Autori e vittime di reato sono portatori di domande,
bisogni, speranze, aspettative. Com’è possibile che entrambi, e la società,
lavorino sul domani senza scordare il passato? La riparazione è qualcosa che
nasce dal dialogo libero e costruttivo sugli effetti distruttivi del reato. È
dirompente parlare di programmi liberi e consensuali dentro la giustizia penale
che in genere è invece il luogo della coercizione, della privazione della
libertà. La giustizia riparativa rimarrà sempre un’aspirazione, che però ha già
prodotto dei grandi risultati: nel Sudafrica dell’apartheid ad esempio.
Professore aggregato di
diritto penale all’Università cattolica di Milano, Claudia Mazzucato si occupa
di modelli alternativi di giustizia penale allo scopo di trovare una coerenza
tra la risposta al reato e i principi della democrazia. Nel corso dei suoi
studi si è imbattuta, nei primi anni ‘90, nel tema della giustizia riparativa,
della mediazione reo-vittima, e da allora ha dedicato la sua vita, non solo
professionale, a questo. È mediatrice volontaria per l’osservatorio del
ministero della Giustizia sulla giustizia riparativa. Ha occasione, quindi, non
solo di studiarla, ma anche di praticarla a titolo volontario. All’Università
segue la formazione degli studenti di giurisprudenza, di sociologia e di
scienze della formazione sui temi del diritto penale e della giustizia
minorile.
La giustizia riparativa suscita
interesse nei suoi studenti?
«Sì moltissimo. Questo tema suscita interesse in tutti.
Da anni io e un gruppo di altre persone teniamo incontri un po’ dappertutto:
scuole, parrocchie, quartieri difficili, fino al Consiglio superiore della
Magistratura. Incontriamo diversi “mondi”, e dovunque troviamo interesse.
Sempre. Anche perché la giustizia riparativa solleva la domanda più generale di
giustizia, che riguarda chiunque.
Il cardinal Martini diceva che nessuno sa bene cosa sia
la giustizia, ma tutti sappiamo molto bene cosa sono le ingiustizie. E la
giustizia riparativa è un itinerario in cerca della giustizia a partire dalle
ingiustizie. Lavora su quello che è andato storto per ripararlo.
Non è un lavoro campato in aria. È, anzi, con i piedi
saldamente per terra. Tanto da occuparsi della quotidianità materiale
dell’autore del reato e della vittima: ci capita negli incontri di mediazione
di dedicare ore a definire le regole di saluto, di distanza o di vicinanza, di
comportamento: “Cosa succede se domani vi incontrate per strada o
sull’autobus?”.
La giustizia riparativa ha anche quest’attenzione: da
domani che cosa succede?
Autori e vittime di reato sono portatori di domande,
bisogni, speranze, aspettative che intrecciano il passato prima del reato, il
momento del reato, il presente e il futuro. Allora noi chiediamo a vittime e
rei di esprimere che cosa c’è nel loro oggi e com’è possibile lavorare
costruttivamente sul domani, senza dimenticare ciò che c’era prima del reato, né
il fatto che un reato è stato commesso, che qualcuno lo ha agito e un altro lo
ha subito».
Risocializzare in gabbia?
«Questo lavoro sul futuro è una cosa che la giustizia
penale tradizionale non può fare perché è tutta retrospettiva: anche quando
condanna una persona all’ergastolo, cioè determina l’interezza del suo futuro, è
tutta ferma sul reato, sul passato. È solo dopo l’inizio della detenzione che
compare un educatore, un assistente sociale che dice: “Beh, adesso pensiamo
alla rieducazione”, che vuol dire ritorno in società. Ma qui spuntano le
incoerenze della giustizia: come parlare di rieducazione a uno che sta in una
gabbia, o di risocializzazione quando tra la persona condannata e la società ci
sono un muro di sei metri, un muro di cinta, uno di intercinta, il blindo, le
sbarre, eccetera? Come si può parlare di risocializzazione se la società è
esclusa dal contatto con il reo?
La riparazione è qualcosa che nasce dall’incontro e dal
dialogo costruttivo sugli effetti distruttivi del reato. Ha l’ambizione di
promuovere responsabilità individuali e collettive per reintegrare il colpevole
e la vittima. Sì, perché anche la vittima ha bisogno di essere risocializzata.
A volte addirittura di essere “rieducata”: può capitare, infatti, che la
vittima appartenga allo stesso mondo deviante del reo. Nell’opinione pubblica
in genere c’è l’immagine della vittima buona, onesta, che subisce
improvvisamente qualche cosa, mentre il reo è cattivo, ma raramente la realtà è
così netta».
Nel suo saggio Appunti per una
teoria dignitosa del diritto penale scrive: «La giustizia riparativa può
arrivare addirittura a ridisegnare una nuova geometria della giustizia». È
davvero così rivoluzionaria?
«La giustizia riparativa costringe a guardare al
problema del crimine e al tema della giustizia con occhi nuovi. Essa ha
qualcosa di scandaloso: “Ma come? Reo, vittima e comunità insieme dopo un
reato?”. Tutto l’itinerario millenario della giustizia fino a ora ha diviso il
reo dalla vittima, e ha ripetuto sul reo il male che egli aveva fatto alla
vittima. La giustizia riparativa invece propone: “Mettiamoci insieme,
volontariamente, per pensare a qualcosa di diverso”.
È dirompente parlare di un intervento libero, volontario
e consensuale dentro la giustizia penale, la quale in genere è invece il luogo
della coercizione legittimata, della privazione della libertà. È proprio un
prendere la giustizia così com’è oggi e rovesciarla».
Quali sono gli strumenti della
giustizia riparativa?
«La mediazione diretta, o indiretta, tra autori e
vittime di reati, i community circles, i family group conferences.
Sono programmi costruiti intorno all’incontro a tu per tu, oppure allargato ai
componenti delle famiglie dell’uno e dell’altra, alle comunità. Questi sono gli
strumenti. Ma la cosa fondamentale è che si possa chiamare giustizia riparativa
solo ciò che porta le persone a incontrarsi volontariamente e liberamente.
Quando un magistrato impone un lavoro di pubblica utilità, può fare una cosa
bellissima, ma non è un programma di giustizia riparativa, è una pena. Quando
una persona svolge un lavoro di pubblica utilità che corrisponde a un lavoro
fatto sulla sua dignità, in dialogo con le vittime, con la comunità, e quindi
il soggetto sente di ripararsi, e non solo di riparare, e lo sceglie liberamente
in dialogo con altri, questa è giustizia riparativa. Altro elemento è che gli
incontri sono liberi, aperti, quindi si costruiscono anche in base a ciò di cui
si sente il bisogno. La presenza di un mediatore è importantissima. Anche perché
il facilitatore rappresenta a sua volta la comunità, e fa sì che le persone non
siano sole, sta con loro, e accoglie entrambe le parti con dignità e rispetto,
anche se ha di fronte una persona gravemente colpevole».
Questa nuova idea di giustizia potrà mai realizzarsi?
«Non potremo mai mettere fine al problema della
giustizia. La giustizia riparativa rimarrà sempre un’aspirazione. Però ha già
prodotto dei grandi risultati: l’esperienza del Sudafrica, ad esempio. Nel
momento più drammatico in cui, finito l’apartheid, si sarebbe potuta
scatenare una vera guerra civile, Nelson Mandela, e poi Desmund Tutu e gli
altri che hanno costruito la Commissione verità e riconciliazione hanno
sostenuto a gran voce che se gli oppressi si fossero fatti giustizia in modo
“tradizionale” sugli oppressori, avrebbero riprodotto la stessa violenza che
avevano subito, impedendo l’unità del popolo arcobaleno. E quale giustizia
poteva affermare l’unità dopo la separazione e la segregazione dell’apartheid?
Una giustizia non retributiva dove la verità è più importante della pena.
La giustizia punitiva è reo-centrica, ed essendo
punitiva non può chiedere all’autore del reato di dire la verità. Il diritto
dice che l’accusato non è tenuto a dire la verità, perché se la dicesse
andrebbe incontro alla pena.
Il Sudafrica ha dovuto scardinare il meccanismo della
pena per chiedere la verità».
La verità è «terapeutica»?
Affermarla, riconoscere ciò che è accaduto, di per sé realizza la giustizia e
lenisce le ferite?
«Possiamo dire che la verità può fare molto più di una
pena. Poi probabilmente ci sono persone, vittime, comunità che sentono che
nelle sedute della Commissione la verità non è stata detta abbastanza, e che
non si sentono risanati da quella verità. Ciò che possiamo dire senz’altro è
che alle vittime e alle comunità vittimizzate, quel percorso non ha tolto
nulla. Ha aggiunto semmai qualcosa di positivo. Se ci fosse stato un percorso
di giustizia tradizionale quelle persone non avrebbero ottenuto di più. Anche
solo perché la giustizia penale tradizionale è molto selettiva: soprattutto
dove ci sono state delle atrocità massive non può arrivare a processare e a
punire tutti quelli che in una logica retributiva lo meriterebbero».
La giustizia riparativa è una «scoperta»
recente o se ne conoscono esperienze in tempi e società del passato?
«È una scoperta, però è anche una riscoperta. Della
giustizia riparativa come la conosciamo oggi possiamo identificare l’origine
negli anni ‘70 in Canada con percorsi di incontro tra giovani autori di reato e
le loro vittime. La pratica, che aveva dato buoni risultati, si è poi espansa
nel mondo, a cominciare dagli Usa, dove però rimane una nicchia. Paesi come la
Nuova Zelanda e l’Australia, partendo da modelli riparativi, sono arrivati
addirittura a ricostruire la giustizia. Anche in Europa ci sono molti paesi che
hanno leggi sulla giustizia riparativa o sulla mediazione reo-vittima.
Dall’altro lato però la giustizia riparativa è una
riscoperta: se andiamo a studiare i modelli di giustizia di certe società
tradizionali, constatiamo che dove è necessario tenere unita la comunità
esistono forme di giustizia di tipo relazionale, dialogico, compositivo, e non
retributivo.
Si può supporre che pratiche di giustizia riparativa ci
fossero anche in tempi antichi: per esempio forme di giustizia riparativa si
trovano nella Sacra Scrittura. Nel Nuovo Testamento (amare i propri nemici,
porgere l’altra guancia, perdonare settanta volte sette…), ma anche nel Vecchio
Testamento (la lite dialogica per ricostruire l’alleanza). Ci sono studi
biblici stupendi su come, attraverso questo tipo di pratica di giustizia, si
possa leggere il rapporto di Dio con il popolo di Israele: un continuo
richiamare l’altro a rispondere del suo tradimento dell’alleanza in un dialogo
che è molto forte, anche violento a tratti, ma che ha sempre come obiettivo la
ricostruzione della relazione».
I casi di Nuova Zelanda e Australia
sono isolati o ci sono altri paesi che si stanno orientando alla giustizia
riparativa? In Italia cosa si fa?
«In Italia ci sono buone pratiche che si stanno
consolidando soprattutto nella giustizia minorile, la giustizia riparativa però
in generale è molto marginale. La Nuova Zelanda ha ripensato il suo sistema penale
usando moltissimo i programmi riparativi con una dimensione comunitaria come i communities
circles che coinvolgono la comunità, il vicinato, la famiglia, le famiglie
del reo e della vittima. È stata importante la cultura nativa dei Maori.
Tra le altre esperienze, quella sudafricana è
emblematica. Io sento la presenza di una traiettoria culturale nel mondo. La
giustizia penale non è più ferma sulle risposte punitive tradizionali: è stata
scombussolata, movimentata dall’arrivo del tema della giustizia riparativa. E
un po’ dappertutto tra i paesi democratici sta cambiando qualcosa».
Come spiega questa crescita di
consenso per la giustizia riparativa in un clima globale in cui domina la «tolleranza
zero»?
«Il consenso globale sulla giustizia riparativa è al
livello di studiosi, di Nazioni unite, di Consiglio d’Europa. Quindi la
traiettoria positiva c’è, ma in un contesto generale che va ancora in
tutt’altra direzione. È vero, infatti, che chiunque oggi pensi alla giustizia
penale, pensa al carcere. Non perché il carcere sia una risposta più
realistica. I media, che hanno un ruolo importantissimo sulla giustizia,
purtroppo la banalizzano: ad esempio fanno pensare che quando una persona va in
carcere è tutto risolto, mentre in quel momento si aprono un’infinità di
problemi. Bisognerebbe fare un lavoro di formazione dei giornalisti. Ad esempio
si sentono chiedere alle vittime: “È di-sposto a perdonare?”. Io penso che una
domanda del genere sia inopportuna. Così come: “È soddisfatto dell’ergastolo?”.
Ma come fa la vittima, con il suo bisogno di sentire la propria dignità
reintegrata, a essere soddisfatta dalla sofferenza imposta al colpevole? Se c’è
una soddisfazione, è momentanea. Poi rimane il vuoto che si aggiunge a un altro
vuoto».
Ci sono esperienze di paesi che
abbiano dei tratti in comune con quella del Sudafrica?
«Il Sudafrica ha aperto una via perché è stata la prima
esperienza a mettersi in mezzo ai due modelli: quello del colpo di spugna con
le amnistie, e quello dei processi penali da Norimberga in giù. Altri paesi
hanno tentato di fare delle cose simili: in Perù con la Commissione verità e
riconciliazione del 2000, ad esempio. In Ruanda con i tribunali Gacaca per il
genocidio del 1994. Il punto è che nessun’altra esperienza è riuscita a
raggiungere il livello di quella sudafricana che è stata particolarissima per
una serie di situazioni convergenti. Il Sudafrica ha cambiato la Costituzione
alla luce dell’idea di Ubuntu (“Io sono perché noi siamo”), ha prodotto un
diritto nuovo. C’è stato un ruolo della Corte Suprema che credo sia l’unico
tribunale del mondo ad avere come logo un albero sotto al quale ci sono persone
bianche e nere intrecciate, invece della bilancia con la spada… E poi i
sudafricani avevano Mandela e Tutu, cioè due vittime esemplari. Mandela diceva:
“Non bisogna vendicarsi”, e Tutu: “Le persone possono cambiare, e noi dobbiamo
crederlo”. Erano dei pulpiti da cui non venivano delle prediche, ma delle
esperienze che avevano una forza di testimonianza pazzesca. Dove non ci sono
figure profetiche così, diventa molto difficile far passare queste idee a
livello pratico.
Ci vogliono dei profeti. Ed è quello che ci manca oggi.
Certamente nel nostro paese».
«… E BUTTIAMO VIA LA CHIAVE!»
Frasi dal web su carcere e giustizia all’indomani del
messaggio alle camere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
«Credo che i lavori forzati nel senso vero della parola sia
l’unica soluzione per eliminare il problema del sovraffollamento. Anche perché
tu che sei stato vittima e vedi che il tuo aguzzino viene liberato non puoi
continuare a credere in un paese come questo. I lavori ci sono di svariati tipi
e modi con orario come dico io dal sorgere del sole al tramonto come facevano i
contadini».
«In Italia ormai da decenni si pensa solo a salvare ed
aiutare i cittadini disonesti e non quelli onesti e, ancora una volta, questo
viene confermato dalle dichiarazioni rilasciate dal capo dello Stato che
dovrebbe essere il garante della Costituzione nonché super partes e non il
difensore di indifendibili, condannati e delinquenti».
«Il carcere serve per lo sconto della pena, la rieducazione
casomai la fanno quando escono dal carcere e prima di inserirsi nella società.
Pene alternative? Come in Alabama ai primi del ‘900, incatenati a tagliare
l’erba sulle strade o rattoppare l’asfalto che ce n’è un gran bisogno!!! Prima
pensare ad aiutare i cittadini onesti e poi, se avanza tempo, si pensa a quelli
disonesti. […] Se l’Europa ci multa perché le nostre carceri non hanno celle
singole con internet e aria condizionata per il benessere dei criminali credo
che dovremmo mandare […a quel paese] l’Europa: non capisco perché dovremmo
avere a cuore i diritti umani di persone che di umano hanno solo la forma! Più
rispetto per le vittime!!!».
(Tre commenti scelti a caso tra i molti in calce a un
articolo sul blog di Beppe Grillo:
http://www.beppegrillo.it/2013/10/il_piano_carceri_del_m5s.html)
Luca Lorusso