Giustizia riparativa 5 – Un’esperienza israelo-palestinese
Un ragazzo rapito e ucciso da Hamas. Un’associazione fondata
dal padre per promuovere la riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Donne
dei «due fronti» che si raccontano in cerchio il conflitto e i loro lutti.
Testimoni che vanno nelle scuole dell’una e dell’altra parte, per far
incrociare i propri occhi palestinesi con gli occhi israeliani dei ragazzi, e
viceversa, e condividere i sogni, le aspirazioni, le vite interrotte dalla
violenza. Esperienze di giustizia riparativa.
«Nel luglio del 1994
mio figlio Arik è stato rapito e poi ucciso da Hamas. Da allora lo scopo della
mia vita è portare la riconciliazione e la pace tra israeliani e palestinesi». Yitzhak
Frankenthal è un ebreo ortodosso, uno da cui, stando a come vanno le cose in
Israele, non ti aspetteresti grandi aperture nei confronti dei palestinesi.
Eppure dopo la morte del figlio durante il servizio militare abbandonò il
lavoro alla ricerca di risposte alla sua tragedia, risposte che nessuno pareva
in grado di dare: «Mio figlio è morto perché non c’è pace nella nostra terra.
Cos’è che ci spinge in continuazione l’uno contro l’altro? Cosa devo fare per
fermare questa spirale di violenza?».
Quando iniziò a parlare con gli amici dell’intenzione
d’impegnarsi per una riconciliazione tra i due popoli si ritrovò solo. «Non
riuscivano a capacitarsi che io volessi mettermi a lavorare per la pace e la
riconciliazione con chi aveva ucciso mio figlio. Il mio primo passo fu una
lettera inviata al primo ministro
Yitzhak Rabin, a Shimon Peres e a Ehud Barak: li incoraggiavo a continuare la
ricerca di una soluzione pacifica al conflitto. Rabin venne a trovarci a casa,
diventammo amici»1. Erano tempi in cui le speranze suscitate dagli Accordi
di Oslo venivano erose da una realtà fatta di attentati, rappresaglie, morte.
Nel corso del 1995 l’Associazione israeliana dei parenti
delle vittime del terrorismo palestinese protestò fortemente contro gli sforzi
di dialogo politico. Come lo stesso Frankenthal racconta: «Mi recai da Rabin e
gli dissi che quella gente non parlava a mio nome». Così decise di inviare una
lettera a 350 famiglie che avevano subito un lutto a causa del conflitto nei
precedenti 18 anni, proponendo loro di unirsi per chiedere, con l’autorevolezza
morale che la sofferenza conferisce, di interrompere la spirale di vendetta e
intraprendere finalmente la via della pace, del rispetto e della
riconciliazione con i palestinesi. Ricevette un paio di lettere cariche di
insulti, ma ciò che più conta è che 44 famiglie risposero affermativamente. Al
loro primo incontro Frankenthal propose di rivolgersi anche alle famiglie
palestinesi che avevano subito un lutto a causa dell’occupazione israeliana.
Così nacque il Parents Circle – Families Forum (Circolo dei genitori,
forum delle famiglie) chiamato Bereaved families forum (Forum delle
famiglie in lutto), del quale fanno parte oggi circa 600 famiglie palestinesi e
israeliane.
Nella penombra del salotto di casa sua, la signora M. ci
racconta la sua storia. Alle sue spalle una grande foto di suo figlio, che non
ha mai fatto ritorno dal servizio di leva. L’onda del dolore della madre ci
avvolge, mischiandosi all’aria troppo calda di Gerusalemme. Le domandiamo cosa
l’abbia spinta a entrare nel Parents Circle: «Quando un israeliano parla
con i palestinesi la prima reazione è che loro sono nostri nemici e noi siamo i
loro nemici. È molto importante quindi sedersi e parlare: comunicare è la sola
via per trovare una soluzione. Per me non è stato affatto naturale, è stato un
percorso difficile. Ma ora posso sedere e ascoltare quanto donne e uomini
palestinesi hanno da dire, e posso rispondere: “Io comprendo i tuoi
sentimenti”, e a volte posso anche dire: “Ma non concordo con le tue opinioni”».
Ritroviamo la signora M. a un incontro delle donne
dell’associazione. Carta, stoffa, pennelli e colori permettono di esprimere le
emozioni superando la differenza linguistica e il pudore. Così il desiderio di
pace si trasforma in arcobaleni e mani che si stringono nei disegni sulla
carta. Prendiamo parte alla realizzazione di un cartellone, e l’atmosfera
serena, diremmo giorniosa, ci fa per un attimo dimenticare dove siamo. Ma basta
uno sguardo all’alberello di carta realizzato da alcune donne per ricordarci
che il fratello della giovane che dipinge è morto mentre era soldato di leva,
colpito da un cecchino, che il figlio della signora che le passa i colori è
invece stato ucciso durante un’incursione dell’esercito nel campo profughi.
L’uno israeliano, l’altro palestinese. L’uno potrebbe aver ucciso l’altro, e
viceversa. Così notiamo che le foglie dell’alberello sono in realtà lacrime con
delle scritte: «Mamma, rendimi più forte», «lacrime d’amore», «sto piangendo un
mare di lacrime perché tu non ritorni». Un brivido ci attraversa insieme alla
sensazione di stare assistendo a qualcosa di eccezionale.
Ci disponiamo in cerchio. Una donna palestinese e una
israeliana conducono le attività del gruppo. Ci spiegano che l’elemento più
importante dei loro incontri è la condivisione della propria storia, ovvero il
racconto, semplice e spontaneo, della propria vita e dell’evento luttuoso che
l’ha segnata. Ciascuno ha la possibilità di leggere, con e per gli altri, il
conflitto dal proprio punto di vista, di presentare la vicenda della propria
famiglia e del familiare scomparso restituendole quel calore, quei particolari,
«quell’anima» che le fredde cronache di guerra non conoscono. Non è una terapia
di gruppo ma un incontro di giustizia riparativa, ovvero uno spazio dove,
attraverso il «linguaggio delle emozioni», può avvenire il riconoscimento
dell’umanità del nemico.
Qualche giorno dopo, Rami, un signore israeliano la cui
figlia quattordicenne perse la vita in un attentato suicida, c’invita a un
incontro con un gruppo di giovani. In quell’occasione conosciamo Aisheh, una
giovane donna palestinese il cui fratello, ferito senza motivo da un soldato
israeliano, morì, a distanza di anni, per le conseguenze riportate. Possiamo
così osservare uno dei più di mille incontri che, ogni anno, l’associazione
organizza nelle scuole da entrambi i lati del muro, per i gruppi di israeliani,
palestinesi o stranieri che ne facciano richiesta. Vanno sempre a due a due,
per consentire ai ragazzi di ascoltare, spesso per la prima volta, il punto di
vista dell’altro, e osservare un esempio concreto di dialogo e di
riconciliazione. I «testimoni» svolgono il ruolo di mediatori tra i due popoli
cercando di aprire uno spazio per la condivisione cognitiva ed emozionale di
significati profondi. Gli uditori di una parte possono ritrovare, nel racconto
delle vicende del proprio connazionale, esperienze e vissuti simili ai propri e
sentirsi provocati e incoraggiati dal suo impegno nonviolento e concreto. Ma è
l’incontro con il «testimone» della parte opposta a essere, per alcuni giovani,
un’esperienza folgorante: l’«altro» astratto, stereotipato, odiato, per la
prima volta acquista un volto umano, uno sguardo da guardare e da cui sentirsi
guardati, una storia che interpella. Ascoltare la sua sofferenza, il suo
dramma, i suoi sogni e desideri infranti porta a scoprire che essi sono
inaspettatamente simili ai propri e aiuta a superare i pregiudizi e la
propensione a «gerarchizzare» la sofferenza sminuendo quella altrui. Ciò non
annulla le differenze, ma apre alla comprensione e al riconoscimento.
La giustizia riparativa, che cerca la pace attraverso il
dialogo e la riparazione delle offese piuttosto che la punizione e la
separazione delle parti in lotta può assumere, in Israele e Palestina, la forma
di un alberello di carta, del cerchio in cui siedono vittime che sono anche
nemiche, e di un’accorata e coraggiosa testimonianza davanti agli studenti di
una scuola.
Annalisa
Zamburlini
1- Le
parole di Yitzhak Frankenthal sono tratte da: B. Bertoncin (a cura di), Per
mano. Per mano dell’altro, per mano con l’altro, Una Città, Forlì 2005, e
da A. Da Sacco (a cura di), Israele – Yitzhak Frankenthal: la
riconciliazione parla il linguaggio della sofferenza, in «Bumerang,
grassroot information», 22.02.2007, www.bumerang.it.
Annalisa Zamburrini