Le bizze dei Kim non finiscono mai
Le minacce di Pyongyang, le strategie degli?altri Il giovane Kim Jong-un non è diverso dal padre e dal nonno: pensa e agisce da dittatore. Le necessità della politica intea esigono che il paese abbia un nemico esterno su cui far ricadere tutti i problemi e per compattare la popolazione attorno al presidente. L’alleato cinese osserva perplesso. Per parte loro, Corea del?Sud e Stati Uniti agiscono in maniera provocatoria con protratte esercitazioni militari.
Per settimane, tra marzo e aprile, tutto il mondo ha seguito con attenzione ogni comunicato dell’agenzia ufficiale nordcoreana Kcna. In alternativa c’erano i pezzi del Rodong Sinmun, l’organo ufficiale del Partito unico di regime. Erano i giorni della minaccia nucleare dei due missili a medio-raggio Musudan trasferiti sulla costa orientale in una località segreta e capaci (ipoteticamente) di giungere fino alle basi statunitensi di Guam, oltre che a quelle in Corea del Sud e in Giappone. Un crescendo di toni belligeranti iniziato con il lancio del razzo Unha-3, nel dicembre 2012, in spregio alle risoluzioni Onu che vietano test balistici al regime e con il quale Pyongyang ha superato sul tempo i più modei cugini del Sud nella corsa a piazzare in orbita un satellite. I sudcoreani ci sarebbero riusciti con il Naro soltanto un mese dopo, al terzo tentativo. La crisi ha poi toccato il culmine con il test nucleare sotterraneo del 12 febbraio, costato a Pyongyang nuove sanzioni approvate anche con il via libera della Cina, storico alleato. E proprio nella dirigenza cinese è serpeggiata la presenza di funzionari favorevoli a prendere le distanze da un regime poco propenso a sentire i consigli dei «fratelli maggiori».
La sequenza degli eventi è stata scandita dalla minaccia di un attacco nucleare preventivo contro gli Usa il 7 marzo; il giorno seguente è avvenuto il taglio della linea di comunicazione d’emergenza di Panmunjom (il villaggio al confine tra le due Coree dove fu firmata la tregua) e infine il ripudio dell’armistizio che mise fine alla guerra del 1953 e che di fatto, in assenza di un trattato di pace, regola le relazioni all’interno della penisola coreana.
Kaesong
Un mese dopo la Corea del Nord prendeva la decisione forse più significativa della recente crisi: il ritiro dei suoi 53mila lavoratori da Kaesong, il complesso industriale inter-coreano nell’omonima città, una decina di chilometri a nord della zona demilitarizzata (cfr. Glossario). Kaesong è considerato uno dei frutti più duraturi della politica di distensione tra le due Coree dell’inizio degli anni Duemila. Una sorta di «canarino nella miniera» circa le relazioni tra Pyongyang e Seul, capace di resistere anche alle crisi più gravi come l’affondamento della corvetta Cheonan nel marzo di tre anni fa, nel quale persero la vita 46 marinai del Sud o il bombardamento sull’isola di Yeonpyeong nel novembre successivo, che fece quattro morti di cui due civili. Sopravvisse inoltre con buoni risultati economici ai cinque anni alla Casa Blu di Seul del presidente Lee Myung-bak, fautore di una linea intransigente contro il Nord. I lavoratori nordcoreani sono impiegati da 123 piccole e medie imprese del Sud, ora messe sul lastrico dal blocco della produzione. Come ha spiegato una fonte intea al sito Daily Nk, vicino agli esuli nordcoreani, il gesto è stato dettato da motivi di propaganda. Quanti a Nord del 38esimo parallelo sarebbero stati disposti a credere all’eventualità che la Corea del Sud potesse attaccare il regime con Kaesong ancora in funzione? D’altra parte, se i sudcoreani hanno manodopera a basso costo, per il Nord, Kaesong rappresentava una fonte di guadagno e valuta. Il regime trattiene per sé parte dei salari dovuti agli operai, che vanno invece a rimpinguare le casse di Pyongyang. L’ultimo incasso sono stati i 10 milioni di dollari che il regime si è fatto consegnare per consentire di tornare a casa agli ultimi sette sudcoreani bloccati nell’impianto dopo che anche Seul aveva deciso di richiamare i suoi. Soldi che dovevano coprire gli stipendi di marzo e le tasse e che il Sud ha mandato in contanti, quasi fossero una sorta di riscatto.
«Il 99 per cento della propaganda nordcoreana è rivolta a un pubblico interno – ha spiegato James Pearson, direttore a Seul del sito Nk News, da noi contattato -. Ci sono ovviamente eccezioni alla regola, come le recenti minacce dirette alle basi statunitensi nel Pacifico, ma il linguaggio estremo usato in questo periodo non è fuori luogo rispetto a quanto la stampa nordcoreana pubblica normalmente. Gli articoli della Knca riprendono normalmente quelli del Rodong, il principale quotidiano del paese. Sono pezzi scritti da esponenti del Partito per altre persone del Partito. Spesso gli autori temono per la loro sicurezza e legittimazione, perciò usano un linguaggio aggressivo e provocatorio».
È la propaganda nordcoreana intea, ha confermato Roger Cavazos, analista del Nautilus Institute. Secondo l’esperto internazionale la propaganda nordcoreana segue principalmente quattro direzioni: istituzionalizzare il carisma del leader, sostenere l’ideologia politica, cementare la successione dinastica della famiglia Kim oggi alla terza generazione con il trentenne Kim Jong-un, figlio del caro leader Kim Jong-il (morto nel dicembre 2011) e nipote del fondatore dello Stato, Kim Il-sung (morto nel luglio 1994); convertire l’intero Paese alla sfera politica.
Una?nazione? «forte e?prospera»
Sul fronte esterno invece il regime di Pyongyang tende a volere creare situazioni di crisi, mostrarsi il più forte possibile per affrontare un ipotetico tavolo delle trattative. Soprattutto vuole gestire l’andamento della narrazione. Molti analisti concordano nel ritenere che l’ultima serie di minacce sia servita per forgiare la figura del giovane Kim Jong-un davanti ai militari che per anni sono stati accanto al padre nella gestione del potere, ha ricordato Pearson. «Deve essere considerata soprattutto in questi termini la recente escalation, non possiamo da un lato farci beffa della propaganda nordcoreana e dall’altro prenderla sul serio».
Nei giorni della crisi due erano i temi ricorrenti: gli armamenti nucleari e lo sviluppo economico. Le due priorità per costruire una nazione «forte e prospera», come recita lo slogan del giovane leader nel suo primo anno di potere. Nella pratica, ricordano gli analisti, si tratta di linee guida vaghe che possono essere interpretate tanto in termini militari, economici o diplomatici. Non a caso negli stessi giorni in cui giornali, televisioni e radio di tutto il mondo aprivano le edizioni con le minacce di Pyongyang, il Rodong dedicava ampio spazio all’economia, mentre i nordcoreani, prima in stato di massima allerta, si preparavano alla stagione della semina.
Denuclearizzare: sogno realizzabile?
I gesti di Kim Jong-un e dei suoi generali non sono tuttavia catalogabili semplicemente alla voce, «tanto rumore per nulla». La macchina della diplomazia si è messa in moto. Il segretario di Stato americano, John Kerry è volato in Asia in un tour di tre tappe a Seul, Pechino e Tokyo per discutere della crisi con i principali attori coinvolti. Il tema caldo è stato rappresentato dalla denuclearizzazione della penisola, di cui Kerry ha discusso tanto con la presidentessa sudcoreana Park Geun-hye tanto con il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro giapponese Abe Shinzo.
Si sono poi susseguite le visite nelle quattro capitali degli inviati speciali con particolare attenzione al cinese Wu Dawei dato a più riprese in partenza per Pyongyang per riportare il regime a più miti consigli. Mentre a volare nella capitale nordcoreana è stato per primo l’inviato nipponico Iijima Isao , forse per un canale di dialogo interrotto con il test di dicembre, sebbene i due Paesi non abbiano relazioni diplomatiche e nonostante i contrasti per le atrocità compiute dall’esercito imperiale durante l’occupazione della Corea nella prima metà del secolo scorso e per la questione dei giapponesi rapiti dai nordcoreani.
«La stampa internazionale ha ceduto alla tentazione di spaventarsi da sola. Il Nord non lancerà un attacco nucleare contro gli Stati Uniti o contro qualcun altro. Sicuramente non darà inizio ad alcuna guerra. I coreani tanto del Nord quanto del Sud la pensano così. Ciò che la crisi ha dimostrato è quanto il resto del mondo debba rimettersi al passo per capire la situazione nella penisola coreana», ha sottolineato Pearson. D’altra parte, è opinione comune che l’obiettivo del regime di Pyongyang non sia l’autodistruzione, ma perpetuare il proprio potere.
L’ideologia?del «juche»
Le minacce in qualche modo rientrano in un copione che si ripete di anno in anno in occasione di celebrazioni di primo piano per il regime. Nei primi quattro mesi dell’anno si susseguono l’anniversario della nascita di Kim Jong-il, il 16 febbraio, quello della nascita di Kim Il-sung, il leader eterno celebrato nella festa del Sole, astro cui è paragonato, il 15 aprile, l’anniversario della fondazione dell’esercito, uno dei pilastri della Repubblica democratica popolare di Corea (nome ufficiale del Nord), il 25 aprile.
In queste occasioni il governo di Pyongyang non ha mancato in passato di fare sfoggio della propria forza con parate militari o come lo scorso anno con test balistici di scarso risultato, prima di quello di dicembre.
Il crescendo delle tensioni è coinciso anche con le annuali esercitazioni congiunte tra statunitensi e sudcoreani, questa volta andate avanti sino alla fine di aprile. Per gli Stati Uniti sono state occasione per far sfoggio di muscoli. Sui cieli coreani si sono visti volare i bombardieri B-52, ricordo del conflitto degli anni Cinquanta, i B-2 capaci di trasportare bombe nucleari e gli F-22, fiore all’occhiello dell’aviazione statunitense. Terminate le esercitazioni il 30 aprile, dopo due settimane di relativa calma durante le quali le minacce di Pyongyang si erano fatte sporadiche, a dare una nuova fiammata, seppur non ai livelli precedenti, è stato l’arrivo nelle acque coreane della portaerei della marina statunitense Uss Nimitz. Una «provocazione» secondo Pyongyang che per tutta la durata della crisi ha fatto leva sul senso di accerchiamento. C’è infine la questione diritti umani, con gli inviati Onu che hanno ricevuto mandato di indagare sulle violazioni nei campi di lavoro forzato dove si ritiene che i detenuti siano almeno 200mila. Uno smacco per Pyongyang tanto più che dei tre componenti la commissione nessuno può essere accostato ai nemici di sempre.
Si tratta infatti di un australiano, Michael Kirby, di un indonesiano, Marzuki Darusman, e di una serba, Sonja Biserko. «La lotta contro l’esterno richiede che ci sia qualcuno cui dare la colpa», ha spiegato Cavazos. Il principio è quello di riunire il popolo attorno ai propri leader, gli unici portatori dell’ideologia del juche, o autosufficienza come vien tradotto, memori anche di un passato in cui il Paese è stato mira delle grandi potenze, prima la Cina, poi il Giappone, poi stretto nello scontro tra i blocchi. «La Corea del Nord è fiera della propria indipendenza. Nessuno può dirle cosa fare», viene ricordato da Brian Reynolds Myers della Dongseo University di Pusan nella sua analisi della propaganda nordcoreana.
Il?ruolo?di?Pechino
E la Cina? Che l’influenza può esercitare Pechino sul riottoso alleato? In una recente analisi del Nautilus Insitute si usa la metafora dell’elefante (la Cina) che entra nel prato schiacciando l’erba. Questa è il timore di Pyongyang in termini di indipendenza. Per Pechino è invece una questione tanto di prestigio internazionale quanto di interesse nazionale. Accettando le sanzioni, aumentando i controlli alla dogana e con la decisione unilaterale della Bank of China di chiudere il conto domiciliato presso i propri sportelli della nordcoreana Foreign Trade Bank, accusata di finanziare il programma nucleare di Pyongyang, la Cina mostra al mondo di essere una potenza responsabile e manda allo stesso tempo un segnale all’alleato.
Il legame «di sangue» stretto ai tempi della guerra di Corea rischia di rivelarsi controproducente per Pechino. Le bizze della Corea del Nord sono un alibi per il mantenimento e per il potenziamento dell’apparato militare statunitense nella regione a sostegno degli alleati sudcoreani e nipponici. Gli Usa hanno già decretato l’Asia come il fulcro della propria attuale e futura strategia estera ed economica. Nelle stesse zone dove la Cina vuole far valere la propria influenza.
Andrea Pira*
Forze?ostili
L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana garantisce la libertà di culto. La realtà mostra una situazione molto diversa. Come testimonia la vicenda del missionario evangelico Kenneth Bae, condannato a 15 anni di carcere.
Kenneth Bae è stato condannato per aver cercato di rovesciare il governo nordcoreano con attività religiose di propaganda, recita il comunicato dell’agenzia Knca. Il caso del cittadino statunitense di origine sudcoreana fermato lo scorso novembre e a fine aprile condannato a 15 anni di lavori forzati dalla Corte suprema nordcoreana è corso di pari passo con la crisi nucleare nella penisola e i venti di guerra. Secondo quanto riferiscono i media ufficiali, la 44enne guida turistica, nota anche come Pae Jun-ho con il suo nome coreano, sarebbe la mente della cosiddetta «operazione Jericho» e avrebbe infiltrato nel Paese 250 studenti, spacciati per turisti e istruiti in quella che è considerata la base operativa nella città di Rason. Bae, scrive ancora l’agenzia, era stato inviato come missionario in Cina nel 2006 con l’organizzazione evangelica Youth for a Mission. Gli sarebbe poi stata data la prospettiva di fare lo stesso a Nord del 38esimo parallelo sfruttando l’opportunità di ricevere inviti a visitare il paese per motivi turistici. La guida è così diventata una nuova pedina di scambio in mano a Kim Jong-un e ai suoi generali nelle ipotetiche trattative con Stati Uniti e Corea del Sud. Un appello diretto al «brillante leader» per la scarcerazione del cittadino statunitense è arrivato dall’ex campione di basket Dennis Rodman, di recente salito alle cronache per un abbraccio con il giovane dittatore dopo un incontro degli Harlem Globetrotters a Pyongyang organizzato dalla rivista Vice. Ancora prima, a gennaio il tentativo, senza risultati, di liberare Bae fu la motivazione ufficiale del viaggio umanitario del numero uno di Google, Eric Schmidt, in Corea del Nord, accompagnato dall’ex ambasciatore Usa all’Onu, Bill Richardson e da Tony Namkung, coreano-statunitense fautore di lunga data del dialogo tra Washington e Pyongyang.
Nello stesso mese la Corea del Nord si è classificata al primo posto per l’undicesimo anno consecutivo nell’indice sulla repressione religiosa stilato dall’organizzazione evangelica per le missioni cristiane «Open Doors». Secondo il rapporto, i cristiani sono considerati forze ostili e puniti con l’arresto, la detenzione e la tortura, se non con la pena capitale, o comunque catalogati all’ultimo gradino nella struttura castale nordcoreana: discriminati. Sempre secondo l’organizzazione, nel paese si starebbe sviluppando una rete di chiese sotterranee che conterebbe circa 400mila fedeli. L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana, si legge nell’ultimo rapporto della Commissione statunitense per la libertà religiosa a livello internazionale, continua a garantire la libertà di culto. Tuttavia lo stesso articolo precisa che la religione non può essere usata per minacciare lo stato, riferendosi in particolare alle attività fuori dal controllo governativo.
Simbolo di questo controllo è la cattedrale di Changchung a Pyongyang, ricostruita nel 1988 per dimostrare il rispetto del regime per la libertà religiosa, ma senza tuttavia avere alcun vescovo né tanto meno sacerdote. Lo stesso anno fu fondata anche l’Associazione dei cattolici romani di Corea, presieduta da Samule Chang Jae-on. Secondo i dati di Uca news, principale agenzia giornalistica cattolica in Asia, a Nord del 38esimo parallelo i cattolici sono almeno 3mila. Circa 200 partecipano alla messa la domenica nella cattedrale. Nel 1985 il vescovo Daniel Tjie Hak-soon di Wonju fu il primo prelato sudcoreano a visitare la capitale nordcoreana dalla fine del conflitto del 1953. E dire che lo stesso fondatore della patria Kim Il-sung veniva da una famiglia di ferventi cristiani come rivelato nel 2011 da Kim Hyun-sik, disertore e all’epoca delle dichiarazioni visiting professor a Yale, dopo 38 anni passati al «Pyongyang College Professor».
KAESONG: è il complesso industriale inter-coreano di Kaesong, nell’omonima città a una decina di chilometri a Nord della zona demilitarizzata che spacca la penisola. È considerato uno dei risultati più duraturi della politica di distensione tra le Coree avviata a cavallo tra gli anni Novanta del secolo scorso e i primi anni Duemila. Gli impianti furono aperti nel 2003. Nell’area industriale 123 piccole e medie aziende sudcoreane danno lavoro a 50mila nordcoreani. Gli operai sono pagati 128 dollari, gran parte dei quai vanno però a rimpinguare le casse di Pyongyang. Nel 2012, sottolinea il Financial Times, la produzione ha toccato i 470 milioni di dollari, in aumento del 17 per cento rispetto all’anno precedente.
KCNA: la «Korea Central News Agency» è l’agenzia giornalistica di Stato. Fondata nel 1946, è la voce ufficiale del Partito dei lavoratori, il partito unico al potere, e del governo nordcoreano. È accessibile all’indirizzo internet kcna.kp, con dominio coreano, o sul server giapponese all’indirizzo kcna.co.jp.
JUCHE: è l’ideologia alla base del regime. Il termine è tradotto come «autosufficienza». Elaborata da Kim Il-sung è assurta a ideologia grazie all’opera di propaganda del figlio e poi futuro leader Kim Jong-il. Mescola socialismo, maoismo e nazionalismo, spesso puntando l’accento su quest’ultimo ed enfatizzando l’immagine della Corea del Nord accerchiata da potenze straniere e capace di resistere con le proprie forze.
MUSUDAN: spostati sulla costa orientale sono stati lo spauracchio delle settimane di tensione nella penisola. Sono missili a media gittata capaci di coprire 3mila-4mila chilometri, quindi in teoria le basi Usa a Guam. Sono stati mostrati per la prima volta durante una parata militare del 2010. Non è chiaro se siano mai stati testati.
RODONG SINMUN: il quotidiano dei lavoratori è il giornale ufficiale del Partito dei lavoratori coreano e il principale del paese. Fu fondato nel 1945. È considerato una fonte ufficiale su molti temi della politica nordcoreana. Dal 1996 l’editoriale di Capodanno presenta le linee che il paese seguirà per i successivi dodici mesi.