sufficienti a esprimere la totalità (= il numero 7) della personalità del Signore. Basta avere la pazienza di «ascoltare» i segni e di seguie le tracce per imparare a conoscerlo.

Sette segni più uno
Il primo segno, l’acqua/vino delle nozze di Cana, è il «prototipo» di quelli che seguiranno e ci presenta Gesù come sposo nella nuova alleanza (cf Gv 3,29). Non ha ancora finito di porre «il primo segnale» del nuovo tempo nuziale, che già lo stesso Gesù sente l’esigenza di anticipare l’ultimo segno, «il segno dei segni»: la morte e risurrezione; scacciando i venditori del tempio che avevano trasformato la casa di preghiera in spelonca di latrocinio, Gesù sfida: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,18-19). Il segno/tempio di cui parla Gesù è il suo corpo, il luogo dove Dio viene annientato e dove l’umanità viene fecondata. Per questo possiamo dire che la morte e risurrezione di Gesù sono «il segno ottavo», l’ultimo, il compimento della storia della salvezza o meglio della salvezza che si è fatta storia.
Il secondo segno che svela Gesù è la guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4,46-54). Lo sposo ha fecondato la sposa e dona la vita al figlio che ne era privo.
Il terzo segno è la guarigione del paralitico, compiuta di sabato (Gv 5,1-9), atto sacrilego e bestemmia per la religione. È il segno che Dio si riappropria della sua prerogativa di creatore e non esita a sconfinare i limiti della religione.
Il quarto e il quinto segno sono la moltiplicazione dei pani e Gesù che cammina sulle acque (Gv 6,1-12). Il segno è duplice: per un verso Gesù si presenta come il creatore che nutre Adam e domina le acque della creazione, e dall’altra è colui che dà la nuova manna discesa dal cielo e attraversa il nuovo Mare Rosso per l’esodo verso il Regno di Dio. È per noi il segno dell’Eucaristia che è la sintesi dell’esperienza dell’esodo, ma anche l’anticipazione del Regno che viene.
Il sesto segno è la guarigione del cieco nato (Gv 9,1-41); siamo invitati a vedere in Gesù la «luce del mondo» per non fare la fine «dei suoi» che come le tenebre lo hanno rifiutato (cf Gv 1,3-5).
Il settimo segno è l’anticipo dell’ottavo: la risurrezione di Lazzaro dopo la sua putrefazione; erano infatti trascorsi quattro giorni dalla sua morte (Gv 11,17-44). È Gesù stesso che ne spiega il significato nel dialogo con Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (Gv 11, 25-26).
Alla fine della prima parte del vangelo (Gv 1-12), se abbiamo seguito i «segni» senza sperperarli in miracoli e prodigi, giungiamo a scoprire che «l’uomo che si chiama Gesù» (Gv 9,11) è lo stesso che sulla croce, morendo, «chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30), riportando l’umanità «al principio» della creazione, quando Adam ed Eva offuscarono lo spirito insufflato da Dio. Ora tutto è ripristinato, lo Spirito di Gesù anima ogni Adam perché scende da quella croce sulla madre e sul discepolo, su un uomo e una donna, sui soldati romani e sugli Ebrei, sull’umanità tutta. Ora veramente la nuova storia può cominciare. 

Paolo Farinella




BAHRAIN: REPRESSIONE IGNORATA

Abbiamo incontrato Jasim
Husain e Hadi al-Mosawi, deputati del maggiore partito di opposizione del
Bahrain, al-Wifaq.

72

On. Husain e al-Mosawi, quali sono le richieste che il
vostro movimento e la piazza del Bahrain fanno al regime?

Al-Mosawi: «La nostra è
una domanda di democratizzazione intea, di partecipazione alla gestione del
Paese e della politica. Non stiamo chiedendo la fine della monarchia degli
al-Khalifa, ma un sistema parlamentare vero e un governo che sia
rappresentativo del popolo e dei partiti, e la fine della presenza saudita, a
livello politico e militare. Vogliamo che le discriminazioni religiose, sociali
e professionali finiscano. Vogliamo media liberi e una società attiva. E la
liberazione dei prigionieri politici.

La rivolta è iniziata il
15 febbraio 2011, chiedendo riforme. Noi abbiamo sempre organizzato
manifestazioni pacifiche, non-violente, in stile gandhiano, ma il regime ha
risposto subito reprimendo, uccidendo».

Husain: «Siamo convinti
che il Bahrain sia pronto per la democrazia. Il paese ha un alto livello di
scolarizzazione. Ci sono tante persone colte, preparate, anche se molti
intellettuali sono in esilio. La democrazia arriverà, ne siamo sicuri. Il
regime attacca i manifestanti, pacifici, distrugge le moschee: ne abbiamo perse
35. Dove s’è mai visto un governo musulmano che abbatte le moschee? Le autorità
non vogliono che la nostra rivoluzione popolare continui in modo pacifico,
vogliono la violenza, così da poterci reprimere più duramente, ma noi siamo
non-violenti. Possono testimoniarlo le tante delegazioni parlamentari e
diplomatiche che arrivano in visita in Bahrain».

Qual è la situazione dei
diritti umani nel vostro paese? Husain: «Il regime si sta vendicando della
rivoluzione in corso. Un’ondata di licenziamenti ha colpito i manifestanti, sia
nel settore privato sia in quello pubblico: 4.400 tra bancari, insegnanti,
impiegati, medici, operai, poliziotti, ecc., sono stati mandati a casa per aver
partecipato alle rivolte. Licenziare come rappresaglia non è etico. Le autorità
non capiscono che ciò non è più concepibile nel mondo contemporaneo. Sono
rimaste indietro, sono arretrate, mentre la gente non lo è affatto, è colta e
non sopporta più un sistema dove un capo di governo è al potere da 40 anni e
dove le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno».

Al-Mosawi: «Il 23
novembre del 2011, il Bici (www.bici.org.bh), Commissione indipendente
d’inchiesta del Bahrain, che monitora la situazione dei diritti umani, ha
stilato un rapporto di centinaia di pagine, evidenziando una politica settaria
e discriminatoria e un uso eccessivo della forza da parte del regime nei
confronti dei manifestanti. La situazione sta peggiorando: all’inizio, le
proteste di piazza avevano motivazioni politiche. Ora sono contro le violazioni
dei diritti umani. E poi?».

In Occidente, certi media
hanno scritto che la rivolta in Bahrain è incoraggiata dall’Iran. Cosa
rispondete?

H. e M.: «Nel rapporto
del Bici non emerge questo. L’Iran non era dietro allo scoppio della rivolta
popolare. Noi portiamo avanti la nostra lotta per il cambiamento interno, senza
ingerenze estee: vogliamo democrazia, diritti e il rispetto di principi
universali, giustizia per tutti». (fine)

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Angela Lano




IL SALAFISMO: NASCITA, STORIA, IDEE

Salafismo o salafiyya è
una scuola di pensiero dell’Islam sunnita che si rifà ai «Salaf al-ṣaliḥīn» («Pii
antenati», «Predecessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani
(VII-VIII secolo): i «Sahābi» (i «Compagni» di Muhammad; i «Tābiʿūn» (i
«Seguaci»), la generazione successiva a quella del Profeta; i «Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn»
(«Coloro che vengono dopo i seguaci»), la terza generazione. Dai seguaci della
dottrina salafita, queste tre generazioni vengono considerate «modelli» da
seguire.

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Salafismo o salafiyya è
una scuola di pensiero dell’Islam sunnita che si rifà ai «Salaf al-ṣaliḥīn» («Pii
antenati», «Predecessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani
(VII-VIII secolo): i «Sahābi» (i «Compagni» di Muhammad; i «Tābiʿūn» (i
«Seguaci»), la generazione successiva a quella del Profeta; i «Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn»
(«Coloro che vengono dopo i seguaci»), la terza generazione. Dai seguaci della
dottrina salafita, queste tre generazioni vengono considerate «modelli» da
seguire.

Il salafismo originario
era un movimento autenticamente religioso, che ricercava un’antica purezza
dell’Islam, ripulita da sovrastrutture createsi nei secoli, e proponeva una
lettura né troppo letteralista né troppo allegorica o spirituale-esoterica del
Corano.

Figure storiche
fondamentali per i salafiti sono Ahmad ibn Hanbal (780-855), Ibn Taymiyya
(1263-1328) introdusse il concetto di «ǧihād», che
ebbe grande influenza sul radicalismo islamico moderno, e Muhammad ibn Abd
al-Wahhab (1703-1792).

Il significato moderno
del termine è collegato a un movimento di rinascita dell’Islam, avviato nel
1800 e proseguito nei primi decenni del 1900, in Egitto e in altri paesi arabi,
in reazione relazione al colonialismo occidentale, attraverso i testi e il
lavoro di grandi studiosi musulmani: Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897),
Muhammad ‘Abduh (1849-1905), fondatori del movimento culturale e politico
conosciuto come «Iṣlāḥ», riformismo islamico, e Rashid Rida (1865-1935).
È con Rida, nel 1900, in Egitto, che il movimento riformista assume
caratteristiche di maggior contrapposizione con l’Europa, e intende far
rinascere l’Islam dell’epoca del profeta Muhammad e dei suoi compagni, i pii antenati,
Salaf al-ṣaliḥīn, appunto. Da qui deriverà l’uso del termine
«Salafita».

Il salafismo si
trasformerà, negli anni successivi, sempre di più da movimento riformista,
intellettuale, aperto e tollerante, a fondamentalista. Nascerà la
«neosalafiyya», o neosalafismo, con la creazione delle organizzazioni dei
giovani musulmani («Jam‘iyyat al-Shubban al-muslimin») e la Fratellanza
musulmana o Fratelli musulmani («Jamāʿat alIkhwān al-muslimīn»), fondata al Cairo nel
1928 da Hasan al-Banna, politico e religioso egiziano, iniziato al sufismo e
allievo di Muhammad ‘Abduh.

Attraverso la «da‘wa»,
richiamo all’Islam, il neo-salafismo diventerà un’ideologia rivolta alle masse
arabe diseredate, e non più solo a élite colte e intellettuali: in totale
contrapposizione al salafismo delle origini e di quello degli illuminati
al-Afghani e ‘Abduh, si trasformerà dunque in movimento «anti-intellettuale» e
conservatore. Esso diventerà espressione delle forme radicali del
fondamentalismo islamico, fino alle sue estreme conseguenze del «qaedismo» e «jihadismo»
attuali, passando per i gruppi violenti del salafismo algerino degli anni ’90.

Con il passare degli
anni, il «salafismo» è andato a delineare una galassia di gruppi e movimenti
identificantisi con il wahhabismo, fondato nel 1700 da Muhammad ibn Abd
al-Wahhab, teologo arabo della scuola giuridica hanba- analisi politica e
geo-politica del mondo arabo-islamico e globale, da un ridotto sviluppo
istituzionale, da un anti-intellettualismo, dall’indifferenza per la cultura e
da un’attenzione accentuata verso gli aspetti giuridici, materiali, e
scarsamente spirituali della fede e della vita umana.

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Angela Lano




USARE I SALAFITI, UN GIOCO PERICOLOSO

Talal Khrais è un
giornalista italo-libanese. Che racconta il conflitto siriano partendo da una
prospettiva diversa da quella occidentale.

72 La situazione in Siria è
drammatica ormai da molto tempo. Che prospettive ci sono?

«Lo scenario è cambiato.
Ci sono forti dichiarazioni della Cina contro la guerra alla Siria. E anche
della Russia, che oggi è decisamente più forte di quando cadde il Muro, nel
1989. È un paese ricco il primo produttore di gas a livello internazionale -,
grande e con un popolo che sostiene il risveglio del nazionalismo. Allora,
perché dovrebbe lasciare fare all’Occidente ciò che vuole? Un Occidente in
caduta libera, oltretutto, ed esportatore di terrorismo islamico, in quanto,
dalla Guerra fredda in poi, gli Usa hanno utilizzato il fondamentalismo
islamico jihadista come strumento per indebolire o sconfiggere il nemico – si
ricordino al-Qaida e i taliban nell’Afghanistan occupato dalle truppe
sovietiche; e si pensi ai recenti casi di Libia e Siria, dove hanno operato o
operano attualmente “ribelli” locali, forze occidentali e jihadisti. In Siria
la presenza del terrorismo è nota. Hanno aperto le porte ai jihadisti
provenienti da tutte le parti. L’Occidente può essere accusato di aver alimentato
il terrorismo islamico che ha fatto morti ovunque».

La Siria e Israele, non solo Alture del Golan…

«Il grande problema
d’Israele è che nel 2006 è cambiata la situazione militare: Hezbollah ha
utilizzato sistemi di difesa e dissuasione. Il governo di Tel Aviv aveva due
giornielli: i merkawa (famosi carrarmati di produzione israeliana, ndr) e
l’aviazione. Ma essi servono se si hanno davanti sistemi potenti. Hezbollah ha
usato razzi anti-carro: qui è iniziata la crisi israeliana, di cui ha accusato
la Siria. Erano razzi modificati in Siria. Allora, molti leader di Hamas,
Hezbollah e militari siriani sono stati uccisi negli anni successivi.
L’interesse di Israele è di privare la Siria della sua potenza, ma il suo
arsenale bellico è ancora in piedi. Washington e Tel Aviv vogliono indebolire
il regime siriano, non farlo cadere. La sua caduta creerebbe il caos».

Che relazione vede tra i
fatti di Bengazi dell’11 settembre 2012, in cui è rimasto ucciso l’ambasciatore
Usa e altre persone dello staff consolare, e la situazione in Medio Oriente?

«A mio avviso,
l’attentato di Bengazi è stata una risposta al tentativo americano di ritirarsi
dal fronte siriano, in quanto la guerra s’è trasformata in jihadista e di
scontro con la Cina».

Regime o opposizione, chi
vincerà?

«L’opposizione non ha
testa e non ha un programma. Il regime è ancora molto popolare. L’opposizione
all’estero ha poche relazioni con quella intea. A combattere sul terreno sono
i jihadisti. Ci sono zone rurali arretrate, dove si sono introdotti i salafiti
attraverso la propaganda fondamentalista e l’assistenzialismo. Nelle città,
invece, il sostegno va all’esercito.

Le zone dove si muovono
le bande armate è il confine turco-siriano. Mafie libanesi e turche si occupano
del flusso di armi e uomini. Assicurano le partenze dei jihadisti dallo Yemen,
dalla Libia, dall’Afghanistan, ecc., e li fanno entrare insieme ai profughi».

I ribelli ammazzano e
compiono atti efferati, ma l’esercito regolare bombarda…

«L’esercito usa tattiche
di assedio, per far uscire la popolazione, poi bombarda per liberare le aree
dove ci sono le bande armate dei ribelli (rimane però alto il numero delle
vittime civili, ndr). La cosa più pericolosa è la presenza dei cecchini. La
caduta del regime significherebbe islamizzazione e persecuzioni dei cristiani e
delle minoranze. Tuttavia, per far cadere il regime siriano ci sarebbe voluta
una No-flyzone, che era ciò che avevano chiesto i ribelli, senza ottenerla.

Questa situazione di
conflitto può durare anni. I cristiani sono i maggiori difensori del governo
Assad. In Siria l’appartenenza alla nazione è molto forte, e i cristiani sono
la più antica comunità. Inoltre, la borghesia cristiana teme l’islamizzazione.
Purtroppo, si sta ripetendo lo stesso scenario dell’Afghanistan: anche lì, come
detto prima, l’Occidente usò i salafiti.

Quella volta fu contro
l’Urss. Ora contro altri. Ma i salafiti sono un giocattolo pericoloso: prendono
il controllo e sfuggono di mano».

Parliamo di un altro
possibile  teatro di guerra occidentale-qatariota-saudita: l’Iran. Quale scenario
intravede nel caso di un attacco?

«Da tempo Israele
minaccia seriamente di attaccare l’Iran. Tali minacce sono accompagnate da una
politica arrogante da parte dell’Occidente. Malgrado non esista alcuna prova
della produzione nucleare iraniana, gli Usa stanno portando avanti una
strategia che si riflette negativamente sulla vita del Paese. L’Iran non ha mai
mosso le proprie truppe fuori, né è andata ad occupare altri territori né
attaccherà Israele, ma nel caso questo colpisse l’Iran si aprirebbero le porte
dell’inferno. Perché oggi la supremazia non è più l’aeronautica, ma la parte
missilistica. L’Iran lancerebbe migliaia di missili come reazione contro
Israele, e contro le basi Usa se questi dovessero collaborare con lo Stato
sionista nel mondo arabo».

Quindi l’Europa, secondo
lei, non verrebbe colpita?

«Perché colpire l’Europa
se ci sono il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia come basi americane?
L’Europa sarebbe toccata a livello economico: i prezzi della benzina e delle
assicurazioni salirebbero alle stelle.

Poi ci si chiede perché
l’Europa è così aggressiva con l’Iran che non ha le bombe atomiche e non fa
nulla contro Israele che ne ha tante. Nella guerra contro l’Iraq, gli iraniani
ebbero un milione di morti: altri di più verrebbero sacrificati contro Israele
e Usa, in caso di un conflitto. Israele è disposto ad avere tanti morti?». Come
vede l’attuale situazione egiziana, dopo la vittoria della Fratellanza
musulmana?

«C’è una contraddizione
forte nella leadership egiziana. Il presidente Mohammed Mursi deve fare i conti
con i Fratelli musulmani e con la base salafita all’interno della Fratellanza.
Da una parte, deve tenere in considerazione questa realtà, che è anti-Usa, e
dall’altra deve guardare a Russia, Cina e Iran, ma non può farlo senza
scontrarsi con i salafiti, per i quali quei tre paesi sono grandi nemici. Come
riuscirà, allora, a gestire i rapporti con gli Stati Uniti che, tra l’altro,
sono partner di Israele?».

SIRIA – scheda 1

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LA GUERRA E LA
REALTÀ VIRTUALE

Haytham Manna, presidente
all’estero del Coordinamento per il cambiamento democratico (Cnccd, meglio noto
come «National Coordination Body», Ncb),

ha dichiarato: «La
rivolta siriana è da considerarsi come parte delle sollevazioni arabe. Con una
differenza rappresentata dal ruolo del paese come bastione delle resistenze
antimperialiste. Le posizioni del Cnccd sono incentrate sul “no” all’intervento
straniero nella crisi. Una posizione diametralmente opposta a quella assunta
invece dal Consiglio nazionale siriano (Cns) favorevole all’intervento».

Per Haytham Manna la
guerra civile è il frutto sia dell’intransigenza del regime sia dell’intervento
dei salafiti nel conflitto. L’8 agosto 2011, ha ricordato, ci fu il passaggio
dalla rivolta pacifica a quella violenta: il primo ingresso dei salafiti sulla
scena politica siriana. E fu un attacco alla posizione del Cnccd (quella dei
«tre no»: all’intervento straniero, alla guerra civile, al settarismo
religioso).

I salafiti dissero che i
«tre no» sostenevano il regime di Assad e dovevano essere sostituiti da tre sì:
all’intervento esterno, alla lotta armata, alla lotta contro le minoranze,
contro i «kuffār» (i miscredenti) e quindi guerra settaria e fitna. Ma la cosa
ancora più significativa è che ai tre sì si aggiungeva la volontà di
«riconciliazione» tra l’Islam e l’Occidente. Per i salafiti lo slogan era: «Il
sangue dei sunniti è uno». Si trattava di un gruppo minoritario, cui è stato
dato molto risalto dai media arabi del Golfo, e ciò ha favorito la loro
espansione nel mondo arabo.

Manna ha anche ricordato
il complesso mosaico siriano, costituito da 26 componenti religiose, nazionali
ed etniche e che oggi lo scontro è più un conflitto internazionale che interno,
visto il peso delle interferenze straniere. Egli ha denunciato il ruolo delle
emittenti del Golfo («al Jazeera» e «al Arabiya») nel presentare la rivolta
come esclusivamente sunnita.

Secondo Manna, nessuno
dei mezzi di informazione del Golfo parla di ciò che il Coordinamento fa per
aiutare il popolo siriano e del fatto che all’interno dell’opposizione ci sono
sunniti, alawiti, sciiti, cristiani, ismailiti. E ha ricordato che lui è il
presidente del Cnccd all’estero e che ha tre vice (uno curdo, uno sciita e un
druso), mentre nella direzione ci

sono tre cristiani.
Invece le emittenti del Golfo vogliono segnalare che la rivolta è soprattutto
sunnita, istigando la guerra settaria, omettendo di spiegare che sono
rappresentate tutte le etnie e le minoranze del paese. Questa propaganda, ha
sottolineato, favorisce la guerra e impedisce ogni tipo di soluzione politica
del conflitto, perché lo pone come settario.

«Abbiamo tre
rappresentazioni della Siria: virtuale (la Rete), formata da 200 persone che
fanno credere di guidare la rivolta; mediatica, media pro-governativi e
anti-governativi (del Golfo) che non danno un’immagine esatta della realtà; e
reale: la realtà vera e propria. Quando abbiamo lanciato una proposta di
cessate il fuoco, tutte le parti hanno rifiutato».

Per Manna la natura
fondamentale della rivolta non è di tipo confessionale: «Se le milizie salafite
fossero davvero così forti, come dicono, perché fanno arrivare combattenti
dall’esterno?». A suo avviso la percezione comune dei siriani è: o si riuscirà a
vivere insieme o si perirà tutti insieme. A questo proposito ha citato il caso
di Aleppo, dove la popolazione della città non ha accolto con favore né le
milizie né l’esercito di Assad.

«Bisogna distinguere tra
lo stato (al cui interno vi sono tante persone oneste) e il regime. Una
distinzione che non fanno i Fratelli musulmani, che rappresentano la
maggioranza del Cns. Un’incapacità di distinguere che deriva anche dal fatto
che i dirigenti della Fratellanza vivono tutti all’estero dopo la forte repressione
che li colpì negli anni ’80. La transizione dovrà implicare necessariamente una
qualche forma di continuità con lo stato, non con il regime. Estremisti ciechi
nell’opposizione stanno cercando di fermare ogni relazione con gli apparati
dello stato, cercano la distruzione. Sono loro che con le loro posizioni
estremiste fanno sprofondare la Siria in una guerra civile».

Secondo Manna, il
negoziato e il compromesso sono l’unica soluzione. Dialogo, dunque, con tutte
le forze, ad eccezione di quelle che rispondono a potenze estee alla Siria. •

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SIRIA Scheda  2:

I CRISTIANI, MINACCIATI ESPULSI E UCCISI

Fino alla scoppio della
rivolta in Siria, le relazioni tra la storica minoranza cristiana circa il 10%
della popolazione e la comunità musulmana erano ottime, «esemplari» le definì
il Papa nel 2011. I cristiani occupavano posti importanti nella vita politica,
istituzionale, accademica, giuridica, culturale, ecc., del paese. Erano spesso
un «ponte», in molte città e villaggi, tra sunniti, sciiti, alawiti, drusi,
curdi, avendo buoni rapporti con tutti.

Attualmente, invece, i
cristiani sono minacciati, uccisi, espulsi. Da sempre protetti dalla famiglia
Assad, a partire dall’insurrezione violenta dell’opposizione al regime di
Damasco, essi hanno dovuto affrontare persecuzioni e massacri in quanto
ritenuti «sostenitori» di Bashar el-Assad, e per questo da eliminare o da sradicare.
A migliaia sono stati costretti a lasciare le proprie case per fuggire da
violenze e discriminazioni perpetrate da gruppi salafiti e qaedisti, presenti
nella variegata e frammentata opposizione sostenuta da Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia, Qatar e Arabia Saudita. Secondo l’agenzia del Vaticano,
«Fides», i ribelli assaltano e occupano chiese, distruggono case e fanno
pulizia etnica di tutti i cristiani dai territori da loro controllati.

Scrive Thierry Meyssan su
«Voltaire Net» (www.voltairenet.org): «La guerra contro la Siria, pianificata
da Stati Uniti, Francia e Regno Unito per metà novembre 2011, è stata bloc-

cata in extremis dai veti
di Russia e Cina, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Secondo Nicolas Sarkozy,
che aveva informato della questione il Patriarca maronita durante un burrascoso
incontro all’Eliseo il 5 settembre 2011, il piano prevede l’esclusione dei
cristiani mediorientali da parte delle potenze occidentali. In questo contesto,
in Europa ha preso il via una campagna mediatica che accusa i cristiani
d’Oriente di collusione con le dittature».

Secondo questa lettura
della crisi, l’Occidente avrebbe creato una contrapposizione politica e
religiosa tra la Cristianità occidentale (inserita in un contesto imperialista,
neo-liberista e anti-arabo) e la Cristianità orientale, vittima dei piani
neo-coloniali degli Stati Uniti, di Israele e delle petromonarchie del Golfo, e
dei loro ascari qaedisti e salafiti.

Il timore che la Siria
divenga un «secondo Iraq» per i cristiani, con chiese, abitazioni attaccate,
cittadini rapiti, ammazzati, violentati, e espulsi, è sempre più reale, grazie,
anche qui, alle gang criminali della galassia salafita-qaedista. Sono tre le
città siriane dove i cristiani hanno subito persecuzioni e pulizia etnica e sono
stati spinti all’esodo.

A QUSAYR  migliaia cristiani sono stati costretti ad
andarsene. L’area è controllata da gruppi sunniti salafiti che considerano
nemici i cristiani e altre minoranze, come sciiti e alawiti.

A HOMS, che ha sempre
ospitato una delle maggiori comunità cristiane siriane, ormai quasi tutti i
cristiani sono fuggiti: secondo diversi report giornalistici, le loro case sono
state assaltate e sequestrate da bande di «al-Qaeda»; molti sono stati uccisi.
Contemporaneamente, il governo ha bombardato la città, per liberarla dagli
insorti, provocando altri morti e altre fughe.

Ad ALEPPO e in altre
città, i cristiani sono stati oggetto di attacchi terroristici.

Scrive Franco Trad su
«al-Hiwar» (Il Dialogo) di maggio-giugno 2012: «La rivoluzione, nata pacifica
ed innocente, con richieste giuste e condivise, è stata in parte usurpata da
chi l’ha trasformata in rivolta armata che distrugge i beni del popolo siriano,
che fa pulizia etnica, che violenta le donne, uccide i bambini e sequestra le
persone per avere un riscatto». •

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Angela Lano




TUNISIA: UNA DIFFICILE TRANSIZIONE

DAL CARCERE AL POTERE
Ajmi Lourimi, filosofo e
attivista dei diritti umani, è stato in carcere durante la dittatura di Ben
Ali. Membro di en-Nahda, Lourimi spiega e difende l’azione del nuovo governo.

72

Cos’è cambiato in Tunisia
dopo la rivolta che ha rovesciato il regime di Ben Ali?

«Prima della rivoluzione,
la vita politica del paese era nulla, quella sociale era disastrosa; e i membri
dei movimenti islamici erano in carcere. Il nuovo governo sta ricostruendo
dalle ceneri: si tratta di un processo lungo. La disoccupazione è altissima:
800mila persone, cioè il 18% della popolazione lavorativa. Ben Ali ha lasciato
un paese distrutto, con un divario tra poveri e ricchi molto forte. Le zone
intee della Tunisia erano state dimenticate dal regime, ed è da lì che è
iniziata la rivoluzione.

La rivoluzione tunisina
non era né ideologica né politica e non era guidata da un
partito particolare. È iniziata improvvisamente e vi hanno partecipato tutti,
diversi strati sociali e culturali. C’erano anche i sindacati e le
associazioni, uniti sotto la bandiera della nazione. Lo scopo comune era di
mandare via il dittatore. Non è stata una rivoluzione della “fame”, anche se
c’era gente affamata. Era una rivoluzione della dignità, iniziata con la
protesta di un disoccupato: per i tunisini essere senza lavoro equivale a
essere senza dignità. Quando la popolazione ha capito che la situazione
tunisina era causata dagli errori, dalla corruzione del governo, ha deciso che
per cambiare era necessario mandare via Ben Ali, così è iniziata la rivoluzione
che in 23 giorni è riuscita a rimuoverlo.

Il prezzo in termini di
morti in Tunisia è stato molto ridotto, rispetto ad altre rivoluzioni. La
nostra è stata un esempio e una spinta per l’Egitto, la Libia, lo Yemen… Dai
primi giorni dopo la fuga del presidente, ci siamo trovati in una situazione
nuova. È stato deciso di chiudere con il passato e costruire una nuova
politica. La popolazione ha chiesto di sciogliere il parlamento e di creare un
comitato per riformare la costituzione, per la transizione e per andare alle
elezioni».

In Tunisia c’è stato un
cambiamento anche all’interno del sistema. L’esercito ha sostenuto la
popolazione in rivolta…

«L’esercito è stato dalla
parte del popolo, a differenza della polizia. È stato il garante della
protezione della rivoluzione tunisina: dopo la fuga di Ben Ali s’è creato un
vuoto nella sicurezza, che i militari avrebbero potuto riempire, ma si sono
rifiutati e hanno lasciato la gestione del potere alla parte civile. L’esercito
ha voluto le elezioni e il 23 ottobre 2011 ha protetto la gente che andava a
votare. L’affluenza alle ue è stata massiccia, e ha dato la vittoria al
movimento en-Nahda, vietato sotto Ben Ali (i suoi militanti erano o in carcere o
all’estero, esuli). La vittoria elettorale è stata del popolo, prima che di un
partito».

Tuttavia ci sono ancora
malcontenti e manifestazioni di piazza…

«I tunisini chiedono una
seconda rivoluzione, ma abbiamo bisogno di unità e non di opposizione. Siamo
d’accordo di indire nuove elezioni per la prossima primavera. I media francesi
hanno iniziato ad attaccare il governo con articoli in cui dicevano che la
Tunisia è diventata islamica, che le minoranze cristiane ed ebree sono sparite,
e che il paese è tornato indietro, che il turismo è sparito. Essi passano
l’immagine di un governo sotto il giogo del salafismo. Ciò non corrisponde al
vero. Oggi in Tunisia ci sono 125 partiti politici».

Rivolta spontanea,
pilotata o preparata da un’élite?

«Il 14 dicembre 2010
tutte le forze ribelli si sono incontrate insieme. La rivoluzione non è stata
preparata in laboratorio, scientificamente, ma è stata spontanea».

Quali sono i
problemi che deve affrontare il governo post-rivoluzione?

«Siamo alle prese con
grandi problemi. Le nostre élite intellettuali purtroppo non avevano elaborato
un’ideologia o un pensiero sulla modeità. Non c’è unanimità sul concetto di
“democrazia” e neanche sullo stesso processo democratico. Non abbiamo un
retroterra culturale come è stato per le vecchie rivoluzioni europee. Abbiamo
avuto migliaia di attivisti, di tutte le provenienze politiche e ideologiche
islamici, nazionalisti, marxisti, ecc. che tuttavia non hanno avuto egemonia
rivoluzionaria sul popolo. Durante la rivoluzione, infatti, la gente, le masse,
hanno scavalcato le avanguardie. Dopo i tragici fatti di Sidi Bouzid, nel
dicembre del 2010, la popolazione è scesa in piazza.

L’élite araba non è più
democratica dei despoti contro cui combatte. Faccio due esempi: il nazionalismo
arabo baathismo e nasserismo ha represso la democrazia; i movimenti islamici
hanno fatto lo stesso imponendo la shari’a, la legge islamica. Noi, come
en-Nahda, non riteniamo che sia una priorità l’islamizzazione della società,
quanto piuttosto la sua democratizzazione. Non abbiamo dubbi: dobbiamo
difendere le libertà e i diritti.

Ma sappiamo che il
processo democratico può durare molti anni. Per noi non c’è libertà senza
democrazia, non c’è futuro senza democrazia, non c’è islam senza democrazia.
Ciò che ci distingue dai modeisti è il fatto che loro subordinano la
democrazia alle libertà, e dai salafiti è che loro subordinano la democrazia
all’Islam. Noi riteniamo che la via democratica sia quella più breve e meno
costosa, ma non intendiamo la democrazia greca che escludeva le donne e gli
schiavi. Non ci piace la democrazia del capitale o quella della maggioranza cui
il resto della popolazione deve essere subordinato. Vogliamo una democrazia
dell’alternanza, che tenga conto di tutta la società».

Come reagisce il governo
tunisino nei confronti degli attacchi perpetrati da estremisti salafiti ai
danni di minoranze religiose?

«Nel nostro paese non
abbiamo problemi tra sunniti e sciiti: questo è un conflitto importato
dall’Oriente arabo. Dal momento che viviamo nello stesso spazio, quello che
succede in Medio Oriente ha ripercussione su di noi e viceversa. Dopo la
rivoluzione tutte le componenti della società tunisina, compresi i salafiti,
hanno avuto il diritto di esprimersi. Come movimento en-Nahda al governo, li
incoraggiamo a uscire dalla clandestinità, ma, allo stesso tempo, a rifiutare
la violenza e a rispettare i diritti degli altri. I salafiti considerano lo
sciismo un pericolo per l’unità nazionale e la sicurezza del paese, ma ciò
rappresenta un’esagerazione. La società tunisina è omogenea e la differenza di
punti di vista e di ideologia non minaccia affatto l’unità, mentre la violenza
è ben più grave del pluralismo ideologico e politico. Dobbiamo dunque essere
uniti contro la violenza da qualunque parte provenga».

Qual è il peso del
salafismo in Tunisia?

«Non ci sono elementi
estei in Tunisia. I salafiti ricevono appoggio politico da parte di alcune
associazioni o personalità del Medio Oriente e del Golfo. Sono i media e le
prediche degli ulema salafiti del Golfo a influenzare una parte della gioventù
tunisina, perché nell’era di Ben Ali l’islamismo era escluso dalla vita
politica e questo ha creato un vuoto che è stato riempito da un discorso
religioso e ideologico che non si combina con la realtà tunisina. Durante il
regime, non c’era rispetto per le libertà religiose e i discorsi religiosi
erano poco credibili e a favore del potere politico. Erano parte della
propaganda politica ufficiale, mentre le persone volevano sentire la verità e
lo spirito della religione musulmana trasmessi da gente degna.

Quello che succede ora è
il frutto di anni di regime di Ben Ali. Oggi c’è una libertà illimitata in
Tunisia e quindi tanti gruppi, salafiti compresi, pensano di fare ciò che
vogliono, anche imporre la loro visione e legge a detrimento degli altri. Il
governo vuole prima di tutto garantire la libertà di tutti, dato che è una
conquista della rivoluzione, e allo stesso tempo salvaguardare il Paese
dall’anarchia, trovando un equilibrio tra rispetto della legge e garanzie di libertà».

Veniamo ora all’articolo
28 della Costituzione e alla questione della «complementarietà» tra uomo e
donna che ha suscitato tanto scalpore in Europa. Di cosa si tratta?

«La polemica
sull’articolo 28 è nata dai media. Non è vero che esso riguarda i diritti delle
donne. Fa riferimento al diritto di famiglia, all’interno del quale viene
riconosciuto il ruolo complementare della donna e dell’uomo. Gli articoli 21 e
22 parlano invece dell’uguaglianza tra i due sessi. L’art. 21 spiega che tutti
i cittadini sono uguali e condanna la violenza contro le donne e la
discriminazione. En-Nahda difende il codice del diritto della persona stabilito
nel 1959 durante il regime di Bourguiba. La Tunisia non può tornare indietro,
ma solo andare avanti».

Qual è la posizione delle
donne nel nuovo governo?

«Penso che il problema
della donna in Tunisia non sia legislativo, ma culturale e sociale: esso ha a
che fare con la mentalità. Molte conquiste sono state realizzate a favore della
donna e non sono un regalo di nessuno, ma un risultato della lotta della donna
tunisina per essere uguale all’uomo e per preservare i suoi diritti. In Tunisia
c’è sempre una volontà politica per conservare tali conquiste, ma nessuno può
rimpiazzare la donna nella difesa dei propri diritti. Gli intellettuali
tunisini devono combattere la mentalità che ritiene che la donna non sia uguale
all’uomo o che lei sia la responsabile di problemi sociali come la
disoccupazione. La partecipazione della donna alla vita politica ed economica è
sostanziale. Possiamo dire che sia aumentata, ma non è ancora al livello delle
aspirazioni delle donne. Quindi c’è molto lavoro da fare. Nell’ambito
dell’assemblea costituente ci sono 49 donne e 42 sono di en-Nahda. Come
movimento abbiamo l’onore e l’onere di essere difensori e avvocati della donna
tunisina che ha partecipato alla rivoluzione, e non solo dell’intellettuale ma
anche di quella rurale che combatte ogni giorno per migliorare le condizioni di
vita sue e della sua famiglia».

Qual è la sua opinione
sulla guerra civile in Siria e sulla richiesta di una parte dei ribelli di far
intervenire la Nato?

«En-Nahda è contro ogni
intervento esterno nei paesi arabi, ma siamo a favore del popolo siriano che si
rivolta contro il regime di Assad. Sappiamo che sulla Siria convergono enormi
interessi geo-politici. È nostro dovere morale ed etico sostenere le
rivendicazioni della popolazione siriana».

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Angela Lano




LIBANO: LA POSIZIONE DI HEZBOLLAH

NÉ PAESI STRANIERI, NÉ TERRORISTI
(foto IRIN)

72

Ali Fayyad è parlamentare libanese e membro della direzione
di Hezbollah. Con lui abbiamo parlato di «Primavere arabe», questione
palestinese, conflitto siriano e Iran. Opinioni molto diverse da quelle
divulgate dai media tradizionali.

Qual è la sua opinione sulle Primavere arabe e sugli attuali
scenari mediorientali?

«Credo che il popolo arabo sia veramente il protagonista
delle Primavere, e non gli Usa o altri paesi stranieri. Nel mondo arabo stavamo
aspettando questo momento da anni. Quando gli arabi hanno potuto esprimersi e
decidere liberamente lo hanno fatto. Tuttavia, gli Usa sono entrati in questi
sviluppi regionali per aggiustarli, indirizzarli secondo i loro interessi. Noi
riteniamo positive le rivoluzioni arabe e chiediamo di rispettare le volontà
popolari. È possibile che ci siano stati degli errori qua e là, ma il contesto
strategico è positivo.

Noi crediamo che quella attuale sia un’era di transizione.
Il risultato che vediamo oggi non è quello definitivo. Dobbiamo aspettare. Nel
medio termine ci sono molte richieste in campo, tra cui libertà e democrazia.
Nel lungo termine ci sono questioni basilari come quella palestinese. Ora, il
popolo sta affrontando i dittatori arabi, e lo fanno per molte ragioni, tra cui
la strategia politica di queste dittature (notoriamente vicine agli Usa e
sostenitrici di Israele) riguardo alla Palestina. Gli arabi si vergognano di
ciò. Forse qualche movimento arabo ha tattiche speciali: non stanno parlando e
non si stanno comportando in modo franco, forse perché questo è un periodo di
transizione, ma non si può sfuggire dall’affrontare la questione palestinese.
Il movimento islamico presto si troverà a scontrarsi con gli Usa proprio sulla
causa palestinese».

La questione siriana
si sta rivelando sempre di più come un punto di svolta, e di rottura, nel mondo
arabo e islamico. Cosa ne pensa?

«Crediamo che quella siriana sia differente dalle altre
Primavere arabe. Bashar el-Assad non è Mubarak o altri dittatori. Lui
rappresenta la maggior parte della popolazione siriana. Ed è il principale
sostenitore della resistenza libanese e palestinese. La Siria ha la posizione
più importante sulla questione israelo-palestinese. Noi, come Hezbollah, sosteniamo
la necessità di portare avanti delle riforme, ma in modo pacifico. Tali riforme
non dovranno creare divisione in Siria, ma stabilità e unità. Noi cerchiamo
anche di salvaguardare la resistenza siriana contro Israele».

Quali sono le riforme da attuare e con quali modalità?

«Il popolo siriano deve scegliere la propria leadership
attraverso elezioni trasparenti e democratiche, che si svolgeranno nel 2014, e
non per mezzo dell’intervento di paesi stranieri».

E chi monitorerà la trasparenza di queste elezioni?

«Il popolo siriano sarà responsabile di monitorarle».
L’opposizione siriana ha tendenze e risposte diverse rispetto all’attuale
crisi…

«Non c’è una sola opposizione siriana. Ci sono centinaia di
gruppi. I più pericolosi sono i combattenti stranieri, che sono migliaia:
salafiti, takfiriti (espressione estrema e razzista del wahhabismo che
considera gli sciiti i peggiori nemici contro i quali lottare, ndr), al-Qaida,
ecc., che arrivano dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Libia, dal Golfo. Questi
stanno assassinando le minoranze, su basi settarie, e ciò sta portando alla
divisione della Siria e alla discriminazione. Israele sta agendo per dividere
la Siria: è il suo obiettivo. Gli Usa stanno lavorando per creare questo
scenario: mantenere instabile la situazione in Siria per indebolire il regime e
renderlo incapace di confrontarsi con Israele e di sostenere la resistenza
palestinese e libanese. Essi non vogliono una guerra propriamente detta, con
bombardamenti, come è avvenuto in Libia. Stanno dicendo che è difficile fare
una guerra, perché l’esercito siriano è forte. E anche la creazione di una
No-fly-zone è troppo complicata. Dunque, Israele e Stati Uniti vogliono
indebolire il governo di Damasco, ma senza far collassare lo stato. Gli Usa
temono infatti che, facendo crollare le istituzioni statali, gli islamisti
salafiti possano prendere il potere. La Siria è diventata il punto di
attrazione di salafiti provenienti dalle altre regioni mediorientali».

Come lo spiega?

«Hanno un progetto settario e sono sostenuti da diversi
paesi arabi del Golfo. Essi vogliono cambiare il regime siriano per creare un
califfato su Mediterraneo e Medio Oriente. Ci sono decine di migliaia di loro.
Il supporto logistico ed economico arriva dal Golfo. È un fenomeno molto
pericoloso che distrugge l’unità sociale dei nostri paesi e spinge indietro le
società».

Che cosa proponete per contrastare questa visione arretrata
e pericolosa?

«Non abbiamo altra scelta che salvaguardare l’unità islamica
tra sunniti e sciiti, e tra musulmani e cristiani, e promuovere la democrazia».

Ritiene possibile  una
guerra contro l’Iran?

«Se dovesse esserci una guerra contro l’Iran, per Israele
sarebbe un disastro, e così pure in tutta la regione. L’Iran ha il pieno
diritto di difendersi e di proteggere la propria sovranità contro attacchi
estei. Gli Usa hanno più volte avvisato Israele di evitare e prevenire una
guerra contro l’Iran. Leon Panetta, segretario della Difesa statunitense, di
recente ha dichiarato che Israele non ha la possibilità logistica di attaccare
l’Iran. È una chiara risposta sulla posizione Usa riguardo a questa questione».

Quali scenari regionali vede per il prossimo futuro?

«Avremo un decennio d’instabilità. Ci sono cambiamenti
strategici che necessitano di tempo. La maggiore sfida è quella di
salvaguardare l’unità dei paesi arabi e islamici e sostenere la resistenza
palestinese. La questione siriana è un tentativo di distrarre l’attenzione
dalle politiche israeliane e di creare contrapposizione e conflittualità nel
mondo islamico tra le varie etnie e correnti religiose».

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Angela Lano




FRATELLI MUSULMANI, FRATELLI DI POTERE

Le cosiddette «Primavere arabe» si sono trasformate in
«Autunni» o addirittura in «Invei» (come dimostrano le proteste egiziane di
fine 2012). I veri vincitori non sono le masse giovanili, ma i movimenti
organizzati attorno alla «Fratellanza musulmana» e ai «neosalafiti». Con alcuni
protagonisti più o meno occulti: Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Israele e
Stati Uniti. E una serie di rivolte «non accreditate» (Bahrain, Arabia Saudita,
Yemen) né dalla comunità internazionale, né dai media.

72

Le «Primavere arabe», definizione sentimentale, e poco
realista, hanno deluso le aspettative dei loro stessi promotori, i giovani, e
si sono presto trasformate in «Autunni» o, peggio, in «Invei». Esse sono nate
dalle spontanee ribellioni di masse giovanili esasperate da corruzione,
clientelismo, dispotismi di presidenti a vita (sostenuti dall’Occidente) e di
caste arabe dure a morire: un’onda tendenzialmente sovvertitrice di un «sistema
tribale» (malattia endemica del mondo arabo), partita dalla Tunisia e con
effetto domino arrivata fino in Bahrain e Arabia Saudita. Tuttavia, prive di
un’ideologia e di una strategia politica tali da permettere loro di essere
definite «rivoluzioni» e di un sostegno economico capace di farle competere, in
campagna elettorale, con i potenti mezzi dei movimenti islamici, le «Primavere»
sono state sopraffatte da questi ultimi. In queste pagine, proveremo a
ripercorrere e interpretare i fatti e le situazioni (tutte le fonti a termine di questo articolo).

LE RIVOLTE NON SONO TUTTE EGUALI

Ogni rivolta ha dinamiche ed esiti differenti: quelle in
Tunisia ed Egitto, autentiche sollevazioni popolari di massa, non sono
paragonabili alla libica. Per questa si è infatti trattato di un golpe pilotato
dalla Nato in collaborazione con gruppi di oppositori al regime di Muammar
Gheddafi residenti all’estero, con mercenari al servizio degli Usa e jihadisti
e qaedisti al soldo dell’Arabia Saudita.

Per la Siria, con maggiori difficoltà di riuscita, almeno
finora, la strada che si sta seguendo è la stessa della Libia. Sebbene nata
come opposizione non-violenta di una parte della popolazione al lungo regime
degli Assad, la rivolta si è presto trasformata in uno scontro armato e cruento
tra l’esercito regolare governativo e un insieme di forze variegate (oppositori
locali, mercenari, jihadisti di professione assoldati da forze straniere)
pronte a tutto. Un’altra storia sono, infine, le ribellioni in Bahrain e Arabia
Saudita, volutamente dimenticate dai media, perché contro regimi «amici» e
finanziatori delle altre «Primavere», e quella nello Yemen.

DITTATORI, ISLAMOFOBIA, ALLEANZE

Proprio osservando gli sviluppi di ciascuna protesta
popolare araba, ci si sta accorgendo di come il vento del cambiamento abbia
fatto veleggiare speditamente una nave con a bordo islamisti (Fratelli
musulmani e «neosalafiti»), Stati Uniti, Israele, Qatar e Arabia Saudita. Tutti
e quattro, questi ultimi, sostenitori a vario livello del fondamentalismo
islamico, in quanto strumentale ai loro progetti di destabilizzazione e
ridefinizione del Vicino e Medio Oriente.

Sebbene l’Occidente in generale, e in particolare gli Stati
Uniti, siano stati colti di sorpresa dalle rivolte arabe, poiché non previste
in tempi così brevi, esse sono state presto utilizzate all’interno di un piano
di «Nuovo ordine del Medio Oriente».

Stiamo parlando della seconda fase del progetto iniziato a
fine anni ’90 e passato attraverso la tragedia delle Torri Gemelle e delle
guerre in Afghanistan e Iraq, e ora, appunto, attraverso il dirottamento e la
manipolazione delle «Primavere». Gli Usa non potevano, infatti, continuare a
dominare il Mediterraneo e la regione mediorientale usando solo l’arma
dell’islamofobia, come avevano fatto nel decennio precedente: l’amministrazione
Obama, definita «islamofila» dai suoi avversari repubblicani e neo-con (si
ricordi il discorso del neo-eletto presidente americano al Cairo, il 4 giugno
del 2009: reperibile su YouTube), aveva ora bisogno di cornoptare le leadership
dei movimenti islamici (dati per vincenti nelle elezioni dei vari paesi) e i
dirigenti musulmani in Europa. Incontri ufficiosi, poi divenuti ufficiali, con
la Fratellanza musulmana erano in corso già da tempo, e si sono infittiti
durante le rivolte. Per quanto riguarda, invece, le diverse organizzazioni del
neosalafismo, dalla creazione di al-Qaida (durante la guerra fredda con
l’Unione Sovietica) in poi, esse sono sempre state funzionali alle politiche
statunitensi nel mondo islamico.

Nella Libia devastata dal colpo di stato contro il dittatore
Gheddafi e dalla guerra tra bande attualmente in atto, il caos politico e la
mancanza di una leadership riconosciuta, nel bene o nel male, da tutta la
popolazione, sono le orde qaediste, cioè quell’accozzaglia di jihadisti di
mestiere, ad aver davvero guadagnato: esse sono state sdoganate e ora
scorrazzano felici (prima c’erano, ma erano meno liete, in quanto contenute e
spesso perseguitate) in varie regioni africane (si veda in Mali, come ben
spiegato nel dossier MC di novembre 2012), seminando distruzione, aggredendo
cristiani e minoranze religiose islamiche (sufi e sciiti, ad esempio) e
radicando fobie ignoranti. L’amministrazione statunitense, con i suoi tanti
think tank ed esperti, ha saputo cogliere l’onda di cambiamento delle piazze
arabe e ha scaricato i vecchi amici, i dittatori tunisino e egiziano, ormai
impresentabili e troppo compromessi, e ha stretto alleanze tattiche con la
Fratellanza musulmana e i suoi alleati/concorrenti salafiti.

In Egitto, all’inizio della rivolta, i Fratelli erano
rimasti in disparte, a osservare i giovani e le forze politiche laiche, di
sinistra e liberali, manifestare nelle piazze contro Mubarak e il suo sistema
corrotto. Solo in un momento successivo si sono uniti alla lotta popolare,
sapendo di avere le carte giuste per ascendere al potere, dopo anni di
persecuzioni.

I salafiti, invece, avevano avversato le ribellioni, in
quanto «sovvertitrici di un ordine costituito», per poi cavalcarle, come gli
altri, fino a godee i frutti politici e parlamentari.

NEOLIBERISMO IN SALSA ISLAMICA

L’Occidente neoliberista ha intravisto nei movimenti
islamisti (collocati nella «lista nera») degli alleati tattici per ridisegnare
il Mediterraneo e il Medio Oriente. Con i nuovi interlocutori c’è, infatti, una
comunanza di vedute a livello religioso fondamentalista ed economico: i
Fratelli musulmani apprezzano la dottrina economica del capitalismo
neo-liberista, rappresentando gli interessi di una potente borghesia
medio-alta, costituita da industriali, professionisti e commercianti. Infatti,
uno dei primi passi pubblici del milionario Khairat alShater, capo dell’ufficio
economico dei Fm e tra i fondatori del partito «Giustizia e Libertà» arrivato
al potere in Egitto, è stato di rassicurare Usa ed Europa sulla loro agenda
economica neo-capitalista e di libero mercato, in quanto «unico modello» per
garantire una veloce crescita del paese. Dunque, non si tratta di
rivoluzionari, come ritiene la vulgata.

Seppur nati come movimento di riforma religiosa e sociale,
molto attento ai bisogni dei ceti più deboli, che hanno sempre sostenuto
attraverso politiche di assistenza sociale radicata capillarmente sul
territorio (sia in Egitto sia in Palestina sia in altre nazioni), i Fratelli
hanno consolidato, negli ultimi decenni, la loro base politica tra la ricca
borghesia religiosa conservatrice. Distribuendo servizi fondamentali –
scolastici, assistenziali, sanitari, alimentari – e catechesi islamica, a una
massa di poveri senza speranza, hanno ottenuto negli anni un appoggio politico
ed elettorale rilevante.

CHI VUOLE LA GUERRA ALL’IRAN

La nuova fase della politica statunitense verso il mondo
musulmano non deve, però, trarre in inganno: l’alleanza tra Usa e islamismo è
solo tattica. C’è una strumentalizzazione reciproca e consapevole. I movimenti
islamisti, a partire dalle rivolte arabe, e soprattutto con le guerre in Libia
e Siria, stanno usando la forza militare occidentale (Stati Uniti, Nato,
squadroni e commando addestrati dalla Cia, ecc.) per raggiungere i loro
obiettivi di conquista del potere e rovesciamento selettivo (non tutti, cioè)
di regimi dispotici loro avversi, laddove, appunto, sanno che non ci
riuscirebbero dal «basso», con le sole rivolte di piazza, non-violente e
idealiste, o come in Marocco vincendo le elezioni (anche qui, come in Turchia,
il partito «Giustizia e Sviluppo») senza ribellioni o scontri.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, l’islamofobia è
sempre in agguato, e il pessimo e squallido video artigianale sulla vita del
profeta Muhammad, «L’innocenza dei musulmani», diffuso su YouTube a settembre
del 2012, ne è una delle tante prove. Esso aveva l’obiettivo di provocare l’ira
dei musulmani, feriti dalle gratuite offese al profeta dell’Islam, adducendo
nuovi pretesti per lo «scontro di civiltà» e per la guerra contro l’Iran, che
una parte delle amministrazioni statunitense e israeliana vorrebbero scatenare.
Proprio su quest’ultimo conflitto e sulle politiche da adottare verso l’Islam e
il mondo arabo, la dirigenza americana, e quella d’Israele, sono in conflitto interno
tra «falchi» e «colombe». Coerentemente con le strategie belliche dei loro
predecessori (la famiglia Bush), i neocon Usa auspicano aggressioni e lo
scontro diretto per realizzare le loro politiche imperialiste. La fazione
obamiana, che ha dimostrato di amare la violenza e le guerre tanto quanto i
suoi rivali si pensi all’uso disinvolto dei droni in Afghanistan e Pakistan, ad
esempio, e il golpe Nato contro la Libia -, adotta semplicemente metodi e
strategie diverse: utilizza e manipola i musulmani, siano leader o popoli
arabi.

FAMIGLIA AL-SAUD E STRATEGIE

Nella sua lunga e dettagliata analisi sulle ragioni di quel
filmetto a basso costo, Mahdi Darius Nazemroaya, ricercatore di geopolitica
presso il canadese «Centro di ricerca sulla globalizzazione», spiega: «La
tempistica dell’uscita su YouTube del trailer de “L’innocenza dei musulmani”,
un film di piccola produzione che insulta il profeta Muhammad, non è solo una
coincidenza. La data dell’11 settembre è stata scelta appositamente per
l’associazione simbolica con i musulmani che viene fatta in maniera sbagliata e
assurda da coloro che percepiscono gli attacchi come un crimine collettivo di
tutti i praticanti islamici. Lo scopo di questo film offensivo è di
incoraggiare l’odio e la divisione incrementando il divario tra i cosiddetti
mondi occidentale e musulmano.

«L’uscita del film oltre ad aspirare alla divisione del
mondo è anche legata alla propaganda anti-Iran e al conflitto interno nella
politica estera statunitense. Israele ha un ruolo fondamentale nella divisione
intea tra le élite statunitensi e nell’antagonismo contro Teheran. L’analisi
del ruolo israeliano non dovrebbe essere svolta solo su una base nazionale che
vede Israele e Usa separatamente, ma anche dal punto di vista internazionale,
in cui riconoscere l’esistenza di alleanze tra gruppi diversi di élite
nazionali che vanno oltre i confini dei singoli stati».

«Non è certo per caso che una massiccia campagna
pubblicitaria islamofoba, legata ai sostenitori dell’occupazione del suolo
palestinese e della guerra Usa-Israele contro l’Iran, sia stata intrapresa e
intensificata in concomitanza con l’uscita del video su YouTube. Si tratta di
un costante assedio all’immagine dei musulmani. In breve queste campagne mirano
a rimodellare il Medio Oriente».

Come è ormai noto, le grandi manifestazioni musulmane
organizzate nelle piazze di molte capitali mondiali sono state orchestrate,
almeno in fase iniziale, dal clan della famiglia Al-Saud (la dinastia al potere
in Arabia Saudita) a Washington. Famiglia che, anche questo è risaputo,
sostiene economicamente i gruppi neo-salafiti in Egitto, Libia, Siria e in
altre regioni asiatiche e africane, che stanno collaborando con Stati Uniti,
Qatar e Israele, con il benestare di una parte della leadership della Fratellanza,
a creare un nuovo assetto si legga «destabilizzazione» del Mediterraneo e del
Medio Oriente, dopo aver infiltrato, manipolato e dirottato le primavere arabe.

ERDOGAN, IL NEO-OTTOMANO

Lo scenario geopolitico mediterraneo e mediorientale si sta
dunque configurando su nuove guerre di rapina delle risorse da parte
dell’Occidente, e di potere e conquista politico-religiosa da parte degli
alleati tattici arabi e musulmani (sunniti).

Questi ultimi sembrano avere un progetto di neo-califfato
che va dal Nordafrica, con appendici subsahariane, al Vicino e Medio Oriente.
Gli attori che si spartiscono la scena, come abbiamo accennato sopra, sono la
Fratellanza musulmana e la variegata e discussa galassia del neo-salafismo.

Tuttavia, uno dei co-protagonisti è anche la prospera Turchia,
che sotto la direzione del partito «Giustizia e Sviluppo» del presidente Recep
Tayyip Erdogan, emanazione anch’esso della Fratellanza, ha fatto passi da
gigante, dal punto di vista economico e sociale, e ha offerto al mondo islamico
una via di sviluppo da seguire.

Il cambiamento della propria politica estera, rispetto al
lungo periodo laico kemalista, la vede impegnata maggiormente nelle aree che
storicamente facevano parte dell’Impero Ottomano; tale aspirazione neo-ottomana
la porta a una rivalità geopolitica con un’altra antica e illustre nazione
mediorientale: la Persia, anch’essa musulmana non araba, e altrettanto
interessata al ruolo di guida del risveglio islamico in corso.

Le ambizioni regionali da una parte e la partecipazione alla
Nato dall’altra, fanno sì che il Paese anatolico prenda parte, a livello
militare e strategico, al war-game statunitense-israeliano, e salafita, e trascini i già più che convinti leader sunniti nella
conflittualità contro la Siria e, per ora, nelle schermaglie contro l’Iran.

SUNNITI CONTRO SCIITI

Osservando gli eventi in corso sembra che il mondo islamico
sunnita (almeno una parte di esso) stia andando alla «guerra», in senso
politico, e religioso (questo fattore non deve essere dimenticato, in quanto è
altrettanto determinante), contro la fazione minoritaria, lo sciismo. Lo si
nota negli articoli che  appaiono nei
media arabi, nei social network, nei discorsi dei politici, dove spesso
emergono attacchi, critiche, denunce, a vario livello, contro la corrente
storicamente rivale e considerata «eretica» e contro l’Iran.

Nelle chiacchierate informali con leader o rappresentanti
locali sunniti, in Europa come nel mondo arabo, emerge la loro contrapposizione
agli «altri», gli sciiti, ritenuti «infidi», «dal doppio discorso», in quanto
«fuori dall’ortodossia». Ecco dunque che il piano religioso irrompe con
prepotenza e interseca, giustificandolo, quello politico-strategico e bellico:
per un fondamentalista sunnita, infatti, uno sciita è più «kāfir» (miscredente)
di un ebreo, di un cristiano o di un buddista, in quanto reo di «deviare» dalla
sunna, la tradizione musulmana.

Per un neosalafita jihadista o un qaedista egli è degno di
morte: fare la guerra quindi contro coloro che deviano dall’ortodossia è lecito
e incoraggiato. Di qui, la motivazione politico-religiosa per la presenza di
al-Qaida in Siria (gli Assad sono alawiti) e per l’animosità contro l’Iran.

Paradossalmente, dunque, in quest’epoca di «scontro di
civiltà», i nemici della corrente maggioritaria dell’Islam non sono le
politiche di conquista americane e israeliane, sempre più sottili e incisive,
che stanno mettendo sottosopra il Vicino e Medio Oriente e la Palestina, o la
deriva neosalafita che proietta indietro di secoli il mondo musulmano, ma i
loro fratelli/antagonisti «eretici».

Della fitna (prova, litigio, scontro, fino al significato di
guerra civile) contemporanea, scaturita all’interno del mondo islamico, fanno
parte il conflitto mediatico, politico e militare, in corso contro il regime
siriano e quello ipotizzato contro l’Iran. Questa risistemazione di alleanze
tattiche e strategiche include la decisione dell’ottobre 2012 dell’Ufficio
politico di Hamas, la cui sede era a Damasco fino a pochi mesi prima, di
schierarsi ufficialmente contro il governo di Assad, attirandosi molte
critiche. Non è estraneo certamente a tale scelta radicale del movimento di
resistenza islamica il fatto che ora sia ospite del ricco e potente (e
interferente) Qatar.

Che in Siria ci sia bisogno di risolvere urgentemente la
crisi in corso ormai da un anno e mezzo, e con strumenti interni e non estei,
è evidente, ma che la strategia «atlantica» scelta da Hamas sia vincente è
tutto da vedere.

La lacerazione intra-islamica è stata (momentaneamente)
ricucita durante l’operazione di guerra israeliana contro la Striscia di Gaza
(14-21 novembre 2012), che ha visto gran parte del mondo arabo e musulmano
unito a sostegno dei palestinesi bombardati del regime di Tel Aviv. Dal punto
di vista concreto, da parte araba c’è stato ben poco, ma le prese di posizione
e il vortice di riunioni, incontri e pressioni hanno indubbiamente giocato a
favore di una tregua.

LA POSTA IN GIOCO

In tutto questo complicato, contraddittorio e nebuloso risiko,
dove le ribellioni accreditate ufficialmente sono quelle mediterranee e
vicino-orientali (con altre, altrettanto importanti, lasciate in disparte o
misconosciute, come quelle in Bahrain, Arabia Saudita, Yemen), la posta in
gioco sono la Palestina, la Siria e l’Iran. Tutte e tre strategicamente
fondamentali per le politiche neo-imperialiste e per le aspirazioni turche.
Siria e Iran probabilmente riusciranno a non soccombere per capacità intee,
potenza militare e politica, e per il sostegno di Russia e Cina, contrarie a
ogni intervento militare. A perdere saranno le popolazioni arabe, i giovani,
soprattutto, che non vedranno le primavere cui avevano diritto e per cui
avevano lottato morendo in tanti nelle piazze delle rivolte. E sarà la
Palestina l’altra grande sconfitta. Non ci sarà uno Stato palestinese degno di
questo nome: la Cisgiordania e Gerusalemme stanno perdendo terra in modo
esponenziale, anche grazie alla grande distrazione di massa offerta dalle
rivolte arabe, che distolgono l’attenzione da Israele che sta spingendo
l’acceleratore sulla colonizzazione della Palestina storica. La Striscia di
Gaza non sta affatto meglio ora che in Egitto ci sono i Fratelli, che non hanno
aperto il valico di Rafah, limitandosi a promesse, affettuosi abbracci e molta
retorica.

A meno che tale traballante e pericolosa situazione non
nasconda un asso nella manica dei giocatori arabi nel grande scacchiere
geopolitico: il progetto di «neo-califfato», da stabilire una volta che i
Fratelli musulmani si saranno insediati, insieme ai salafiti wahhabiti e
jihadisti, in tutto il Nordafrica e il Medio Oriente. Un califfato che
scatenerebbe una «guerra santa» contro Israele e si rivolterebbe contro
l’alleato del momento, gli Usa.

Tuttavia, in una prospettiva globale e futura, bisognerà
capire quale direzione prenderanno i paesi arabi e se vorranno portare avanti
la fitna intra-islamica tra sunniti e sciiti, incoraggiata da Stati Uniti,
Israele e petro-monarchie del Golfo, e quanto spazio prenderanno i salafiti. Se
i giochi di alleanze e conflitti in corso andranno avanti senza soluzioni
pacifiche, ciò potrebbe portare a una vasta guerra regionale. A quel punto,
addio al califfato e alla Palestina. E lunga vita al fondamentalismo. 

72

Scheda ____________________________

I FRATELLI MUSULMANI (AL
POTERE) 
(*)

EGITTO: Ḥizb al-ḥurriyya wa l-ʿadāla, partito Libertà e Giustizia (Fratelli
musulmani), attualmente al potere e già fortemente contestati a fine 2012.

TUNISIA: Ḥarakat an-Nahḍah, Movimento
della Tendenza islamica (en-Nahda), attualmente al potere. PALESTINA:

Jihad islamico; Hamas,
attualmente al potere nella Striscia di Gaza.

MAROCCO: Hizb al-adāla wa
at-tanmia, partito Giustizia e Sviluppo, attualmente alla presidenza del
Parlamento.

TURCHIA: Adalet ve Kalkınma
Partisi -Akp (Giustizia e Sviluppo), attualmente al potere.

GIORDANIA: Fronte di azione
islamico, che ha una rappresentanza in Parlamento (pur non essendo al governo).

I SALAFITI (ALL’OPPOSIZIONE)

Esistono più di un
centinaio di gruppi salafiti nel mondo. Precursori dei salafiti jihadisti
furono i mujahidin dell’AFGHANISTAN, al tempo della lotta contro l’Unione
Sovietica.

ALGERIA: Gia («Gruppo
islamico armato») e Movimento islamico 
armato sono il braccio armato del Fis, «Fronte islamico  di salvezza». Il Gia è oggi disciolto.

ALGERIA E MAROCCO: Gruppo
salafita per la predicazione e il combattimento, ora al-Qaida nel Maghreb
islamico.

MAROCCO: Gruppo
islamico  combattente marocchino; Assirat
al-Mustaqim (La retta via).

TUNISIA: vari gruppi
salafiti.

EGITTO: al-Jihād
al-Islāmī; al-jamāʻah
al-islāmīyah; Jund Allāh (I soldati di Dio); al-Takfīr wa l-Hijra; Ansār
al-Islām. YEMEN: Esercito islamico  Aden
Abyan.

LIBIA: Gruppo combattente
islamico  libico. IRAQ: al-Qaida; Ansār
al-Islām.

GIORDANIA: Esercito di
Muhammad.

SIRIA: dopo l’inizio
della rivolta  contro il regime della
famiglia al-Assad, sono presenti al-Qaida, gruppi jihadisti vari, finanziati da
Qatar e Arabia Saudita.

ARABIA SAUDITA: è la
patria del salafismo wahhabita, di al-Qaida e di molte organizzazioni
terroristiche. Paradossalmente, questo paese oscurantista e dittatoriale è
alleato dell’Occidente nella lotta al «terrorismo islamico» che esso stesso
alleva e finanzia.

(*) Per le voci in lingua
 araba: sulla rivista si è usata la
traslitterazione ufficiale, che può non apparire totalmente corretta in queste
pagine web per questione di fonti.

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__________________________________

FONTI:

Le Monde Diplomatique (2011-2012), Al-Hiwar (Centro
Peirone, Torino), Asia News, Nigrizia, i saggi citati in bibliografia e altri
testi di geopolitica, italiani e stranieri. Mentre questo Dossier viene chiuso
(30 novembre 2012, il giorno seguente all’accettazione della Palestina come
«stato osservatore» all’Onu), sono in corso dinamiche complesse e
contraddittorie (si vedano le proteste egiziane di fine novembre 2012 contro il
presidente Mursi e i Fratelli musulmani) che rendono difficile tracciare delle linee
nette nelle alleanze e nei conflitti in atto
.

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Angela Lano




COSTRUTTORI DI PACE

Mi sarebbe tanto piaciuto poter cominciare questa pagina con una bella citazione del messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Pace 2013 (che viene ben ricordato in Amico), ma non è stato possibile perché il testo ufficiale viene pubblicato mentre noi siamo già in stampa. Questo però non impedisce di parlare di pace. Anzi, se ne deve parlare, scrivere, discutere e si deve agire sempre più, senza aspettare la benedizione dei discorsi ufficiali.
I costruttori di pace hanno la vita dura. Lo scoraggiamento è sempre alle porte, perché sembra che la natura umana voglia la pace solo a parole, mentre nei fatti investe più facilmente le sue energie nella «guerra». Ho visto lo sconforto e la delusione sulla faccia e nel cuore del vescovo di Maralal, mons. Virgilio Pante, lo scorso novembre. Se c’è una persona che ha investito tutte le sue energie per la pace è proprio lui (vedi MC 12/2012, p. 67). Da quando è vescovo, in undici anni, ha sempre lavorato, dialogato, viaggiato, sudato, danzato, bevuto tè a fiumi, mangiato carne attorno al fuoco durante incontri interminabili con anziani e giovani, ha pregato, celebrato, implorato, è stato pellegrino e nomade, è sceso nelle valli e salito sulle cime dei monti… per far crescere la pace nella sua martoriata diocesi dove, dal 1996, sembrano inutili tutti gli sforzi. Era il 13 novembre, quando una notizia, che ha appena sfiorato i nostri media, l’ha raggiunto a Torino dove si trovava per motivi di salute: ancora morti a Baragoi, oltre 40 soldati uccisi in un’imboscata dai razziatori di bestiame nella Suguta Valley, la caldissima e inospitale valle della morte. Quello di monsignore era lo stesso scoraggiamento che ha fatto rimanere senza parole i missionari che lavorano in quell’area e il cornordinatore dei programmi di riconciliazione e pace della diocesi: anni di lavoro paziente andati in fumo per un’operazione di polizia istigata da politicanti arrivisti e male organizzata da comandanti incompetenti. Il tutto ufficialmente per recuperare 480 vacche rubate dagli «altri». Non è stata la paura a zittire i missionari, ma la durezza dei cuori e l’assurdità dei giochi di potere che usano la gente spietatamente mimetizzando il tutto dietro belle parole. Risultati ottenuti: oltre 60 morti, villaggi abbandonati, fame e insicurezza, decadenza di strutture sociali e statali, aumento dell’odio tra le comunità, gente in fuga a riempire le già congestionate periferie di Maralal e Isiolo, rifugi insicuri di tanti disperati.

Occorre ricominciare da capo. Come deve ricominciare, dopo un ennesimo disastroso flash flood, quell’altro grande costruttore di pace che è fratel Argese, l’uomo che per garantire quel bene indispensabile che è l’acqua, a ottant’anni, continua a lottare con pazienza e tenacia contro avversità naturali e avidità e imbrogli umani (vedi pag. 29).
Tentati dallo scoraggiamento, ma senza mollare mai. Uomini e donne che in ogni parte del mondo sono segno, strumento e fermento di pace. Uomini e donne che, innamorati di Cristo, lo amano nei più abbandonati, schiavizzati e oppressi del mondo, siano essi i pigmei a rischio sfratto per la semplice colpa di trovarsi su terre ricchissime di minerali pregiati, o gli indios difensori di un modo di vivere alternativo, oppure le minoranze etniche e religiose schiacciate dai fondamentalismi e dai giochi di potere dei grandi; si tratti di bambini condannati a non nascere, di donne vittime della tratta per l’insaziabile mercato del sesso o di disperati che emigrano per ragioni politiche ed economiche, o di chiunque intralci progetti megaeconomici: città turistiche, dighe, centrali, agribusiness e bioenergia, fabbriche sottocosto che dir si voglia. Sono questi uomini e donne che non cercano premi e riconoscimenti, ma che aborriscono la logica degli F-35, il proliferare delle armi, il ricatto dei mercanti di morte, i tagli che si accaniscono su chi ha già meno del necessario, la crescita economica che moltiplica gli sfruttati, l’uso diseguale delle risorse.
Uomini e donne che sanno guardare avanti, con un’inguaribile fiducia nell’uomo, proprio perché hanno fede nel crocefisso e risorto Signore della Pace. Imitandolo, con la loro testimonianza, annunciano: «Stiamo in piedi, alziamo la testa, perché la nostra liberazione è vicina» (cf. Lc 21,28). Beati voi quando vi perseguiteranno.

Gigi Anataloni