CARI MISSIONARI

Colombia, viaggio di Vita

Sono
Alberto Cancian, un ventisettenne che abita in provincia di Pordenone. A marzo
del 2012 sono andato in Colombia, a trovare per alcune settimane lo
stimatissimo p. Bruno Del Piero, mio compaesano e da cinquant’anni missionario
della Consolata in Colombia, attualmente a Florencia, nel Caquetà. L’esperienza
è stata molto forte e formativa. Ad ottobre, sempre del 2012, il nostro paese,
Roveredo in Piano, ha celebrato i 100 anni di dedicazione della Chiesa
Parrocchiale, p. Bruno era presente ed in questa occasione è stato pubblicato,
con il contributo della parrocchia e di alcuni enti del luogo ed il patrocinio
del comune, il libro «Colombia. Viaggio di Vita». è un piccolo diario di viaggio con testi e foto che parlano
della mia esperienza ma soprattutto dell’impronta che p. Bruno ha lasciato in
quelle terre nelle quali è smisuratamente amato in cinquant’anni di missione.

L’occasione
ha quindi fatto sì che in paese e un po’ più in là, si sia potuta toccare con
mano l’opera di questo missionario amato dalla nostra gente e nominato per
l’occasione Cittadino Benemerito. Sia le presentazioni che ho fatto in
questi mesi che le vendite del libro hanno avuto un successo davvero
soddisfacente (vedi qui sopra il volantino promozionale per Natale).
Tutto il ricavato della vendita è devoluto a p. Bruno per la sua missione.

Ho
pensato che sarebbe bello, soprattutto per lui e per il nostro paese che questo
venisse menzionato nella vostra ricchissima rivista. Ringraziandovi
anticipatamente

Alberto Cancian
Email 09/01/2013

Grazie, Don Paolo

Carissimi,

dopo aver letto l’ultima puntata del «racconto
delle nozze di Cana» del magistrale don Paolo Farinella, non ho potuto che
mettermi al computer e scrivervi queste poche righe per ringraziare voi
tutti della redazione per la scelta stupenda di voler tradurre, spiegare anche
ai lontani (inteso come lontananza chilometrica) il profondo significato nascosto
nella Parola di Dio, ma soprattutto per ringraziare l’estensore.

Ho
iniziato a leggere quasi per caso il primo articolo a commento della parabola
del figliol prodigo, e non sono più riuscito a staccarmi. Attendevo e attendo
quasi con ansia la rivista per attingere a quegli articoli quasi fossero una
sorgente d’acqua limpida. Il procedere ossessivamente lento, la disamina
estrema di ogni singola parola alla ricerca di quanto in essa era celato dallo
Spirito ispiratore, la metodica analisi del vero e originale significato
delle parole del testo a noi pervenuto, il costante raffronto con brani
dell’Antico Testamento, hanno fatto sì che queste pagine riuscissero
ad aprire orizzonti mai finora osservati (almeno da me!).

Spesso
ci si accontenta, noi poveri mortali indaffarati, di rincorrere le fatuità che
la modea cultura ci propina, di quello che una lettura superficiale,
mediocre e ripetitiva ci trasmette senza che nemmeno un dubbio ci oscuri
le certezze interpretative antiche. Ma basta, almeno a me è capitato,
che qualcuno ti indichi dove mettere il piede, ti mostri quale sentirnero
percorrere, per trovarti a camminare in un paesaggio diverso, mai
esplorato, ma affascinante.

Grazie
a voi quindi e un particolare grazie a don Paolo Farinella per il suo prezioso
apporto e per la sua instancabile ricerca del cuore inscrutabile e profondo che
Dio Padre ci ha voluto mostrare.

Giacomo Fanetti 
11/01/2013

Qualcuno
ha già telefonato per sapere quando le 38 puntate su Cana diventeranno un
libro. Per ora non ci sono notizie a riguardo. Se don Paolo deciderà di fae
un libro, vi informeremo tempestivamente.

Tutto o niente?

Cari
Missionari,
sperando di fare cosa non sgradita, vorrei cogliere questa occasione per dirvi
che la scelta di privilegiare le testimonianze dei missionari, dei volontari e
di coloro che si recano fisicamente nelle terre di missione, lasciando da parte
la politica e la polemica politica, è apprezzabile. Certi argomenti o non si
toccano per niente oppure vanno approfonditi con un po’ di ragionevolezza
sentendo tutte le campane, quelle dei simpatici e quelle dei meno simpatici…

Se
si tirano in ballo questioni come l’Ici, l’Imu, lo spread, il decreto
salva Italia, il contributo dato dal governo Monti e segnatamente dal ministro
Riccardi al rilancio della cooperazione con i paesi dell’Asia, dell’ America
Latina e dell’Africa, bisogna considerare i risvolti comodi ma anche quelli
scomodi, imbarazzanti, bisogna avere l’onestà di riconoscere le novità positive
ma anche quelle negative… Bisogna soprattutto avere la delicatezza e la
cortesia di chiamare le cose con il loro vero nome, altrimenti si rischia di
diventare complici di chi vuol continuare a simulare, a camuffare a frodare.

Per
esempio, quando si parla di Ici o di Imu, non ci si può limitare a qualche
fugace allusione polemica contro chi vorrebbe imporre queste tasse alla Chiesa
cattolica e alle sue attività di evangelizzazione e di promozione umana. Non
bisogna vergognarsi di definire l’Ici e
l’Imu per quello che sono realmente, ovvero macchine divora-stipendi e
divora-pensioni, non imposte comunali, non imposte municipali, non imposte
sugli immobili, non imposte federaliste.

Leggendo
certi vostri articoli, sembrerebbe di capire che anche per voi Monti e Riccardi
hanno giovato all’Italia e alla sua immagine in Europa e nel mondo (a
cominciare da quello povero), facendo cose che i precedenti governi non avevano
fatto. A me invece risulta che l’ultima legge di stabilità assicura 8,5
miliardi di euro a Finmeccanica, la più grande produttrice ed esportatrice
(anche nel mondo povero, quello con cui si cerca di migliorare la cooperazione)
di armi e sistemi d’arma made in Italy e 2,5 miliardi alla TAV. Risulta
anche che l’anno di Monti e della cura Monti si è concluso con la retrocessione
dell’Italia dal 69° al 72° posto nella classifica di Transparency
Inteational
. Per oggi mi fermo qui ma penso che, in un modo o nell’altro,
ci risentiremo.

Francesco Rondina
Fano, 27/12/2012

Egregio
sig. Francesco,
grazie del suo scritto. Gli argomenti che lei affronta nella sua lettera sono
particolarmente scottanti in questa nostra Italia d’inizio 2013. Probabilmente
quando lei leggerà questa risposta, sapremo già chi è il nuovo premier,
mentre al momento in cui scrivo siamo ancora completamente nella nebbia.


C’è
un insegnamento che mi è stato inculcato fin da bambino, glielo scrivo in
dialetto bresciano, il mio: «fa miò l’öff fôrò de l’öferò» (non fare l’uovo
fuori della cesta). Era una calda raccomandazione a non fare le cose a
sproposito o nel posto sbagliato.


Su
questa rivista facciamo ovviamente degli accenni alla politica e alle faccende
italiane. Come potremmo evitarlo, soprattutto quando le scelte politiche hanno
delle conseguenze su argomenti che ci appassionano, come sviluppo, giustizia,
pace, cooperazione, libertà religiosa e toccano direttamente o indirettamente
il mondo missionario? Ma non trattiamo specificamente di politica, come lei ha
giustamente notato. La Chiesa cattolica ha altre pubblicazioni più competenti
in materia.


Che
abbiamo simpatia per Monti o Riccardi e meno per altri, può essere vero o no.
Certamente, come persone e cittadini, abbiamo la nostra opinione ed è
inevitabile che a volte traspaia. Cerchiamo di non cadere nella trappola del «far
politica», per mantenere viva la libertà di giudizio e la capacità critica di
chi cerca di leggere la realtà con gli occhi del sud del mondo, dalla parte
degli impoveriti.


Continueremo
a scrivere su temi che toccano anche la politica ed economia italiana. Lo
faremo anche in collaborazione con le altre riviste missionarie della Fesmi.
Questo non per schierarci pro o contro qualcuno, ma perché certi argomenti
sfidano la responsabilità di tutti, sempre, e non solo in questi mesi di
emergenza economica.

Dall’Albania alla RD Congo

Cari
amici di MC,
è da tempo che avevo in mente di scrivervi. Sono un giovane laico della diocesi
di Nardò-Gallipoli in missione in Albania con una comunità della diocesi di
Reggio Emilia. Siamo a Gomsiqe, un piccolo villaggio in provincia di Scutari,
siamo senza tv, la radio funziona a malapena, come del resto i telefoni
cellulari e l’internet. Tutte queste sono decisamente delle fortune!
Personalmente mi sento in fase di disintossicazione dalla dipendenza da
notiziole e talk show piccoli piccoli, in cui si parla e non si
capiscono i veri problemi e non si cercano soluzioni, in cui si dettano le
preoccupazioni più urgenti della nazione, a seconda di quelle che sono le
priorità immediate di 4 o 5 leader politici.

L’esperienza
di missione in questa terra bellissima (a cui spesso anche il vostro giornale
si è interessato) e MC mi hanno aiutato ad aprire gli occhi sul mondo, a
rendermi conto di quanto siano piccole e drogate le piccole beghe di paese che
in Italia sono chiamate notizie e di quanto i grandi fenomeni di questo tempo,
le grandi ingiustizie, quello che davvero succede nel mondo, semplicemente ci è
estraneo.

Grazie,
anche a nome della piccola comunità di cui faccio parte, a tutti voi, che siete
come un buon amico, intelligente e attento, che appena tornato da un viaggio ci
racconta quello che ha visto, aiutandoci a capire cosa c’è dietro e un po’
anche cosa possiamo fare noi, con i nostri stili di vita, con il nostro piccolo
ma prezioso impegno.

Finita
questa premessa, arrivo ad una richiesta di approfondimento: su un giornale
italiano abbiamo letto un interessante reportage sul Movimento M23 in Congo e
un’intervista a mons. Rugero Runiga guida spirituale del movimento.

Proprio
in quei giorni ci è arrivato anche il numero di Novembre di MC, in cui c’era
l’articolo sul Rwanda e l’approfondimento sugli interessi ruandesi nella RDC.
Mi chiedevo se la Chiesa congolese e quella ruandese abbiano una posizione
ufficiale su questo movimento e soprattutto qual è la situazione di mons.
Runiga?

Enrico Giuranno e comunità di
Gomsiqe (Albania) 29/12/2012

Enrico,
grazie delle tue parole incoraggianti. Per quanto riguarda Jean-Marie Runiga
Lugerero, il vescovo presidente del movimento M23, posso solo dirti che non è
un vescovo cattolico. Ho cercato di capire quale sia la sua chiesa, ma
non ci sono riuscito. Ci sono migliaia di chiese evangeliche diverse in Africa.


L’Agenzia
Fides scrive: «Jean-Marie Runiga Rugerero (o Lugerero), sedicente leader
dell’ala politica dell’M23, il movimento ribelle che agisce nel Nord Kivu, (est
della Repubblica Democratica del Congo), non è un vescovo cattolico, come
invece è stato presentato da alcuni organi di stampa inteazionali» (Fides
2/1/2013).


Quanto
alla Conferenza Episcopale del Congo, così scrive Fides: «“No alla
balcanizzazione del Congo. No alla divisione del Paese”, affermano i Vescovi
della Repubblica Democratica del Congo, in un messaggio reso pubblico al
termine della loro Assemblea Plenaria che si è tenuta a Kinshasa dal 2 al 6
luglio 2012. Si tratta di un riferimento esplicito alla situazione dei due
Kivu, nell’est del paese, dove l’M23, movimento ribelle formato da soldati
disertori e appoggiato dal Rwanda, come afferma un rapporto dell’Onu, sta
seminando morte e distruzione, costringendo la popolazione alla fuga.


«Di
fronte a questo ennesimo tentativo di dividere la RDC, che mira a impossessarsi
delle sue ricchezze naturali, i Vescovi congolesi denunciano “l’occupazione irregolare
del nostro territorio”, e riaffermano l’unità del paese secondo le frontiere
stabilite nel 1960, anno dell’indipendenza nazionale. “L’integrità del
territorio nazionale non è negoziabile” affermano i presuli. I Vescovi invitano
i responsabili politici e i cittadini congolesi ad un “sussulto patriottico per
non essere complici di questo macabro piano di disintegrazione e di occupazione
territoriale del nostro paese”. La Conferenza Episcopale Congolese (Cenco) si
rivolge a tutti i congolesi in patria e all’estero, perché si mobilitino per
bloccare il piano di divisione del paese. A questo fine la Cenco intende
promuovere “azioni concomitanti in tutte le parrocchie della RDC e nelle
cappellanie dei congolesi all’estero, per esprimere il nostro rifiuto
categorico a questo piano e implorare la grazia della pace”» (Agenzia Fides
10/7/2012).

Popolare la terra

Cari
Missionari,
premetto che da anni sostengo le missioni con denaro destinato «alla fame nel
mondo», e con questa mia desidero aprire un serio e pubblico dibattito sulle
nascite e sulla fame sul nostro giornale. Non è ora che si elevi forte la voce
di limitare le nascite? Il Buon Dio ci disse di popolare la terra e a questo
fine nella sua magnificenza ci ha donato il cervello per capire che ciò non significava
sovrappopolarla; forse noi uomini abbiamo interpretato in maniera distorta la
sua parola. Guardiamo in giro nel nostro cortile e nei cortili del mondo quanta
sofferenza e povertà vi sono sulla terra: è proprio necessario nascere per vivere e morire di fame, stenti,
malattie e di chissà quante altre calamità? Si fa in fretta dire che il
cristiano ha il dovere di aiutare il prossimo; ma questo prossimo che aumenta
ogni anno è diventato sterminato e i denari e le risorse per vivere sono sempre
meno e non bastano mai come si constata chiaramente. Nostro Signore ha fatto un
mondo bello e ce l’ha donato affinché godessimo della Sua creazione (bellezze
naturali e spirituali). Ma gli infelici bimbi africani che nascono e muoiono
cosa godono del dono della creazione di nostro Signore? E anche se ricevessero
quel poco, godrebbero della magnificenza del creato a noi donata? La
popolazione mondiale è aumentata a dismisura e ci stiamo mangiando suolo e
risorse del mondo tanto che si ipotizza un’altra terra per sopperire a ciò che
il numero enorme di uomini necessita: a quanti miliardi di popolazione umana
vogliamo arrivare? E che risorse lasceremo ai nostri nipoti se consumiamo
tutto ora noi?

Il
mio parroco mi ha sempre giustamente detto che la pateità e la mateità
devono essere responsabili, ma parlando del Sud Italia, per esempio, che
prolifera sapendo che la disoccupazione e la mancanza di industrie è endemica e
che la tendenza è ben lungi da essere invertita, è proprio necessario avere
quasi trenta milioni di cittadini in quella terra? Loro sono purtroppo
destinati alla mancanza di lavoro per decenni, dato che il lavoro non si
inventa domani con la bacchetta magica né si compra al supermercato dopodomani.
E che dire dei tantissimi extracomunitari che ormai dilagano per Milano, e non
solo, a chiedere elemosine, a mangiare alla mensa dei poveri, a chiedere aiuto
alle parrocchie? è vita quella di
non avere di che vivere sentendo la propria dignità venir meno e non aver
speranza per un futuro migliore? Ripeto quanto detto prima, sono ormai
tantissimi e non si può dare qualcosa a tutti.

Concludo
ribadendo che il rapporto fra popolazione e risorse deve avere un giusto
equilibrio, in mancanza del quale inevitabilmente queste due entità entrano in
sofferenza e che il contenimento della crescita umana deve essere aumentato e
soprattutto pubblicizzato. Un atto d’amore fra un uomo ed una donna (quello
vero) non deve sfociare per forza in una vita, infatti nel Vangelo non mi
pare ci sia alcunché, contrariamente a quello che per tanto
tempo ci è stato inculcato in testa. Non si può rimandare la soluzione di
questo problema al Buon Dio, perché così facendo si metterebbe in dubbio la sua
volontà nell’averci voluti e creati diversi dagli animali foendoci cervello,
intelligenza, capacità di risolvere i problemi di quella umanità che è venuto a
salvare con tanto prezzo ed Amore. Cordialmente

Luigi Palumbo
Collegno, 26/12/2012

Egregio
sig. Palumbo, grazie del lungo scritto. Provo a essere sintetico nella mia
risposta.

Sovrappopolazione.

La
inviterei a leggere l’articolo di Paolo Mastrolilli su La Stampa, 12 gennaio
2013, pag. 14
: «L’Onu ci ripensa, “Sempre meno figli, rischio crescita
zero”. – Le previsioni di catastrofe demografica sono state ribaltate. I
programmi per il controllo delle nascite hanno funzionato». In sostanza
l’articolo ricorda che se si continua così, gli europei come tali sono
destinati all’estinzione e, dopo il picco di fine secolo (10 miliardi nel
2100), la popolazione mondiale decrescerà drasticamente, e se ci si stabilizzerà
sul livello riproduttivo di 1,5 entro il 2300 ci sarà solo un miliardo di
persone sulla terra.

Sfruttamento della terra e mancanza di cibo.

C’è
un altro interessante articolo apparso sullo stesso quotidiano: «Quasi metà del
cibo del mondo gettato senza riciclo»

(http://www.lastampa.it/2013/01/10/scienza/ambiente/ambiente-quasi-la-meta-del-cibo-del-mondo-gettato-senza-riciclo-arAYbhu2WlMGvPNM7nhwCO/pagina.html).

L’Ansa
sintetizzava così: «La metà del cibo che viene prodotto nel mondo, circa due
miliardi di tonnellate, finisce nella spazzatura, benché sia in gran parte
commestibile. Il dato sconcertante emerge da un rapporto dell’Institution of
Mechanical Engineers
, associazione degli ingegneri meccanici britannici.
Fra le cause di questo spreco di massa, ci sono le cattive abitudini di milioni
di persone, che non conservano i prodotti in modo adeguato. Ma anche le date di
scadenza troppo rigide apposte sugli alimenti e le promozioni che spingono i consumatori
a comprare più cibo del necessario».

(http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2013/01/10/Meta-cito-mondo-finisce-spazzatura_8053030.html).

Carità e giustizia.

Quanto
fanno le organizzazioni umanitarie e la carità della comunità cristiana, di cui
i missionari sono gli agenti di frontiera, è indispensabile, perché risponde a
dei bisogni reali con tempestività ed efficacia. Ma la carità da sola non può
risolvere i problemi: tampona i sintomi e gli effetti immediati della malattia
ma non cura le cause. Occorrono soluzioni politiche ed economiche che
riguardino tutto il pianeta. Sono
necessari interventi che tocchino le cause originanti del problema, che
costruiscano pace, giustizia, equità, che creino rapporti nuovi tra i popoli e
una cultura nuova più responsabile nell’uso delle risorse.

Ci sono molti altri temi che lei tocca nella sua
lettera. Se altri lettori volessero intervenire, sono i benvenuti. La mia
opinione è chiara: questi problemi non si risolvono con il controllo delle
nascite, ma con giustizia ed equità (cf. MC1-2/2013 p.7), con
investimenti sullo sviluppo integrale delle persone e con la coscienza che in
questo mondo o ci salviamo tutti insieme o insieme periremo.

A mio zio

Caro
Padre Gigi,
mi
permetto di chiedere la pubblicazione del seguente scritto in ricordo del mio
carissimo zio materno Flaviano Scapin, mancato il 25 novembre scorso.
Ringraziando lei e tutti i collaboratori di MC.

UN ANGELO PIUTTOSTO INQUIETO

Zio
Flaviano carissimo,
ci hai lasciati in punta di piedi domenica 25 novembre 2012 all’ospedale di
Treviso, per la nuova vita, quella piena e magnifica che non avrà più fine. C’è
tanto sgomento e c’è tanta confusione in me perché eri un «presidio» importante
e inespugnabile contro la provvisorietà dei sentimenti, le ingiustizie
perpetrate nella vita e nel lavoro, l’approssimazione e lo sfruttamento nella
coltivazione dei prodotti della terra, i dubbi nell’esercizio della fede. La
tua esistenza intessuta di dignità e di grandezza umana è stata caratterizzata,
infatti, dall’affetto sempre più profondo per le persone a te vicine; è stata
animata dalle indignazioni nei confronti dei potenti, politici e proprietari,
per i soprusi verso i deboli e in particolare i lavoratori, con un riferimento
frequente agli operai delle industrie chimiche di Marghera; è stata connotata
dalle ire riguardo lo sfruttamento eccessivo delle coltivazioni con il
conseguente impoverimento di quella risorsa naturale che è la terra, quale
custode e nutrimento dei semi, tesori di valore inestimabile e scrigni preziosi
di vita nuova; è stata, infine, esaltata dal costante rapporto con Dio, vissuto
attraverso l’appuntamento settimanale con la celebrazione eucaristica,
appuntamento che mai hai interrotto nel corso dei diversi cambiamenti di
abitazione. Hai onorato nel modo più sublime il nome Flaviano, appartenente a
diversi martiri del IV secolo d.C., che mio nonno aveva scelto proprio per te,
terzogenito di quattro figli. Ora che il tuo essere «presidio» con la presenza
fisica è venuto meno mi sento defraudata di difese, più sguaita di solidi
puntelli, più esposta agli assalti della precarietà, della superficialità,
dell’«usa e getta». Sono certa, in ogni caso, che ancora continui e continuerai
ad essere «presidio», invisibile ma reale, sicuro ed inviolabile, accanto a
tutti coloro ai quali hai voluto bene, a me in modo speciale. Abbiamo ed ho
ancora e sempre bisogno di te; conto quindi su di te per onorare al meglio
possibile quanto ci hai dato e quanto sei stato per noi!

Tua nipote Milva
Collegno, 25/12/2012

Vieni, servo buono e fedele

Sono
le prime parole che mi sono passate per la mente quando, purtroppo con tanto
ritardo, ho appreso dell’improvvisa scomparsa di padre Lello Salutaris
da un amico missionario comboniano e l’ho verificata sull’ultimo numero di
Missioni Consolata, arrivato proprio pochi giorni fa.

Il
mio pensiero è andato al 1990, quando l’allora rettore del Seminario di Nairobi
(padre Masino Barbero) ce lo proponeva come seconda adozione con borsa di
studio durante gli anni della teologia fino all’ordinazione sacerdotale, la
prima adozione fu quella di padre Paskal Baylon Libana, ma con Lello fu tutta
un’altra esperienza perché conosceva la lingua italiana e così si iniziò una
corrispondenza che tuttora conservo. Andando a rileggere quelle lettere
emergono le caratteristiche della sua personalità: innamorato di Dio, la sua
apertura di carattere tale da metterti a tuo agio, la sua condivisione, ma,
come è stato rimarcato dai più, la sua gioia di abbracciarti perché ti
considerava un fratello e una sorella.

Dalla
sua missione in Etiopia ci perdemmo fino a quando arrivò nel 2003 una
telefonata in casa: «Sono Salutaris…». Si scusò del lungo silenzio: aveva
smarrito il numero telefonico e l’indirizzo e aveva chiesto a sua madre in
Tanzania di inviargli la sua agendina. Così ci si organizzò per incontrarci e
salutarci e da Montiano (un paesino vicino a Gambettola) organizzammo con mia
moglie Gabriella e nostra figlia Caterina, adottata dalla Colombia, un incontro
a Bevera.

Non
c’eravamo mai visti prima di allora e nonostante noi fossimo più adulti di lui
di nove anni, ricordo quell’abbraccio affettuoso, così carico di gratitudine
come a sdebitarsi dell’aiuto ricevuto durante gli studi e ci disse: «Sapete, io
provengo da una famiglia numerosa di nove figli e voi per me siete stati come
la seconda famiglia». Fu
quella l’occasione per iniziare una vera e propria direzione spirituale anche
se a distanza. Ci portava nel cuore anche per l’esperienza che stavamo vivendo
con la figlia adottata nel pieno della sua adolescenza. Lo visitammo spesso
anche a Vittorio Veneto fino al saluto ultimo a Nervesa nel giugno 2005, prima
del suo ritorno in Tanzania.

Ricordo
che nel luglio del 2004 venne a farci visita e lo portammo alla Vea. Si era
commosso per questa sorpresa e ci disse che si sentiva la persona più felice in
quel giorno. Come
dimenticarlo? L’unico rammarico è quello di non averlo più sentito da alcuni
anni. Avrei desiderato scrivergli, un padre della Consolata di Gambettola ci
consigliò di farlo attraverso fax. Non mi ero ancora organizzato. Ora, caro
Lello, non c’è più bisogno né di fax, né di internet, né di telefono; ci
possiamo parlare apertamente nella preghiera e così saprai che nostra figlia
Caterina, che portavi nel cuore, si è sposata la seconda domenica di settembre
ultimo scorso con un giovane in gamba ed ora sono catechisti in parrocchia.

Eh
sì caro Lello, la tua vicinanza si è sempre sentita e noi ringraziamo la  Madonna Consolata per questo grande dono:
l’averti conosciuto prima nell’adozione, poi direttamente nella tua professione
di missionario ed infine come fratello in Cristo!  Ciao
Lello, a presto!!!

I tuoi genitori adottivi  nello studio,
Ginaldo e Gabriella Torelli, Longiano (Fc) 17/12/2012.

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a cura del Direttore




BENEFICENZA E CARITÀ

Incontrare dei missionari (rari, per grazia di Dio) che, pur avendo
dedicato la loro vita all’Africa fino alla consumazione di tutte le loro forze,
rivelano atteggiamenti di profondo razzismo verso gli africani, mi ha sempre
causato un disagio profondo fin dai tempi in cui ero un giovane studente di
teologia. Non è certo la norma, e non voglio né giudicare né scandalizzare
alcuno, ma proprio non sono mai riuscito a capire come un missionario possa
fare tanto del bene agli altri senza amarli, mantenendo anzi atteggiamenti di
superiorità e quasi di disprezzo. Per «amare gli altri» intendo qui accettarli
e trattarli come uguali a sé, avee stima per quel che sono, credere in loro,
rispettarli anche nella loro diversità.

Il caso di quei
missionari è emblematico. Succede infatti, e più spesso di quanto immaginiamo,
che si aiutino gli altri e si faccia beneficenza e volontariato anche a prezzo
di indicibili sacrifici personali, ma senza mai far scattare quell’extra che è
unico del cristiano: l’accettazione totale dell’altro come fratello o sorella,
anzi di più, come Cristo stesso che mi visita. Finché l’altro rimane “inferiore”
a me, tutto va bene. Non faccio esempi, perché farli è fin troppo facile ma
potrebbe essere fuorviante.

Il dramma, anche di tanti
cristiani, è quello di fare delle opere di bene per obbligo o per abitudine,
come l’elemosina in chiesa. Oppure per commozione. Non c’è niente che faccia
aprire le borse come l’immagine di un bimbo che soffre. Guardate negli occhi la
bimba della copertina, col suo abitino bello arrivato da chissà dove attraverso
il mercato dei vestiti usati, e il fagottino del fratellino addormentato (o
malato) in braccio. Bisogna far qualcosa! …

E qualcosa si fa, anche
tanto. Il volontariato e la solidarietà sono due grandi elementi di speranza in
questa nostra Italia. Però poi si continua a mantenere un atteggiamento
razzista verso gli extracomunitari, a essere pieni di pregiudizi verso quelli
del Sud, a sostenere amministrazioni che discriminano i rom, a votare per un
partito xenofobo, a sostenere l’aborto e il controllo (anzi, più politicamente
corretto, la «pianificazione») delle nascite, ad avere un atteggiamento irresponsabile
verso l’ambiente, e amenità simili… E tutto sembra perfettamente normale.

Ma per un cristiano questo normale non è. Per lui, umanitarismo,
solidarietà, beneficenza, elemosina, volontariato, e quanto altro si voglia
includere, hanno la loro sintesi e radice nella parola chiave «carità», che a
sua volta si coniuga con giustizia e frateità. Invece succede che, come dice
Benedetto XVI nel messaggio per la Quaresima 2013, talvolta «si tende a
circoscrivere il termine “carità” alla solidarietà o al semplice aiuto
umanitario». è lo svilimento – da
noi stessi inconsciamente favorito – di una Parola che invece ha una portata
rivoluzionaria. Ci si accontenta del «fare la carità», invece di vivere nella
Carità, con la Carità e per la Carità, imitando, cioè, Gesù stesso.

Ma la Carità, continua il
messaggio, è «un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è
mai “concluso” e completato. Da [esso] deriva per tutti i cristiani […] la
necessità della fede, di quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro
l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo
non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una
conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore. Il
cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da
questo amore – caritas Christi urget nos (2 Cor 5,14) -, è aperto in
modo profondo e concreto all’amore per il prossimo». «Tutto parte dall’umile
accoglienza della fede (il sapersi amati da Dio), ma deve giungere alla verità
della carità (il saper amare Dio e il prossimo), che rimane per sempre, come compimento
di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13)». «Carissimi
fratelli e sorelle – conclude il Papa -, in questo tempo di Quaresima, in cui
ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale
l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi
di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare
nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella
che incontriamo nella nostra vita».

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Gigi Anataloni




Donne alla riscossa La società civile vuole cambiare un paese violento

Tassi di omicidio superiori a quelli di
paesi in situazioni di conflitto armato, fortissima disuguaglianza nella
distribuzione delle risorse, profondo machismo
culturale con relative violenze domestiche e femminicidi in costante
crescita, tratta di bambine e ragazze… L’Honduras è ritenuto il paese più
pericoloso al mondo, eppure qualcosa si sta muovendo, soprattutto a livello di
organizzazione femminile, per difendere i propri diritti e introdurre
importanti cambiamenti nella società.

In tutto l’Honduras risuona una sola parola
d’ordine che in questo momento interessa la popolazione: cambiamento. Sono
passati più di tre anni dal colpo di stato, e da allora tanto è stato fatto
dalla gente honduregna (anche se per l’Onu, almeno il 60% dei 7,3 milioni di
abitanti vive in situazione di povertà) per far valere i propri diritti di
scelta e creare un contrappeso ai giochi di potere dell’oligarchia delle
famiglie più influenti del paese. L’Honduras è il terzo paese in America
Latina, dopo Colombia e Haiti, ad avere maggiori disuguaglianze sociali.
Generalmente la gran parte dei governi passati avevano la tendenza a preservare
lo status quo, mantenendo il potere nelle mani di poche famiglie.



Resistenza nata dal golpe

Con il governo di Manuel Zelaya,
durato dal 2006 al 2009, destituito da un colpo di stato delle forze armate,
c’era stato un cambio di tendenza e si era visto un tentativo di introdurre
importanti cambiamenti per una maggiore giustizia sociale, tra cui l’aumento
del salario minimo e una bozza di riforma agraria. Ma queste novità non erano
ben viste da chi ha perpetrato il golpe del 28 giugno 2009. Il nuovo governo ha
raggiunto il potere successivamente con elezioni, considerate alquanto
discutibili anche dalla comunità internazionale, alle quali non sono stati
ammessi gli osservatori delle Nazioni Unite.

Ora è al potere il governo del
Partito Nazionale, un partito conservatore, il quale considera incostituzionali
alcune importanti riforme che erano state intraprese negli anni precedenti. Nel
frattempo peró una gran parte della società civile si è organizzata nel Frente
Nacional de resistencia Popular
(Fnrp) per esprimere il proprio dissenso
nei confronti di un governo che in realtà fa l’interesse di una parte piccola
della popolazione.

Il Fnrp, che dal colpo di stato ha
coinvolto nelle proprie rivendicazioni movimenti popolari e organizzazioni che
cercano una trasformazione sociale del paese, è vicino a rappresentanze di ogni
strato sociale: cittadini, contadini, operai, microimpresari, gruppi
ambientalisti e studenteschi, forze politiche progressiste e democratiche,
professionisti, donne, artisti, popolazioni indigene, comunità ecclesiali di
base, e altro ancora. Questo movimento ha un braccio politico, costituito dal Partido
Libre
(Partito Libero), la cui candidata alla presidenza è Xiomara Castro,
moglie di Manuel Zelaya, il quale è pure cornordinatore del partito e del
movimento.


Lotta per la terra

Come tutti gli esponenti politici
che si candideranno alle elezioni del 2013, la signora Xiomara avrà molte
questioni spinose da affrontare. «In primo luogo la proprietà della terra, che è
una delle ragioni principali di lotta all’interno del paese. La popolazione
dell’Honduras è prevalentemente agricola, ma la maggior parte delle terre è
paradossalmente proprietà di pochi: il 50% della superficie coltivabile è in
mano al 3,7% della popolazione», riporta Anna Schieppati, volontaria italiana
presente nel paese centroamericano da quattro anni e collaboratrice di diverse
ong locali. «Si coltiva una grande varietà di prodotti, grazie alle variazioni
climatiche del paese. Nelle zone più calde crescono anacardi, ananas, meloni;
in quelle più fredde patate, fragole, cavoli. In tutto il paese si coltivano
mais e fagioli, due elementi basilari dell’alimentazione locale». Un’ottima
varietà di prodotti, il cui ricavo però, come spesso accade, non viene
distribuito equamente tra la popolazione.

«I grandi latifondi esistenti,
invece – continua Schieppati – appartengono in maggioranza alle compagnie
bananiere e a quelle che producono olio di palma africana, pianta molto dannosa
per l’ambiente, perché rovina il suolo. Ma la gente qui non tace: le grandi
lotte di rivendicazione contadina sono iniziate proprio in Honduras negli anni
’90 con il governo di Calleja, in cui si implementò una politica a livello
regionale di carattere neoliberista (soprattutto con la Ley de modeización
y desarrollo agrícolo
), sponsorizzata dagli Stati Uniti, in cui l’accesso
alla terra non fu più amministrato dallo stato. Però, nonostante le battaglie
vinte, il modello capitalista continua a farla da padrone».

Due esempi possono dare un’idea
della situazione conflittuale nel paese. Il primo è la condizione delle
famiglie contadine del nord del paese, in un territorio chiamato Bajo Aguán, «in
cui i contadini rivendicano le terre possedute da René Morales, Reinaldo
Canales e Miguel Facussé, quest’ultimo una delle persone piú influenti del
paese, legato anche al narcotraffico», continua la volontaria italiana. Miguel
Facussé comprò le terre dallo stato proprio in seguito alla Ley de
modeización
. Peró le associazioni contadine locali affermano che le terre
in realtà furono vendute attraverso una procedura illegale e per sostenere la
loro causa nel 2001 si organizzarono nel Movimiento unido campesino del Aguán
(Muca).

La zona del Bajo Aguan è
considerata una zona di conflitto. Ciò risulta già evidente sulla strada per
arrivare in questo territorio: vi sono moltissimi blocchi stradali dei
militari, che fermano macchine, autobus, moto, camion e controllano i documenti
dei viaggiatori e il materiale che eventualmente viene trasportato. La lotta
dei dipendenti e guardie dei proprietari terrieri contro i contadini è una
lotta armata, che ha visto molti morti da entrambe le parti. Un importante
quotidiano nazionale afferma che ogni 16 giorni avviene una morte violenta.

«Esercito e polizia non sono
imparziali custodi dell’ordine; basta ascoltare cosa afferma il commissario
responsabile dello sgombero: “Sono inutili gli sforzi che fanno i contadini; è
un atteggiamento irrazionale. Abbiamo una forza normale; puó essere che ci
siano stati scontri da entrambe le parti, è uno sgombero, non è una festa. E la
loro presa di posizione è una stupidaggine, quindi noi la prossima volta non
cercheremo il dialogo come stiamo facendo adesso. Se loro si credono forti, non
hanno la minima idea di quanto siamo forti noi”» riporta Schieppati. Parole
forti, di minaccia, che fanno capire quanto sia ardua la situazione.

Un altro esempio del tutto
diverso, ma che riflette bene la realtà di un paese messo a disposizione di
tutti tranne che dei suoi cittadini, è il progetto delle ciudad modelo
(città modello). L’idea era di dare delle terre in concessione a un consorzio
nordamericano per la costruzione di città. Le ciudad modelo erano
pensate come urbanizzazioni che potevano avvalersi di una legislazione a parte,
indipendente da quella honduregna, essere esenti dalle tasse locali e avere una
polizia propria.

Le zone scelte erano aree
strategiche in quanto a locazione e risorse: uno sbocco sul mare, terre ricche
di acqua e molto fertili, strade ben asfaltate. La promessa fatta alla gente
era quella di centinaia di nuovi posti di lavoro. Il Congresso ha cercato di
far approvare questo progetto, che però, grazie anche alla pressione di molte
associazioni e semplici cittadini, che ogni mercoledì si riunivano per
protestare contro questa proposta, alla fine è stato dichiarato
incostituzionale.

Violenza epidemica

Uno dei più
grandi problemi del paese, che è andato esasperandosi negli ultimi anni, è il
clima di violenza, dovuto al fatto che l’Honduras è diventato un’importante via
del traffico internazionale di droga, passaggio preferito dai narcotrafficanti
che vengono dal Sud America e sono diretti negli Stati Uniti e in Canadà.

Un dato su
tutti: il tasso di omicidi è di 86,5 ogni 100 mila abitanti, uno dei più alti
al mondo. Basti pensare che nel non lontano Costa Rica è di 10,3, in Italia di
1,1 e la media mondiale è di 8,8.

La violenza ha varie cause, che
possono essere identificate nella grande disuguaglianza all’interno della
società e nella grande diffusione di armi da fuoco, che possono essere reperite
con facilità. Non bisogna però dimenticare anche l’aspetto culturale della
violenza che, per esempio, si esprime all’interno della società con il machismo
o maschilismo: «La donna honduregna si alza alle quattro del mattino per
accendere il fuoco e preparare la colazione per la famiglia; molto spesso
lavora fuori, oltre che in casa, generalmente coltivando i campi, dedicandosi a
lavori informali, o partecipando a microimprese – spiega Schieppati -. Spesso,
purtroppo, le donne si trovano a doversi occupare da sole della sussistenza
della famiglia; sovente i figli vengono concepiti al di fuori dell’unione
matrimoniale e non è raro che un uomo abbia figli da diverse donne. A ciò
bisogna aggiungere che molti uomini non vogliono contribuire al mantenimento
dei figli e a volte si rifiutano di riconoscerli proprio per non avere
responsabilità nei loro confronti».

Donne alla riscossa

A livello istituzionale sono state
create nuove leggi e istituzioni per combattere il machismo e la
situazione di oppressione e violenza in cui sono costrette a vivere molte donne
honduregne; ma sono soprattutto le organizzazioni civili che hanno contribuito
a fare grossi passi in avanti, pretendendo dalle istituzioni governative di
mettere in pratica quello che generalmente rimaneva solo sulla carta.

«Varie associazioni di donne nel
corso degli anni hanno lottato per introdurre importanti cambiamenti a livello
sociale, culturale, legale. Esse sono presenti su quasi tutto il territorio con
nomi e scopi differenti: Visitación Padilla, Centro de estudios de la
mujer
, Centro de derechos de mujeres, Las Hormigas, Programa
Deborah
», continua la volontaria italiana, che collabora con alcune di esse
alla promozione della parità di genere.

«Nel dare maggior potere alle
donne, queste associazioni hanno avuto un ruolo fondamentale, mettendo in atto
con intelligenza varie strategie: hanno raccolto informazioni e pubblicato
studi di alto livello sulla condizione femminile per avere più visibilità; si
sono cornordinate con la cooperazione internazionale per ottenere fondi con cui
sostenere le varie attività; hanno esercitato una forte lobbying sulle
istituzioni governative, esigendo più sensibilità da parte loro». Uno dei loro
servizi più significativi ed efficaci è l’apertura di consultori legali
gratuiti, che informano circa le leggi del paese e, se necessario, offrono
assistenza legale alle donne che non possono permettersi un avvocato.

«Proprio questi consultori sono
stati importanti per ridare dignità alle cittadine e avvicinarle alle
istituzioni, il cui personale, negli altri luoghi pubblici, tende molto spesso
a trascurare, o peggio ancora, a mortificare le donne che vi accorrono per
sporgere denuncia, soprattutto se queste vengono da aree rurali e hanno uno
scarso livello scolastico», racconta ancora Schieppati.

Benvenuti a Casa Zulema

Un ulteriore flagello che la
società civile dell’Honduras sta tentando di combattere è l’Aids. Il paese
centroamericano presenta il tasso più alto di portatori del virus Hiv del
continente, con lo 0,8% della popolazione (in Italia è 0,006%). Nonostante il
fatto che molti ospedali possano distribuire i farmaci, l’attenzione integrale
ai pazienti è rara. La cura è gratuita, il problema è che questa non è
disponibile per tutti. Data la scarsità dei farmaci disponibili negli ospedali,
la cura viene iniziata solo con quelle persone che, per condizione familiare,
stile di vita, possono garantire continuità.

Il problema è che i tre quarti
degli infettati sono persone senza tetto, che vivono per la strada, e pertanto
la loro condizione è di totale abbandono. Molte persone inoltre, una volta
contagiate, vengono abbandonate dai familiari.

«Il virus è ancora visto come uno
stigma: molte persone affermano che “la malattia è un castigo del Signore per i
peccati della carne”; tanti non dicono di avere il virus e non si sottomettono
a cure, proprio per non dover confessare ai propri cari di essere stati contagiati»
sottolinea la volontaria italiana.

Tra le realtà che combattono la
stigmatizzazione, dando un accompagnamento integrale alle persone infette senza
condizioni economiche o familiari adeguate, c’è Casa Zulema, un centro di
accoglienza per malati di Hiv-Aids in un paese a breve distanza dalla capitale
Tegucigalpa. Qui le persone sono accudite e rispettate nella loro dignità e
ricevono un’alimentazione sana ed equilibrata.

Casa Zulema prende il nome da una
donna morta in ospedale abbandonata da familiari e amici. La accompagnò nei
suoi ultimi giorni di vita padre Ramon Martinez Perez, un sacerdote spagnolo
che alla morte della donna, nel 1997, decise di costruire una casa per casi
simili. All’inizio essa aveva lo scopo di offrire la possibilità di una morte
dignitosa alle persone che si trovavano abbandonate in ospedale.

Oggi, con i progressi della
ricerca medica, la casa è diventata principalmente un luogo di recupero, in cui
la gente apprende le nuove abitudini necessarie per portare avanti la cura con
successo, imparando ad accettare e convivere con la malattia per poi tentare di
reinserirsi all’interno della società.

A Casa Zulema vivono donne,
uomini e bambini senza limiti di età, religione o razza (il 90% della
popolazione honduregna è meticcia). «L’unico requisito necessario per
alloggiarvi è che il paziente non abbia atteggiamenti violenti o aggressivi,
che mettano in pericolo gli altri abitanti», spiega dogna Laura, la
responsabile della struttura. «La vita in Casa Zulema inizia alle 7 di mattina,
con la colazione nella sala da pranzo comune e la prima distribuzione dei
farmaci. Poi i bambini vanno nella scuola vicina, mentre gli adulti
contribuiscono, a seconda delle condizioni fisiche e psicologiche, alla pulizia
della casa e del giardino, alla preparazione del pranzo e della cena. Nel
pomeriggio c’è un momento di preghiera e di riflessione spirituale. La sera,
dopo la nuova tornata di farmaci, che sono molto forti, la gente sente presto
il bisogno di riposare. La domenica spesso si organizzano escursioni nei
dintorni».

Nella casa operano volontari e
persone che ricevono uno stipendio, anche se minimo, come la cuoca, la donna
delle pulizie e un’amministratrice tuttofare. Solo due sono le persone che
vivono 24 ore su 24 nella casa: dogna Laura e Claudia che accompagnano e
si prendono cura della vita di circa 20 persone tra adulti e bambini.

«La casa vive principalmente di
carità e sono molte le aziende, le parrocchie e semplici individui che offrono
ciò che è necessario: cibo, vestiario, biancheria, prodotti d’igiene personale,
quadei e giochi per i bambini, medicine; ma non gli antiretrovirali, che sono
dati dall’ospedale. Sono molte le persone e i gruppi che si ricordano della
casa per condividere quello che hanno» ribadisce la responsabile.

Esiste, quindi, tutta una parte
di Honduras che ha a cuore il prossimo e che sta alzando la propria voce. Il
futuro prossimo dirà se riuscirà a dare un volto nuovo, migliore, al proprio
paese.

Daniele Biella

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Daniele Biella




Il Paese che non c’è Territorio palestinese. Lezioni di resistenza pacifica

Alcuni villaggi sulle colline a sud di Hebron, in Area C
(territorio palestinese sotto controllo e amministrazione israeliani),
rischiano di scomparire per far posto a insediamenti di coloni e avamposti
militari israeliani, totalmente illegali anche per le leggi d’Israele. La popolazione
locale, per lo più composta da pastori e agricoltori, nonostante le violenze
che subisce da anni, resiste con azioni nonviolente per difendere i propri diritti,
sostenuta dai volontari dell’Operazione Colomba (vedi:
www.operazionecolomba.it). Anche l’autore di questo articolo vi ha portato la
sua esperienza di resistenza pacifica.

«Loro hanno le armi e le pietre,
noi i bastoni del pastore. Loro hanno la polizia dalla loro parte, noi nessuno,
solo le nostre famiglie. Loro fanno quello che vogliono e noi dobbiamo tacere.
Loro vengono e buttano giù le nostre case, distruggono le nostre cistee; noi
le dobbiamo ricostruire di nascosto. Fino a quando?». Il lamento di Abud è il lamento
di un popolo.

Una convivenza difficile

Ormai la nascita di uno stato
palestinese sembra un sogno impossibile. Il territorio di Gaza, sul mare
Mediterraneo con una uscita verso l’Egitto è considerato un’immensa prigione a
cielo aperto. Il territorio della Cisgiordania è una pelle di leopardo, nella
quale i villaggi dei pastori devono convivere con gli insediamenti israeliani
serviti da strade, luce elettrica, acqua in abbondanza.

Un solo ulivo dei coloni beve in
un giorno tanta acqua quanta ne beve un villaggio palestinese con donne, uomini
e bambini. Con l’acqua abbondante chiunque è capace di far fiorire il deserto.

Gerusalemme est e Betlemme con i
territori vicini vede un muro costruito al di fuori di ogni logica, che non sia
quella del disprezzo dei valori e della giustizia, tagliando pascoli, dividendo
famiglie e comunità, distruggendo relazioni, isolando le fonti di acqua a
favore del più forte. Come si può pensare a due stati e due popoli?  Si dovrebbe spostare mezzo
milione di israeliani, che adesso vivono fuori dai confini ufficiali dello
stato d’Israele.

A fine novembre 2012 si è tentato
ancora una volta un qualche riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite,
nonostante la minaccia d’Israele di ridurre alla fame la comunità palestinese.
Eppure il riconoscimento della Palestina come membro osservatore (stesso status
del Vaticano), ruolo finora svolto dall’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina (Olp), ha avuto i numeri necessari per diventare realtà. Nel
settembre 2011 Mahmoud Abbas aveva cercato di ottenere il riconoscimento della
Palestina come stato membro, ma era stato bocciato dal veto americano al
Consiglio di Sicurezza, mentre altri stati, tra cui l’Italia, esprimevano la
loro neutralità sulla faccenda. Adesso poi, dopo la guerra dei nove giorni, la
posizione di Fatah, dominante in Cisgiordania, appare più debole rispetto a
quella di Hamas della striscia di Gaza.

E tutti, paesi arabi della
primavera, Stati Uniti, Europa e lo stesso Israele, si lasciano impressionare
di più da chi fa la voce grossa: non certamente l’autorità palestinese
dialogante, ma quella che spara i razzi fabbricati in Iran. Il più forte e il
più rumoroso aggiunge degli argomenti importanti alle proprie ragioni.

Intanto continua l’ostilità
quotidiana: pecore uccise, ulivi tagliati, pietre sui bambini che vanno a
scuola, asini rubati… Sono le azioni dei coloni, normalmente integralisti
ebrei, convinti che tutta questa terra sia stata data loro da Dio. «Terra», sì,
ma con della gente dentro, non una terra vuota.

Segni di cambiamento

Oggi non mancano gli israeliani
che mostrano solidarietà e sensibilità verso i palestinesi. Sono i giovani che fanno
obiezione di coscienza contro il servizio militare obbligatorio per uomini e
donne. Essi sono disposti ad andare in prigione pur di non imbracciare le armi
contro i pastori.

Sono gli avvocati, alcuni già in
pensione, che suggeriscono gli articoli di legge favorevoli ai palestinesi, che
difendono chi viene imprigionato, che esigono, quando possibile, l’abbattimento
di insediamenti israeliani.

Ci sono i poveri di Jaffa ai
quali vengono tolte le case per lasciare spazio a ville e resort lungo
la riva del mare, non importa se palestinesi o israeliani.

Si comincia a vedere la lotta dei
poveri contro i prepotenti. La lotta delle femministe dell’associazione Ahoti
for Women in Israel
(Sorelle per le donne in Israele), che a Tel Aviv
aprono le porte del loro piccolo centro d’incontro a tutti per denunciare,
appoggiare e cercare vie di uscita per i poveracci che, arrivati dall’Africa,
vengono abbandonati senza nessun futuro, nel parco vicino.

È chiaro che i palestinesi hanno
anche i loro problemi interni; il primo e forse il più profondo è la spaccatura
tra Hamas e Fatah. Fino a che punto si può essere
mansueti a Gaza, un luogo invivibile, con 5.800 persone per chilometro quadrato
(in Italia ce ne sono 201), con problemi gravi di acqua, energia elettrica,
mancanza di ospedali, scuole… sotto blocco permanente per terra e per mare,
un territorio tagliato fuori dagli altri territori palestinesi. È evidente che
la maggioranza della popolazione si senta identificata con chi si oppone in
modo più violento alla dominazione israeliana.

Intanto la Cisgiordania è
praticamente divisa in tre zone:

– Territorio a controllo e
amministrazione palestinese (Area A);
– Territorio a controllo
israeliano, ma con amministrazione palestinese (Area B);
– Territorio a controllo e
amministrazione israeliana (Area C).

Mentre il primo copre un 17% del
territorio con il 55% della popolazione palestinese, il secondo copre il 24%
del territorio con il 41% della popolazione, il terzo fa riferimento al 59% del
territorio con appena il 4% di palestinesi.

La nonviolenza

Hafez non è l’unico ma è un
tassello importante e riconosciuto nelle colline a sud di Hebron. Lui stesso
racconta la sua storia.  Quando era poco più che un
ragazzo vide sua madre maltrattata e picchiata da coloni israeliani tanto da
finire in ospedale. Andò a trovarla e le assicurò che avrebbe trovato il modo
di vendicarla. «Cerca un’altra strada – gli
disse lei -. Se ti vuoi vendicare potrebbero distruggere il nostro villaggio e
noi ti perderemo. Alla fine, che cosa si guadagnerebbe? Un’altra strada.
L’unica possibile è quella di resistere usando altri metodi: la non violenza
attiva. Come? I bambini, andando a scuola; i pastori portando il gregge al
pascolo. Se c’è un attacco dei coloni, tutti gli abitanti si fanno presenti. Se
distruggono la moschea, scuola, strade… le ricostruiamo. Noi restiamo qui e
continuiamo a resistere alle politiche di aggressione con la non violenza».

Il piccolo villaggio di At-Tuwani
ha così conquistato il suo diritto a esistere. Nel 1999 tutti gli abitanti
hanno resistito a ogni evacuazione, anzi, hanno ospitato altri pastori evacuati
a loro volta dalle loro terre poco lontane. Con l’aiuto di attivisti israeliani
e di un avvocato si è capito che non tutti gli israeliani sono soldati o
coloni.

Oggi una presenza preziosa è
quella dei giovani dell’Operazione Colomba, corpo non violento di pace
dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Armati di macchine fotografiche e
videocamere si muovono continuamente per documentare, dare appoggio con la loro
presenza pacifica e diventando l’occhio che vede e discee i fatti. Un continuo, a volte quotidiano, report
fa arrivare all’estero la documentazione in italiano e in inglese. La gente si
sente collegata con la solidarietà internazionale, i soldati e i coloni hanno
sopra di loro gli occhi attenti di tanti che non accettano l’ingiustificabile.

Dal 2010 At-Tuwani è collegata
con la linea elettrica, che arriva da Yatta, la più grande città palestinese
della zona, facendo passare i cavi sopra la bypassroad, (una strada che
collega le colonie israeliane) cosa finora impensabile. L’acqua è assicurata più o meno
grazie ad alcuni depositi, cistee che sono state legalizzate. I bambini arrivano dal villaggio
di Tuba accompagnati da una scorta dell’esercito israeliano che li difende
dagli attacchi dei coloni. Se un colono si presenta incappucciato lungo la
strada per terrorizzare i ragazzi, gli inteazionali e le famiglie arriveranno
in tempo per proteggerli mentre i soldati cercheranno di mostrare la loro
affidabilità. 

Un momento privilegiato

A fine ottobre l’Unione Europea
ha organizzato un workshop, un momento di incontro, riflessione,
solidarietà. Grazie ai responsabili dell’Operazione Colomba sono stato scelto
per accompagnare quel momento.
– Te la senti?
– Non saprei. Proviamo.

È stata una settimana che si
andava costruendo quasi di giorno in giorno. Incontri che creavano altri
incontri. Dal Centro di Informazione Alteativa a Beit Sahour, a est di
Betlemme siamo passati al «Kairos Palestina», un movimento di cristiani,
che hanno prodotto un documento serio e profondo per costruire cammini di pace
e riconciliazione nella Terra Santa. E ancora incontri con il gruppo della
Teologia della liberazione palestinese, un gruppo piuttosto agguerrito, e le
femministe di Tel Aviv, con gli avvocati che difendono le case di Jaffa, finché
sarà possibile, ecc.

Le date poi cambiavano, affinché
non coincidessero con la festa di Ismaele, quando bisognava sacrificare
cammelli e mucche. Finalmente il lunedì 29 ci siamo
trovati a Al Mufaqara, su, in alto sulla collina. Erano riuniti i capi di
diversi villaggi, i giovani, le donne e i bambini del luogo. Mi avevano proposto un tema: «Lotta
nazionale e perdono personale». Non avevo voluto preparare nessun
testo. Volevo vedere con i miei occhi la realtà, il volto della gente, entrare
nelle loro case, nelle loro grotte. Penso che sia stata una scelta giusta. Come
si può parlare di perdono in questa situazione? Mi sono posto questa domanda ad
alta voce in italiano, tradotta in arabo: «Un mese fa mi hanno ucciso una
pecora e posso perdonare, una settimana fa mi hanno ucciso una pecora e posso
perdonare, ieri mi hanno ucciso una pecora e posso perdonare. Ma domani me ne
uccideranno un’altra, e tra una settimana, e tra un mese e tra due mesi…
Posso perdonare al futuro? All’infinito?». Forse il tema del perdono risulta
corto, non più sufficiente. Vedevo quegli occhi che mi guardavano con
attenzione e ho continuato a parlare: «La lingua ci separa, ma il cuore ci
unisce».

Dovessi riassumere non saprei che
cosa ho detto, ma ho parlato di resistenza e di non violenza attiva. Della
necessità di non perdonare i fatti, ma di guarire la ferita che quei fatti
producono in noi per poter reagire in modo pacifico e umano. «Purtroppo gli israeliani hanno
sofferto molto in Europa e poi anche qui. Ma hanno imparato a reagire con la
forza. Sanno combattere con chi è violento, ma non sanno gestire la non
violenza. Rimangono spiazzati. Alla fine preferiscono avere a che fare con
Hamas e con la guerriglia. A ogni colpo rispondono con il pugno duro, ma con
quelli che sanno resistere senza essere violenti? Come si fa?».

E alla fine, al momento del
riposo, nessuno si è mosso, e sono invece iniziate delle domande a cui ho
risposto come potevo. Un prete cattolico che parlava a
una comunità totalmente musulmana. Ma non ci ho neppure pensato. Ero uno che
parlava e che imparava. Finita la giornata intensa, due
giovani volevano a tutti i costi che andassi anche al loro villaggio, un po’
lontano di lì. «Insh’Allah, se Dio vuole». È rimasto il desiderio. Forse
sarà per un’altra volta.

La conclusione

Alla sera, quando eravamo già
scesi ad At-Tuwani, l’esercito e la polizia israeliani hanno catturato lo scheich,
un pastore molto conosciuto, guida spirituale del villaggio. Stava lavorando
alla sua cisterna. Aveva guidato l’invocazione
iniziale al mattino. Il suo lavoro non era permesso, ma neppure proibito.
Quando la figlia si interpose tra il papà e i militari e fu colpita, egli si
ribellò. Ecco l’accusa: resistenza a pubblico ufficiale. Le ragazze della
Colomba, subito informate, hanno ripreso la scena e si sono guadagnate
anch’esse qualche spintone. Non si può fare di più. Intanto
la gente, accorsa in buon numero, non ha potuto impedire che se lo portassero
via. Lo avevano già messo nella loro camionetta. A quel punto tutti si sono
ritirati: i pastori e i soldati. Quando tutto sembrava finito la gente toò
su, si organizzò e terminò il lavoro. Quando lo scheich toerà dalla
prigione troverà la sua cisterna, così come lui avrebbe voluto realizzarla. Ecco la resistenza pacifica.

Gianfranco Testa

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Gianfranco Testa




Acqua e Foreste: la dote di Vientiane

La situazione in Indocina / 2: Laos
Chiuso e
isolato, fino a ieri il Laos era conosciuto soltanto per il conflitto con gli
Stati Uniti. Oggi l’ex regno cerca una sua dimensione internazionale, almeno
nell’ambito indocinese. In tanti se ne fanno paladini, mirando alle sue risorse
(acqua e foreste su tutto). Riuscirà il Laos, paese con molte etnie e un solo
partito, a progredire senza essere schiacciato?

A novembre 2012, tre eventi consecutivi hanno rilanciato
il Laos sulla scena mondiale. Anzi, per diversi aspetti ve lo hanno introdotto,
per la prima volta, con enfasi. I tre eventi sono stati: l’organizzazione
dell’Incontro Asia-Europa (Asia-Europa Meeting, Asem), l’avvio del
percorso finale verso l’accesso all’Organizzazione mondiale del Commercio
(Wto), l’inaugurazione formale dei lavori per la sua prima diga sul Mekong. Tre
eventi interconnessi e, in prospettiva, di grande rilievo.

Dopo 15 anni di percorso burocratico e di lenta
evoluzione, il paese, per molti aspetti ancora chiuso – per scelta e per
necessità – entro confini assediati da potenti e invadenti vicini, ha chiesto
formalmente di entrare nel Wto.

Lo ha fatto nel contesto del 9° Incontro Asia-Europa che
ha portato nella capitale Vientiane 51 paesi partecipanti, inclusi tutti i
membri Ue e Asean (Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico) e i
rappresentanti delle due organizzazioni, oltre a tre nuovi aderenti (Norvegia,
Svizzera e Bangladesh). Al centro dell’incontro – che quest’anno ha avuto come
tema «Amici per la pace partner per la prosperità» – la ricerca di un impegno
comune per superare la crisi del debito, rilanciare l’economia globale e
affrontare le questioni regionali.

L’accesso al Wto, perseguito fino dal 1997, consentirà al
piccolo paese asiatico (236.800 chilometri quadrati) e ai suoi 6,3 milioni di
abitanti di beneficiare di tariffe commerciali ridotte, un bonus per la sua
economia asfittica (il Pil annuale è di soli 8,3 miliardi di dollari). Un
ingresso facilitato, va ricordato, dalla sua condizione di nazione tra le meno
sviluppate. Di fatto il riconoscimento che la strada verso il progresso
economico sarà lunga e con ogni probabilità difficile, disseminata di riforme
del sistema politico e di nuove priorità economiche e sociali. Una strada
contrassegnata – si spera – anche dall’impegno a conservare con cura le proprie
risorse naturali, che al momento costituiscono la sola ricchezza del Laos.

DA LUANG PRABANG  A VIENTIANE

Quattro secoli e mezzo fa, con una mossa
all’apparenza sconsiderata, re Setthathirat fondava l’attuale capitale laotiana
Vientiane. A spingere allora il sovrano ad abbandonare le rive settentrionali
del Mekong e a dare vita a un nuovo centro del suo potere lungo il grande
fiume, fu la minaccia birmana. Oggi sono gli investimenti cinesi, thailandesi,
singaporeani, giapponesi, europei a mettere a rischio l’indipendenza del paese.
Mentre le nuove infrastrutture servono soprattutto agli interessi immediati
degli investitori e delle élite locali legate al partito unico e al vicino
cinese, il reddito complessivo non sembra risentire dei tanti progetti di
origine straniera, e quello pro-capite annuo resta tra i più bassi del
continente e del mondo.

Il Laos da decenni è sotto assedio affinché
il regime che governa con intransigenza da un lato ceda alla democratizzazione,
ai diritti civili e allo sviluppo del paese, dall’altro consenta, sempre
motivato dalle necessità dello «sviluppo» l’intervento massiccio di partner
stranieri. Nel tempo, forse inevitabilmente, l’immensa Cina popolare ha fatto
sentire il suo peso, mettendo via via ai margini il Vietnam, rivale strategico,
e la Thailandia, rivale economico. Oggi il Laos è una specie di protettorato
della Repubblica popolare cinese, invaso dai suoi prodotti a basso prezzo.
Ancor più sottoposto a pressioni insostenibili sulle sue risorse e, alla fine,
sulla sua autonomia. A dare concretezza a tutto ciò anche la serie di quattro
dighe costruite dai cinesi nell’alto corso del Mekong, in territorio cinese,
che influiscono sul corso più meridionale del fiume e sulle popolazioni
rivierasche.

Nonostante gli investimenti massicci, le
prospettive restano incerte per almeno due ragioni: il basso livello di
sviluppo e il costo che le realizzazioni hanno, o avranno, sulla vita delle
popolazioni in un territorio aspro e fragile.

IL PESO (POLITICO)  DEGLI INVESTIMENTI

Paese poco più piccolo dell’Italia, senza
sbocco al mare, ricco di risorse idriche e forestali, dove convivono una grande
varietà di etnie e lingue, il Laos fatica a mantenere autonomia di scelte,
indipendenza economica e ancor più l’identità sopravvissuta all’indipendenza
dalla Francia del 1949, al conflitto più o meno palese con gli Stati Uniti e,
dal 1975, alle contraddizioni del regime comunista. Identificato questo con il partito Pathet Lao,
una realtà fragile, che va lentamente perdendo in autonomia e controllo
ideologico. Crescono gli investimenti cinesi e da Pechino arriva anche il 32
per cento del sostegno internazionale al Laos. Con la costruzione di aree di
sviluppo al confine, ponti, strade e ferrovie, la Cina popolare sta integrando
sempre più le sue regioni meridionali con il vicino, il quale è determinante
anche per i suoi rapporti sempre più stretti con l’Asean.

Ricerca di sviluppo e mantenimento degli
equilibri ecologici, modeità e tradizione nei modi di vita, indipendenza e
sempre maggiore influenza straniera, socialismo e rivendicazioni
democratiche… I dualismi profondi del Laos si estendono anche alle sue due
maggiori città. Indaffarata e modea, con più velleità che eccessi, la
capitale Vientiane si affaccia da una piana polverosa sulla riva del Mekong a
fronteggiare l’ingombrante vicino thailandese. Città di templi e monumenti,
centro di una folta comunità monastica, Luang Prabang è sbocco sul grande fiume
di comunità contadine e tribali, che popolano le valli tra le montagne
ricoperte di foresta. Tra i due estremi, un paese in bilico sul proprio futuro
che a nuove strade di grande comunicazione, agli aeroporti, allo sviluppo della
propria compagnia Lao Aviation, alla costruzione di nuovi ponti sul
Mekong verso la Thailandia e a un network telefonico a banda larga
attivo dal mese scorso affida qualcosa di più che la capacità di essere più
coeso: soprattutto la possibilità di essere anche economicamente più omogeneo e
cornordinato, insieme più aperto e più competitivo verso l’esterno.

MONACI E MONASTERI

Il territorio laotiano costituisce una regione di
transito, non sempre pacifico, di popolazioni. Un passaggio reso possibile da
profonde vallate disposte in direzione Nord-Sud e dai fiumi che permettono un
rapido accesso, almeno nei periodi più propizi alla navigazione, dalla Cina
meridionale alle fertili pianure della Cambogia e della Thailandia. Il continuo
passaggio, e in parte la sedentarizzazione di popolazioni di diversi ceppi
etnici e linguistici, non poteva non lasciare una traccia e, nello stesso
tempo, non poteva non creare una situazione di costante incertezza nella sua
storia tormentata.

I vari regni Thai in Laos, di cui il primo fu fondato nel
1360, ebbero come sfondo regioni poco ospitali, caratterizzate da profonde
valli fluviali, montagne ricoperte di fitte foreste, un territorio
complessivamente povero e difficile da controllare e organizzare. Le popolazioni
Mon (Hmong) soggiogate non avevano saputo o potuto, in un tale contesto,
sviluppare una cultura avanzata, come invece avevano fatto i Mon della Cambogia,
del Siam (Thailandia) e della Birmania (Myanmar). Di conseguenza il passato di
cui i Lao (debitori di molto agli antichi Mon) sono oggi fieri è un passato in
gran parte concesso o imposto loro.

La religione induista non ha lasciato tracce
degne di nota e le tradizioni animiste, per quanto fortemente presenti, sono
inevitabilmente soverchiate dal buddhismo. Quest’ultimo, nella sua versione Hinayana,
giunse dal Siam, senza nulla concedere alla tradizione locale. Introdotto dai
vincitori, venne subito e accettato. In Laos, la scarsità di ritrovamenti
collegabili a una tradizione animista o sciamanica contrasta con la situazione
attuale che vede gli spiriti indissolubilmente connessi alla vita quotidiana.
Questo può dipendere anche dalla difficile individuazione di reperti,
eventualmente esistenti ma disseminati su un territorio montuoso e ricoperto da
un denso manto forestale, oltre che dalla storia complessa e dai frequenti
conflitti.

I gruppi che si rifanno a pratiche di
carattere animistico sono oggi spesso tra gli elementi più deboli delle società
locali, generalmente quelli che hanno meno possibilità di accedere
all’istruzione e che da sempre tramandano tradizioni orali. Di conseguenza,
l’orizzonte religioso e culturale del Laos è buddhista e il buddhismo
costituisce per i laotiani un elemento identitario e, al contempo, l’unica
forza alternativa al potere politico. Ciascun laotiano passa abitualmente un
certo periodo della vita in un monastero come novizio e a questo si aggiunge
l’attaccamento della popolazione alla dottrina del Buddha e il suo sostegno
alle istituzioni buddhiste, che permette di acquisire meriti e proseguire più
spediti sulla via della Liberazione. Ai monaci ci si rivolge per i riti
quotidiani, le occasioni festive e i momenti di passaggio della vita personale
e sociale, ma monasteri e templi sono sottoposti alla benevolenza del governo,
che sovente nella storia recente ha usato le armi della repressione e del
ricatto per tacitae proteste e rivendicazioni.

Stefano
Vecchia

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Stefano Vecchia




Scene da un matrimonio – Dalla Macedonia, un paese quasi sconosciuto

Nel 1991 la
Macedonia si staccò pacificamente dalla Jugoslavia. A oltre 20 anni
dall’indipendenza il suo nome è ancora incerto, perché la confinante Grecia lo
rivendica. Dalle regioni macedoni sono emigrati in moltissimi: 700 mila su una
popolazione di poco superiore ai 2 milioni. In Italia ne sono arrivati –
legalmente o illegalmente – un numero importante: ventimila nel solo Veneto.
Il matrimonio di Azra ed Enis, due giovani
emigrati macedoni, è l’occasione per conoscere un paese tanto vicino quanto
sconosciuto.

La Macedonia è uno di quei «nuovi» stati che difficilmente
la gente sa collocare su una cartina geografica e di cui, ancor meno, sa
descrivere la storia. Questo potrebbe essere dovuto al
fatto che è una ex repubblica jugoslava arrivata all’indipendenza – era l’8
settembre del 1991 – senza passare per una guerra, o i cui scontri etnici
interni tra albanesi e macedoni, nei primi anni 2000, non sono stati
considerati degni dell’attenzione della stampa occidentale.

L’EMIGRAZIONE HA SVUOTATO I VILLAGGI

Secondo Risto Karajkov, collaboratore di Osservatorio Balcani e
Caucaso, uno dei siti più autorevoli nel panorama dell’informazione sui Balcani
in Italia: «Si stima che la diaspora macedone all’estero sia attorno alle 700.000
persone (su 2,1 milioni di cittadini), anche se non vi è alcuna istituzione in
Macedonia in grado di fornire statistiche attendibili sul livello di
emigrazione dal paese. L’unica conclusione, riportata ripetutamente dai media, è
che è massiccia». Nell’articolo pubblicato sul sito spiega come
tradizionalmente fossero «le regioni più povere e con scarse condizioni per
sviluppare l’agricoltura ad alimentare i flussi migratori, mentre negli ultimi
anni sono anche le regioni più ricche a perdere manodopera contribuendo a
creare il mito di pecalba (la migrazione economica), la nostalgia per la
madrepatria, le vite consumate lontano dalla propria famiglia e dai propri cari».
Lo scenario che si presenta a chi arriva nei villaggi della campagna macedone –
tranne nel mese di agosto – è di abbandono e desolazione: a causa
dell’emigrazione. Nei villaggi sono rimasti solo gli anziani e chi riesce
ancora a portare avanti il lavoro nei campi, e con esso a mantenersi. I giovani
che non riescono o hanno scelto di non emigrare abbandonano comunque i villaggi
per andare a cercare fortuna in città, soprattutto a Skopje, la capitale.
Karajkov mette comunque in luce che «non si tratta di un processo nuovo: è
iniziato più di cinquant’anni fa anche se, col passare del tempo, le sue
conseguenze sono sempre più visibili. Oggi in Macedonia ci sono 458 villaggi
che hanno meno di 50 abitanti, tra questi oltre 100 che hanno meno di 10
abitanti. L’Ufficio statale per le statistiche riporta, infatti, un totale di
147 villaggi che attualmente sono completamente vuoti».



LE STRADE PER L’ITALIA

I Macedoni che emigrano in Italia scelgono prevalentemente le
regioni del Nord e, tra le città, Treviso e Piacenza, quest’ultima addirittura
ribattezzata Strumicenza per l’alto numero di persone emigrate dalla regione
macedone che porta il nome di Strumica.

Secondo Osservatorio Balcani «circa 5.000 cittadini macedoni
migrano ogni anno verso il nostro paese». Si può arrivare in Italia legalmente,
ottenendo un passaporto bulgaro (in quanto appartenenti alla minoranza macedone
in Bulgaria) o grazie a parenti o amici già residenti in Italia che facciano da
datori di lavoro. O in maniera irregolare – come è il caso di molti migranti,
non solo macedoni -, spesso diventando vittime di ricatti ed estorsioni per
viaggi della speranza in condizioni estreme e false promesse di lavoro.

Nell’inchiesta sulle comunità balcaniche a Piacenza, realizzata
per «Piacenza Sera» dal giornalista freelance Gaetano Gasparini, viene
sottolineato il peso della diaspora macedone in questa città: sono ben 1939, il
che ne fa il secondo gruppo etnico della città. I macedoni, si legge
nell’inchiesta, sono «lavoratori con nuclei famigliari stabili e una seconda
generazione già avviata». In Italia le prime generazioni macedoni lavorano
principalmente (per lo meno all’inizio delle loro carriere lavorative) nel
settore dell’edilizia, anche se non sono rari i casi di avviamento di attività
imprenditoriali autonome dopo alcuni anni di lavoro dipendente, non per forza
nello stesso settore, come testimonia un immigrato di origini macedoni
intervistato nel corso dell’inchiesta. «Sono arrivato a Piacenza nel 1999,
anch’io sono stato clandestino per un paio d’anni. Ho lavorato duro come
manovale e poi come camionista, alla fine sono riuscito a realizzare il mio
sogno ovvero aprire un salone di parrucchiere». Le seconde generazioni spesso
seguono i percorsi professionali già avviati dai genitori nonostante comincino a
emergere scelte diverse e più autonome, come l’avvio di attività transnazionali
tra l’Italia e la Macedonia.

IL MATRIMONIO DI AZRA ED ENIS 

Dall’aeroporto di Treviso partono voli diretti per Skopje due
volte alla settimana. La maggior parte dei Macedoni residenti in Italia vive
infatti in Veneto (19.870 persone alla fine del 2010, 7.686 solo nella
provincia di Treviso). In alcune regioni della Macedonia, soprattutto nella
parte occidentale, la lingua italiana, così come il dialetto veneto, sono
estremamente diffusi per l’altissimo numero di immigrati macedoni in questa
regione dovuto alle catene migratorie (parenti e amici) che dagli anni ’90
hanno cominciato a legare alcuni villaggi macedoni alle città del Veneto.
Durante l’estate i villaggi, quasi completamente disabitati nei mesi invernali,
sembrano tornare a vivere. Per le vacanze infatti la diaspora macedone torna,
rigorosamente su macchine con targa italiana, dall’Italia alla Macedonia, per
trascorrere le vacanze nel proprio paese di origine, visitare i parenti rimasti
lì o rientrati anch’essi per le vacanze, sistemare alcuni affari e celebrare
feste e momenti importanti, come i matrimoni. Il mese di agosto sembra infatti
essersi ormai trasformato nel mese dei matrimoni. Il matrimonio cui abbiamo
avuto il privilegio di partecipare è stato celebrato nel villaggio di Borovec,
nella provincia di Struga, nella parte occidentale della Repubblica di
Macedonia. Gli sposi erano Azra ed Enis, due giovanissimi macedoni, residenti
in Italia (anzi, per essere precisi, figli di immigrati macedoni in Italia,
quelli che vengono chiamati «seconda generazione»). In queste zone vivono i
Torbeshi, una comunità di slavi cristiani islamizzati durante la dominazione
ottomana, che hanno affinità sia con i Pomacchi dei Monti Rodopi sia con i
Gorani di Albania e Kosovo. Anche tra i Torbeshi ci sono moltissimi immigrati
in Italia detti pechalbari (emigranti, appunto). I matrimoni tra i
Torbeshi si festeggiano secondo l’antica tradizione e durano per tre giorni.
Flauti e tamburi, sax e fisarmoniche accompagnano le danze che si ripetono
senza sosta giorno e notte, perché nei matrimoni macedoni ballare è molto più
importante che mangiare.

Anche il matrimonio di Borovec è stato celebrato nel rispetto di
tutte le tradizioni dei Torbeshi, custodite dagli anziani della comunità:
mentre i festeggiamenti, canti e balli, erano in corso a casa dello sposo, un
gruppo di uomini, parenti dello sposo, è partito per incontrare gli uomini
della famiglia della sposa e «sigillare con loro l’affare del matrimonio». Poi
la sposa è stata coperta con un broccato, «rapita» e portata a casa dello
sposo.

Nelle comunità musulmane macedoni, lo sposo e sua madre non
prendono parte al corteo nuziale che conduce la sposa dalla sua casa natale a
quella dello sposo, ma la attendono insieme alle donne della famiglia. Queste
accolgono la futura sposa all’entrata del paese, mostrando in questo modo la
propria approvazione, poiché, attraverso il matrimonio, una nuova donna entrerà
a far parte della famiglia. La sposa viene accolta con canti e danze e
accompagnata così fino a casa dello sposo. Lo sposo dalla propria casa cerca di
vedere «di nascosto» la sposa attraverso un anello, pronunciando una formula
rituale di buon auspicio. A quel punto la sposa entra nella casa dello sposo e
riceve offerte dai testimoni dello sposo che «riempiono» di soldi le sue scarpe
fino a quando «potrà calzarle». La sposa per la maggior parte del tempo tiene
gli occhi bassi e non sorride, mostrando così la tristezza per aver abbandonato
la propria famiglia e la propria madre, mentre la suocera celebra la sua gioia
nell’aver acquisito una nuora. I festeggiamenti durano per tre giorni, le donne
indossano vestiti tradizionali ricamati a mano e tutta la comunità si riunisce
attorno agli sposi riconoscendo e benedicendo la loro unione. Quelli che si
svolgono d’estate in Macedonia sono matrimoni tradizionali, ma che non hanno
alcun valore legale o religioso. La benedizione dell’Imam, infatti, i
futuri sposi l’hanno ricevuta un anno prima, in occasione del fidanzamento
ufficiale e il matrimonio civile viene contratto in comune nei giorni
successivi, ma come mera formalità. Questo dimostra l’importanza della
tradizione comunitaria che sacralizza i legami tra i suoi membri e la loro
appartenenza a essa.

EMIGRAZIONE DI PERSONE…

A un’analisi più approfondita ci si rende conto che i matrimoni
(così come altre celebrazioni importanti) che gli emigrati continuano a
celebrare nel paese di origine, servono, soprattutto alle prime generazioni,
per espiare una «colpa» (quella di aver lasciato il paese) e controbilanciare
l’effetto perturbatore suscitato dall’emigrazione. La naturalizzazione degli
immigrati e, in maniera ancora maggiore, l’ottenimento della cittadinanza
italiana per i loro figli, infatti, rendono retrospettivamente più chiara la
funzione disgregante che l’emigrazione ha per le comunità di origine quando
essa è protratta nel tempo, quando si ripete per un grande numero di individui,
uomini e donne, e di famiglie. Come dice il sociologo Sayad nel libro La
doppia assenza
, infatti: «Emigrare significa “disertare”, “tradire”. In un
certo modo significa indebolire la comunità da cui ci si separa, anche quando
lo si fa, appunto, per rinforzarla, per favorire la sua prosperità. Ogni partenza
e ogni emigrato rappresentano altrettante mutilazioni. Così, a partire dalla
stessa origine dell’emigrazione, si comprende come essa contenga i rischi di
una rottura con lo spirito e non soltanto con il corpo. Si capisce, così,
che per far in modo che il tabù della naturalizzazione funzioni, non è
sufficiente biasimarla e biasimare il naturalizzato, ma bisogna sacralizzare
(nel senso forte del termine) la comunità e l’appartenenza indefettibile (un
tipo di fedeltà assoluta) alla comunità in quanto gruppo sociale, e sacralizzare
a sua volta il gruppo in quanto struttura o insieme di strutture comunitarie –
che è ciò che succede, ad esempio, coi matrimoni. Bisogna sacralizzare i
legami che uniscono tra loro i vari membri della comunità, soprattutto quando
sono dispersi, e i legami che li uniscono alla comunità, soprattutto quando ne
sono separati, per poter esorcizzare il demone della contaminazione sovversiva
a cui l’emigrazione espone e che la naturalizzazione consacra».

La vera prova dell’integrazione o del mantenimento dei legami con
la terra di origine sarà la seconda, e soprattutto la terza generazione. Rimane
da vedere se prevarrà la «volontà» di sentirsi italiani al 100% o se la crisi o
i casi di discriminazione subita porteranno a un ripiegamento sulle proprie
origini e a ipotesi di ritorno. Questa sarà la sfida che spetterà ai figli dei
primi migranti che saranno magari in grado di esplorare e appropriarsi di una
terza via, un nuovo modo di essere italiani-macedoni, in Italia, in Macedonia o
altrove.

IMMIGRAZIONE DI CAPITALI

Da sempre le migrazioni presentano anche aspetti positivi per i
paesi nativi dei migranti. Le rimesse, infatti, aiutano la crescita del Pil
nazionale. La Macedonia, così come altri paesi di emigrazione, si è resa conto
dell’immenso potenziale delle rimesse e degli investimenti esteri, e ha dato
vita a un processo per favorire gli investimenti in Macedonia. Il governo
macedone, appoggiandosi a un’incisiva campagna mediatica, ha intrapreso riforme
radicali per attirare e orientare gli investimenti da parte degli emigranti,
portando la Macedonia a essere uno dei paesi con le tasse più basse in Europa.
Ha offerto massicci incentivi agli investitori stranieri, promosso aree economiche
libere e si è impegnato in una intensiva comunicazione con i singoli
investitori. Due giovani macedoni incontrati al matrimonio, ad esempio,
residenti in Italia dalla fine degli anni ’90, ormai perfettamente bilingui e
con una conoscenza profonda dei contesti italiano e macedone, stavano, proprio
nel corso dell’estate, concludendo tutte le pratiche per dare vita ad
un’attività di business transnazionale tra l’Italia e la Macedonia, con
installazione di fabbriche e laboratori in Macedonia per la produzione di
manufatti da vendere poi sul mercato italiano ed europeo.

Il futuro della Macedonia e della sue genti è ancora tutto da
costruire, in patria e fuori.

Viviana Premazzi

Box:
DALLA JUGOSLAVIA
A OGGI

TRA SKOPJE E ATENE, UN NOME DI TROPPO

Fino al 1991 è stata la «Repubblica socialista di macedonia».
Oggi è un paese senza un nome condiviso. Tanto facile è stato il distacco dalla
Federazione jugoslava quanto complicate sono le relazioni tra Skopje e Atene.

Nonostante siano paesi confinanti, i collegamenti tra
la Macedonia e la Grecia non sono facili. Da Skopje a Salonicco c’è un solo
autobus al giorno e i treni non sono garantiti. Il mezzo più «comodo» e veloce è
quindi il taxi privato anche se non tutti i tassisti se la sentono di
attraversare il confine o chiedono un compenso extra per le questioni che
potrebbero nascere alla frontiera.

Questo perché le relazioni tra i due paesi, così come
l’ingresso della Macedonia nella Nato e nell’Unione europea, sono ancora ad un
punto morto a causa della disputa sul nome. Se ripercorriamo la storia possiamo
capie i motivi.

L’8 settembre del 1991 la «Repubblica socialista di
Macedonia», una delle sei entità statuali che costituivano la federazione
jugoslava, dichiara la propria indipendenza in seguito a un referendum e il 17
novembre dello stesso anno il parlamento di Skopje adotta la costituzione della
«Repubblica di Macedonia». Nel 1992 con l’idea di costituire la «Grande
Macedonia» il nuovo governo di Skopje stampa carte geografiche che comprendono
anche la Macedonia dell’Egeo nella loro neo-nata nazione, battendo anche
cartamoneta con la Torre bianca, emblema di Salonicco, seconda città greca.
Queste iniziative secondo l’esperto macedone Risto Karajkov «hanno provocato la
Grecia, per niente disposta a cedere nome, storia e identità macedone alla
Macedonia, appunto, e che le ha bollate come mire espansionistiche di Skopje
sulla Macedonia dell’Egeo. La Grecia ritiene, inoltre, che il nome “Macedonia”
sia parte esclusiva della propria storia e della propria eredità culturale, e
sostiene che, prendendo questo nome, il proprio vicino settentrionale utilizzi
indebitamente questa eredità». Le definizioni contemporanee di Macedonia, però,
potrebbero essere considerate dubbie, poiché i limiti della regione geografica «Macedonia»
sono stati spostati diverse volte nel corso della storia. Rudy Caparrini su
mondogreco.it riporta la definizione dei confini della Macedonia data dai
geografi: «Quella vasta area della penisola balcanica (66mila chilometri
quadrati) suddivisa oggi fra Fyrom, Grecia, Bulgaria e Albania. […] Oltre la
metà della superficie complessiva di tale regione, però – specifica più avanti
-, appartiene alla Grecia (precisamente 34.231 kmq) mentre solo poco più di un
terzo è parte della Fyrom (Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia). Mai nella
storia, inoltre, è esistita un’entità sovrana denominata semplicemente
Macedonia». Anche se è vero che il Regno di Macedonia, a cui la regione odiea
deve il suo nome, era situato quasi interamente dentro i confini greci,
comprendendo una piccolissima parte di ciò che oggi è la regione.

Così nel 1992, in seguito alla richiesta della
Grecia, l’Unione europea adotta la «Dichiarazione di Lisbona», che proibisce al
nuovo stato, ancora non riconosciuto a livello internazionale, di utilizzare il
nome «Macedonia». Il 7 aprile 1993, un anno e mezzo dopo la data di
proclamazione dell’indipendenza della Repubblica di Macedonia, a causa
dell’ostruzionismo greco, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, invece, approva
la risoluzione 817, con la quale ammette il paese nell’organizzazione delle
Nazioni Unite, ma con la denominazione temporanea di Fyrom (Former Yugoslav
Republic of Macedonia
). Skopje, però, non gradisce tale soluzione, argomentando
l’incongruenza del riferimento alla Jugoslavia, con cui i ponti vanno rotti una
volta per tutte, anche a livello lessicale. Nel febbraio 1994 poi la Grecia
sottopone la Macedonia a un embargo, chiudendo completamente i confini comuni.
L’embargo è causato dalla decisione di Skopje di adottare, come bandiera
nazionale, il cosiddetto «Sole di Vergina», simbolo legato ad Alessandro Magno.
La Grecia protesta anche contro un articolo della costituzione macedone, nel
quale si parla di sostegno e protezione delle minoranze macedoni presenti negli
stati confinanti. Dopo diciotto mesi di embargo, che causa alla Macedonia danni
stimati intorno ai due miliardi di dollari, nel settembre 1995 Atene e Skopje
firmano un trattato, sotto l’egida dell’Onu, col quale si impegnano a cercare
una soluzione mediata alla disputa. Nel trattato, i due paesi non sono citati
con i propri nomi costituzionali, ma come «Primo contraente» e «Secondo
contraente». Nell’ottobre 1995, a seguito della modifica della bandiera e
dell’articolo conteso la Grecia riapre le frontiere. Alla fine dello stesso
anno i due paesi iniziano dei negoziati bilaterali, sotto il patrocinio delle
Nazioni Unite per risolvere la disputa sul nome. All’inizio la Grecia si
dichiara assolutamente contraria ad ogni riferimento alla parola «Macedonia»
per il possibile nome costituzionale del proprio vicino. Nel corso degli anni,
però, questa posizione si ammorbidisce, e oggi questa possibilità non viene
esclusa a priori, anche se si preferirebbe un nome composito. La posizione
macedone è, invece, quella di utilizzare una doppia formula: il nome Repubblica
di Macedonia nei rapporti col resto del mondo, e di trovare un nome diverso per
i rapporti bilaterali con la Grecia. La Grecia però non è d’accordo, e vuole un
nome unico e approvato da tutti. Nel corso degli anni, la Macedonia viene
riconosciuta col suo nome costituzionale da 120 paesi, inclusi tre membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Cina e, il 4 novembre
2004, gli Stati Uniti. Tuttavia, la questione del nome non è risolta e
complica, ad esempio, il processo di integrazione euroatlantica di Skopje. Da
parte greca la questione si incancrenisce, trasformandosi in motivo di orgoglio
nazionale che non può ammettere cedimenti, mentre il partito al potere a Skopje
lega le proprie fortune elettorali alla contrapposizione con la Grecia. A
ottobre 2012 però la Commissione europea decide di procedere coi negoziati per
l’ingresso della Macedonia nell’Unione Europea anche senza che si sia risolta
la disputa sul nome, cosa che fino a qualche tempo fa era la soluzione proposta
dalla Macedonia. (Viviana Premazzi)

(1) Per approfondire: www.balcanicaucaso.org

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Viviana Premazzi




Piccole schiave (tra le mura domestiche) La lotta di una piemontese contro il lavoro minorile

Possono avere anche soltanto 5 anni.
Preparano il cibo, fanno le pulizie, le compere, l’assistenza. Lavorano per
15-18 ore al giorno, senza alcuna paga, alle dipendenze di «padroni» senza
cuore e senza scrupoli. Come se ciò non bastasse, subiscono anche le attenzioni
particolari dei maschi di casa. Le chiamano «lavoratrici domestiche», ma in
realtà sono «piccole schiave». In Perù pare siano un esercito di 120-150 mila
persone. Da oltre 30 anni, una piemontese lotta al fianco di queste
bambine-donne, vittime della società e degli adulti. Siamo andati a trovare
Vittoria Savio a Cusco, nella casa dove lei le accoglie. Ecco cosa ci ha
raccontato.

Cusco. Una grande
zucca tagliata a metà sta in mezzo al tavolo, pronta per essere pulita e
sminuzzata. A Cusco, città andina a 3.400 metri d’altezza1, le minestre sono un piatto sempre ben accetto.
Vittoria, la padrona di casa, ha fisico asciutto e folti capelli bianchi. Il
suo volto, segnato da rughe profonde, è come un’opera d’arte che cresce di
valore con il passare del tempo. Parla con voce rauca, probabilmente segnata
dalle sigarette che fuma una appresso all’altra. Un vizio personale che lei
difende senza indugio.

PRIGIONIERE (E LA NASCITA DEL CAITH) 

Nata in Piemonte nel 1934, insegnante di matematica al
Liceo classico di Carmagnola, nel 1979 Vittoria Savio decide di lasciare tutto
e partire. «Sarei voluta andare in Nicaragua ad aiutare la rivoluzione
sandinista. Invece mi ritrovai in Perú con il Mlal, un’organizzazione di
volontariato allora molto attiva».

Trascorre i primi anni a Puno. Poi, a causa della
presenza di Sendero luminoso, il Mlal è costretto a chiudere i progetti.
Mentre quasi tutti i suoi colleghi rientrano in Italia, Vittoria decide di fermarsi
a Lima. Qui conosce il fenomeno delle ragazze che, lasciati i villaggi di
campagna e le poverissime famiglie, si trasferiscono in città per lavorare come
domestiche nelle case dei più benestanti. Rimane così colpita dal dramma umano
che sta dietro questo tipo di lavoro domestico, che decide di andare in
provincia per capire e soprattutto per tentare di fare qualcosa. Dato che il
console italiano non le consente di andare ad Ayacucho, lei sceglie Cusco, dove
inizia a lavorare da sola. Nel 1994, con l’arrivo di Josefina e Ronald, i due
primi soci, il progetto si formalizza nella nascita del «Centro di appoggio
integrale per la lavoratrice domestica» (Centro de apoyo integral a la
trabajadora del hogar,
Caith).

Il Caith nasce come luogo di assistenza e accoglienza
temporaneo. Ma il fenomeno è più grave di quanto inizialmente pensato. «Capimmo
– racconta Vittoria – che il maggior problema era ed è quello delle bambine che
lavorano in casa. Piccole che possono avere anche soltanto 5 anni! Modificammo
quindi lo statuto dell’associazione per superare il vincolo della temporaneità
e consentirle di ospitare le bambine fino all’età di 14 anni. E successivamente
aiutarle a reinserirsi nel mondo del lavoro».

Vittoria racconta un mondo di vera e propria schiavitù. «La
bambina non può andare a scuola, non può uscire. Dipende totalmente dalla
famiglia in cui lavora. È a disposizione dei suoi membri 24 ore al giorno. Se
alle due del mattino, la signora si mette in testa di volere un tè, la bambina
si deve alzare, preparare la bevanda e portargliela».

Ricorda il caso di una bambina che bussò alla porta
all’una e trenta del mattino: « “So che qui date da dormire alle donne che
lavorano in casa…”. Faceva impressione sentire parlare di donne da lei che
era alta un metro e dieci e aveva soltanto 8 anni. Raccontò di essere stata
licenziata alle 11.30 della notte. “Ho cominciato a camminare per le strade e
poi mi è venuto in mente che c’eravate voi”».

Voi è il «Centro Yanapanakusun» che, dal 2001, ha
inglobato il Caith, svariate attività educative, un centro di produzione
agricola, e alcuni programmi di turismo responsabile.

«COME UNA FIGLIA»

In lingua quechua, Yanapanakusun significa «aiutiamoci».
Un verbo coniugato in vari modi da Vittoria e collaboratori. Ad esempio, mandando
le ospiti più piccole a scuola e le più grandi a lavorare con un contratto
stilato in base ai principi della legge peruviana sul lavoro domestico2
e sottoscritto anche da Vittoria, in qualità di direttrice del centro. Ma la
strada è lunga.

Il ministero del lavoro stima che in Perú ci siano circa
700 mila lavoratori domestici, in gran parte donne (trabajadoras del hogar).
Di queste almeno 120 mila sarebbero bambine3. A Cusco,
dove Vittoria e i suoi collaboratori lavorano, si parla di 5.000 piccole schiave.

Il modo in cui una bambina diventa una lavoratrice
domestica è una storia che nasce dalla povertà e dallo sfruttamento.

«La persona, di solito una donna, va nei villaggi più
poveri a cercare le bambine – racconta Vittoria -. Quando ne trova qualcuna, promette
a lei e alla famiglia che la manderà a scuola e che la tratterà come una figlia».
La bambina arriva in città, dove – non conoscendo nessuno – rimane subito
isolata dal mondo. Quello nuovo, ma anche quello vecchio.

«A volte i genitori vanno a trovarle, ma i padroni hanno
svariati metodi per fare sì che essi desistano velocemente. Ad esempio, la
prima volta dicono loro: “Tua figlia non è in casa”. La seconda: “Tua figlia si
vergogna di te”. Il padre – che già ha complessi d’inferiorità (perché parla quechua,
perché è povero, perché viene dalla campagna) – se ne va, convinto che la
figlia lo rifiuti. A quel punto la signora dice alla bambina: “Guarda i tuoi
genitori che razza di persone sono: sei qui da mesi, ma non sono mai venuti a
trovarti». Dunque, la violenza è doppia: le bambine sono sfruttate dalla
famiglia in cui vivono e allontanate dalla famiglia d’origine. Non ci si deve
stupire se in molte subentra un sentimento di rabbia su cui Vittoria e
collaboratori cercano di lavorare.

«Quando arrivano qui, per prima cosa noi cerchiamo di
ricostruire un concetto di famiglia, dicendo: “Guarda che i tuoi genitori ti
hanno mandata a lavorare perché speravano o si illudevano che saresti stata
meglio”. Ricordiamoci che le famiglie mandano le figlie nella convinzione che –
perlomeno – esse avranno un’esistenza migliore della loro».

Perché la vita in molti villaggi rurali di questo Perú
profondo, lontano dalle rotte turistiche, è di una durezza estrema. A tal punto
che, la maggioranza delle bambine, pur confessando di aver sofferto molto, dice
che non ritoerebbe nei campi. «Occorre riconoscere – avverte Vittoria – che
non c’è soltanto il fenomeno del reclutamento, ma può esserci anche un
allontanamento volontario per scappare alla povertà e alla violenza familiare».

Al Centro, le bambine possono arrivare in tre modi: o
perché mandate dal tribunale, o perché si presentano spontaneamente dopo essere
scappate dalla loro prigione, o perché portate da altre bambine.

Dal 1994 al 2012, al Caith sono passate circa 1.500 lavoratrici
domestiche all’anno. Attualmente vi risiedono 27 minori e alcune maggiorenni.
Ma una parte consistente del lavoro del Centro si svolge in periferia. «Noi
lavoriamo in 30 comunità con 14 promotori sociali ed educatori. Qui cerchiamo
di fare un’opera di sensibilizzazione con i genitori delle bambine, ma anche
con insegnanti e alunni».

Sensibilizzare sulla problematica del lavoro domestico
infantile è un obiettivo fondamentale. «Le famiglie che reclutano bambine –
spiega Vittoria – non sono necessariamente ricche. La signora individua una
piccola di una famiglia povera o almeno più povera della sua. Sa che quella è
manodopera non qualificata ma che non costa nulla. Tante volte mi sono chiesta:
“È meglio essere disprezzati da chi ha una faccia diversa dalla tua o da chi ha
la stessa faccia di tua madre?”. Purtroppo, capita spesso – lo vedo ad esempio
al mercato – che ci siano ex lavoratrici domestiche che si vendicano su altre
bambine di quanto esse stesse hanno sofferto da piccole. Ho chiesto una volta a
una di loro perché non mandasse la bambina a scuola. Lei mi ha risposto: “Perché
dovrei? Io non ci sono mica andata”. Non è raro che l’oppresso, appena si
presenti l’occasione, diventi oppressore».

IL GARZONE E IL LATTAIO

Vittoria e collaboratori lavorano soltanto con donne e
bambine, ma esiste anche un problema declinato al maschile.

«I maschietti che lavorano in casa sono ancora più
vilipesi perché fanno un lavoro considerato da femmina e di conseguenza – in un
paese machista come il Perú – senza valore. Per questo, quando riusciamo
ad incontrarli, si vergognano a parlarne. Ci sono poi i ragazzini che lavorano
la notte. Per esempio, i garzoni dei foai. C’era una bambino di nemmeno nove
anni che portava qui la gerla del pane alle tre e mezza del mattino».

Eppure, anche nell’ambito del lavoro minorile, c’è chi
sta peggio: sono i minori che non hanno neppure una famiglia. «Dormono per
strada o nei dormitori. Se non lavorano (o non sono capaci di rubare), loro non
mangiano. In questo, i bambini lavoratori che vivono in famiglia risultano meno
sfortunati: sono costretti a lavorare però, per quanto male possa andare,
almeno hanno un tetto e qualcosa da mangiare».

Per tutto questo, Vittoria e collaboratori hanno aperto
la loro scuola, inizialmente pensata per le sole lavoratrici domestiche, anche
ai ragazzi lavoratori.

«Il giovane che ci porta il latte, oggi avrà 17 anni, è
totalmente analfabeta. Quando ci porta il conto, dice a me di leggerlo».

L’INGIUSTIZIA  (TRA PENA E RABBIA)

Il Centro Yanapanakusun è oggi composto da
vari edifici, abitativi e di servizio. Su un muro esterno della struttura
centrale c’è una grande riproduzione del Quarto Stato, il celebre quadro
di Giuseppe Pellizza da Volpedo4. Per
Vittoria non è soltanto un omaggio all’arte e alla storia italiana tra le Ande
peruviane. «È la speranza. Guardate la donna che apre la fila: è una donna che
non copia l’uomo. Ha la gonna, ha un bambino in braccio e cammina con gli
uomini. Il messaggio è: una donna può essere utile alla società anche senza imitare
i maschi. Secondo me, questo quadro è più femminista che
proletario. Fossero stati rappresentati soltanto i proletari maschi, forse non
mi sarebbe interessato».

Il QuartoStato sintetizza la scelta di vita di Vittoria
Savio: lottare a fianco dei più deboli e in particolare delle donne, fino alle
bambine rese schiave tra mura domestiche.

«Mi arrabbio quando la gente ha pena dei
poveri. Le vittime dell’ingiustizia non debbono far pena, ma suscitare rabbia.
La pena è sterile. O serve soltanto a qualcuno per sentirsi più buono.
L’ingiustizia dovrebbe far scatenare la rabbia dentro le persone. Attraverso di
essa si potrebbe cambiare il mondo».

Paolo Moiola
 

Conoscenza e turismo responsabile


OLTRE MACHU PICCHU

Soltanto attraverso un’opera di sensibilizzazione sulle
situazioni e sulle problematiche è possibile far crescere un turismo diverso, «responsabile».
Per ora esso interessa percentuali esigue del movimento turistico globale.

Cusco. Per anni ha insegnato matematica in un liceo
piemontese. Se Vittoria Savio dovesse tornare davanti a una classe di studenti
come presenterebbe il Perú, suo paese d’adozione? «Agli studenti direi che il
Perú è una realtà interessantissima. Anche
perché fa riflettere su noi stessi». Il mondo attuale è un mondo in cui convive
una pluralità di canali e di strumenti informativi, ma la qualità
dell’informazione e della conoscenza lascia spesso a desiderare. Cosa
aggiungerebbe di politicamente scorretto la professoressa Vittoria? «Guardate,
direi agli studenti, che la difficile situazione in Perú e in generale nei
paesi del Sud del mondo è colpa vostra. Non soltanto vostra, ma di certo anche
vostra. Porterei l’esempio del voto. Quando gli italiani vanno a votare, essi
scelgono i candidati in base alle loro posizioni rispetto alle tasse, alla
casa, ai servizi pubblici. Quante persone votano valutando anche le idee di
politica estera dei candidati in lizza?».

Una conoscenza completa e corretta è fondamentale per fare
scelte responsabili. Anche nel campo dei viaggi e del turismo.

Il Centro Yanapanakusun si autofinanzia anche con programmi
di turismo responsabile. «La gente che viene da noi – spiega Vittoria – arriva
con delle domande in testa. Sono persone che, oltre a parlare di siti
archeologici, si interessano anche dell’umanità che vive qui. È vero che questo
turismo ci serve come strumento di autofinanziamento, ma è anche vero che è
parte della nostra filosofia mostrare un Perú diverso e altro, un Perú di gente
che soffre, che lotta quotidianamente per sopravvivere. Noi offriamo alle
persone visioni alternative, anche nelle comunità campesine. Ma – questo deve
essere chiaro – non per portare caramelle o altre cose materiali come fosse la
visita a uno zoo».

Pur in costante crescita, questo tipo di turismo rappresenta
ancora un’esigua percentuale rispetto al movimento turistico complessivo. «Sì, è
vero – conferma Vittoria -. Ma questi turisti responsabili (o
responsabilizzati) possono avere un’influenza importante. Ad esempio, io sono
convinta che un viaggio in Perú raccontato da queste persone ha un impatto
diverso rispetto a coloro che parlano soltanto di Machu Picchu».(Paolo Moiola)

 
PER SAPERNE DI PIÙ
Libri:
• Gisella Evangelisti, Perú.
Luna grande dietro le montagne
, Edizioni del Noce, 1999.
• Maite Rofes Chávez, “Estás
bien?”: Caith, la cultura del afecto con trabajadoras del hogar
, Lima 2002.
 
Documentari:
• Stefano Cavallotto, Yanapanakusun,
continuiamo a crescere insieme
, Settembre Film (Alba), 2009.
 
Siti internet:
• www.yanapanakusun.org
• www.caith.org
 
 

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Paolo Moiola




Disarmare il Dolore col Sorriso Un incontro speciale: il Mago Sales

È stato in decine di paesi in tutto il
mondo, incontra migliaia di bambini ogni anno: «Vado da loro per regalare un
sorriso e fare una promessa». E per il 2013 ha in programma progetti anche in
favore dei missionari della Consolata. Incontrare il sacerdote salesiano mago
Sales è un’esperienza ricca, perché ricca è la sua condivisione che non perde
di vista la sofferenza, la vera gioia e la ricerca della verità. Grazie alla
medicina dell’allegria.

Lo incontriamo per interesse missionario: il mago Sales
porta da due decenni la sua allegria (e i suoi aiuti) in alcune decine di paesi
in tutto il mondo; e per curiosità: un prete salesiano dedito ai giochi di
prestigio, a vederlo in alcuni video su youtube una macchietta con la
croce al collo. Dopo l’intervista abbiamo avuto la piacevole sensazione di aver
incontrato non un ruolo (sacerdote) o un mestiere (mago), scatole che possono
rimanere vuote, pur tra l’ammirazione generale; neppure l’«impegno per i poveri»,
idea che a volte impoverisce di umanità chi la persegue; ma una persona. La sua
vita, allegra e dolente allo stesso tempo, e quindi la sua grande ricchezza.

Don Silvio Mantelli (questo il suo nome) ci
colpisce per la schiettezza – riguardo ai contrasti con alcuni confratelli
causati dal suo «mestiere», o a esperienze di sofferenza provocate in parte da
lui stesso -, e per la vulnerabilità che lascia trasparire dal suo volto. Forse
la sua franchezza priva di acredine viene proprio da quella vulnerabilità
accettata e testimoniata. Si potrebbe chiamarla anche trasparenza, o
addirittura misericordia. «I bambini in genere sono i critici più spassionati:
se hanno qualcosa da dirti te lo dicono senza problemi. Io mi sono accorto di
essere dalla loro parte, di essere un po’ un bambino» ci dice. E noi crediamo
che sia vero.

UN
MISSIONARIO DELLA CONSOLATA… MANCATO

Capelli bianchi, grandi occhiali posati su un
grande naso, sopracciglia foltissime. Sul petto una croce keniota, segno dei
progetti cui contribuirà nel 2013 per portare acqua alle popolazioni di quel
paese africano. Ci attendevamo di trovarlo con una bacchetta magica, un
copricapo colorato e vesti catarifrangenti. Ci accontentiamo della serie
concentrica di rombi che disegnano in modo ipnotico la trama del suo maglione. «Mi
definisco un prete che fa il mago: ho scelto di fare il mago, ma non di essere
prete. La vocazione è come la vita: nessuno chiede di venire al mondo. La vita è
un dono. La vocazione, cristiana e sacerdotale, pure».

Il mago Sales faceva le magie già prima della
vocazione, «quindi ho semplicemente continuato. Le faccio anche per
riconoscenza: credo di aver ricevuto molto dalla vita, allora restituisco il
debito e regalo dei sorrisi. Mi piace molto farlo!». Piemontese, nato nelle
langhe, a Novello, nel ‘44, Silvio arriva piccolissimo a Torino col papà
impiegato di banca, e la mamma commercialista. I genitori non lo possono
seguire «allora sono stato bocciato in prima media. Andavo bene solo in
educazione fisica. Poi i miei mi hanno mandato dai salesiani coi quali ho fatto
le medie e il classico faticando molto. A 19 anni un sacerdote straordinario
con la sua testimonianza di vita mi ha dato l’input: volevo diventare
missionario della Consolata! Ma i miei non erano d’accordo sulle missioni, e un
giorno ho trovato a casa un salesiano che mi ha portato nella sua
congregazione. Io volevo entrare nella Consolata perché a Novello conoscevo un
medico condotto, il dottor Dagnino, che quando era rimasto vedovo era diventato
missionario della Consolata, ed era andato in Kenya a testimoniare il Vangelo
come prete facendo il medico».

LA
TIMIDEZZA, LA MAGIA E GESÙ CRISTO

Sul viso e nella voce un sorriso affabile.
Inaspettatamente il mago Sales appare timido, perfino impacciato. Già dal primo
sguardo su di lui dobbiamo fare i conti coi nostri schemi e pregiudizi. Per
fortuna ci eravamo preparati a incontrarlo leggendo la sua gustosa e poetica
autobiografia sul sito magosales.com.

«Io sono molto timido. La timidezza non la
vinci mai completamente. Fare spettacoli mi ha aiutato». Don Silvio dice di non
essere un’eccezione: «Molti personaggi dello spettacolo sono timidi. Io ho
insegnato ad Arturo Brachetti, star a livello mondiale. Quando l’ho
incontrato era un ragazzino timido. Lo spettacolo l’ha aiutato a venire fuori.
Vasco Rossi, ad esempio, è timidissimo. Io l’ho conosciuto. I timidi hanno una
potenza in più perché, non esprimendosi nel sociale, interiorizzano, e la loro
fantasia diventa molto creativa».

La timidezza e la creatività, lo spettacolo
che fa esprimere l’interiorità. Tutto ciò ci fa intuire che la magia per don
Silvio non è uno strumento posticcio, un’espediente per attirare l’attenzione e
catechizzare il suo pubblico, ma un modo di essere, di esprimersi. Forse
allora, al contrario di quanto lui stesso ci ha detto, la magia per la sua vita
è più simile a una vocazione che a una scelta.

«Ogni tanto ricevo delle mail di gente
che mi chiede se non mi vergogno a fare il mago, io che sono prete. La magia è
parte di me. In fin dei conti se la religione è soprannaturale, la magia è
soprannaturale in finzione. Magia e religione non sono da equiparare, ma in
qualche modo tra loro c’è un legame. Gesù faceva miracoli. La magia, come il
miracolo, non è il fine, ma un mezzo per far capire realtà che altrimenti
sarebbero difficili da spiegare. Poi per me la magia è il modo in cui mi
avvicino alla gente. In tanti territori sono entrato non come prete ma come
animatore per bambini. In Vietnam c’è una legge che impedisce riunioni di più
di dieci persone. Io ne avevo di fronte più di mille e mi lasciavano fare. Lo
stesso a Cuba, in Somalia, in Palestina. Vado a regalare un sorriso, non a fare
politica o conversioni».

FAR
GUARIRE ATTRAVERSO IL SORRISO

Con una leggera inflessione dolente nella
voce il mago Sales d’improvviso parla del male del mondo: la magia e Gesù sono
legati tra loro dalla passione per l’umanità, in particolare quella sofferente.
«Il male del mondo non può lasciare indifferenti, soprattutto se colpisce un
bambino. Uno dovrebbe usare ogni mezzo per lenirlo. Il gioco è un valore
fondamentale. Molte volte in giro per il mondo i bambini mi hanno detto: “Grazie
perché mi hai regalato un sorriso”. Una volta in Somalia, alla fine di uno
spettacolo in un orfanotrofio dove, tra l’altro, c’erano tre suore della
Consolata, l’unica presenza cristiana in quel momento nel paese, un medico è
venuto da me e mi ha detto che quell’ora di spettacolo aveva annullato la
sofferenza di venti anni di guerra, era stata la prima volta che aveva riso e
si era divertito. Un’altra volta Dominique La Pierre mi ha detto: “Far
sorridere in situazioni di povertà e sofferenza significa in un certo senso già
guarirla”. Era il mio sogno: diventare come il dottor Dagnino, medico e prete,
far guarire col buon umore e il sorriso».

Il mago Sales porta ai bambini un aiuto
duplice: da un lato il divertimento, dall’altro i fondi raccolti in Europa. «Vado
da loro per regalare un sorriso e fare una promessa. Non puoi andare da un
bimbo, farlo divertire, scattare due foto e chiudere tutto lì!».

ESSERE
INCOMPRESO…

Immaginiamo che per i confratelli di don Silvio,
e non solo per loro, deve essere difficile accettare una modalità così
eccentrica di essere sacerdote. «Come capita a tutti, ho incontrato persone che
mi hanno capito e voluto bene, e altre che… non è che non mi abbiano voluto
bene, però…».

Il mago Sales parla con molta onestà dei suoi
contrasti coi confratelli. Ci fa capire che in alcuni ambienti si preferisce
non dire nulla, o al massimo alludere. Lui invece sembra non farsi remore. E la
sua semplicità, l’assenza di rancore e di quella superbia di chi crede di
essere nel giusto e vuole dimostrare gli errori degli altri, c’incantano.

«Le difficoltà servono a stimolare la
ricerca. Di solito il fatto che io faccia il mago non piace. Pensano: “Ma
questo deve fare il prete!”. I confratelli non te lo dicono. Poi te lo fanno
sapere per vie traverse. Anche don Bosco una volta fu portato in manicomio dai
suoi preti perché lo prendevano per matto. Si trovano sempre persone così».

UNA
STORIA DOLOROSA

Nella sua autobiografia il mago Sales, tra le
altre cose, narra anche di una storia d’amore che tre decenni fa l’aveva
portato fuori dalla congregazione, in cui è poi rientrato dopo alcuni anni.
Leggerla ci ha stupito, non tanto per la vicenda in sé, quanto per il fatto di
trovarla scritta di suo pugno nel suo sito web. Evidentemente per lui
essere testimoni dell’amore di Dio non significa mostrare solo quelle parti di
sé che corrispondono alle aspettative della gente ma – come dice lui – «vivere
integralmente la tua vita» con il male e il bene che in essa inevitabilmente si
intrecciano.

«È una cosa risaputa. Non l’ho mai nascosta.
Il sentimento e la sessualità non si possono annullare. Io non ho ricevuto
un’educazione in questo campo. I miei non ne parlavano. Mi dicevano che ero
nato sotto un cavolo. Non ho avuto mai smentite, né aggioamenti. Poi a scuola
il problema del sesso, della masturbazione, era una cosa da combattere a tutti
i costi. E forse questo mi ha influenzato. Forse pensavo che entrare nella
religione come prete avrebbe annullato la tentazione. “Sei più vicino a Dio”,
pensavo…

Ho incontrato una donna, sposata, con un
figlio. È nato un sentimento. Abbiamo anche pensato di andare a vivere insieme.
Dopo è valsa la ragione. Abbiamo fatto delle scelte. Lei dalla sua, io dalla
mia. La più sfortunata è stata lei: un giorno ho saputo che era in ospedale. Si
era presa un cane, come fanno tante persone che si sentono sole. Era su una
panchina e le è venuto un aneurisma. Non ha più ripreso conoscenza. Io sono
andato in ospedale a trovarla. Mi ha fatto impressione perché era senza
capelli, immobile. Io l’ho chiamata con il termine con cui ci chiamavamo, e dai
suoi occhi sono venute fuori delle lacrime. Alla fine le ho dato una
benedizione».

GIRARE IL
MONDO DAI 49 IN POI

Ci verrebbe da chiudere l’intervista qui,
sulle parole commosse di quest’uomo che ci mostra com’è fragile, imprevedibile,
sconcertante, e allo stesso tempo intensamente bella la vita. Ma sul mago Sales
ci sono molte cose da dire ancora. E allora proseguiamo. Don Silvio oggi
impiega gran parte della sua attività per i poveri del mondo. La cosa curiosa è
che questa mondialità, presente nella sua vita da sempre, è rimasta inespressa
fino ai suoi 49 anni: «Ho sempre fatto le cose in ritardo. Sono pigro oltre che
timido. Nel 1993 sono andato in Brasile, in un lebbrosario. Lì c’era Paolino di
otto anni che mi ha chiesto di fare una magia per lui: non la guarigione, ma di
farlo tornare da papà e mamma. Ci sono sofferenze che vanno al di là del male
fisico. Allora ho pensato: “Se guarisce, magari i genitori lo riprendono con
loro”. È nata così l’idea di aiutare i bambini del mondo attraverso gli
spettacoli. I soldi si sono trovati: Paolino è guarito. Però non è stato
accettato dai genitori. Ora è sposato, ha dei figli, ha la sua famiglia».

Da quell’anno il mago Sales ha visitato
almeno venticinque paesi: «In ognuno compro una stola. A Cherasco ho fatto una
cappellina in cui le ho appese tutte. Ce ne sono certamente più di venticinque!
Dovrei contarle.

Il paese che mi ha colpito di più è il Madagascar.
È stato il secondo viaggio che ho fatto. Poi ci sono tornato molte volte. Lì ho
avuto degli incontri importanti. Ma ogni paese ha le sue ricchezze. Haiti ad
esempio. Mi ricordo che un tempo portavo i quotidiani ai missionari. Erano così
felici che passavano la notte a leggere. E poi la sera raccontavano le storie.
Tant’è che ho iniziato a scrivere un libro sulle vite di alcuni bimbi. Sono
stato in Myanmar e mi sono fatto raccontare la vita di un bimbo monaco… poi
scriverò la vita di un bambino soldato, di un altro che lavora al mercato…».

Nel 2012 don Silvio è stato in Messico dove
sta finanziando un progetto per la formazione di giovani con 20mila euro
raccolti dal cinque per mille, poi è stato ad Haiti per visitare una scuola
costruita con 120mila euro dati da una fondazione bancaria. «Sono andato con
una persona di Cuneo che due anni fa ha perso la sua unica figlia in un
incidente stradale, e ora è un socio della fondazione mago Sales. Lui viene con
me e mi ringrazia perché vede cosa accade nel mondo. Non che così annulli la
sofferenza, perché certi dolori non li puoi mai vincere, però…».

Dopo Haiti è stato in India e Myanmar, e
infine in Palestina.

«L’ACQUA…
UN BENE PREZIOSO»

Per il 2013 la fondazione mago Sales ha
assunto due progetti dei missionari della Consolata in Kenya, entrambi relativi
all’acqua. Il primo riguarda la costruzione di vasche di raccolta di acqua
piovana a Karare, Marsabit, nel Nord, zona desertica in cui lavora suor
Serafina: già finanziato nel 2012, il progetto è solo all’inizio. Il secondo,
noto ai nostri lettori (si veda MC gen.-feb. 2013, p. 29) e agli
estimatori di fratel Argese, riguarda la costruzione di una diga per
raccogliere acqua utile in caso di siccità nell’area di Mukululu, nel Nyambene,
Meru.

«Nel mondo ogni sei secondi muore un bambino
di fame o di sete. Seicento bimbi ogni dieci minuti: un aereo che cade al
suolo. È una cosa che dipende da noi: una distribuzione più giusta delle
risorse.

Poi l’acqua è legata a Gesù: quando dice “avevo
sete”, si riferisce a questo».


UN PO’
COME LA MALARIA

Concludiamo l’intervista chiedendo a don
Mantelli chi glielo fa fare di lavorare con tanta intensità a 68 anni. Lui ride
soione. Negli occhi si accende un guizzo di ironia: «Forse è una malattia, un
po’ come la malaria, che quando ti entra rimane latente… La pensione è come
l’anticamera del Paradiso. “Finalmente, dopo aver lavorato e faticato, sei in
pensione, ti puoi riposare!”, assomiglia a preghiere come: “L’eterno riposo…”.
Che monotonia! Io mi auguro che il Paradiso non sia così. Sarebbe una rottura».
Poi ritornando un po’ più serio, aggiunge: «Quando smetterò di fare spettacoli
mi metterò a scrivere e a leggere… e a pregare. Ho un compagno che si chiama
don Lajolo, anche lui vive come me fuori comunità. Ha messo su tre case per i
tossicodipendenti. Da un anno ha mollato tutto per vivere ad Assisi come un
eremita: la preghiera è la sua vita. Ho pensato che ha fatto bene. Non so, sarà
una mia tentazione…». Il mago Sales nel corso del nostro incontro ha già parlato
della preghiera: «È un punto su cui sto facendo un esame di coscienza» ci ha
detto. «A un certo punto, quando sei sempre in mezzo alla gente, vorresti
chiudere un po’ il sipario». Forse per lui andare in «pensione» sarebbe come
chiudere un’ultima volta il sipario e rimanervi dietro definitivamente. Una
condizione ambivalente: da un lato desiderata, dall’altro temuta, come quando
si cerca la verità su se stessi. «Il backstage è il momento in cui
rifletti! La crisi di molti che fanno rappresentazioni è questa: chiudi il
sipario, e nel backstage cos’hai? Se non si ha qualcosa dentro, come la
preghiera… c’è chi si butta nella droga, nell’alcornol. Dopo gli applausi, arriva
il momento in cui devi fare i conti non con quello che presenti, ma con quello
che sei».

Luca Lorusso

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Luca Lorusso




Oltre le sbarre Don Pierluigi Murgioni: testimone e martire

Da 20 anni, il 24 marzo, anniversario dell’assassinio di Oscar
Romero (1980), arcivescovo di El Salvador, si celebra la «Giornata di preghiera
e di digiuno in memoria dei missionari martiri». Per tale giornata, presentiamo
la figura di Pierluigi Murgioni, missionario fidei donum in Uruguay dal 1968 al
1977, durante la dittatura militare, quando predicare il Vangelo e parlare di
giustizia significava essere un pericoloso avversario del potere e si rischiava
di essere messi a tacere. Don Pierluigi, infatti, fu imprigionato e torturato
per cinque anni e poi espulso dal paese. È morto a soli cinquantun anni,
lasciandoci come ultimo regalo la traduzione in italiano del Diario di Oscar
Romero.

«Dalla mia cella posso vedere il
mare; stasera c’è una luna piena stupenda, bassa sul mare, rossa, con i fiocchi
di nuvole davanti: tutto uno spettacolo. Sono piccole cose che ti aiutano a “essere
fuori”. Bisogna saper accettare tutto con semplicità come è nella dolce e
terribile logica del Vangelo. Dio è amore, morto e risuscitato e perciò:
benedetti i puri di cuore, benedetti i poveri, benedetti voi che piangete,
benedetti i perseguitati, benedetti i costruttori di pace». Così scrisse in una
lettera dal carcere don Pierluigi Murgioni (1942-1993), sacerdote bresciano,
missionario fidei donum in Uruguay.

La
sua drammatica ma nel contempo straordinaria vicenda umana è descritta nel
libro pubblicato dall’Editrice Ave dal titolo: «Pierluigi Murgioni. Dalla
mia cella posso vedere il mare
». Ne è autore il professore Anselmo Palini,
docente di materie letterarie nella scuola superiore, che ha al suo attivo
diverse pubblicazioni sui temi della pace, dell’obiezione di coscienza, dei
diritti umani e della nonviolenza. In questo libro egli approfondisce la storia
umana e spirituale del prete bresciano, ingiustamente incarcerato e torturato
durante gli anni bui della dittatura militare in Uruguay, dove si trovava come fidei
donum
in servizio pastorale nella diocesi di Melo, all’interno del piccolo
paese sudamericano.

La sua vicenda ricalca quella di
tanti testimoni che incarnando lo spirito del Concilio Vaticano II e della
Conferenza di Medellin, fecero la scelta dei poveri e di conseguenza
denunciarono le ingiustizie strutturali che in maniera pervasiva stravolgevano
la realtà sociale e civile di tutta l’America Latina. La teologia della
liberazione diede a queste persone i criteri evangelici per una corretta
analisi della situazione e le Comunità di Base – autentica linfa vitale del
cattolicesimo latinoamericano – diedero spessore ecclesiale alle scelte di
posizione che questi profeti del secolo ventesimo facevano nella realtà in cui
erano inseriti.

Don Pierluigi era arrivato in
Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione e comunione tra le chiese che,
sotto il poderoso impulso dell’enciclica Fidei Donum di Pio XII, aveva
incrementato notevolmente il numero dei sacerdoti diocesani italiani impegnati
nei vari paesi così detti di missione.

In Uruguay, in particolare,
approdarono sacerdoti delle diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una
perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli
più reconditi dell’Uruguay, si ricompattava periodicamente attraverso degli
incontri memorabili, capaci di risollevare lo spirito e il morale ai missionari
italiani, anche nei momenti più duri, tale era l’amicizia, l’affetto e l’unione
reciproca che stava alla base di questo legame. Di questi incontri, don
Pierluigi era un po’ l’anima; purtroppo un amaro destino aveva riservato per
lui un’esperienza missionaria del tutto particolare.

Durante un’incursione nottua
compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in
cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale, venne arrestato nel maggio
del 1972, con l’accusa di appartenere al Movimento di liberazione nazionale Tupamaros
e senza nessuna spiegazione, portato e incarcerato in un luogo sconosciuto. A
suo carico non fu mai esibito lo straccio di una prova che avesse infranto la
legge uruguayana; però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della Chiesa
schierata apertamente e decisamente dalla parte degli oppressi, che essi
vollero, attraverso lui, dare un esempio a tutti gli altri sacerdoti, al fine
di raffreddae lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei
cammini di liberazione sociali, civili e politici.

Fu torturato sistematicamente,
per il solo piacere sadico di infierire su un ministro del culto cattolico, che
aveva manifestato solamente carità e solidarietà cristiana nei confronti degli
appartenenti ai Tupamaros (cosa ben diversa dal condividere ideali e
strategie di lotta). Fu privato della possibilità di celebrare l’eucarestia in
carcere e gli vennero tolti sia la Bibbia che il Breviario.

Rapato a zero, con la casacca
color kaki di tela grezza, sulla quale era cucito il numero 756, che era
diventato per imposizione dei suoi carcerieri un suo secondo nome, venne fatto
scendere nel calabozo (prigione sotterranea) dove, insieme ad altri
ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò cinque lunghissimi
anni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni diverse volte.
Sistematicamente, ogni due-tre mesi, veniva fatto vestire con abiti civili, per
fargli balenare la possibilità che «di lì a poco sarebbe stato rimandato in
Italia»; ma era una tragica farsa, studiata dagli specialisti della Cia che
stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l’animo e lo
spirito.

Ma don Pierluigi fu forte,
resistette a ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo
ricordano come colui che sosteneva la speranza di tutti, era un riferimento
preciso nella disgrazia collettiva del carcere.

Quando fu rilasciato, il 12
ottobre 1978, all’aeroporto di Montevideo, diversi furono i missionari italiani
venuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di
fede offerta nei lunghi anni di detenzione. Il lungo abbraccio che ci
scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi più belli e
indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore.

Rientrato nella sua Brescia, don
Pierluigi riprenderà il suo servizio sacerdotale come parroco in una suggestiva
località sul lago di Garda, dove tra le altre cose porterà a termine la
traduzione del Diario di mons. Oscar Romero.

Anselmo Palini con questa sua
fatica ha voluto raccogliere lettere e testimonianze di persone che hanno
condiviso la vicenda umana e spirituale di don Pierluigi. Ne è uscito un libro
ricco di pagine toccanti che aiutano a scoprire i veri testimoni del Vangelo
nei tempi in cui viviamo.

Mons. Domenico Sigalini, vescovo
di Palestrina, bresciano come don Pierluigi, compagno di studi e di ordinazione
sacerdotale, durante la presentazione del libro, avvenuta nell’Aula Magna
dell’Istituto dei padri Comboniani di Brescia, il 24 ottobre 2012, ha detto che
questi testimoni vanno tolti dalla cerchia degli affetti familiari e territoriali
e fatti conoscere a un più vasto pubblico, specialmente giovanile, per mostrare
la loro fede cristallina e la loro coerenza evangelica di vita, della quale
sono portatori nel contesto storico ed ecclesiale dei nostri giorni.

Sicuramente la lettura di questo
libro aiuterà molti a ritrovare il gusto dell’appartenenza alla Chiesa, proprio
perché si scopriranno compagni di viaggio di testimoni che hanno saputo offrire
la loro vita nell’annuncio del Vangelo e nella difesa dei diritti dell’uomo.

Don Mario Bandera
Direttore Missio – Novara

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Mario Bandera




Strage di Innocenti Violenza contro donne e minori: emergenza mondiale

Sembra impossibile, ma soprattutto
sconcerta e rincresce constatare come possa esistere tanta violenza contro le
donne in ogni parte del mondo, specialmente in Asia e in Africa. Una suora
missionaria irlandese, Maura O’Donohue, il cui lavoro di medico nel campo
dell’Hiv/Aids l’ha portata in Thailandia, Corea, Taiwan e India, è rimasta
sconvolta quando è venuta a conoscenza della giovane età di molte bambine
sfruttate sessualmente dai militari. E ancora di più quando si è resa conto del
numero di bambine e bambini costretti a entrare nel giro del commercio del
sesso per soddisfare le richieste dell’industria del turismo.

«Questa
attività criminale – ha scritto sulla rivista Concilium (3/2011, 62-63)
– è fortemente organizzata e ha la capacità di cambiare le sue strategie non
appena le strutture investigative e giudiziarie delle varie nazioni si
concentrano su di essa». Come suora missionaria e medico, che collabora con una
rete di organizzazioni impegnate nella lotta contro questo fenomeno, suor Maura
è giunta a pensare «che quella realtà rappresenti l’avanguardia della missione
della Chiesa oggi».

A cadere vittime dei trafficanti
del sesso non sono solo bambine e bambini di famiglie povere, ma anche giovani
donne provenienti da ambienti sociali, culturali e religiosi diversi, come
Iris, una studentessa universitaria poco più che ventenne. Quando fu rapita,
venne subito drogata per costringerla a sottomettersi; fu poi segregata in case
di appuntamento e, per sopportare la routine quotidiana di rapporti
sessuali con uomini di ogni ceto sociale, giunse al punto di aver continuamente
bisogno di eroina per rimanere intontita.

Suor Maura racconta altre storie
di donne e ragazze vittime di trafficanti, come quella di Amina, rapita dal
collegio a 14 anni insieme a un gruppo di compagne. Amina venne usata come
scudo umano nella lunga marcia verso il fronte di guerra. Sospettata di aver
tentato la fuga, fu condannata a duecento frustate. Nel frattempo aveva avuto
due figli, frutto della violenza cui l’aveva sottoposta l’ufficiale militare,
che aveva altre venti ragazze a sua disposizione.

A queste storie se ne aggiungono
altre, a cui noi non prestiamo attenzione, anche se giornali e televisione ne
parlano con regolarità. Sono le storie di donne portate via dall’Africa e
costrette ad attraversare a piedi per mesi il deserto del Sahara, subendo
continue violenze e soffrendo fame e sete. Quelle che raggiungono le sponde del
Mediterraneo devono affrontare il rischioso viaggio sulle «carrette del mare»
verso l’Europa, per poi finire con l’essere rimpatriate, dopo un periodo di
detenzione, perché prive di documenti.

La sofferenza e l’insicurezza
delle donne non finiscono qui. Quelle che sono reclutate in piena regola in
diverse parti del mondo per lavori domestici o come badanti, rischiano spesso
di essere sfruttate dagli uomini della famiglia che le ospitano. I casi di
questa forma di violenza non sono affatto pochi; una violenza subita facilmente
dalle donne per l’insicurezza e la fragilità che sperimentano, quando sono
separate dalle loro famiglie e lasciate sole, bisognose di tutto. Anche la loro
posizione giuridica, in quanto immigrate illegalmente, contribuisce ad
aggravare questo stato di cose.

Il caso forse più raccapricciante
e inumano della violenza sulle donne è quello praticato nel Congo ex Zaire
durante la guerra. Parlando a Roma nell’ottobre 2009 al Sinodo dei vescovi
africani, mons. Théophile Kaboy, vescovo coadiutore della città congolese di
Goma, ha gelato i giornalisti con i suoi racconti. «I conflitti e le guerre –
ha affermato – hanno portato, specialmente in Congo, alla vittimizzazione e
alla “cosificazione” della donna. Su migliaia di donne sono state perpetrate,
da tutti i gruppi armati, violenze sessuali di massa, come arma di guerra». I
loro figli, arruolati con la forza dai gruppi armati, sono stati costretti a
violentare le loro madri e le loro sorelle davanti allo sguardo impotente dei
padri. Tutto questo per incutere terrore nella gente, vincere la loro
resistenza, umiliare il nemico, mediante la violenza sulle donne.

Per lenire le conseguenze di
traumi tanto brutali, il vescovo di Goma ha affermato che bisognerebbe risalire
alla causa ultima, quale, per esempio, la crisi di governabilità causata da
guerre, saccheggi e sfruttamento anarchico delle risorse naturali, traffico
delle armi e assenza di un esercito statale forte e preparato.

Naturalmente, l’intervento
immediato in tali casi è la creazione di case di accoglienza per le donne
vittime di violenze, case che accompagnino il recupero dal trauma subito.
Tuttavia, ha ancora affermato il vescovo di Goma, «la risorsa principale contro
la cultura della violenza è costituita dalle donne stesse e dal riconoscimento
del loro ruolo da parte dell’intera comunità, anche di quella ecclesiale». «Noi
vescovi – ha affermato un altro presule, mons. Telesphore Gorge Mpundu,
arcivescovo di Lusaka nello Zambia – dobbiamo parlare in modo più chiaro della
dignità della donna alla luce delle Scritture e della dottrina sociale della
Chiesa».

È proprio questo il punto centrale
per arrivare a una presa di coscienza della dignità della donna, quella cioè di
lottare contro idee e tradizioni che la umiliano. Esempi di umiliazione,
dettati da tradizioni disumane, non mancano. In alcuni paesi la discriminazione
della donna non è limitata solo al mondo del lavoro, ma già prima della nascita
si individuano gli embrioni femminili per eliminarli. Tale drammatica
situazione si verifica specialmente in Cina e in India, al punto che l’attuale
livello delle nascite maschili, anziché alla media di 105 maschi per 100
femmine, si attesta rispettivamente a 121 e 112 per 100 femmine. Tale
dislivello è dettato in Cina dalla politica demografica del figlio unico, ma
sia in Cina sia in India anche dalla tradizionale preferenza culturale per i
maschi a scapito delle donne. Questa tendenza è pure presente nei paesi del
Caucaso, come Azerbaigian, Georgia e Armenia, e nei Balcani.

Ma c’è di peggio. Una notizia
riportata domenica 26 giugno 2011 dal giornale indiano Hindustan Times e
ripresa da altri quotidiani, riferisce che se prima in alcune parti dell’India
esisteva l’infanticidio o l’abbandono di bambine e poi l’aborto selettivo di
feti di sesso femminile, ora si farebbe strada l’intervento chirurgico di «genitoplastica»,
che trasformerebbe in maschietti centinaia di bambine della fascia di età
compresa da uno a cinque anni. Se la notizia fosse vera, si tratterebbe di una
scioccante tendenza senza precedenti e non soltanto di interventi di chirurgia
correttiva. Tuttavia, per fortuna, alcuni esperti di genetica ritengono
impossibile convertire chirurgicamente una bambina normale in un maschietto.

La vicenda richiama comunque
l’attenzione su un fenomeno noto in India, specialmente negli stati
settentrionali e occidentali e nella stessa capitale Nuova Delhi, ossia la tradizionale
preferenza per i maschi che provoca uno squilibrio preoccupante tra maschi e
femmine e favorisce il traffico di donne. Uomini celibi delle regioni più
ricche dell’India e della Cina «comprano» donne dalle regioni più povere,
mentre dalla Corea del Sud e da Taiwan si fa «turismo matrimoniale» in Vietnam
per prendere moglie.

In India la selezione sessuale
porta all’eliminazione di molte bambine sia nate che non nate. Si stimano 5
milioni gli aborti selettivi di bambine negli ultimi 20 anni.

La preferenza per il figlio
maschio è dovuta a fattori religiosi, sociali ed economici. In molte famiglie
di fede indù continua a essere particolarmente sentita la convinzione che per
ottenere la salvezza sia necessario un figlio maschio. Molte cose sono però
cambiate o stanno cambiando. Le bambine indiane, quando hanno l’opportunità, si
distinguono ormai in vari ambiti, soprattutto nell’istruzione, nello sport e
nelle espressioni artistiche.

L’emarginazione della donna e la
disparità tra i sessi spiegano particolari pratiche ancora in uso in India,
quali l’obbligo di sposarsi in giovanissima età, ancora bambine, con un uomo
scelto dalla propria famiglia e a volte molto anziano. Sono pratiche entrate a
far parte del pensiero comune di larghe fasce della popolazione indiana.

È necessario perciò creare una
nuova mentalità. Nel tentativo di incidere sulla promozione di questa nuova
concezione di vita, la Chiesa di Goa, nel giorno della festa della natività
della Vergine Maria (8 settembre), ha lanciato un appello inteso ad affermare
il valore di tutte le bambine sia nella famiglia sia nella società. «Ogni vita
umana è un dono prezioso di Dio e quindi fonte di dignità», ha spiegato il
segretario esecutivo della Commissione Giustizia e Pace. Ogni bambina nata o
non nata, ha aggiunto, condivide questo diritto, a cominciare dal diritto alla
vita.

Una cosa è certa: essere donna
non sembra per nulla facile in India e in Cina, ma anche in Africa e in altri
paesi del mondo. Si può forse cercare di porvi rimedio mediante la creazione di
strutture di promozione della donna, soprattutto per mezzo della formazione
culturale, dell’alfabetizzazione e della catechesi, per assicurare alla donna
una maggiore presa di coscienza della sua dignità in modo da offrirle la
possibilità di lottare contro idee e tradizioni culturali che la umiliano.

Christiane Kadjo, una cittadina
ivoriana, è per esempio stata premiata a Madrid il 27 ottobre 2011 con il
riconoscimento Harambee Spagna, dovuto al suo lavoro in Costa di Avorio,
rivolto a dare istruzione e pari opportunità alle donne. Attraverso la Ong Education
et developement
, ossia attraverso scuole e centri sociali, essa ha dato
alle giovani la possibilità di accedere a lavori retribuiti o di avviare
piccole attività. Questi centri limitano anche l’emigrazione, dal momento che
creano possibilità di sviluppo nel proprio paese. 

Purtroppo «la violenza contro le
donne continua a essere una tragica realtà», ha affermato mons. Silvano Tomasi,
osservatore della Santa Sede, alla 17a sessione del Consiglio dei diritti
umani, tenuta a Ginevra nel giugno 2011. Anche papa Benedetto XVI nel novembre
2011, durante la consegna delle credenziali al nuovo ambasciatore tedesco, ha
denunciato alcune tendenze materialistiche ed edonistiche diffuse nel mondo
occidentale, tra le quali la discriminazione della donna, e ha ammonito che una
relazione, la quale ignora come l’uomo e la donna abbiano uguale dignità,
costituisce un grave delitto contro l’umanità.

Giampietro Casiraghi

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Gianpietro Casiraghi