Europa, Libertà sotto stress

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 07

L’attacco dell’«Inteational
religious freedom report
2012» è chiaro: «In Europa sta aumentando la
diversità etnica, razziale e religiosa. Questi cambiamenti demografici sono
talvolta accompagnati da crescente xenofobia, anti semitismo, sentimento anti
musulmano, e intolleranza nei confronti delle persone considerate “l’altro”».

La libertà religiosa nel Vecchio Continente è sotto pressione, i
casi di Russia e Bielorussia ne sono l’emblema, anche per quanto riguarda il
fenomeno delle leggi contro blasfemia e diffamazione della religione.

L’allarme
è presente fin dal titolo: «Marea montante di restrizioni riguardanti la
religione». L’ultimo rapporto del Pew Forum sulla libertà religiosa nel
mondo, uscito nell’agosto scorso con dati risalenti al 2010 è netto nel parlare
di una situazione di preoccupante peggioramento della libertà religiosa nel
mondo intero, compresa l’Europa. Un incremento significativo nel Vecchio
Continente sia delle restrizioni governative (Gri) che dell’ostilità sociale
(Shi) si è registrato in 29 dei 45 paesi che lo compongono. Grecia, Macedonia,
Ucraina, ma anche Francia, Regno Unito, Germania.

C’è più libertà religiosa in Europa che in Asia e in Medio Oriente
(si veda MC ott. e nov. 2012), ma rispetto agli europei vivono in una
libertà di credo maggiore gli abitanti dell’Africa sub-sahariana (si veda MC
ago.-sett. 2012
) e delle Americhe.

È facile immaginare che negli ultimi due anni (2011 e 2012) di
crisi economica e sociale, non indagati dal rapporto del Pew Forum, le
condizioni della libertà di credo siano ulteriormente peggiorate. Lo confermano
studi più aggioati come il «Rapporto 2012» di Acs (Aiuto alla Chiesa che
Soffre), il già citato «Inteational religious freedom report for 2011» del
dipartimento di stato Usa, l’«Annual report 2012» dell’Uscirf (United States
Commission on Inteational Religious Freedom
), le copiose notizie di
violazioni di questo diritto fondamentale, e il numero crescente di analisi,
riflessioni, interventi di studiosi, esponenti religiosi e politici di tutto il
mondo.

RUSSIA

Se nello scenario europeo sono molti i paesi che destano
preoccupazione, ce ne sono due che spiccano in modo particolare: Russia e
Bielorussia hanno entrambe un elevatissimo livello di restrizioni governative,
mentre la Russia (secondo il Pew Forum) è uno dei sei paesi nel mondo
che fa registrare il livello più alto di entrambi gli indici (di Restrizioni
Goveative e di Ostilità Sociale), l’unico in Europa. Gli altri sono Egitto,
Indonesia, Arabia Saudita, Afghanistan e Yemen.

Secondo il rapporto annuale dell’Uscirf: «Le condizioni della
libertà religiosa in Russia continuano a deteriorarsi. Il governo usa
abitualmente la legge anti-estremismo contro pacifici gruppi religiosi e
individui […]. Queste azioni, insieme alla xenofobia, all’intolleranza crescente
e all’antisemitismo, sono legate a violenze e omicidi mossi da odio religioso.
[…] Il governo russo non affronta questi problemi in modo coerente ed efficace,
favorendo un clima di impunità».

In Russia vivono circa 140 milioni di persone su un territorio
ampio 57 volte l’Italia. Benché solo il 5% della popolazione dichiari di essere
«osservante», sono almeno 100 milioni quelli che si autodefiniscono cristiani
della Chiesa Ortodossa Russa. I musulmani costituiscono la più grande minoranza
religiosa con un numero di aderenti compreso tra 16,4 e 20 milioni, la maggior
parte dei quali vive nella regione Volga-Ural, nel Caucaso del Nord, a Mosca, a
San Pietroburgo e in alcune parti della Siberia. Tra le varie confessioni
cristiane, i protestanti costituiscono il secondo gruppo dopo gli ortodossi con
circa due milioni di persone, la Chiesa Cattolica Romana il terzo con circa
seicentomila fedeli. Gli ebrei, secondo alcune stime, sono un milione, quasi
tutti concentrati a Mosca e a San Pietroburgo. I buddisti (tra uno e due
milioni) vivono principalmente nelle regioni di Buryatiya, Tuva, e Kalmykiya.

Le notizie che le varie agenzie di stampa internazionale di tanto
in tanto lanciano riguardo al tema della libertà religiosa in Russia illustrano
una situazione difficile sotto molti punti di vista, soprattutto per le
minoranze. Uccisioni di personalità musulmane nelle zone calde del Caucaso,
impedimenti alla costruzione di luoghi di culto, difficoltà di registrazione di
gruppi religiosi, negazione dei visti per visitatori religiosi stranieri,
proibizione di testi, considerati estremisti, di diversi gruppi religiosi, tra
cui i Testimoni di Geova e gli affiliati a Falun Gong, multe, sequestri di
materiali proibiti, incarcerazione per chi ne viene trovato in possesso, violenze
e vessazioni, impunità.

È Asianews a informarci sul disegno di legge contro la
blasfemia che sarà probabilmente approvato in primavera: esso propone pene
pecuniarie fino a 500mila rubli (circa 16mila dollari), e lavori forzati fino a
400 ore o detenzione fino a cinque anni per insulti pubblici alla fede,
profanazione o distruzione di oggetti religiosi.

BIELORUSSIA

Definita come l’ultima dittatura europea, la Bielorussia, pur
registrando un livello moderato di Ostilità Sociale nei confronti della religione,
è il secondo paese europeo con più elevato livello di restrizioni governative:
segno della condizione generalmente difficile delle libertà e dei diritti umani
sotto il regime di Lukashenko.

Su un territorio pari a due terzi l’Italia vivono circa 10 milioni
di cittadini bielorussi. Di questi l’80% appartengono alla Chiesa Ortodossa
Bielorussa, il 10% alla Chiesa Cattolica Romana. I rimanenti si dividono tra
non religiosi, atei, e altri gruppi religiosi: protestanti, musulmani, ebrei,
Testimoni di Geova, Hare Krishna, Baha’i, Mormoni.

Il rapporto 2012 dell’Uscirf afferma che «il potere politico in
Bielorussia è concentrato nelle mani del presidente Aleksandr Lukashenko, il
cui regime continua a perpetrare violazioni dei diritti umani. Il governo vede
nei gruppi indipendenti, comprese le comunità religiose, le sfide potenziali
per il suo dominio». E, dopo aver aggiunto che «il governo viola la libertà di
pensiero, di coscienza e di religione o le convinzioni personali attraverso
leggi e politiche intrusive», denuncia l’uso di molestie, multe, e detenzioni
contro le comunità religiose e le singole persone e l’impunità per atti di
violenza e vandalismo nei confronti dei gruppi religiosi minoritari.

Benché la Costituzione tuteli la libertà religiosa, altre leggi e
politiche generalmente applicate dal potere la limitano ostacolando e impedendo
in modo selettivo e arbitrario le attività dei gruppi religiosi diversi dalla
Chiesa Ortodossa Bielorussa.

PANORAMICA SULL’EUROPA

Per una breve panoramica sul continente che
sia in grado di dare un’idea dell’ampiezza e varietà delle violazioni (sia «istituzionali»
che «sociali») del diritto alla libertà religiosa ci affidiamo al rapporto 2012
di Acs, il quale rileva innanzitutto il fatto che negli ultimi anni i
legislatori europei hanno elaborato numerose norme, esprimendo la
preoccupazione che esse possano peggiorare le condizioni della libertà di
credo: in Francia, nel 2011, «è stato presentato il cosiddetto “Codice della
laicità” volto a regolamentare il campo della libertà religiosa. Dall’11 aprile
2011 è entrata poi in vigore la legge che vieta d’indossare il velo integrale
in pubblico, divieto stabilito anche dal governo dei Paesi Bassi sui trasporti
pubblici, negli uffici e nelle strade. La possibilità di indossare il burqa
o il niqab è stata al centro di controversie in Belgio dove preoccupa il
disegno di legge che trasforma in reato la “destabilizzazione mentale” di terzi
che rischia di spianare la strada a discriminazioni nei confronti delle
minoranze religiose». Ha fatto discutere in Svizzera il referendum che ha
imposto a larga maggioranza il divieto di costruire minareti.

Oltre a esemplificare alcuni provvedimenti
legislativi, Acs accenna a episodi di vandalismo e atti d’intolleranza nei
confronti dei cristiani in diverse città della Germania e nel Regno Unito: «Secondo
un rapporto del governo scozzese sui delitti causati da odio a sfondo religioso
nel suo territorio, nel periodo 2010-2011 ci sono state 693 imputazioni “aggravate
da pregiudizio religioso”».

Altro problema, presente soprattutto nei paesi dell’Europa
orientale, è quello della mancata restituzione delle proprietà e dei beni
confiscati alle varie comunità religiose dopo la Seconda guerra mondiale. «Tra
questi Ucraina, Romania, Slovacchia, Slovenia, Montenegro e Repubblica Ceca.
Procede con disparità la restituzione alle diverse comunità in Croazia,
giudicata colpevole dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per non aver
concesso a tre comunità religiose cristiane di godere pienamente di tutti i diritti
connessi al proprio riconoscimento, tra cui l’educazione religiosa nelle scuole
statali e il riconoscimento dei matrimoni».

Anche la diffusione di una versione intollerante dell’Islam desta
preoccupazioni in alcune aree dell’Europa, come abbiamo già visto, ad esempio,
per la zona caucasica della Russia: in Albania intimorisce la presenza di «giovani
imam formati in Turchia e in Arabia Saudita, come preoccupa la
progressiva islamizzazione di alcune aree della Bosnia-Erzegovina, a seguito di
ingenti investimenti compiuti da Iran e Arabia Saudita. Nel paese balcanico
l’identificazione “etnia-religione” genera discriminazioni sociali e
amministrative verso le minoranze, e in particolare verso i cattolici che
vivono o in zone a forte presenza islamica, o a maggioranza serbo-ortodossa.
Anche in Serbia e Kosovo, i fattori etnico e religioso sono spesso inseparabili».

LEGGI SULLA BLASFEMIA

Come già accennato per il caso della Russia,
nell’area europea è forte la tentazione di emanare leggi che ufficialmente
vorrebbero garantire la libertà religiosa e che invece rischiano di rendere più
difficile il godimento di tale diritto, soprattutto da parte delle minoranze. A
riguardo il Pew Forum ha pubblicato nel novembre scorso un’analisi che
mostra il trend mondiale ed europeo: «Diverse notizie hanno riguardato
negli ultimi mesi casi di persone perseguitate dalla giustizia dei propri paesi
con l’accusa di blasfemia: ad esempio in Grecia, un uomo è stato arrestato dopo
aver pubblicato su Facebook un post satirico nei confronti di un
monaco cristiano ortodosso». Secondo lo studio del Pew Forum il 47% dei
paesi del mondo hanno leggi o politiche che penalizzano la blasfemia,
l’apostasia o la diffamazione (il disprezzo o la critica di religioni
particolari o della religione in generale). «Dei 198 paesi studiati, 32 hanno
leggi anti-blasfemia, 20 leggi che penalizzano l’apostasia, e 87 leggi contro
la diffamazione della religione».

L’analisi puntualizza: «Nei paesi che hanno
leggi contro blasfemia, apostasia o diffamazione ci sono maggiori probabilità
di avere alte restrizioni governative sulla religione o elevata ostilità
sociale rispetto ai paesi che non dispongono di tali leggi. Ciò non significa
che queste leggi causino necessariamente un aumento di restrizioni alla
religione, ma è evidente che i due fenomeni vanno spesso di pari passo».

Per quanto riguarda in particolare le leggi che penalizzano la
bestemmia, in Europa sono presenti in otto dei 45 paesi: Danimarca, Germania,
Grecia, Irlanda, Italia, Malta, Paesi Bassi, Polonia, mentre nessun paese
possiede leggi che sanzionino l’apostasia. Le leggi contro la diffamazione
della religione invece sono più comuni: in 36 paesi su 45.

Luca Lorusso

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Luca Lorusso




Malattie di tipo virale  (Malattie sessuali – 3)

Tra le malattie sessualmente trasmesse, quelle virali sono le più
recenti, diffuse e le più pericolose. Il presente articolo conclude la serie
dedicata a questo tipo di patologie di cui si parla poco, per la delicatezza dell’argomento,
ma che sono una reale emergenza a livello mondiale.

I due precedenti articoli sono apparsi su MC 2012-11, pp. 70-73 e MC 2013-01/2, pp. 59-62.

I virus trasmissibili sessualmente
sono molteplici e alcuni di essi sono responsabili delle malattie attualmente
più diffuse e spesso a esito infausto. Tra questi abbiamo l’Hiv (Human
Immunodeficiency Virus
), responsabile dell’Aids (Acquired Immune
Deficiency Syndrome
o sindrome dell’immunodeficienza acquisita), i virus
dell’epatite virale da siero (Hbv, Hcv, Hdv principalmente), gli herpesvirus
(Hsv1 e 2), il citomegalovirus (Cmv) e i papillomavirus (Hpv).

Caratteristica comune a tutti i virus è quella di essere parassiti
endocellulari obbligati. Essi non possono essere considerati esseri viventi,
poiché per riprodursi devono penetrare in una cellula e sfruttae l’apparato
della sintesi proteica per le proteine del capside virale, cioè l’involucro
proteico che contiene il genoma virale. Quest’ultimo è costituito da Dna o da
Rna (nei retrovirus come l’Hiv). Non essendo esseri viventi, i virus non
possono essere uccisi dagli antibiotici, quindi per la cura delle patologie
virali è necessario ricorrere ai farmaci antivirali. Si tratta di solito di
farmaci che bloccano specifici enzimi virali oppure i recettori di membrana,
che permettono l’ingresso dei virus nella cellula ospite. Purtroppo non sempre
esistono farmaci efficaci, come nel caso delle patologie da citomegalovirus,
oppure può esserci resistenza ai farmaci, come in certi casi di Aids, in cui si
tenta di contenere l’infezione con combinazioni di più farmaci antivirali.

I principali virus

Vediamo ora i principali virus, che per diffondersi sfruttano,
oltre ad altre modalità, anche la trasmissione sessuale.

Il virus che più fa parlare di sé attualmente è l’Hiv, ovvero il
responsabile dell’Aids, che è stata riconosciuta come malattia a sé nel 1981. I
numeri di Hiv/Aids sono impressionanti: allo stato attuale sono più di 34
milioni al mondo le persone infettate dal virus Hiv e ci sono circa 2,5 milioni
di nuovi casi d’infezione ogni anno (dati del rapporto Unaids 2012).
Ogni anno muoiono al mondo circa 1,7 milioni di persone con Aids ed il numero
complessivo di morti a partire dal 1981 è di oltre 45 milioni. Nella classifica
mondiale del maggior numero di morti per Aids, i primi 23 posti sono occupati
da paesi africani, con in testa il Lesotho con 680 morti su 100.000 abitanti
nel 2009, tuttavia le cifre sono molto preoccupanti anche nel mondo
occidentale. Negli Stati Uniti, ad esempio, dal 1981 sono stati segnalati oltre
un milione di casi di Aids, più di 500.000 persone sono morte e attualmente
oltre un milione di persone convive con il virus Hiv.

La convivenza è resa possibile dai farmaci sopra citati, che non
sono in grado di far guarire dalla malattia, ma permettono di sopravvivere con
un’aspettativa di vita simile a quella di una persona non infetta. Purtroppo i
costi di tali farmaci continuano ad essere troppo elevati per le popolazioni
del Sud del mondo e questa, unitamente alla mancanza d’informazione sulle
modalità di trasmissione della malattia e sui mezzi di prevenzione, è una delle
cause principali dell’elevatissimo numero di malati e di morti.

Trasmissione dell’HIV

L’infezione da Hiv si trasmette attraverso tre diverse modalità:
la via ematica, la via materno-fetale e la via sessuale.

La prima modalità consiste nella trasmissione attraverso il sangue
ed è tipica delle persone dedite al consumo di droghe per via iniettiva, con
scambio di siringhe e di aghi infetti, ma può interessare anche coloro che si
sottopongono a piercing, tatuaggi e mesoterapia effettuati con aghi non
sterili. Anche le cure odontorniatriche effettuate con materiali non monouso e
non adeguatamente sterilizzati possono rappresentare un serio rischio, quindi è
opportuno evitare di ricorrere a studi odontorniatrici che offrono cure a prezzi
stracciati. Infine le trasfusioni possono rappresentare un rischio, anche se
attualmente molto ridotto grazie ai test per Hiv.

La seconda modalità è tipica delle donne sieropositive o con Aids
conclamato, che trasmettono l’infezione al feto per via transplacentare oppure
al bambino durante il parto o con l’allattamento. Il rischio per una donna
sieropositiva di trasmettere l’infezione al figlio è del 20%.

La terza via è quella dei rapporti sessuali di ogni tipo,
specialmente di quelli violenti, che possono provocare sanguinamento, e
interessa tanto gli eterosessuali che gli omosessuali. Questi ultimi sono stati
la categoria maggiormente colpita agli esordi della malattia, per la possibilità
di lesioni durante i rapporti, tuttavia l’Aids si è presto diffuso alla
popolazione eterosessuale per il carattere insidioso dell’infezione, che può
essere presente in forma inapparente, per cui la persona è infetta da Hiv e lo
può trasmettere con un rapporto non protetto, pur non presentando alcun segno
di malattia. Questo è il caso di coloro che si trovano nel cosiddetto periodo
finestra, ovvero nel periodo che intercorre tra l’ingresso del virus attraverso
le mucose, che possono essere anche integre, e la positività ai test per l’Hiv
(da poche settimane a 3 mesi). Ci sono inoltre i cosiddetti «portatori sani»,
cioè coloro che hanno contratto l’infezione da Hiv, ma che per le
caratteristiche del loro sistema immunitario riescono per un tempo anche
prolungato a controllare il virus senza sviluppare la malattia, quindi senza
alcun sintomo, ma con identica possibilità di trasmettere l’infezione. La
trasmissione avviene per mezzo del contatto con i liquidi biologici infetti e
le mucose.

Per quanto riguarda la saliva, fino a non molto tempo fa non
esistevano studi scientifici che provassero la possibilità di trasmissione del
virus attraverso i baci, data la sua modesta carica virale; tuttavia
recentemente è stato documentato un caso di trasmissione attraverso il bacio
dal Cdc (Center for Disease Control and Prevention) di Atlanta (Usa),
dovuto al fatto che la persona sieropositiva presentava gengive sanguinanti e
in tal modo ha infettato la compagna baciandola.


Il Virus HIV

L’Hiv è un retrovirus che colpisce le cellule del sistema
immunitario caratterizzate dalla proteina di superficie Cd4, cioè i macrofagi
ed i linfociti T helper. L’Hiv quindi mina le difese immunitarie
dell’ospite, che diventa suscettibile a infezioni batteriche, virali, protozoarie
o fungine, nonché a diversi tipi di tumore, spesso con esito fatale. Tra le più
comuni patologie che insorgono in pazienti affetti da Aids ci sono le polmoniti
e le tubercolosi batteriche, le encefalopatie virali, il linfoma di Burkitt, il
linfoma primario del cervello e il sarcoma di Kaposi.

Per prevenire l’infezione da Hiv è indispensabile astenersi dai
comportamenti a rischio, cioè è opportuno evitare di cambiare ripetutamente
partner o i rapporti con persone appartenenti a categorie a rischio, come
soggetti dediti alla prostituzione, oppure omosessuali o bisessuali o facenti
uso di droghe per via iniettiva. è
indispensabile l’affidabilità del partner. Nel dubbio si possono intraprendere
solo due strade, cioè l’astinenza dai rapporti sessuali oppure l’uso dell’unico
mezzo efficace di barriera, che è il profilattico usato in modo corretto ovvero
dall’inizio del rapporto (di ogni tipo). Non eliminano invece la possibilità di
contagio altri dispositivi come il diaframma, la spirale, la pillola anticoncezionale,
né pratiche come le lavande dopo un rapporto. è
evidente che la fedeltà di coppia riduce drasticamente il rischio di contrarre
questa infezione con un rapporto sessuale, sempre che uno dei due componenti
non abbia contratto l’Hiv per via ematica.

Allo stato attuale si sta assistendo a un aumento del numero di
nuove diagnosi d’infezione da Hiv anche nel Nord del mondo, in particolare
negli Stati Uniti, e pare essere terminato il declino della morbilità e della
mortalità da Aids riscontrato negli anni ’90 del secolo scorso, grazie all’uso
dei farmaci antivirali combinati. Questo fenomeno è dovuto alla grande capacità
del virus Hiv di acquisire resistenza ai farmaci grazie alla sua estrema
variabilità genetica. Quest’ultima è anche responsabile delle enormi difficoltà
incontrate nella produzione di un vaccino efficace poiché essa comporta una
continua variazione delle caratteristiche antigeniche dell’Hiv. Appare chiaro
che al momento per contrastare la diffusione di questa infezione sono indispensabili
una corretta educazione sanitaria della popolazione e l’astensione dai
comportamenti a rischio.

Epatiti

Altre infezioni molto diffuse e particolarmente gravi per la
salute umana sono le epatiti da siero causate dai virus Hbv, Hcv ed Hdv. Si
tratta di virus trasmessi con le stesse modalità del virus dell’Aids, per cui
occorre seguire le medesime precauzioni. L’epatite virale da siero può essere
acuta o cronica. L’organo bersaglio è il fegato, che nella malattia acuta può
andare incontro al blocco epatico con esito fatale. Nella cronicizzazione della
malattia, il fegato subisce una serie di sequele, che portano alla cirrosi
epatica, la quale può essere seguita da un tumore. Anche in questi casi l’esito
è di solito la morte. Attualmente più di 100.000 persone in tutto il mondo e
5.000 nei soli Stati Uniti muoiono ogni anno per le conseguenze dell’epatite B,
che può presentare la coinfezione dell’Hdv, un virus difettivo, che necessita
della presenza dell’Hbv e che aumenta la gravità del quadro clinico. Il virus
Hcv è responsabile negli Stati Uniti di almeno 25.000 nuove epatiti all’anno e
di circa 10.000 morti per cancro al fegato o cirrosi.

Oggi esiste un vaccino efficace contro l’epatite B obbligatorio in
Italia dal 1991 per i nuovi nati e per il personale sanitario, mentre non
esiste alcun vaccino contro l’epatite C. In Italia attualmente ci sono 2
milioni di persone infette da Hcv, con oltre 10.000 decessi e 3.000 nuovi casi
all’anno. L’Italia risulta essere il paese europeo più colpito da questa
infezione, soprattutto al Sud, con un record di casi in Campania, Puglia,
Calabria e Sicilia.

Occorre ricordare che per i virus dell’epatite esistono i
portatori sani, fatto che aumenta enormemente il rischio di contagio attraverso
i rapporti sessuali, lo scambio di siringhe tra i consumatori di droga, le
pratiche di piercing e di tatuaggio, che comportano l’uso di aghi
potenzialmente non sterili. Inoltre anche i virus epatitici vengono trasmessi
da madre a feto.

Herpesvirus

Gli herpesvirus di tipo 1 (Hsv1) infettano normalmente la
bocca e le labbra causando le febbri vescicolari e occasionalmente possono
infettare attraverso la saliva altre regioni del corpo, tra cui quella
ano-genitale, ma quest’ultima è prevalentemente colpita dal tipo 2 (Hsv2), con
formazione di vescicole dolorose. L’infezione può essere trasmessa al neonato
per contatto, al momento del parto e può dare quadri di diversa gravità, che
vanno dall’assenza di sintomi ad una malattia sistemica con danni cerebrali,
spesso mortale. Alle donne infette viene pertanto consigliato il parto cesareo.

Il citomegalovirus (Cmv) è uno degli herpesvirus più
diffusi, essendo presente nel 50-85% della popolazione sopra i 40 anni. Negli
individui sani l’infezione è asintomatica, ma diventa pericolosa negli
immunocompromessi come i malati di Aids o i pazienti trattati con farmaci
immunosoppressori come i trapiantati, alcuni malati di cancro ed i dializzati,
nei quali provoca polmoniti, retiniti, epatiti e gastroenteriti spesso fatali.
Il virus può essere trasmesso al feto e può arrecare gravi danni al bambino,
come la perdita dell’udito o della vista, il ritardo mentale, deficit nella
cornordinazione dei movimenti e nei casi più gravi convulsioni e morte. L’85-90%
dei neonati con infezione congenita è asintomatico, ma il 10% degli
asintomatici presenta sequele tardive, con i quadri succitati.

Altri virus

Tra i più diffusi virus sessualmente trasmessi ci sono i papillomavirus
umani
(Hpv), circa 120 ceppi virali diversi dei quali il 6 e l’11 sono a basso
rischio e responsabili di lesioni benigne, solitamente localizzate nella
regione ano-genitale, dette condilomi acuminati o creste di gallo per la tipica
forma a cresta o a cavolfiore. Esiste però una decina di ceppi tra cui
soprattutto i 16, 18, 31 e 33, che sono ad alto rischio per la loro capacità di
indurre carcinomi alla cervice uterina e alle mucose genitali maschili. La
diffusione di questi virus nella popolazione mondiale è tale che attualmente
una diagnosi su tre è di Hpv. La maggior parte delle infezioni è asintomatica,
tuttavia nei soli Stati Uniti ogni anno 6 milioni di persone contraggono l’Hpv,
circa 10.000 donne sviluppano il cancro della cervice uterina e di queste ne
muoiono circa 3.700. Attualmente sono in commercio due vaccini diretti uno
contro 4 e l’altro contro 2 dei precedenti 4 ceppi virali.

La grande campagna vaccinale fatta attualmente per questi vaccini,
caldamente raccomandati alle ragazze adolescenti, ma anche ai ragazzi, presenta
notevoli distorsioni della realtà, poiché non tiene conto del fatto che tutti
gli altri ceppi virali restano liberi di agire e probabilmente risultano
rafforzati dal blocco dei 4 succitati. Inoltre questi vaccini non sono stati
adeguatamente testati, come dovrebbe essere qualsiasi farmaco prima di essere
commercializzato, per cui non ci sono dati sulla loro reale efficacia, mentre
purtroppo sono già numerose le segnalazioni di casi avversi, con conseguenze
che in alcune situazioni hanno portato nalla morte o in gravissime neuropatie (vedi
su Facebook
: «Le nostre figlie non sono cavie da esperimento»). In compenso
il business di questo vaccino è elevatissimo, poiché è gratuito per le
adolescenti solo il primo ciclo (a carico del sistema sanitario nazionale), che
va ripetuto ogni 5 anni, con un costo intorno ai 500 euro a carico della
paziente.

Rosanna Novara Topino

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Rosanna Novara Topino




Acqua per la salute (a Neisu)

Un
progetto per l’ospedale di Neisu nel Nord-Est della RD
Congo finanziato
da Water Right Foundation della Toscana.

Il
progetto «Acqua per la salute» in corso all’Ospedale Nostra Signora della
Consolata di Neisu (RD Congo) è al giro di boa: dopo sei mesi dall’inizio delle
attività, avviate nel settembre 2012, è tempo di tracciare un parziale bilancio
dell’iniziativa proposta da Mco e «Annulliamo la Distanza» alla Water Right
Foundation
e ai comuni di Calenzano e Scandicci, che hanno accolto e
finanziato il progetto.

L’intervento
prevedeva la costruzione di tre pozzi (con pannelli fotovoltaici, pompa,
cisterna e lavabi) in altrettanti dispensari periferici collegati all’ospedale
di Neisu, la sostituzione della pompa dell’ospedale e l’organizzazione di corsi
di formazione della popolazione e attività di sensibilizzazione sul corretto
utilizzo dell’acqua. Allo stato attuale, la pompa è stata acquistata, il corso
di formazione realizzato e i pozzi sono in fase di completamento. Vediamo nel
dettaglio la genesi e lo sviluppo dell’intervento.

L’Ospedale di Neisu, la forza di una rete sanitaria

Una delle caratteristiche che contraddistingue
l’Ospedale di Neisu è quella di essere il centro attorno a cui gravita una rete
sanitaria: tredici dispensari periferici, denominati centres o postes
de santé
(centri o postazioni di salute) a seconda delle dimensioni e dei
servizi offerti, fanno capo all’ospedale vero e proprio e garantiscono la
copertura capillare di un territorio difficile, privo di infrastrutture e di
collegamenti, che dall’esterno si raggiunge praticamente solo volando da Kampala,
in Uganda, e impiegando fino a una settimana di viaggio lungo i percorsi
dissestati che collegano l’Uganda alla Provincia Orientale della Repubblica
Democratica del Congo, dove si trova Neisu.

Il centro più lontano dall’ospedale si trova a oltre
sessanta chilometri dal villaggio di Neisu, in una zona totalmente priva di
strade asfaltate dove i tempi di percorrenza in 4×4 possono arrivare a intere
giornate per poche decine di chilometri. Il mezzo di trasporto più conveniente
per percorrere i laghi fangosi in cui si trasformano le strade durante la
stagione delle piogge sono le moto di piccola cilindrata, che possono seguire
la minuscola striscia di terra asciutta ai bordi della strada principale. Sono
diffuse anche le biciclette, che non di rado si rivelano le uniche ambulanze
possibili e vengono perciò riadattate con una seduta posteriore (spesso una
semplice sedia di legno legata al portapacchi) per il trasporto del paziente.

In un contesto del genere, la presenza di centri
sanitari periferici è fondamentale perché raggiungere l’ospedale centrale
richiede tempi che possono mettere seriamente a rischio la sopravvivenza del
malato. Fino all’approvazione del finanziamento da parte della Water Right
Foundation
, tre dei centri periferici non disponevano ancora di un pozzo.
Gli infermieri responsabili delle piccole strutture, dunque, erano costretti a
recarsi ai vicini fiumi per procurarsi l’acqua e dovevano poi procedere a
depurarla con metodi – come la bollitura – che richiedevano tempo sottratto
all’assistenza ai pazienti senza garantire una soddisfacente salubrità
dell’acqua. Con il completamento dei pozzi, la qualità dell’acqua e
dell’assistenza sanitaria subirà un decisivo miglioramento.

Il lavori di scavo e costruzione dei pozzi sono stati
effettuati a mano, da una squadra di operai armati di badili e picconi. A
Neisu, dove il suolo è costituito da rocce relativamente friabili di caolino,
limonite e argilla e dove basta scavare una ventina di metri per trovare
l’acqua, lo scavo manuale è certamente difficoltoso ma comunque possibile. Ciò
che invece risulterebbe impossibile è trasportare sulle strade sterrate locali
trivelle e attrezzature meccaniche per lo scavo.

L’altro intervento strutturale previsto dal progetto era
l’acquisto e installazione di una pompa per l’ospedale principale, poiché
quella in uso stava dando preoccupanti segni di cedimento. «Abbiamo subito
comprato la pompa», scrive padre Richard Larose, responsabile del progetto
all’ospedale di Neisu, «ma abbiamo preferito non installarla fino alla fine
della stagione delle piogge: non volevamo rischiare che un fulmine ce la
bruciasse subito». Certo, il problema dei fulmini si ripresenterà alla prossima
stagione delle piogge; ma evitare un danno nell’immediato e assicurare qualche
mese in più all’attrezzatura a disposizione è spesso l’unica strategia che un
missionario può mettere in atto in una zona come Neisu.


L’importanza dell’acqua pulita

Che
ci sia una relazione diretta, e fondamentale, fra acqua pulita e qualità del
servizio sanitario è ovvio: basta pensare all’importanza dell’acqua per la
pulizia e sanificazione degli ambienti e strumenti sanitari e alla quantità di
patologie (ferite da taglio o malattie sessualmente trasmissibili, solo per
fare due esempi) che vengono aggravate dalla presenza di agenti patogeni
nell’acqua utilizzata per lavarsi. È vero che la falda da cui attinge il pozzo
non è necessariamente pulita e diversi accorgimenti vanno utilizzati pur avendo
a disposizione un pozzo. Ma la probabilità che l’acqua di un pozzo si contamini
è significativamente più bassa rispetto a quella di un fiume, dove vengono
scaricati i rifiuti dei villaggi vicini e dove è possibile trovare elementi
inquinanti come le carcasse di animali.

Ciò
che è meno ovvio, invece, è che in una realtà come Neisu siano chiare e note le
regole per l’utilizzo corretto dell’acqua e per avere comportamenti
igienicamente adeguati. «La formazione sull’acqua prevista da questo progetto è
fondamentale», scriveva la dottoressa Barbara Terzi, in forze all’Ospedale di
Neisu fino al 2012. «A volte mi capita di vedere mamme che cambiano il
pannolino ai loro bambini e subito dopo danno loro da mangiare, senza lavarsi
le mani. O, ancora, c’è chi va a prendere acqua al fiume prelevandola a poca
distanza da un animale in decomposizione».

Spiegando
che certi accorgimenti possono salvare vite, sarà possibile alleggerire il
carico di lavoro dell’ospedale prevenendo malattie evitabili. A questo scopo,
sono stati coinvolti nel progetto i membri dei cosiddetti comitati di salute (Codesa)
dei villaggi dove si trovano i centri periferici. I comitati, composti da
alcuni membri delle comunità, hanno una funzione fondamentale poiché sono
l’anello di congiunzione fra struttura sanitaria e popolazione locale. Queste
persone ricevono periodicamente una formazione che permette loro di diffondere
nei villaggi conoscenze relative alle pratiche igieniche corrette e ai servizi
a disposizione presso le strutture della rete sanitaria; al tempo stesso,
operano una costante osservazione delle patologie che si manifestano nelle
proprie comunità e riferiscono al personale sanitario in modo che questo possa
intervenire il più tempestivamente possibile. Nel caso di questo progetto, i
membri dei Codesa hanno seguito un corso di formazione sull’acqua di
cinque giorni a Neisu e sono ora al lavoro per condividere con il resto della
comunità quanto hanno imparato.

Educare al valore dell’acqua: le
attività in Italia

Parte
integrante dell’iniziativa sono anche una serie di eventi pubblici in Italia il
primo dei quali è stato una conferenza stampa di presentazione del progetto che
si è tenuta a fine settembre 2012 a Calenzano; il secondo evento, realizzato a
metà ottobre durante la fiera di Scandicci, ha visto i partner del
progetto impegnati in un dibattito pubblico dal titolo «Una goccia d’acqua per
tutti», che ha registrato una buona partecipazione.

La
Water Right Foundation, come ha ricordato nel corso degli incontri uno
dei suoi referenti, Oliviero Giorgi, nasce per volontà di Publiacqua
l’azienda che gestisce il servizio idrico nel territorio dell’Ato 3 Medio
Valdao
– con il contributo degli enti locali e del mondo scientifico e
accademico. Accantonando un centesimo di euro per ogni metro cubo di acqua
consumato dagli utenti, Publiacqua ha costituito il Fondo «L’Acqua è di
tutti» e ne ha affidato la gestione alla Wrf che da anni finanzia numerose
iniziative in paesi dove l’acqua è carente o male utilizzata.

Monica
Squilloni, assessore alla Cooperazione internazionale del Comune di Calenzano e
Gabriele Coveri, suo omologo al Comune di Scandicci, hanno ribadito
l’importanza di sostenere la solidarietà internazionale e hanno sottolineato il
ruolo delle istituzioni locali italiane nel continuare a sensibilizzare i
propri cittadini a valorizzare le risorse idriche ed evitare gli sprechi. I
prossimi eventi sono previsti a fine progetto, a settembre 2013, e daranno
conto dei risultati ottenuti nel corso dei dodici mesi di attività.

Chiara Giovetti

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Chiara Giovetti




San Francesco di Sales

San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra e
dottore della Chiesa, è certamente un santo che ha realizzato nel migliore dei
modi il detto popolare: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che
con un barile di aceto». Vissuto in un tempo in cui le guerre di religione tra
i vari stati europei lasciavano tracce indelebili nelle popolazioni coinvolte
per la violenza con cui si consumavano e producevano lacerazione nelle
coscienze per motivi di fede, egli seppe arrivare al cuore degli avversari
attraverso un modo di essere e di relazionarsi, caratterizzato da uno stile
sobrio e pacato nell’esporre le sue ragioni e, soprattutto con scritti
raffinati ed eleganti, seppe guadagnarsi la stima di tutti.


Sei un santo un po’ speciale,
parlaci della tua vita.

Sono
nato in Savoia il 21 agosto 1567 nel castello di Sales, proprietà della mia
antica e nobile famiglia. Fin dalla più tenera età ho ricevuto un’accurata
educazione che ho completato con gli studi in giurisprudenza nelle Università
di Parigi e di Padova.

Quindi la tua carriera era già
definita fin dall’infanzia; in fondo un giovane ricco e nobile, laureato a
pieni voti in Università così rinomate, aveva la strada spianata per il futuro.

Infatti ritornato in patria fui subito nominato avvocato
del Senato di Chambéry, capitale della Savoia, dove però rimasi pochi anni perché
la vocazione sacerdotale, che avevo avvertito fin dai primi anni della mia
giovinezza, mi portò verso gli studi di teologia: ricevetti l’ordinazione nel
dicembre del 1593, con grande delusione dei miei familiari e di quanti si
aspettavano che seguissi le orme dei miei avi.

Se non vado errato, sei vissuto in
un’epoca caratterizzata dalle conseguenze della Riforma protestante avviata da
Lutero e da altri riformatori come Calvino, Zwingli, ecc.

È vero. Il clima sociale e religioso era quello
travagliato e tormentato del periodo tra il XVI e il XVII secolo: alla Riforma
protestante faceva seguito la Riforma Cattolica (spesso chiamata erroneamente
Controriforma). Buona parte dei principi tedeschi aveva abbracciato le idee di
Lutero, trascinando con sé le popolazioni da loro governate e, ancor peggio, i
loro eserciti.

Erano proprio tempi cupi allora?

Alcuni
avvenimenti aiutano a comprendere meglio la realtà nella quale vivevo: nel 1600
l’Inquisizione aveva mandato al rogo Giordano Bruno e nel 1622 (anno della mia
morte) iniziava il processo a Galileo. Guerre e sommosse religiose scandivano
gli anni come un doloroso rosario intriso di sangue e sofferenze. Nel 1571
avvenne la battaglia di Lepanto contro i turchi-ottomani, battaglia che
contrapponeva cristiani contro musulmani; l’anno seguente (1572) ci fu la notte
di San Bartolomeo, dove furono assassinati migliaia di ugonotti francesi (gli
storici parlano di 20-30 mila), aprendo così una ferita profonda fra i
cristiani cattolici, evangelici e riformati, il cui strascico è visibile ancora
oggi.

Come e in che misura poteva
incidere in quella realtà la tua azione sacerdotale?

Come
sacerdote cercai di testimoniare con un’irreprensibile condotta di vita e di
avvicinare tutti con una preparazione meticolosa e meditata delle omelie. Ma
visti gli scarsi frutti, passai alla pubblicazione di foglietti volanti che io
stesso facevo scivolare sotto gli usci delle case o affiggevo ai muri.

E così sei diventato patrono dei
giornalisti!

Ai
miei tempi non c’erano giornali. Fu molto apprezzato non tanto l’aver scritto
trattati in difesa della fede cattolica, ma piuttosto il fatto di stampare su
dei fogli volanti le mie riflessioni e prediche: non era come i giornali di
oggi, ma vi assomigliava. I risultati iniziali furono scarsi, ma col tempo
migliaia di calvinisti ritornarono in seno alla Chiesa Cattolica.

Nel 1602 fosti nominato vescovo di
Ginevra, caposaldo della predicazione di Calvino, come ti accolsero da quelle
parti?

Ginevra,
città di lingua e cultura francese, aveva abbracciato la fede «riformata»
predicata da Giovanni Calvino e i suoi compagni (Guglielmo Farel, Theodore
Beza, John Knox), per cui la presenza di un vescovo cattolico non era per
niente gradita. Per tutti i miei 20 anni di episcopato risiedetti ad Annecy;
come vescovo profusi il meglio delle mie energie visitando ad una ad una tutte
le 450 parrocchie, curai molto il catechismo dei fanciulli e, perché fosse
insegnato come si doveva, addestrai un discreto numero di laici creando la così
detta «Confrateita della Dottrina Cristiana».

Alla fine, anche i protestanti,
che disprezzavano i cattolici chiamandoli papisti, impararono a rispettarli:
come ci sei riuscito?

Ho
seguito il principio della 1a lettera di San Pietro: essere «sempre pronti a
rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi; ma questo
sia fatto con dolcezza e rispetto». Il modo di confrontarsi con chi non la
pensa come te deve essere improntato soprattutto alla comprensione di ciò che
l’altro vuole dire e al tempo stesso all’esposizione di ciò che porti nel cuore
con chiarezza e senza rancore, con dolcezza e tenerezza. Bisogna imparare a
dialogare non con i pugni chiusi ma con le palme aperte.

Anche i tuoi scritti, come «L’introduzione
della vita devota» e «Il trattato del divino amore», sono diventati dei
classici: ti valsero il titolo di dottore della Chiesa, ti diedero fama di
grande scrittore anche nel mondo laico.

È
vero. Nella letteratura francese la mia prosa viene additata per la vivacità
delle immagini, la ricchezza delle espressioni, la serena affabilità del
discorso; tutto ciò lo facevo per creare un dialogo proficuo con quelli che non
la pensavano come me e si erano allontanati dalla fede cattolica.

Quindi il proverbio citato
all’inizio si addice perfettamente al tuo carattere.

Direi
proprio di sì. Ma quel proverbio deve trasformarsi in stile di vita che
conquisti le persone. Proclamare la verità con una faccia scura o imporre con
coercizioni di ogni tipo la partecipazione ai riti religiosi può essere
proficuo in un primo tempo, ma alla lunga più nessuno ti segue.

Una bella lezione anche per noi,
più propensi a mostrare le difficoltà ad essere un bravo cristiano, che la
gioia dell’incontro con il Signore Gesù.

Soprattutto
in campo ecumenico, pur esprimendo il proprio pensiero, tutto venga fatto nella
gioia dell’incontro con chi la pensa diversamente. Mi sembra che, dopo secoli
di scomuniche reciproche, il cammino ecumenico intrapreso sia proprio questo,
anche se la strada è ancora lunga. Da colui che è Padre ci siamo allontanati un
po’ tutti; ora, ritornando a Lui, impariamo a vivere da fratelli che
condividono la gioia di essere figli dello stesso Padre. Papa Roncalli, che per
certi versi mi assomiglia, aprendo il Concilio ha chiesto di distinguere sempre
tra «errore ed errante»; lo stile da assumere con chi non è «dei nostri» è
proprio quello avviato dal sottoscritto, in tempi difficili, ma esaltanti dal
punto di vista del dialogo.

Come nacque l’amicizia con
Giovanna de Chantal?

A
Digione, durante una visita pastorale, incontrai una nobildonna: era appunto
Giovanna Francesca de Chantal, con la quale avviai un rapporto di sincera e
spirituale amicizia che nel tempo, attraverso una tenerissima corrispondenza
epistolare, diede i suoi frutti nella fondazione della congregazione religiosa
della Visitazione. L’idea originale alla base del nostro carisma fu di chiamare
le religiose fuori dal chiostro, nel mondo, per predicarvi la carità, senza
trascurare l’importanza della preghiera, creando nel contempo un ramo
contemplativo accanto a uno di vita attiva.

In
un tempo come il vostro si fa fatica a capire e accettare tutto questo, eppure è
proprio così; del resto io stesso curai molto le amicizie e, oltre a Giovanna
Francesca de Chantal, ebbi come figlio spirituale Vincenzo de Paoli e Madre
Angelica Aauld, oltre a molte altre persone di ogni ceto. Con tutti loro ebbi
una fitta corrispondenza epistolare.

Oltre al rapporto particolare con
i poveri, normale per un santo, curasti una forte relazione con gli
intellettuali del tuo tempo, fondando per loro addirittura un’accademia,
denominata «Florimontana», o sbaglio?

Tutt’altro! Questa mia idea di mettere insieme gli
intellettuali in una fondazione in cui potessero liberamente confrontarsi sui temi
più svariati, fu copiata nientemeno che dal cardinale Richelieu, che diede vita
alla famosa Académie française. Non bisogna mai lesinare fatiche ed
energie per costituire dei luoghi e avviare dei percorsi in cui confrontarsi.
Ai miei tempi (ma anche ai vostri!) invece di dialogare si preferisce inveire,
sbraitare e condannare; così facendo il dialogo si inaridisce e le posizioni si
irrigidiscono, tutto a scapito del rispetto reciproco e della carità
vicendevole.

Il tuo esempio fu seguito da altri
santi che, ispirandosi alla tua azione pastorale, seppero leggere i segni dei
loro tempi.

Per
Vincenzo de Paoli, che ebbi come figlio spirituale, fu abbastanza facile
seguire le mie indicazioni; ma il santo che più si ispirò al mio modo di fare,
muovendosi in un altro contesto e avendo un carisma particolare per i giovani
fu Giovanni Bosco, originario della regione italiana più vicina alla Savoia;
visti i santi «sociali» torinesi coevi a don Bosco, si può dire che l’aria di
queste zone favorisce uno stile del tutto speciale per chi vuole seguire il
cammino del Vangelo.

Per concludere che suggerimenti
dai a noi cristiani del XXI secolo?

Considerando
che avversari alla Verità ce ne sono sempre, in ogni tempo e luogo, imparate a
gestire il confronto con chi non la pensa come voi dialogando con affabilità e
rispetto: condanne e scomuniche non portano da nessuna parte; e ricordatevi
sempre che questo mondo prima di voi è stato amato fino all’inverosimile da
nostro Signore Gesù Cristo, che per salvarci tutti non ha esitato a dare la sua
vita per tutti, cattolici e calvinisti, credenti e non credenti.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




FRANCESCA SAVERIO CABRINI

Una santa nasce, cresce, si forma,
sviluppa la sua fede e scopre il suo carisma in terra lombarda; espressione
genuina di quella spiritualità dell’azione che diventa originale servizio per
gli emigranti italiani: erano i veri poveri del nostro paese. Negli anni
successivi l’Unità d’Italia, centinaia di migliaia di persone emigrarono alla
ricerca di un lavoro – specialmente in Nord e Sud America – per procurare da
vivere a sé e alle proprie famiglie. Per essere al loro fianco e per svolgere
meglio il suo servizio negli Usa, ella prende la cittadinanza americana, quindi
nella Chiesa è la prima cittadina statunitense a essere proclamata Santa.

Francesca, prova a presentare la
tua vita ai nostri lettori…

Sono
nata a Sant’Angelo Lodigiano il 15 luglio 1850, in una famiglia dalle solide
tradizioni cristiane. Durante la scuola per diventare maestra elementare, al
collegio del Sacro Cuore di Arluno in provincia di Milano, ho maturato la mia
vocazione religiosa, che ho coronato emettendo i voti di povertà, castità e
obbedienza nel 1874.

Fin dall’inizio, però, volevi
essere suora in un modo nuovo: consacrarti al Signore per rispondere alle
necessità dei poveri, con un carisma che rispondesse ai segni dei tempi, o
sbaglio?

No,
non sbagli. La mia giovinezza, per quanto vissuta interamente in Lombardia,
regione che oggi risulta essere il traino dell’Italia e certamente una delle
regioni dal reddito pro capite più alto del nostro paese, ai miei tempi era,
specialmente nelle campagne, una regione con una povertà diffusa e una forte
emigrazione. Vedevo giocare i bambini per strada nelle pozzanghere perché le
mamme lavoravano in filanda e i papà erano emigrati all’estero; decisi allora
di rispondere a queste sfide, fondando insieme ad alcune compagne la
congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù che si prendesse cura
di coloro che, a causa della miseria in cui vivevano, lasciavano il loro paese
alla ricerca di una vita più dignitosa. La congregazione delle Missionarie del
Sacro Cuore di Gesù è stata la prima ad affrontare l’impegno e il servizio
verso i nostri emigranti, un lavoro affidato sino ad allora a congregazioni
maschili.

Questa preoccupazione, però, non
l’avevi solo tu; altri nella Chiesa, proprio ai tuoi tempi, si aprivano al
servizio verso gli emigranti…

È
vero, mons. Giovan Battista Scalabrini vescovo di Piacenza, preoccupato dalla
partenza verso le Americhe di molte persone che svuotava intere comunità
parrocchiali, fondò più o meno in quegli anni la congregazione dei Missionari
di San Carlo Borromeo, conosciuti dal nome del loro fondatore come «Scalabriniani».
Così, per rispondere alle mutate esigenze dei tempi, nacquero in quel periodo
nuove congregazioni come quella delle Apostole del Sacro Cuore di Gesù, fondate
da suor Clelia Merloni di Forlì.

Al tuo nome, per essere
missionaria fino in fondo, hai aggiunto quello del patrono delle missioni:
Francesco Saverio…

Sì,
e ho voluto mantenerlo al maschile proprio per non togliere il copyright
di andare in tutto il mondo al servizio dei fratelli, del più intrepido e
valoroso dei missionari di tutti i tempi.

Qual è stato il tuo campo di
azione?

Nel
1889 mi recai negli Stati Uniti per prestare assistenza agli immigrati
italiani. A quei tempi il viaggio verso le Americhe durava qualche mese in nave
e confesso che l’aver attraversato l’oceano mi diede una carica indicibile:
sbarcai a New York, ma non mi fermai in quella che voi chiamate la «Grande mela»,
mi addentrai nell’interno, alla ricerca di comunità di emigranti italiani per
dare loro tutto il nostro aiuto. Devo dire che più le nostre attività si organizzavano
attorno alle comunità dei nostri emigranti, più le necessità di dare un
servizio accurato e di strutturare meglio il nostro lavoro mi portavano ad
attraversare l’oceano Atlantico: lo feci ventotto volte sui bastimenti di
allora. In più attraversai le Ande per raggiungere Buenos Aires, partendo da
Panama. Erano viaggi faticosi che avrebbero stroncato chiunque.

In un ambiente maschile come
quello dell’emigrazione italiana, qualche curiosità dovevano pur crearla delle
suore che a dorso di mulo si addentravano verso il selvaggio West di quelli che
sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America…

Non vi dico i commenti, che arrivavano specialmente dai Wasp
(White Anglo-Saxon Protestant, bianco anglosassone protestante). Però,
quando cominciammo a costruire asili, scuole e convitti per studentesse,
orfanotrofi, case di riposo, ospedali, il discorso cambiò radicalmente.
Cominciarono a rispettarci e ad aiutarci.

Con la lingua come te la cavavi?

Oltre
all’inglese, imparai anche lo spagnolo e gesticolavo una miriade di dialetti
italiani per poter comunicare con la gente della mia terra, che a mala pena
sapeva parlare l’italiano; ma nel 1909 proprio per affermare la mia
inculturazione nel nuovo continente, presi la cittadinanza americana.

Le tue iniziative benefiche e le
tue opere caritative, ben presto si svilupparono e divennero dei punti di
riferimento importanti per i nostri connazionali…

Certamente.
E mi è caro sottolineare che, dal punto di vista economico, mettevamo al primo
posto l’autogestione delle opere aperte, grazie agli aiuti che ci venivano
dati, oltre a una piccola quota, imposta a quanti tra i beneficiari lavoravano,
per il buon funzionamento di quanto avevamo realizzato per loro.

Immagino che la vostra azione
avesse molteplici sfaccettature, così pure le iniziative dovevano essere
diversificate per rispondere alle differenti esigenze legate ai problemi
dell’immigrazione.

Ti
dirò, la cosa più importante era dare ai nostri connazionali la possibilità di
esprimersi nella lingua del paese che li aveva accolti, per cui proponevamo
incessantemente corsi di lingua inglese, davamo assistenza burocratica ai nuovi
arrivati e curavamo la corrispondenza con le famiglie di origine rimaste in
Italia. Cercavamo poi di raggiungere i più emarginati e lontani logisticamente,
visitare gli infermi e quelli che finivano in carcere.

Certo che per gli americani
dell’Ottocento vedersi arrivare queste migliaia (col tempo milioni) di
disperati dall’Italia non doveva essere una cosa facile da ingoiare, seppur
bisognosi di mano d’opera, covavano in animo sentimenti di antipatia e
avversione non indifferenti, o sbaglio?

Guarda,
ti rispondo facendoti leggere una relazione dell’ispettorato per l’Immigrazione
del Congresso degli Stati Uniti d’America del 1912 che dice così:

«Generalmente
sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro
puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si
costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove
vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro
affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due
e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro,
sei, dieci, venti. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente
antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma
sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre
anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che
faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al
furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché
poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri
consumati dopo agguati in strade periferiche, quando le donne tornano dal
lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma,
soprattutto, non hanno saputo selezionare fra coloro che entrano nel nostro
paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura,
attività criminali. Propongo che si privilegino i lombardi e i veneti, tardi di
comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad
abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite, e
non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di
questa relazione, provengono da altre regioni d’Italia. Vi invito a controllare
i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere
la prima preoccupazione».

Sembra di leggere un comunicato
che riflette sentimenti di rifiuto dello straniero, del diverso presenti in
certi ambienti nostrani…

È
proprio vero che la storia è maestra di vita, ma il più delle volte essa è
inascoltata; ai poveracci che,ancora oggi varcano i mari, intraprendendo veri e
propri viaggi pericolosi per sfuggire a guerre, violenze, calamità naturali o
più semplicemente per dare un futuro dignitoso ai propri figli attraverso il
lavoro che nei loro paesi non c’è, viene negata quella dignità insita in ogni
persona umana, creata a immagine di Dio, e questo dovrebbe far riflettere.

Ieri
io, Francesca Saverio Cabrini, insieme a donne che non avevano paura di
affrontare prove e sacrifici, ho cercato di dare una risposta ai segni dei
tempi, oggi mettetevi in gioco pure voi, le occasioni non mancano. Buon lavoro
ragazzi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

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Mario Bandera




IL MONDO CATTOLICO E LA COOPERAZIONE

Nel
numero di dicembre
abbiamo raccontato il Forum Cooperazione che si è svolto lo scorso ottobre
a Milano, rilevando
fra l’altro l’assenza di una rappresentanza organizzata
e coesa delle Ong d’ispirazione cattolica e degli istituti missionari
all’evento. Eppure
il mondo cattolico s’interroga sulla mondialità e
fa cooperazione, eccome. Il «Forum Mondialità e pedagogia dei fatti in tempo di
crisi», organizzato
dalla Caritas Italiana a Roma il 14 e 15 novembre
2012, è stato anche un’occasione
per fare il punto della situazione.

«Operare
nella solidarietà internazionale per educare alla cittadinanza globale». Il
sottotitolo del forum sulla mondialità promosso dalla Caritas non lascia spazio
a dubbi: anche il modo di esprimersi testimonia l’interesse della Chiesa
cattolica per i temi affrontati dal Forum Cooperazione di Milano. La specificità
della Chiesa, dunque, sta nel trattare i medesimi problemi utilizzando
strumenti e linguaggio propri, perché quegli strumenti e quel linguaggio sono
il concretizzarsi di qualcosa di molto profondo che viene dall’umanità
realizzata nello «stare al mondo» di Gesù di Nazareth.

Che
i temi al centro del dibattito siano gli stessi rispetto al mondo «laico» lo si
è visto fin dalle prime battute del Forum Caritas, che si è aperto con la
presentazione del quarto rapporto di ricerca su finanza e povertà, ambiente e
conflitti dimenticati dal titolo «Mercati di guerra», realizzato da Caritas
Italiana
, Il Regno e Famiglia Cristiana e edito da Il
Mulino
. È un rapporto dettagliato e puntuale sui legami fra finanza,
mercati e guerra e va dritto al cuore del problema, a cominciare dal capitolo
sul cibo come elemento scatenante dei conflitti.

Che
Caritas sia una risorsa imprescindibile nell’analisi delle dinamiche odiee
non è un dato nuovo: come ha ricordato al forum don Antonio Sciortino,
direttore di Famiglia Cristiana, negli anni i rapporti Caritas sui
migranti sono stati fondamentali nel fare piazza pulita delle false
informazioni e privare di fondamento tanti pregiudizi sul fenomeno
dell’immigrazione in Italia. Semmai, aggiunge Sciortino, rivolgendosi a chi fa
informazione, è tempo di fare un passo oltre e di essere non più cronisti
distaccati ed equidistanti, ma coinvolti ed «equivicini».

Tanto
più che il cristiano, ha argomentato un altro dei relatori, Carmelo Dotolo
della Pontificia Università Urbaniana, è in una posizione privilegiata per
avvicinarsi a una realtà di crisi come quella di oggi: «Il cristianesimo»,
infatti, «è una religione della crisi»; vivere e produrre cambiamenti fa parte
del suo Dna, e far teologia è anche lo sforzo, la fatica di mettere in
relazione l’essere credenti con la realtà storico-culturale in cui si vive,
anche quando questo significa essere contro-culturali.

Un’analisi che annaspa

Nel
forum della Caritas, come in quello di Milano, non ci sono state grosse novità
per quanto riguarda l’analisi della globalità e del fenomeno della
globalizzazione: dai tempi di Dueling Globalizations, il celebre botta e
risposta fra il direttore di Le Monde Diplomatique, Ignacio Ramonet, e
l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman – era il 1999 -,
l’acqua passata sotto i ponti del pensiero politico non ha portato con sé
intuizioni decisive, fatta eccezione per qualche elaborazione che ci ha messo a
disposizione aggettivi (come il «liquido» e il «glocale» di Zygmunt Bauman) con
cui definire in modo più immediato, quotidiano e fruibile i fenomeni
contemporanei. Mentre l’analisi annaspa nella difficoltà di immaginare il
domani, l’oggi ha visto realizzarsi le profezie nefaste dei primi anni Duemila:
gli effetti devastanti della tracotanza della finanza internazionale sono
evidenti a tutti. Questo rende ancora più urgente proporre soluzioni concrete
che implicano una traduzione in linee d’azione di quella innata vocazione del
cristianesimo al cambiamento che Dotolo sottolinea.

Dalle idee ai fatti

Ma
tradurre in pratica le conclusioni teoriche è questione molto complicata; al
forum Caritas è toccato ad Antonio Nanni (Centro di educazione alla mondialità
– CEM) misurarsi con l’ingrato compito di definire il che fare. In un lungo
intervento dal titolo «Educare alla cittadinanza globale oggi, in tempo di
crisi. Obiettivi, strumenti, linguaggio», Nanni ha descritto le difficoltà
dell’azione educativa a partire dall’analisi della crisi in cui versa
l’educazione stessa. Particolarmente interessante la riflessione sui valori:
appellarsi a essi, ha detto Nanni, è paradossalmente controproducente in un
contesto come quello contemporaneo, perché aumenta la frammentazione invece di
diminuirla. Come se l’appello ai valori, un tempo potente magnete in grado di
attrarre o respingere (e quindi riordinare) fenomeni, eventi e gruppi umani,
avesse perso il suo potere su una realtà che non reagisce più, o reagisce solo
in parte. Quell’appello non più un agente ordinatore ma un’ulteriore spinta
alla separazione.

Nanni
ha poi indicato una serie di obiettivi – formulazione di un nuovo pensiero,
solidarietà e giustizia sociale, integrazione, partecipazione, global
governance
– e proposto una vera e propria «cassetta degli attrezzi» per
raggiungerli. Fra gli strumenti, la Tobin Tax, la promozione del
servizio civile volontario, la partecipazione ai Gruppi di acquisto solidale
(Gas), la definizione e la difesa dei beni comuni, la diffusione dei contenuti
di diversi documenti di riferimento (raccomandazioni del Parlamento europeo,
documentari sull’integrazione, testi del Pontificio Consiglio della Giustizia e
della Pace, eccetera), la predisposizione di eventi e spazi di condivisione
come le feste dei popoli e i centri interculturali, e molto altro.

Rispetto
al Forum Cooperazione di Milano, dove le indicazioni sull’agire sono mancate
quasi del tutto, il Forum Mondialità registra certamente un passo in avanti
nella direzione di una maggior concretezza. L’intervento di Nanni, pur non
proponendo strumenti nuovi, rappresenta un’ottima – e necessaria – raccolta e
sistematizzazione di quelli esistenti, che vanno quindi potenziati e sostenuti.

Cooperazione missionaria

Attento
all’esigenza delle comunità cristiane di declinare in modo praticabile
l’educazione alla cittadinanza globale, il forum Caritas ha poi proposto gruppi
di lavoro tematici organizzati nei quali all’esposizione di un tema da parte di
un esperto (tecnico) seguiva l’intervento di un esponente di un organismo ecclesiale
che lo declinava in termini pastorali.

Il
gruppo di lavoro «Educare alla cittadinanza globale e agli obiettivi di
sviluppo del millennio» (Campagna Beyond 2015) ha visto dunque la
partecipazione di Andrea Stocchiero (Federazione Organismi Cristiani Servizio
Internazionale Volontario – Focsiv) in veste di esperto e di don Gianni Cesena
(direttore dell’Ufficio Nazionale Cei per la cooperazione missionaria tra le
Chiese) come referente pastorale. La relazione di Stocchiero ha evidenziato
come nei paesi che hanno ottenuto maggior successo nell’avvicinarsi agli
obiettivi del millennio l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) ha avuto un ruolo
marginale. Quei paesi non stanno meglio grazie agli aiuti, ma grazie alla loro
capacità di attirare investimenti stranieri e alle rimesse dei loro cittadini
che lavorano all’estero (le rimesse sono pari a tre volte il totale dell’Aps).
Un dato, questo, che ha un peso evidentemente cruciale nel valutare l’efficacia
dell’aiuto.

L’intervento di don Gianni Cesena, infine ha proposto
riflessioni e dati sulla cooperazione missionaria e ha indicato una serie di
esempi concreti da applicare a livello di consigli pastorali parrocchiali per
valutare se e quanto i messaggi relativi all’educazione alla cittadinanza
globale sono effettivamente inseriti nelle attività delle comunità cristiane.

A proposito degli obiettivi del millennio, don Cesena ha
precisato che non sono stati formulati all’interno della Chiesa o con un suo
coinvolgimento e che pertanto traslarli nella pastorale sarebbe una forzatura.
Tuttavia, ha concluso, anche in essi è possibile riconoscere la «quota di
Spirito» che può giustificare l’impegno e la volontà di recepie alcuni
aspetti. Il suo intervento si è poi concluso con l’indicazione di due stili
missionari oggi superati: nella cooperazione missionaria, ha detto don Cesena,
non c’è più posto per «eroi e navigatori solitari» e il dono non può più essere
un gesto unilaterale ma uno scambio.

La «Quota di spirito»

Forse,
proprio a partire dall’espressione «quota di Spirito» si possono trarre lumi
per spiegare, almeno in parte, la partecipazione in sordina del mondo
missionario e delle Ong cattoliche al Forum Cooperazione di Milano. Le Ong
cattoliche sono molto spesso il braccio operativo della realtà missionaria che
le ha fondate, si tratti di un istituto, di un centro missionario diocesano o
di un gruppo di persone legate a un particolare sacerdote. Queste realtà vivono
la cooperazione allo sviluppo come uno dei tanti strumenti
dell’evangelizzazione e, in particolare, uno strumento per l’evangelizzazione
attraverso le opere sociali, che non sono le sole opere contemplate dall’agire
missionario. Per questo, l’ordine nella scala delle priorità che i religiosi
(e, di conseguenza, le loro Ong) attribuiscono a un evento come il Forum di
Milano dipende – per usare il linguaggio di don Cesena – dalla «quota di
Spirito» che i religiosi stessi scorgono nella cooperazione allo sviluppo. Se
questo è vero, rimane da chiedersi perché il mondo missionario ha giudicato la
quota di Spirito a Milano troppo ridotta per mobilitarsi e fare sentire la
propria voce.

Chiara Giovetti

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Chiara Giovetti




Guatemala: Non è arrivata, la fine del mondo


Cosa
porterà la fine del 13mo b’aqtun.
Pace, armonia, giustizia, equilibrio
interiore. Tutto questo, dicono le guide spirituali, dovrebbe portare con sé
la fine dell’era prevista dal calendario Maya. Dipenderà però dalla nostra
coscienza.Perché il cambiamento deve essere dentro di
noi
.
(foto Simona Rovelli)

Mentre
gran parte del mondo attendeva con curiosità, trepidazione, speranza o terrore
(a seconda delle differenti visioni), il
21 dicembre 2012, in Guatemala – cuore pulsante dell’universo Maya, dove ancora
una maggioranza della popolazione, in particolare gli Ajq’ijab (le guide
spirituali, in lingua Maya K’iché) mantengono viva la millenaria
tradizione spirituale originaria – in realtà tutto taceva.

Ha
fatto eccezione l’industria del turismo che, in un paese splendido ma
zoppicante sotto moltissimi aspetti, ha cercato di sfruttare al meglio, in
termini di immagine e di business, il bonus piovuto dal cielo,
organizzando eventi in tema e sfoando i più disparati pacchetti turistici,
essenzialmente per stranieri e spesso escludendo dall’organizzazione e
partecipazione la stessa popolazione di etnia maya.

Si
è scritto e detto ormai di tutto circa questa fatidica data, citata come la
fine del «tredicesimo b’aqtun» del calendario Maya, a partire dalla
distruzione del mondo con o senza giorno del giudizio, passando per il
profetico arrivo di un fantomatico «Pianeta X», la caduta di una cometa o
asteroide che sia, il ritorno degli alieni, l’inversione dei poli magnetici e
svariati – nefasti o benefici a seconda delle interpretazioni – allineamenti
tra centro della galassia, Sole, Terra e alcuni pianeti. Ognuna di queste
teorie si basa, nella migliore delle ipotesi, su libere interpretazioni e
connessioni un po’ fantasiose e forzose tra gli elementi più disparati e, nella
peggiore, su un intenzionale desiderio di creare confusione e panico, per
trae svariati benefici.

La profezia

Ma cos’è un b’aqtun ed esiste davvero una profezia maya a
riguardo del tredicesimo?

I Maya nei secoli hanno sviluppato grandi doti di astronomi e,
studiando il movimento di diversi corpi celesti tra cui ad esempio Marte e
Venere, idearono almeno venti calendari che regolavano ciascuno diversi aspetti
della vita, dalla semina alla nascita di un essere umano. Il parallelismo tra «Cielo»
e «Terra» deriva dalla loro peculiare «cosmovisione» (ovvero come concepiscono,
percepiscono e vivono il senso dell’esistenza dell’intero universo, ne spiegano
la creazione e il funzionamento), per cui le energie che governano i corpi
stellari devono trovare il loro riscontro negli eventi terrestri.

Il b’aqtun è un periodo di tempo riferito a uno di questi
calendari, nella fattispecie quello denominato della Cuenta Larga,
ovvero il calendario che stabilisce il computo di tempi estremamente lunghi e
che sarebbe vigente, senza interruzioni, dai tempi della Creazione
(originatasi, come indicato nella stele 1 di Cobá, Messico, milioni di anni
fa). Per l’esattezza il b’aqtun è un multiplo di 20 (numero sacro per i
Maya, corrispondente al ciclo minimo del calendario Cholq’ij, che regge
il susseguirsi delle energie umane) secondo questo semplice schema:

-1 giorno è detto kin,
– 20 kines fanno un winaq (20 giorni),

– 18 winales sono un tun (che significa «pietra»:
360 giorni),

– 20 tunes corrispondono a un k’atun (7.200 giorni),

– 20 k’atunes un b’aqtun (144.000 giorni),

– 20 b’aqtunes un piktun (2.880.000 giorni). E così
via…

La prima osservazione è che il calendario maya, così come alcuni
erroneamente affermano, non termina affatto con il tredicesimo b’aqtun,
(periodo di 1.872.000 giorni), ma prosegue, ipoteticamente fino all’infinito.
Esiste per esempio una data scolpita nel tempio delle Iscrizioni di Palenque,
Messico, che daterebbe il 13 Ottobre 4.772 d.C., così come esistono date
antecedenti al b’aqtun 1 di questa era, come per esempio indicato in
Quiriguá, Guatemala, dove tra le tante date si può individuare l’8.238 a.C.

Termina un’era

Perché dunque tanto clamore rispetto al tredicesimo b’aqtun
e alla data del 21 dicembre 2012?

La data (4 Ajpu / 3 Kank’in, secondo il calendario
della Cuenta Larga) viene indicata in differenti steli di
svariati siti archeologici del Guatemala e del Messico, semplicemente come fine
di un’era, venendo maliziosamente strumentalizzata come data della fine del
mondo. Infatti, seppur considerando che i b’aqtunes arrivano fino a 20
formando un piktun, è doveroso ricordare che secondo i Maya ogni 13 di
essi si concluderebbe un ciclo completo, corrispondente a un’era del mondo, e
questo passaggio sarebbe segnato normalmente da un sostanziale cambiamento,
preceduto da eventi più o meno significativi. In questo caso si tratterebbe
propriamente della chiusura del terzo ciclo dall’inizio della creazione che,
stabilendo un parallelismo con il calendario Gregoriano, andrebbe dal 6
Settembre 3.114 a.C. (inizio del nuovo ciclo, con il primo giorno del primo b’aqtun),
al 21 dicembre 2012 d.C., ultimo giorno dell’attuale b’aqtun, appunto il
tredicesimo, iniziato nel 1.618. 
Inoltre, secondo vari studi compiuti in Guatemala da antropologi e Ajq’ijab,
la data indicherebbe sia la fine dell’era precedente che l’inizio della nuova,
indicando infatti il giorno 0 (zero) – concetto non contemplato nel calendario
gregoriano – del nuovo ciclo.

Evidenziamo che in nessun caso si parla di fine del mondo, ma di
alcuni eventuali cambiamenti importanti.

Altri citano erroneamente il Chilam Balam (uno dei
pochi testi profetici maya salvatisi dalla furia colonizzatrice), il quale però
descriverebbe alcune catastrofi durante il 13 k’atun Ajaw (e non
13 b’aqtun!). Per approfondimento, secondo la nomenclatura della tavola
degli Ajpú, definita dal missionario Diego de Landa nel libro «Relaciones
de las cosas de Yucatán» agli inizi dell’epoca coloniale, il 13 k’atun Ajaw
si sarebbe concluso il 2 novembre 1.539. Quale catastrofe peggiore, per i Maya,
della conquista spagnola? Attualmente, secondo la suddetta tavola staremmo tra
l’altro vivendo il b’aqtun 6, in numero cardinale, che sarebbe il
tredicesimo in numero ordinale. Il «nome» del b’aqtun (in questo caso
sei) viene infatti definito dall’energia iniziale (che accompagna sempre un Ajpú),
la quale di ciclo in ciclo non segue un ordine crescente. Per capire questo
concetto è necessario addentrarsi profondamente nella cosmovisione Maya e in
calcoli complicati, uscendo inoltre dalla logica calendarica occidentale.

La spiritualità viva

Ma una volta stabilito cosa indicano le steli
e i testi sacri Maya, è estremamente importante analizzare la spiritualità viva
e pulsante attraverso le parole delle guide spirituali (Ajq’ijab),
coloro che hanno la responsabilità di tramandarsi, per lo più oralmente, le
antichissime tradizioni.

Non esiste un consenso generalizzato a riguardo, se non nel deciso
rifiuto delle infondate posizioni catastrofiste. Molte «abuelas y abuelos»
Maya (nonne e nonni letteralmente, così come poeticamente vengono definite le
persone che hanno acquisito una certa saggezza) ritengono che energeticamente
si entrerà in una nuova era che favorirà pace, armonia, unione, giustizia,
equilibrio tra gli esseri umani e tra questi e Madre Natura (così come
profetizza anche il Chilam Balam, per il 4 k’atun che
inizierà questo dicembre). Il tutto si raggiungerà attraverso il ritrovamento
di un vero equilibrio interiore, che nella cosmovisione maya è fondamentale per
poter concretizzare i passi successivi. Alcuni si spingono a dichiarare che
tanta sarà l’armonia da permettere la comunicazione attraverso la trasmissione
del pensiero. Altri invece pensano che, nonostante l’energia propizia, il
cambiamento sarà molto più lento e graduale e dipenderà molto dal grado di
risveglio delle nostre coscienze. Per altri ancora, tutto risiede nel nostro
libero arbitrio e il destino del pianeta Terra, con i suoi equilibri e i suoi
abitanti, non è prestabilito.

Il cambiamento sta dentro di
noi

Cosa ne è della speranza nell’arrivo di alieni che spazzino via la
feccia dell’umanità, facendo piazza pulita delle negatività? Una visione troppo
comoda, che affida a un «miracolo» esterno e senza impegno il cambiamento che
ciascuno di noi, con coscienza e sforzo, dovrebbe intraprendere nel suo piccolo
per mutare radicalmente il corso della storia umana, piagata da tante
ingiustizie e prossima a subire e far subire, in particolare ai più deboli e
alle generazioni future, le conseguenze del cambio climatico. Tra quelli che
seguono la spiritualità maya, non vi è attenzione, né tantomeno preoccupazione
rispetto a una eventuale venuta, e piuttosto ci si concentra sulla propria
crescita personale e comunitaria.

E la paura di catastrofi naturali e dell’eventualità che la
popolazione umana possa essere decimata da eventi disastrosi (o dagli alieni
stessi)? Solo chi ha paura di vivere tutte le sfumature dell’esistenza, chi
sente di non aver tentato in ogni istante tutto il possibile per offrire il
meglio di sé, chi non accetta che vita e morte sono parte di una necessaria e
utile ciclicità, chi si attacca al proprio ego senza ricordare il senso del
passaggio sulla Terra, ha una profonda paura di morire, che sia in una
catastrofe o per mano degli alieni.

Nelle terre maya, dove si vive in ogni istante la precarietà della
vita, ci si concentra sul presente con umiltà, semplicità, intensità e
determinazione, consci di essere una goccia di Infinito nell’Universo.

Simona Rovelli

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Simona Rovelli




Haiti: La perla perduta

Incontro con il giornalista haitiano Gotson Pierre. A tre anni dal devastante
terremoto che sembrava cambiare le sorti del paese, la politica fa passi
indietro. Il presidente Joseph Martelly
governa con autoritarismo, senza curarsi della Costituzione. Mentre
clientelismo e corruzione sono in aumento.Ma il movimento sociale manifesta il suo malcontento e la tensione
cresce.Il punto di vista di un osservatore privilegiato.

(Foto Marco Bello e AFP)

Gotson Pierre, haitiano, fa il
giornalista da oltre 30 anni. Ha lavorato, tra l’altro, alla creazione di una
rete di radio rurali e nel 2001 ha fondato il Groupe Médialternatif,
un’associazione di media che vuole essere voce critica della società e dei
movimenti sociali. Tra le altre attività, Médialternatif gestisce
l’agenzia online altepresse.org che ha acquistato una grande
credibilità in patria e all’estero.

Da
maggio 2011 Haiti ha un nuovo presidente: il discusso cantante Michel Joseph
Martelly.
Quali
sono le caratteristiche del governo Michel Martelly?

«È un’amministrazione che cambia profondamente dalla
precedente. Un governo che comunica molto. Una comunicazione che invade tutto,
che quasi rimpiazza l’azione politica. Diventa l’azione politica. Ogni giorno
arrivano numerosi comunicati dal primo ministro, dai ministeri, dalla
presidenza. Una macchina di comunicazione efficiente in tutte le istituzioni
dello stato.

Però
è un flusso d’informazione governativa unidirezionale, che rende conto di
quello che vuole il governo. Il potere concede interviste a media selezionati.
Un’amministrazione che pare voler comunicare con il pubblico attraverso i
media, ma allo stesso tempo limita l’accesso dei giornalisti all’informazione.

È
una comunicazione persuasiva, per dire “vedete che le cose stanno cambiando”.
Martellano su alcuni concetti: siamo molto vicini alla propaganda.

Si
avvalgono di compagnie private di comunicazione. La società spagnola che ha
gestito la campagna elettorale di Martelly è ora al servizio della presidenza,
e ha messo un esperto latino americano a capo della comunicazione».

E
dal punto di vista politico?

«Non
è cambiato nulla in realtà. È un presidente che non vuole negoziare con
nessuno, si vuole imporre, anche se non ha i rapporti di forza che gli
servirebbero. Non ha i numeri in Parlamento dove è in larga minoranza. Martelly
spinge l’autoritarismo a un livello visto solo sotto la dittatura militare.

Lui
parte dal principio che il presidente può fare quello che vuole: è la
concezione del capo supremo della nazione, la stessa che avevano i Duvalier
(padre e figlio dittatori sanguinari dal ’57 all’86, ndr). Per lui il
presidente è a capo di tutti i poteri. Il principio di separazione tra
esecutivo, legislativo e giudiziario non esiste. Pensa di avere potere su tutto
quello che succede ad Haiti e vuole imporre le sue decisioni.

Ha
ricevuto le organizzazioni dei media per dire loro cosa devono fare. Ma il
Parlamento non ci sta e questo porta sempre a un braccio di ferro, a un blocco
istituzionale. Talvolta si risolve all’ultimo momento per le pressioni della
comunità internazionale o arriva a crisi di governo. È successo così con le due
nomine dei primi ministri.

Oggi
c’è in gioco la formazione del Consiglio elettorale permanente (Cep), organo
che organizza le elezioni e starà in carica nove anni. Influenzerà quindi la
dirigenza politica delle prossime due legislature.

Ma
i parlamentari vogliono far valere il fatto che oggi il Senato non può
scegliere i membri del Cep perché la Costituzione vuole due terzi dei senatori
presenti, ma oggi la camera alta ha un terzo scaduto, quindi è impossibile
avere il quorum.

Occorre
fare un Consiglio elettorale provvisorio per completare il Parlamento con
elezioni e poi passare al permanente.

Il
presidente ha influenzato il potere giudiziario imponendo la sua volontà, per
la scelta di tre membri per il Cep, poi Martelly ha scelto altri tre membri,
come esecutivo. In questo modo ha imposto un consiglio di sei membri, e gli ha
fatto prendere funzioni ufficialmente. Ma la Costituzione ne prevede nove:
mancano quelli nominati dal legislativo».

 C’è
un ritardo sulle elezioni?

«Le
elezioni senatoriali e municipali sono in ritardo di almeno un anno. E non si
sa cosa succederà, perché non si trova una soluzione.

È uno stile di funzionamento politico che non vuole
chiarire le cose, tanto meno rinforzare le istituzioni. Si pensava che fosse
incapacità, ma ora alcuni osservatori dicono ci sia dietro una strategia. Ad
esempio qualcuno ha paura di una volontà di sciogliere il Parlamento. I mandati
dei parlamentari vanno verso la fine, rimanderà ancora le elezioni? È un male
minore per Martelly.

Sono
a rischio anche il decentramento e l’autonomia dei poteri locali. I sindaci
hanno terminato il loro mandato, e malgrado avesse promesso di mantenerli fino
alle prossime elezioni, il presidente li ha rimpiazzati con persone nominate
dall’esecutivo. Sta centralizzando il potere.

Il
processo democratico è seriamente minacciato da questi comportamenti. Non
riconosce le organizzazioni politiche e non incoraggia la strutturazione
politica. È piuttosto il clientelismo che aumenta. Se non sei con lui, sei un
nemico della patria, come con il fascismo».

Ma
esiste una vera opposizione e da chi è costituita?

«C’è
un’opposizione che si mostra sempre più. Una critica all’azione del governo. Ma
la strutturazione e l’organizzazione di questa opposizione è ancora da farsi
nonostante esistano attori sociali capaci di condurre un insieme di azioni.

Le
debolezze e le derive di Martelly hanno alimentato l’opposizione e abbiamo
visto una serie di manifestazioni di protesta, con partecipazione di
organizzazioni della società civile e di partiti politici. Criticano questo
approccio politico e la gestione della cosa pubblica. Il cattivo uso dei fondi
pubblici è evidente anche per il posto occupato dalla sua famiglia nella
macchina amministrativa. Normalmente la moglie del presidente non occupa delle
funzioni. Invece la moglie di Martelly è stata da lui nominata a presiedere una
commissione di cui fanno parte rappresentanti di ministeri. Il figlio è
responsabile di una struttura al di sopra del ministero della Gioventù e dello
Sport e gestisce un programma di realizzazione di stadi o spazi sportivi nel
paese, con molti fondi a disposizione. Mentre il ministero non ha alcun
controllo su questo. Criticare Martelly, o rifiutare la sua pratica politica,
non vuole però necessariamente dire che si sceglie un’opzione in linea con la
rivolta del 1986 (quando fu cacciato Duvalier, ndr) e la partecipazione
popolare alla democrazia. Nel movimento sociale c’è molta gente critica verso
Martelly. Un certo numero di associazioni vogliono rompere con tutte le
esperienze di autoritarismo che lui rappresenta, altre no. Chi porta avanti
questo discorso sono piccole organizzazioni che non hanno ancora un rapporto di
forza favorevole a livello del paese. Possono avere un’alternativa da proporre,
ma non hanno peso per farla valere. Ad esempio sono nati due piccoli partiti
della sinistra popolare e democratica».

Allora
cosa stanno facendo i partiti politici di opposizione?

«Oggi
c’è un insieme di dodici partiti, alcuni storici e due nascenti, che hanno
fatto una convenzione e stanno portando avanti una riflessione su come fare
opposizione. Ci sono dentro anche i partiti degli ex presidenti Aristide (Fanmi
Lavalas
) e Préval (Inite). L’altro partito storico, l’Opl
(Organizzazione del popolo in lotta) non ne vuole far parte perché è molto
critico con queste ultime due formazioni. Sta puntando su una “terza via”.
Ricordiamo che Martelly ha pochissimi deputati dalla sua parte. Ha inoltre
fondato un suo partito: Parti tet kale (partito testa pelata, ndr)».

Che
peso ha nel gioco politico la comunità internazionale?

«Alla
comunità internazionale fa comodo la situazione attuale. Non vuole problemi:
meglio consolidare quello che c’è fino alle prossime elezioni presidenziali.
Martelly afferma che non ha paura di un colpo di stato perché la comunità
internazionale è presente e sorveglia la situazione attraverso la Minustah
(Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti, composta da
circa 10.000 uomini tra soldati e poliziotti, ndr). L’Onu lascia capire
che hanno bisogno di altri 4-5 anni affinché sia formata una forza di polizia
capace in Haiti.

La
comunità internazionale vuole che i termini delle elezioni siano rispettati: un
presidente sia eletto e sia al potere fino alle prossime elezioni. Il resto non
è un suo problema. Secondo loro un susseguirsi di elezioni porterà alla
stabilità, anche se le gravi questioni degli haitiani permangono irrisolte.

Se
Martelly non riesce a calmare la situazione, allora loro intervengono per
dirgli cosa fare. Ad esempio Usa, Francia e Unione europea vogliono sia formato
il Cep, nella logica della stabilità. Quindi sono intervenuti e hanno fatto
pressioni. La Minustah ha detto che il Parlamento si deve sbrigare a nominare i
tre membri di sua competenza. La comunità internazionale vuole che le
istituzioni esistano, per loro è un criterio importante di stabilità».

La
situazione rischia di esplodere a livello sociale?

«Il
movimento sociale organizzato non è forte, ma l’espressione del rifiuto, a
livello sociale, inizia a farsi vedere. Questo è sfociato nella serie di
manifestazioni in diverse città del paese, contro il carovita, la corruzione,
il traffico di droga. Fenomeni in aumento.

Abbiamo
assistito a manifestazioni organizzate, ma non c’è dietro necessariamente una
struttura sociale forte. Sono dei movimenti di protesta che si organizzano.
Un’esplosione non è da scartare.

Martelly
vuole fare di testa sua, ma su molti piani non è efficace, non riesce a dare
risposte ai problemi. La corruzione dilaga. Le persone che sono al potere,
prima di tutto vogliono guadagnare molti soldi. Al di là di mettere in piedi
dei programmi di ricostruzione o sviluppo.

Ho
raccolto testimonianze sul fatto che nell’esecuzione di un progetto
governativo, come quelli per la costruzione di case, occorre prevedere un 30%
in più per commissioni varie.

Inoltre
lo stato acquista servizi da persone nelle aree di influenza del presidente e
della sua famiglia. È scoppiato uno scandalo perché sono stati attribuiti
lavori di ricostruzione per 400 milioni di dollari a imprese che sono in buona
parte del senatore dominicano Bautista. Il fatto è che i lavori sono stati dati
senza alcuna gara d’appalto o controllo. E questo accompagnato con buone dosi
di tangenti.

Martelly
avrebbe ricevuto soldi da Bautista durante la campagna elettorale, ma anche
dopo aver prestato giuramento come presidente. Tutto ciò resta nell’impunità
totale».

Lo
Stato sta mettendo in opera dei programmi per migliorare le condizioni di vita
della gente?

«Un
primo problema nella messa in opera dei programmi è la corruzione e il
clientelismo. Questo fa sì che i beneficiari finali non siano numerosi, ma
diventino quasi il pretesto per fare il progetto.

L’altro
aspetto è l’orientamento dei progetti realizzati. Sono impostati per migliorare
la situazione nel breve termine ma non hanno un impatto sociale durevole. È il
caso dei programmi sociali governativi orientati alle famiglie. Alcuni si
ispirano ai programmi brasiliani contro la fame, ma ad Haiti sono gestiti dalla
presidenza ed è più un modo per acquisire seguaci.

È
difficile capire quali sono le realizzazioni e verificare i risultati di ogni
programma. Ce ne sono cinque o sei che fanno la stessa cosa: per ridurre la
fame danno cibo alla gente.

Si
tratta di fondi multilaterali, ovvero di cooperazione tra stati, e altri del
tesoro pubblico.

Ci
sono ancora i progetti di emergenza a tre anni dal
sisma?

«L’umanitario
è sempre presente ad Haiti. Ci sono, da un lato, le agenzie dell’Onu, che
tentano di lavorare con il governo, e dall’altro le Ong che fanno i loro
programmi. I progetti di emergenza hanno un limite: lavorano sull’immediato,
sulle conseguenze di un insieme di problemi, ma non sulle loro cause.

Purtroppo
neppure il governo ha messo in piedi un meccanismo per attaccare queste cause.

Ad
esempio gli interventi su bacini versanti, la pulizia dei canali, la
riforestazione non sono stati fatti. Così arrivano gli uragani come Sandy e
causano morte e distruzione.

Le
sfide della situazione haitiana attuale sono tante, e allo stesso tempo, la
gente che ha votato Martelly vorrebbe vedere qualche segno di miglioramento. Ma
non c’è nulla che si manifesta in questo senso, se non la comunicazione. Vedo
quindi una certa disillusione in una parte dell’elettorato di Martelly. Mentre
altri continuano a difenderlo strenuamente. Poi ci sono gli oppositori che lo
criticano alla radio e gli fanno perdere consensi. Alcuni analisti sostengono
che il presidente non vuole le elezioni adesso perché ha paura di perdere.
Mentre lui vuole avere tutti i dieci posti da senatore e tutti i sindaci».

E
questo programma di sviluppo del Nord?

«Nel paese ci sono ancora molti problemi e non si sente
la volontà a risolverli. Nonostante alcuni eventi spettacolari, come
l’inaugurazione del parco industriale di Caracol.

L’idea è di fare al Nord del paese un polo economico.
Questo tramite tre elementi: un aeroporto a Cap Haitien (seconda città del
paese, ndr), che è diventato internazionale, una zona industriale nella
baia di Caracol e il progetto di un porto non lontano.

Sviluppare l’economia nel Nord attraverso l’industria
manifatturiera e turismo. La zona industriale inaugurata dovrebbe impiegare
37.000 persone in 3 anni. Adesso sono 1.000 i posti di lavoro creati. Oltra a
tutto questo hanno attivato una sezione universitaria del Nord che dipende
dall’Università di stato.

Le critiche sono che l’opzione della manifatturiera per
sviluppare il Nord non può essere sul lungo termine. Inoltre per fare la zona
industriale sono state cementificate terre agricole, togliendole alla
produzione di cibo e, d’altro lato, non è stata presa alcuna misura sui rischi
sociali e ambientali che un’operazione di questa portata può avere. Ad esempio
la creazione di bidonville, che si sono sempre formate nei pressi di
queste strutture.

Quali
sono i punti deboli della classe politica haitiana?

«Uno dei problemi centrali ad Haiti è che uomini e donne
politici haitiani, al potere o all’opposizione, non riescono ad analizzare,
constatare e accettare i rapporti di forza. Ma questo è necessario per il
dialogo politico. Se si avesse questa coscienza, si potrebbero fare sforzi per
costruire qualcosa, anche negoziando. E si prenderebbero disposizioni per
migliorare la propria posizione di forza, facendo un lavoro sul terreno.

Anche per questo motivo i partiti politici ad Haiti non
si costruiscono alla base, ma tramite l’accesso ai media: parlando alla radio. Invece
il partito va costruito con un lavoro di militanti, mettendo in piedi le
strutture, organizzando la base. La comunicazione è qualcosa in più che
permette di esprimersi; non organizza, piuttosto anima».

Cosa
bisognerebbe fare oggi ad Haiti?

«Vedo
la via di uscita in questo senso: strutture che accettino di costruirsi con un
lavoro sul terreno, e solo in un secondo tempo sviluppare le influenze a
livello pubblico.

Un
leader carismatico non risolve i problemi. È vero, occorre una voce
credibile che abbia séguito, ma anche costruire una militanza dalla base.

Uno
dei ruoli essenziali per i partiti politici, movimenti sociali e le strutture
popolari, è riprendere il lavoro di educazione popolare e di educazione civica.
Quanto era stato fatto prima del 1986. Dopo le crisi tutte le risorse sono
andate perdute, in particolare con il colpo di stato del ‘91, buona parte dell’élite
popolare è stata uccisa o è andata in esilio. Possiamo dire che abbiamo perso
quel lavoro.

Bisogna
ricominciare a riorganizzare i contadini, i partiti popolari, a educare la
gente sulle ideologie politiche. Cos’è la destra, cos’è la sinistra. Perché sul
terreno oggi non c’è alcun riferimento ideologico o a dei valori.

È
un ruolo importante, alcune associazioni lo stanno assumendo, ma non è la
tendenza dominante. L’incertezza economica, la precarietà hanno influito sui
settori sociali, hanno fatto si che tutti siano preoccupati di cosa succederà
domani.

I
movimenti sociali continuano a esistere e vedo una nuova cornordinazione tra
organizzazioni contadine, tra quelle delle donne e tra sindacati. Anche la
nascita di questi piccoli partiti politici: sono tutti segnali interessanti».

Marco Bello

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Marco Bello




UNA STORIA AFFASCINANTE! 25 anni di presenza in Corea del Sud per gli IMC

I Missionari della Consolata celebrano 25 anni di presenza in Corea del Sud.
Arrivati in Corea del Sud il 20 gennaio 1988, i primi quattro
missionari della Consolata iniziarono l’evangelizzazione tra i ceti sociali più
poveri e l’animazione missionaria nella Chiesa locale.

Con  l’arrivo di altro personale la
loro missione si caratterizzò per
il dialogo con le grandi religioni e, da ultimo, per il lavoro tra gli
immigrati stranieri. Fiore all’occhiello sono i 6 coreani entrati nella
nostra famiglia missionaria e già operanti in altri continenti.


Per uno sciopero all’aeroporto di Roma, arrivammo a Seoul con un
giorno e mezzo di ritardo, di notte, senza nessuno che ci aspettasse. Eppure potemmo
fin dall’inizio assaggiare la gentilezza e l’organizzazione perfetta del popolo
coreano. La ragazza del Centro di Informazioni prese con un bel sorriso il
numero di telefono dei Francescani che le porgevamo, li chiamò per capire bene
la nostra destinazione, fece arrivare il taxi all’uscita dell’aeroporto e, in
meno di un’ora, eravamo alla casa dei frati in centro Seoul. Era mezzanotte. «Ben
arrivati in Corea – ci accolse padre Beitia, superiore spagnolo dei Francescani
-. Siete a casa vostra!».

Così cominciò, il 20 gennaio
1988, la storia dei missionari della Consolata in Corea. Guardandola
all’indietro, 25 anni dopo, si dimostra una storia «affascinante».

Coreano, kimchi e
fantasia

L’aria era
satura dei lacrimogeni che la polizia usava in dosi generose per fronteggiare
le dimostrazioni quasi giornaliere degli studenti contro un governo che si
dichiarava democratico, ma che della democrazia cominciava solo a balbettare le
prime sillabe; e noi, tappandoci la bocca con il fazzoletto e asciugandoci le
lacrime che ci inondavano gli occhi, raggiungevamo la nostra classe per la
lezione di coreano, all’Università Yonsei. Ci chiedevamo dove fossimo capitati.

Le speranze e le attese
dell’Istituto per l’inizio assoluto della sua missione in Asia erano grandi.
C’erano stati accesi dibattiti prima che il Capitolo Generale del 1987
decidesse l’apertura all’Asia e scegliesse la Corea del Sud.

La nostra preparazione, era stata
più spontanea che altro: due mesi nella casa generalizia a Roma per conoscerci
e frateizzare, leggere articoli sulla situazione sociale, politica, culturale
e religiosa della Corea, avviare contatti epistolari con il vescovo della
diocesi di Incheon che ci avrebbe accolti… in attesa del sospirato visto per
la Corea. Insieme alla Direzione Generale di allora, soprattutto, «sognavamo».

Sognavamo una chiara e decisa «scelta
dei poveri», per fare con loro e per loro grandi cose. Sognavamo di offrire
alla Chiesa locale la nostra bella testimonianza di vita consacrata, con uno
stile comunitario vero, intriso di comunione, preghiera e fratellanza.

Sognavamo l’incontro con le
grandi religioni dell’Asia, di cui avevamo qualche idea superficiale, ma i cui
nomi ci riempivano di misteriosa curiosità: buddismo, confucianesimo,
sciamanesimo. Sognavamo di diventare un possibile «ponte» verso la grande e, in
quel momento, inaccessibile Cina. Sognavamo, soprattutto, di dare una buona
mano alla Chiesa locale, che allora contava solo il 3% della popolazione, per
farla crescere in numero e qualità.

Sognavamo, ma ora, tra l’odore
acre dei lacrimogeni, ci chiedevamo dove fossero finiti i nostri sogni.

La lingua coreana si rivelò
subito un osso più duro del previsto; per sentirci sufficientemente a nostro
agio ci vollero 4-5 anni di sforzo costante. Anche l’adattamento a cibo, agli
usi e costumi coreani richiese molta buona volontà: dopo 25 anni posso dire che
è buono anche il kimchi (cavoli piccanti).

Il Paese era in pieno boom
economico e i poveri stavano «sparendo» velocemente dall’orizzonte. La Chiesa,
piccola ma ben strutturata e organizzata, contava già forze pastorali
sufficienti per le sue parrocchie, i laici impegnati erano numerosi e i
seminari erano strapieni di candidati. Non c’erano parrocchie da affidare a
missionari stranieri. Dove eravamo capitati? Qual era il nostro posto da
missionari in Corea? Missione in Asia sì, ma «quale» missione?

Noi siamo  per i non cristiani!

La nostra prima esperienza tra i
poveri fu a Man-sok-dong, un «villaggio della luna» di Incheon, come sono
chiamati in Corea i quartieri periferici delle città, specie di baraccopoli
dove si ammassavano i poveri; quartieri che già allora stavano sparendo,
inghiottiti dai grattacieli dei progetti di ri-costruzione delle città. Visto
che la Chiesa locale non aveva bisogno di noi come parroci (anche se aiutavamo
molto nelle parrocchie); dato che l’assistenza sociale nel paese era ben
strutturata ed efficiente (con suore in prima linea in un numero impressionante
di centri per portatori di handicap, orfanotrofi, ospedali, case per anziani) e
la società non aveva bisogno di noi per costruire scuole e ospedali, scavare
pozzi e fare opere di sviluppo… constatato che la nostra immagine tradizionale
di missione era impossibile da realizzare andammo in crisi!

Una crisi molto benefica,
peraltro; capimmo e accettammo che Qualcuno ci stava purificando, tagliando i
rami secchi: i «nostri» progetti e sogni, per renderci più liberi e disponibili
a seguire i Suoi! Privati del nostro stile classico di missione, riscoprimmo
tutta la bellezza e validità del carisma trasmessoci dal beato Giuseppe
Allamano: «Voi siete per i non cristiani».

Si trattava solo di cercare il «come»
essere per i non cristiani. E non fu facile. Lo Spirito Santo, però, al momento
opportuno ci venne in aiuto, come sempre ha fatto. Così il discernimento è
diventato il mezzo naturale per cercare di scoprire cosa e dove e come il
Signore volesse da noi nella missione. L’allora superiore generale, padre
Giuseppe Inverardi, ci offrì fino alla fine vicinanza e appoggio «affettivi»,
assieme a una preziosa libertà di pensiero e di opzione. La visita di uno dei
consiglieri di allora, padre Ramon Cazallas, ci aiutò a rompere gli indugi e a
decidere la nostra prima opzione missionaria: creare una «comunità
d’inserimento» nel quartiere di Man-sok-dong. Si trattava di «vivere assieme ai
poveri», più che fare qualcosa per loro.

Mentre Paco Lopez (spagnolo) e
Alvaro Yepes (colombiano) restavreno nella casa presa in affitto a Yok-kok,
nostro quartiere generale, Luiz Emer (brasiliano) e io ci spostammo, il
mercoledì delle ceneri del 1992, in una casetta esattamente come tutte le altre
di Man-sok-dong, dando inizio alla seconda comunità in Corea, dedita
all’evangelizzazione dei poveri urbani.

Angeli, amici e benefattori

L’arrivo nel quartiere di un
gruppo di preti stranieri (e la nostra presenza nelle parrocchie vicine) suscitò
molta curiosità nei cattolici. Le visite a casa si susseguivano: gruppi di
catechisti, donne della Legio Mariae; membri dei cori parrocchiali;
persone singole o gruppetti di amici. Quante volte dovemmo rispondere, nel
nostro coreano ancora incerto, a domande da interrogatorio di quarto grado: sì,
siamo ognuno di un paese diverso; sì, viviamo assieme e di solito non
litighiamo; sì, anche in Europa ci sono le quattro stagioni e le angurie; sì,
ci piace il kimchi (anche se allora era una bugia).

Monica, una signora della parrocchia,
si metteva spesso a nostra disposizione con la sua auto per fare le spese,
accogliere i visitatori all’aeroporto, per portarci nel luogo scelto per le
nostre vacanze comunitarie estive. Pundo, un signore che faceva il taxista, era
a nostra disposizione per i problemi tecnici concreti quotidiani. Francesca,
Sofia e tante altre catechiste, erano sempre a disposizione per correggere il
testo in coreano delle nostre omelie. E tante altre persone ci passavano
accanto: veri angeli del Signore per accompagnarci nel cammino e aiutarci a
credere che Lui non ci lasciava soli.

Tale situazione offriva una
preziosa opportunità per l’animazione missionaria. Cominciammo con un incontro
mensile di formazione per chi lo volesse; poi qualche ritiro spirituale; incontro
mensile missionario per gli alunni del catechismo delle elementari e medie.

Il «Gruppo amici» era fondato!
Quel fenomeno di Alvaro, destreggiandosi nei meandri della burocrazia locale,
riuscì a ottenere un numero di conto corrente «ufficiale», con grande sorpresa
di altre comunità religiose che non c’erano ancora riuscite. Così anche le
offerte degli amici cominciarono ad affluire costanti e generose.

Da quel momento le cose si sono
molto evolute; prima di tutto costruimmo la nostra casa-madre a Yok-kok. In
questa circostanza l’angelo inviato da Chi continuava a purificarci ma sempre
con un occhio di riguardo, rispondeva al nome di Kim Joseph. Questi, esperto di
costruzioni, si fece carico di «sorvegliare» la costruzione al posto nostro.
Essa ci pareva enorme a quei tempi, mentre adesso è diventata un nanerottolo,
schiacciato dai grattacieli nel frattempo sorti accanto.

Fin
dall’inizio ci preoccupammo di avere gli spazi necessari per l’animazione
missionaria e per altre eventuali attività non ancora previste. C’era infatti
un giovanotto che ci si era avvicinato e ci «annusava» con curiosità e
interesse, finché un giorno prese il coraggio a due mani e ci chiese se fosse
potuto anche lui «diventare come noi». Iniziò così anche il discorso del
discernimento vocazionale e quello più complesso della formazione. A quel Paolo
ne seguì un altro, poi altri giovani ancora. Purtroppo, in fasi diverse della
loro formazione, quei primi candidati coreani missionari della Consolata
uscirono tutti, ma ebbero il merito di aprire il cammino, di farci riflettere
su come agire con gli studenti coreani, quale formazione attuare con loro, come
meglio proseguire con le attività di formazione e animazione missionaria.

Il discernimento, illuminato
anche da padre Piero Trabucco, l’allora superiore generale, ci convinse a
pubblicare una rivista missionaria ad gentes per la Corea. Essa sarebbe
stata di forte aiuto per la nostra cerchia di amici, un prezioso mezzo di
animazione vocazionale, per attirare altri giovani alla bellezza della
vocazione missionaria, e un forte stimolo per la Chiesa coreana, molto attiva
nell’annunciare il Vangelo ai vicini, ma molto meno nel farlo ai lontani.

«La Consolata» in coreano

Anche questa
volta il discernimento ci spinse a lanciarci in una nuova avventura. Era il
1995. Nel frattempo erano arrivati altri missionari: Gianpaolo Lamberto,
italiano, e Antonio Domenech, spagnolo, nel 1992; Rafael, argentino, e
Benjamin, colombiano, nel 1994; per il 1996 era previsto l’arrivo di Alvaro
Pacheco, portoghese, e Juan Pablo, colombiano. Crescendo il nostro numero,
aumentava anche la capacità di lavoro. L’angelo di tuo questa volta si
chiamava Choi Marino, giornalista di professione; era seriamente ammalato, ma
ci diede ugualmente un aiuto decisivo, insieme a Shin Ki-jin, protestante, ma
amico fedelissimo, che da quasi 20 anni continua ad essere l’editore della
nostra rivista «La Consolata», naturalmente con caratteri coreani.

L’esperienza di Marino, mancato
purtroppo nel gennaio del 2000, si dimostò utile per indurci a pubblicare,
accanto alla rivista, una serie di sussidi di formazione missionaria che ebbero
il loro momento di gloria, e per riorganizzare il Gruppo degli Amici, secondo
la classica struttura coreana.

Grazie a questo, abbiamo iniziato
a organizzare «pellegrinaggi di esperienza missionaria», prima alle radici
dell’Istituto in Italia, poi alle missioni in Kenya, alle nostre presenze in
Spagna, in Portogallo e in Mongolia.

A tali iniziative si aggiungono i
problemi per trasmettere un autentico spirito missionario ad gentes alle
persone, per accrescere il numero dei benefattori, per diffondere la rivista…
ed altri ancora. Nonostante gli enormi sforzi fatti dalla nostra équipe
di Animazione missionaria vocazionale, non siamo ancora riusciti a formare un
gruppo giovanile missionario stabile. Anche in Corea le vocazioni alla vita
religiosa e missionaria sono drasticamente scese di numero. Eppure siamo
convinti che il Padrone della Vigna sia ancora al lavoro, magari sotto traccia,
per noi.

Finalmente, gli «altri»

«Mi rifugio nel santo Buddha, mi
rifugio nella santa dottrina, mi rifugio nella santa comunità dei monaci». È la
classica «professione di fede» buddista, cantilenata al ritmo del mok-tak
(un tamburello di legno concavo) dalla monaca che guida la solenne
celebrazione, mentre l’intera assemblea si profonde in rispettosi inchini a
ogni invocazione. Sono alla cerimonia pubblica per la festa della nascita di
Buddha; vi partecipo su esplicito invito del vescovo di Tae-jon, mons. Ryu
Lazzaro, che porta alla comunità buddista gli auguri della Chiesa cattolica. I
molti monaci, di vari ordini buddisti, e la grande folla ascoltano con
attenzione quando il vescovo legge loro il messaggio augurale ufficiale,
pubblicato ogni anno per l’occasione dal Pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso.

Già ai tempi di Man-sok-dong
avevo avuto la possibilità di avvicinare qualche mu-dang (donna
sciamana) e di assistere a qualcuno dei loro rumorosissimi riti. Così pure, fin
dal nostro arrivo in Corea, avevamo visitato numerosi templi buddisti,
meravigliandoci al vedere una religione «viva» che guidava la vita di milioni
di persone.

Il grande sogno d’incontrare le
religioni non cristiane del paese, coltivato ancor prima di arrivare in Corea,
pur sempre vivo, era stato a lungo dilazionato a causa di altre necessità della
nostra missione, così come si stava sviluppando. Solo padre Antonio, arrivato
con la seconda ondata, dotato di sensibilità particolare in questo campo,
intrecciava le prime relazioni con monaci buddisti e membri di altre religioni.
Ma a dare la carica fu la visita di padre Alberto Trevisiol, allora vice
superiore generale: in un nuovo discernimento fu deciso di assumere il dialogo
interreligioso come dimensione costitutiva della nostra missione in Corea,
espressione chiara del nostro essere «per i non cristiani». Correva l’anno di
grazia 1995.

La decisione formale, però, prima
di diventare effettiva, ebbe bisogno di un lungo iter di preparazione.
Accompagnando Antonio, che aveva cominciato a studiare Religioni Comparate
all’Università cattolica di So-gang, cominciai anch’io a frequentare gli «altri»,
a partecipare a seminari di presentazione delle varie religioni per capire
meglio la loro fede e vita, a «pellegrinaggi interreligiosi» per visitare i
loro luoghi sacri, a tessere relazioni con i fedeli delle «religioni dei nostri
vicini», come si chiamano in Corea le «religioni non cristiane», espressione
molto significativa.

Fu costruito un piccolo centro
per il dialogo interreligioso a Ok-kil-dong, non lontano dalla base di Yok-kok,
completato e inaugurato nell’aprile del 1999 dal nostro vescovo, mons.
McNaughton, alla presenza del nunzio, mons. Morandini, con la partecipazione di
amici di diverse tradizioni religiose e di un buon numero di Amici Imc. Era
nata la terza presenza della nostra missione in Corea.

Dopo un primo periodo esaltante,
pieno di incontri e attività, grazie anche alla «Catena della pace», gruppo di
dialogo di candidati leaders religiosi, che aveva preso il nostro centro
come loro base di operazioni, seguì un periodo di delusione e fatica: la Catena
della pace sciolta, ci fu qualche crisi vocazionale intea… ma non abbiamo
mai mollato! Fin dal 2002 fummo chiamati dalla Conferenza episcopale coreana a
far parte della Commissione per il dialogo ecumenico e interreligioso; più
tardi entrammo nella Commissione per il Dialogo della Conferenza coreana delle
religioni per la Pace (Kcrp), partecipazioni «ufficiali» ci diedero molta
visibilità nel campo del dialogo interreligioso, anche perché ero l’unico
partecipante «straniero».

Con alcuni dei nostri cattolici
facemmo molte visite a gruppi e centri delle «religioni dei nostri vicini»;
eravamo riusciti a creare relazioni stabili con un gruppo di fedeli buddisti di
un tempio vicino (2005-2006), grazie all’interesse e accoglienza del loro
monaco guida; ma quando questi fu spostato in un eremo sulle montagne, tutto il
processo fu interrotto. Poi intervenne il Padrone della vigna, tramite il
governo coreano questa volta: per fare spazio a un complesso di case popolari,
espropriò tutti coloro che vivevano nell’area dove c’era il nostro centro.

Nuova crisi e nuovo
discernimento. Ma l’esperienza accumulata ci permise di costruire un nuovo
centro in un’altra zona, più adatto al tipo di dialogo che nel frattempo
avevamo maturato: un dialogo di base tra fedeli di varie religioni, da
prolungare nel tempo e non ridotto a qualche sporadico incontro; un dialogo
fatto attraverso lo scambio dell’esperienza religiosa, che fosse di
arricchimento per tutti.

Nella nuova zona, nella diocesi
di Tae-jon, nel centro della Corea, il vescovo ci accolse a braccia aperte,
esclamando: «Anche noi a Tae-jon abbiamo bisogno di consolazione! E in quanto
al terreno, non preoccupatevi. Dio ha già scelto il luogo adatto per voi: si
tratta solo di trovarlo!».

Era vero. Il Padrone della vigna
ci aveva riservato un bel posto, e il solito angelo delle nostre costruzioni,
il signor Kim Joseph, accompagnato dal figlio Matteo, provvide a completare la
costruzione in tempo per celebrare i 25 anni di nostra presenza in Corea.

Burroni e vette

Dopo vari
anni di presenza a Man-sok-dong, dove l’ammodeamento dell’area diventava
sempre più concreto, cominciammo a riflettere sul senso, stile e forma di presenza
in quel «quartiere della luna», finché la comunità decise che era ora di
cambiare. Nel 2001, una comunità di tre missionari, si stabilì in un altro
quartiere di poveri, a Ku-ryong-maul, nella stessa capitale Seoul. Lo spazio
della nostra abitazione era limitatissimo, ma trovammo un’altra casetta accanto
e l’adibimmo a doposcuola per i ragazzi del quartiere e per altre attività.

Della
comunità di Ku-ryong-maul faceva parte anche il keniano Joseph Otieno. Ci
viveva felice, facendo, secondo le sue stesse parole, «le piccole cose che
c’erano da fare»: riparazioni nella casa di alcune nonnine del luogo, fare la
spesa e altri servizi per le stesse nonnine, assistenza e pratica dell’inglese
per i ragazzi del doposcuola… Era anche un vero atleta, tanto da iscriversi a
un gruppo sportivo che partecipava alle corse amatoriali. Il 18 dicembre 2005,
stava partecipando con il suo gruppo sportivo a una mezza maratona, organizzata
per raccogliere fondi a favore dei bambini sofferenti di cuore… quando il suo
cuore si fermò nei primi chilometri della corsa. Aveva 31 anni. Lo shock fu
tremendo e la crisi altrettanto dura. Non ci restava che aggrapparci alla fede
con tutte le forze. Anche perché, all’inizio dello stesso anno orribile, in un
incidente d’auto, avevamo perso David, seminarista di 29 anni. Dopo questi
fatti si prospettava una nuova evoluzione: anche la nostra presenza a
Ku-ryong-maul stava perdendo un po’ di significato. Avevamo scoperto che, da
qualche anno, i «più poveri dei poveri» in Corea erano gli immigrati stranieri,
entrati nel paese, spesso illegalmente, in cerca di lavoro. Inizialmente la
Chiesa coreana stentò a rendersi conto del fenomeno, ma poi rispose con grande
generosità e organizzazione, tipiche del popolo coreano.

Anche noi decidemmo di collaborare
con la Chiesa locale nell’opera di assistenza e accoglienza dei lavoratori
stranieri. Nell’ottobre 2007 ci siamo stabiliti anche a Tong-du-cheon, città a
nord est di Seoul, diocesi di Ui-jong-bu. Ben presto la nuova casa diventò un
punto di riferimento sicuro per i molti immigrati stranieri che vivevano nella
zona. Ed è l’espressione attuale dell’evoluzione che la famosa «opzione per i
poveri» ha avuto nella nostra storia. 

Tra avvicendamenti e nuovi arrivi
di missionari il lavoro continua, grazie anche agli «angeli», moltiplicati e
diversificati, mandati dal Signore per accompagnare il nostro cammino.

«Non vi sembra un caso
straordinario che i due primi missionari della Consolata coreani ad essere
ordinati sacerdoti abbiano tutti e due lo stesso nome: Han Gyeong-ho?» proclamò
estasiato il vescovo di Incheon, all’ordinazione di Pietro e Martino, l’8
ottobre 2009; e la numerosissima assemblea rispose con un «oh!» di meraviglia,
stretta con affetto attorno ai due novelli sacerdoti. «Sono destinati uno al
Brasile e l’altro alla Spagna – proseguiva il vescovo – inviati anche dalla
nostra Chiesa coreana come missionari ad gentes».

Sì, il Padrone della vigna, oltre
a farci sperimentare la sofferenza dei «burroni», ci dava finalmente anche la
gioia di gustare l’ebbrezza delle «vette». E il dono si è ripetuto più volte.
Nel gennaio 2011 fu la volta di Kim Joseph (ora in Colombia) e nel gennaio 2012
quella di Lee Benigno (ora in Kenya). In occasione della festa della Consolata
2012 è stato ordinato diacono Kim Giuseppino, che riceverà la consacrazione
sacerdotale all’inizio del 2013, in concomitanza con il 25° della nostra
presenza in Corea.

In dirittura di arrivo c’è anche
Marco, per ora in formazione in Argentina. Intanto continuiamo a sperare che il
Padrone della vigna mandi altri giovani decisi a offrire generosamente la loro
vita per la missione ad gentes.

Conclusione

Lunga e
affascinante la nostra storia in Corea. Molte altre cose sono successe in
questi 25 anni, ma non sono state scritte, perché ci vorrebbero troppi libri
per contenerle. Posso però affermare con certezza: è affascinante scoprire che,
dietro a ogni avvenimento, grande o piccolo che sia, c’è la mano di Colui che è
«protagonista» della missione a pieno titolo. È Lui che guida la storia e le
storie, che dà significato agli eventi, che attira tutto a Sé, in maniera a
volte evidente, a volte nascosta e discreta, come sotto traccia, ma sempre
certa.

È
affascinante scoprire come la missione non la facciano gli eventi o i momenti
importanti, che pure ci sono ogni tanto, ma le piccole cose, la vita d’ogni
giorno, che sembra non dire e non fare niente di eccezionale, ma poi si scopre
essere il tessuto di una storia intera che, vista globalmente e da giusta
distanza, si rivela come un arazzo bellissimo.

È affascinante, infine, scoprire
come la missione, l’annuncio della Buona Notizia agli altri, diventi esperienza
personale di vangelo, di fede autentica nel Signore, che di giorno in giorno si
va purificando, approfondendo, diventando linfa vitale.

A risentirci per il 50°!
 
Diego Cazzolato

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Diego Cazzolato




USATE LA TESTA! (Malattie sessuali – 2)

LE «MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE»
(seconda parte)
Per
evitare i seri problemi connessi alle malattie sessualmente trasmesse (Mst)
basterebbe tenere comportamenti prudenti e
conoscere le varie patologie.
Il tutto, come ricorda anche il nostro titolo, è riassumibile in una semplice
esortazione: «Usate la testa!».

Nel nostro precedente articolo abbiamo visto che la
diffusione delle «infezioni sessualmente trasmesse» sta assumendo proporzioni
preoccupanti a livello mondiale e che le loro conseguenze possono compromettere
seriamente la qualità della vita, se non addirittura la vita stessa. Le sequele
di alcune di queste patologie possono – inoltre – portare a sterilità. È perciò
indispensabile prevenire queste malattie, soprattutto perché non per tutte
esistono cure efficaci. La prevenzione si basa sull’adozione di comportamenti
prudenti, nonché sulla conoscenza di queste infezioni e delle loro conseguenze.
Pertanto, in questa seconda parte e nella prossima saranno descritte le
principali malattie sessualmente trasmesse.

Premetto che le malattie causate da batteri e da protozoi
sono curabili mediante antibiotici, che invece non agiscono sui virus, per
alcuni dei quali vengono utilizzate combinazioni di farmaci antivirali, che,
allo stato attuale, riescono a contenere l’infezione, ma non a guarirla
definitivamente. La cura va estesa alla coppia, per evitare possibili
reinfezioni. Nel caso di persone con rapporti promiscui, bisognerebbe risalire
a tutte le persone potenzialmente contagiate.

Cominciamo con il descrivere le malattie di più vecchia
data.

LA SIFILIDE

La sifilide (detta anche lue) è una malattia
batterica, il cui agente eziologico è il Treponema pallidum, una
spirocheta (vedi Glossario) molto sensibile alle condizioni ambientali,
per cui normalmente viene trasmessa da persona a persona attraverso un rapporto
sessuale. Talvolta avviene la trasmissione simultanea di sifilide e di
gonorrea, che vedremo successivamente. Delle due sicuramente è più pericolosa
la prima, che ogni anno uccide circa 100.000 persone al mondo, contro le 1.000
della seconda. Negli ultimi anni, l’incidenza della sifilide è aumentata a
livello mondiale. Basta pensare che solo negli Stati Uniti è passata da circa
6.000 nuove infezioni nel 1997 alle attuali più di 10.000. Troviamo un’analoga
situazione nel Regno Unito, in Australia, in Europa (specialmente nell’est
Europa ed in particolare in Russia), in Cina. Nell’Africa sub-sahariana, la
sifilide è responsabile del 20% delle morti perinatali. Si ritiene che circa 12
milioni di persone siano state colpite dalla sifilide nel 1999, con più del 90%
dei casi registrati nei Paesi in via di sviluppo. Si stima inoltre che questa
malattia colpisca tra le 700.000 e 1,6 milioni di donne gravide all’anno; in
questo caso è possibile la sua trasmissione transplacentare con aborti
spontanei, bambini nati morti e neonati con sifilide congenita. Le spirochete
della sifilide vengono trasmesse attraverso microlesioni, che possono
facilmente trovarsi sulle mucose genitali (nel 10% dei casi la sifilide è
extragenitale, di solito localizzata nella regione orale). Se non curata, la
sifilide si sviluppa in tre stadi successivi, l’ultimo dei quali può
concludersi con la morte del paziente per interessamento dei sistemi
cardio-circolatorio e nervoso. Il decorso della malattia, in assenza di cure,
può essere di svariati anni (fino a 20). Nel primo stadio, o sifilide primaria,
dopo un periodo di latenza variabile da 2 settimane a 2 mesi, compare nel luogo
d’infezione (di solito nelle mucose coinvolte in atti sessuali) una lesione
caratteristica detta sifiloma primario, una sorta di papula non dolorosa, che
produce un essudato contenente i batteri attivi ed infettivi.
Contemporaneamente si verifica il rigonfiamento dei linfonodi vicini. Questa
sintomatologia dura circa un paio di settimane, per poi risolversi spontaneamente.
Questo fatto spesso induce il paziente a sottovalutare le conseguenze: in
assenza di cure antibiotiche, ciò comporta la possibilità di diffusione delle
spirochete dal sito iniziale a varie parti del corpo tra cui le membrane
mucose, gli occhi, le articolazioni, le ossa, il sistema nervoso. A distanza di
diversi mesi (fino ad un paio d’anni) dalla lesione iniziale, compare quindi la
sifilide secondaria, caratterizzata inizialmente da un esantema (Glossario)
diffuso, detto roseola, seguito dalla comparsa di numerosissimi sifilomi simili
a quello primario, distribuiti ovunque e anch’essi contenenti treponemi
infettivi, con linfoadenopatia (Glossario) diffusa. Circa un quarto dei
pazienti in questo stadio va incontro a guarigione spontanea, un altro quarto non
procede verso un’ulteriore evoluzione della malattia, ma cronicizza in
un’infezione permanente, mentre la metà dei pazienti giunge al terzo ed ultimo
stadio, o sifilide terziaria, caratterizzata da iniziali lesioni cutanee
simil-psoriasiche ed eczematose, che possono trasformarsi in gomme luetiche (Glossario)
distribuite in tutto il corpo e da infezione dei sistemi cardio-circolatorio e
nervoso. L’interessamento di quest’ultimo porta spesso alla cecità, alla tabe
dorsale (Glossario) ed alla follia. La penicillina G benzatina è uno dei
più efficaci antibiotici contro la sifilide, quindi la malattia può essere
curata, a patto di una diagnosi tempestiva effettuabile mediante test di
laboratorio come il Vdrl e il Tpha.

LA GONORREA

La gonorrea o blenorragia è anch’essa una
malattia batterica causata da un diplococco, la Neisseria gonorrhoeae,
un patogeno molto sensibile alla disidratazione, alla luce solare ed
ultravioletta, che normalmente non riesce a sopravvivere lontano dalle mucose
del tratto genito-urinario. Questa malattia è molto più diffusa della sifilide,
poiché spesso si presenta in forma asintomatica, specialmente nelle donne,
quindi non viene riconosciuta. La sintomatologia della gonorrea è diversa tra
donne e uomini. Nelle donne si presenta con una vaginite spesso lieve, con
leucorrea (Glossario), non dissimile da quelle causate da altri
microorganismi, per cui può essere sottovalutata dalla donna, oppure con una
cervicite, poiché uno dei primi siti coinvolti è la cervice uterina. È però
temibile una sua complicanza, la malattia infiammatoria pelvica (Mip), che può
portare a sterilità. Si stima che circa 1/3 di donne infette vada incontro alla
Mip. Il diplococco della gonorrea può facilmente interessare anche le mucose
oculari e condurre a gravi infezioni oculari neonatali, che possono portare
alla cecità. L’infezione del neonato avviene alla nascita, durante il passaggio
nel canale del parto. Per prevenire questo pericolo, alla nascita gli occhi di
tutti i neonati vengono trattati con un unguento contenente eritromicina. Negli
uomini i sintomi più frequenti sono le uretriti ed i disturbi alla minzione, ma
possono verificarsi complicazioni per l’estensione dell’infezione batterica
all’epididimo ed alle vescichette seminali, con conseguente sterilità maschile.
In entrambi i sessi possono inoltre verificarsi proctiti e faringiti, poiché il
gonococco può colpire le mucose delle sedi anale e faringea. Inoltre le
complicanze da gonorrea non curata possono comprendere danni alle valvole
cardiache ed alle articolazioni. Fino agli anni ’80 il trattamento con
penicillina è stato il metodo d’elezione per curare la gonorrea, ma negli anni
successivi sono comparse forme resistenti a tale antibiotico (per mutazione
batterica), soprattutto a partire dal 2006, quando si è giunti al 14% di ceppi
di Neisseria resistenti, per cui si è dovuto ricorrere ad antibiotici diversi,
come il cefixime ed il ceftriaxone. Il problema della resistenza agli
antibiotici è di particolare gravità per tutte le patologie batteriche, perché c’è
il rischio (molto concreto ed attuale purtroppo) della diffusione o della
ricomparsa di malattie, che con la scoperta degli antibiotici erano state quasi
debellate o almeno curate agevolmente. Questo è il motivo per cui si raccomanda
di assumere gli antibiotici soltanto in casi di effettiva necessità ed
esclusivamente sotto il controllo medico, per scongiurare il rischio di
ritrovarsi infetti da un ceppo mutato, verso il quale non esistono cure. La
diffusione di questa patologia nel mondo rimane molto elevata per i seguenti
motivi: (1) non esiste una valida immunità acquisita, poiché vengono prodotti
anticorpi, che verosimilmente sono ceppo-specifici, quindi sono sempre
possibili nuove infezioni con altri ceppi di Neisseria nel corso della vita;
(2) l’uso dei contraccettivi orali favorisce l’attecchimento di questo
batterio, poiché riduce enormemente la produzione del glicogeno vaginale, con
conseguente aumento del pH vaginale e repentina scomparsa del lattobacillo di
Doderlein, un batterio commensale, la cui assenza favorisce l’infezione da
parte dei ceppi patogeni; (3) la possibilità che la malattia si presenti in
forma asintomatica nella donna favorisce enormemente la sua trasmissione nei
rapporti non protetti, specialmente nel caso di promiscuità sessuale.

INFEZIONI DA CLAMIDIA

La Chlamydia trachomatis (o più
comunemente clamidia) viene spesso trasmessa contemporaneamente alla gonorrea
(si stima nel 50% dei casi di gonorrea), oppure da sola e rappresenta una delle
più diffuse patologie a trasmissione sessuale. Si tratta di un microorganismo
intracellulare obbligato (che cioè svolge il suo ciclo vitale all’interno delle
cellule, comportamento tipico dei virus, piuttosto che dei batteri, che
normalmente stanno al di fuori delle cellule ed esplicano la loro azione con la
produzione di tossine). Tuttavia non è un virus, poiché presenta
contemporaneamente entrambi gli acidi nucleici (Dna ed Rna) ed inoltre risponde
agli antibiotici, a differenza dei virus. Si stima che le infezioni da clamidia
restino asintomatiche nel 70% delle donne contagiate e nel 50% degli uomini, il
che spiega l’enorme diffusione di questa patologia. Quando i sintomi sono
presenti, molto spesso si manifestano sotto forma di uretrite non gonococcica
in entrambi i sessi. In certi casi l’uretrite da clamidia può evolvere con
edema testicolare ed infiammazione della prostata nell’uomo e con infiammazione
della cervice e malattia infiammatoria pelvica (Mip) nella donna. Nelle donne
possono verificarsi gravi danni alle tube di Falloppio (vedi Glossario),
che portano alla sterilità in percentuale variabile tra il 10-40%. La clamidia
può essere trasmessa ai neonati al momento del parto ed essere causa di
congiuntivite e di polmonite neonatale. Alcuni ceppi di clamidia (in questo
caso non trasmessi con i rapporti sessuali, ma con l’acqua contaminata) sono
responsabili di una gravissima patologia oculare, il tracoma, spesso causa di
cecità. Questa patologia è diffusa in tutto il mondo, ma soprattutto in Africa,
Medio Oriente, Australia e parte dell’Asia. Il Paese più colpito è la Nigeria
(quasi metà della popolazione a rischio). Una patologia piuttosto insidiosa
data dalla clamidia è il linfogranuloma venereo, più diffuso tra gli uomini,
che tra le donne. La sintomatologia compare a circa un mese dal contagio e
consiste nella formazione di dolorose ulcere a livello degli organi genitali o
del retto, talvolta con formazione di fistole. Normalmente c’è rigonfiamento
dei linfonodi inguinali. In assenza di cure adeguate possono verificarsi
complicazioni per diffusione dell’infezione alle articolazioni, al sangue o al
cervello, con la comparsa di setticemia o di meningite. Il linfogranuloma
venereo è raro negli Stati Uniti ed in Europa (nel 2011 tuttavia è stato
registrato un focolaio di 72 casi a Barcellona soprattutto tra omosessuali già
contagiati dall’Hiv), mentre è più diffuso in Sud America ed in generale nei
Paesi tropicali. Questa patologia è curabile con antibiotici come la
doxiciclina, l’eritromicina e la tetraciclina.

ULCERA MOLLE E TRICOMONIASI

Tra le malattie batteriche sessualmente
trasmesse c’è anche l’ulcera molle o cancroide, data dall’Haemophilus ducrey,
molto raro nei Paesi temperati e frequente invece nei Paesi tropicali e
sub-tropicali, soprattutto in Africa, Sud America e Asia. La malattia è molto
contagiosa e l’infezione può propagarsi da un punto all’altro del corpo, ma non
costituisce una minaccia per la vita. Anche in questo caso possono esserci
persone del tutto asintomatiche, ma infettive e chi è contagiato da questo
batterio presenta un rischio sette volte maggiore di contrarre l’Aids. Anche in
questo caso si formano ulcere a livello dei genitali, con ingrossamento dei
linfonodi, fistole e perdite sierose o purulente.

Il Trichomonas vaginalis è un protozoo
responsabile della tricomoniasi. Esso si localizza prevalentemente nella
vagina, ma può interessare anche altri organi dell’apparato urogenitale e può
colpire sia donne che uomini. A livello vaginale provoca un innalzamento del
pH, poiché inibisce il lattobacillo di Doderlein, che invece acidifica
l’ambiente vaginale proteggendolo dai batteri provenienti dall’esterno. Nella
donna la sintomatologia va dalla vaginite con leucorrea all’alterazione del
ciclo mestruale, ai disturbi urinari, accompagnati da nausea, irritabilità,
dimagrimento, pollachiuria. Possono esserci manifestazioni emorragiche dovute
all’indebolimento dell’epitelio vaginale per carenza di estrogeni e per la
presenza del Trichomonas ed inoltre può esserci un rapporto tra questa
infezione e la sterilità poiché l’innalzamento del pH vaginale non è idoneo
alla sopravvivenza degli spermatozoi. È stata inoltre riscontrata una
correlazione altamente significativa tra la tricomoniasi vaginale e gli stati
precancerosi e cancerosi osservati nella citologia vaginale. Negli uomini il Trichomonas
provoca uretriti acute o croniche. Nel secondo caso possono esserci anche
balanite, prostatite ed epididimite. La terapia si avvale di antimicotici sia
per uso topico, che per via orale, come l’imidazolo ed il metronidazolo. La
percentuale di donne colpite varia tra il 9-20% nelle donne di origine
asiatica, tra il 20-30% in quelle di origine europea e tra il 40-70% in quelle
di origine africana. La percentuale di uomini colpiti si aggira intorno al 10%.
È opportuno ricordare che il Trichomonas vaginalis può sopravvivere 1-2
ore su superfici umide e 30-40 minuti in acqua, per cui può essere acquisito,
oltre che con i rapporti sessuali, anche attraverso l’uso di servizi igienici,
panche, saune ed asciugamani contaminati.

Le malattie viste finora sono tutte di tipo
batterico o protozoario, di solito controllabili con antibiotici. Negli ultimi
tre decenni si sono però diffuse infezioni sessualmente trasmesse – provocate
da virus come quello dell’Aids, delle epatiti virali, dell’herpes genitale e
del papilloma umano – molto più difficili da affrontare e responsabili di
milioni di decessi. Le scopriremo nella prossima puntata.

Rosanna
Novara Topino

(fine seconda parte –
continua)

GLOSSARIO

Balanite:
infiammazione della testa del glande spesso estesa anche al prepuzio. In questo
caso si dice balanopostite.

Cervicite:
infiammazione della cervice uterina.

Citologia
cervico-vaginale
(Pap Test): studio delle esfoliazioni dell’epitelio vaginale
altrimenti conosciuto come Pap Test, dal nome del suo ideatore George
Papanicolau. L’esame serve ad evidenziare lesioni citologiche precursori di
neoplasie cervicali, in modo da effettuare sia la prevenzione che la diagnosi
precoce dei tumori del collo dell’utero. Permette inoltre di evidenziare le
lesioni cervico-vaginali virali, batteriche, micotiche o protozoarie e di
valutare il clima ormonale.

Diplococchi:
tipi di batteri sferici od ovoidali (cocchi) riuniti in coppie, come il gonococco
(gonorrea) ed il meningococco (meningite).

Epididimo:
è una parte dell’apparato genitale maschile. Si tratta di un dotto di piccolo
diametro più volte ripiegato, che collega i dotti efferenti dal retro del
testicolo al dotto deferente.

Esantema:
qualsiasi eruzione cutanea con alterazione del colore della cute.

Glicogeno:
è un polimero del glucosio di origine animale analogo all’amido di origine
vegetale. Funziona da sostanza energetica di riserva.

Gomma
luetica
: processo patologico caratteristico del periodo terziario della
sifilide che si manifesta con lesioni singole o multiple, costituite da nodosità
piuttosto grosse localizzate agli arti, alla cute, alle mucose, al fegato, alle
ossa e ad altre parti del corpo. Dopo un primo periodo detto di crudezza, in
cui le lesioni si presentano dure, queste nodosità si rammolliscono e
successivamente si ulcerano liberando una sostanza filante costituita da
residui necrotici dei tessuti caduti in disfacimento.

Fistola:
comunicazione patologica tubulare tra due strutture o tra due cavità
dell’organismo o tra esse e l’esterno.

Leucorrea:
secrezione vaginale abbondante.

Linfoadenopatia:
tumefazione, cioè ingrossamento dei linfonodi. In genere si manifesta nel
collo, nelle ascelle, nell’inguine, nel torace e vicino alle clavicole. Può
manifestarsi in concomitanza di processi infiammatori, linfomi, infezioni
virali o batteriche, alterazione della produzione endocrina, neoplasie o
patologie del tessuto connettivo.

Pollachiuria:
emissione con elevata frequenza di piccole quantità di urina. Può essere
correlata a malattie della vescica, dell’uretra e della prostata di tipo
infiammatorio o neoplastico.

Proctite:
infiammazione dell’intestino retto.

Setticemia:
detta anche sepsi, è una complicazione potenzialmente letale di un’infezione.
Si verifica quando le sostanze chimiche, che entrano in circolo per combattere
l’infezione, scatenano un’infiammazione diffusa in tutto l’organismo.
L’infiammazione crea trombi microscopici, che possono impedire alle sostanze
nutritive e all’ossigeno di raggiungere gli organi. È così possibile il
verificarsi dello shock settico, con improvvisa diminuzione della pressione e
decesso del paziente.

Spirochete:
batteri a forma di spirale e dotati di flagelli alle due estremità.

Test
sierologici:
per l’identificazione della sifilide, Tpha (Treponema Pallidum
Hemoagglutination Test) e Vdrl (Venereal Disease Research Laboratories).

Tabe
dorsale:
malattia del midollo spinale conseguente all’infezione sifilitica,
dopo 5-15 anni. Rappresenta una delle manifestazioni più importanti del periodo
terziario. Questa malattia produce lesioni ai nervi radicolari, provocando la
distruzione progressiva delle radici posteriori. Prevalgono gravi disturbi
della cornordinazione dei movimenti, diminuzione o abolizione della sensibilità
profonda o tattile, con conservazione di quella termica e dolorifica.

Tube
di Falloppio:
dette anche salpingi o ovidotti, sono due organi tubulari che
collegano le ovaie alla cavità uterina, permettendo il passaggio dell’ovocita e
la sua fecondazione.

Uretrite:
infiammazione dell’uretra.

(RNT)

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Rosanna Novara Topino