Il grande produttore di greggio,
tra passato e futuro.
L’Angola ha vissuto una guerra
civile lunga 33 anni che ha disintegrato la società. Ma oggi registra un Pil in
crescita a due cifre. E la ricostruzione è visibile. Anche il rispetto dei
diritti umani registra dei progressi. Saranno
i benefici dell’oro nero e del rapporto stretto con la Cina? Intanto il presidente
José Eduardo dos Santos continua a regnare.
L’Angola è oggi uno dei giganti
africani. Con 20 milioni di abitanti, una superficie quattro volte l’Italia, è
il secondo produttore di petrolio del continente, dopo la Nigeria. Importanti
sono anche i giacimenti di diamanti, mentre l’agricoltura è in rapido sviluppo.
Il suo Pil ha visto una crescita a due cifre dal 2004 al 2008 (17,3% di media)
toccando il 22,6% nel 2007. Indicatore che poi ha frenato segnando 3,9% nel 2011.
Eppure
il suo passato è tragico. Nel
1961 inizia la guerra contro i coloni. Alla proclamazione dell’indipendenza,
nel 1975, il conflitto continua sotto forma di guerra civile, che sarà la più
lunga del continente. Si contrappongono l’Mpla (Movimento popolare di
liberazione dell’Angola) guidato da José Eduardo dos Santos e appoggiato dal
blocco dei paesi socialisti, e l’Unita (Unione nazionale per l’indipendenza
totale dell’Angola), appoggiata da Sud Africa e coloni portoghesi. Solo nel
2002, con la morte di Jonas Savimbi, capo storico dell’Unita, si raggiunge una
vera pacificazione. Il paese è in ginocchio, le zone rurali devastate, le
infrastrutture distrutte, la struttura sociale annullata, 4,5 milioni di
sfollati, ancora diversi milioni di mine antiuomo nascoste ovunque. Dos Santos,
divenuto presidente nel 1979, alla morte di Agostino Neto (padre della patria),
è tuttora in carica ed è stato rieletto per cinque anni nell’agosto del 2012.
Grazie
alle proprie risorse e al partenariato strategico con la Cina, l’Angola si
configura come una delle potenze africane di oggi e di domani. Mettiamo
a confronto il punto di vista di un intellettuale angolano e quello di un
cornoperante italiano che ha vissuto e lavorato tre anni nel paese.
Il professor José Feandes, è agronomo e sociologo, con un master in psicologia sociale. Da
oltre 22 anni lavora nel campo dello sviluppo sociale e umano, e vanta
un’esperienza sia nel governo del suo paese (nel ministero dell’Agricoltura),
sia in varie Ong. Attualmente è consulente indipendente, nell’area dello
sviluppo sostenibile, da circa otto anni. Si focalizza sullo sviluppo umano e
appoggia strutture governative per sviluppo locale. È inoltre docente
universitario, in sociologia della stratificazione, disuguaglianza e classi
sociali, sociologia del cambiamento e conflitti sociali e sociologia della
cultura. Gli abbiamo chiesto di darci un quadro del suo paese oggi.
L’Angola è una delle economie del mondo a crescita più veloce, ma
molti angolani vivono ancora in condizioni di povertà. Perché persistono queste
grandi disuguaglianze sociali?
«L’Angola sta crescendo economicamente, ma solo dal punto di vista
macroeconomico. In termini di microeconomia, il paese ha ancora molti problemi.
Le limitazioni nell’accesso ai beni, opportunità e servizi: sono la radice
principale della disuguaglianza. Il contesto sociale è caratterizzato dalla
nascita di una nuova élite, che è presente in tutte le aree sociali: politica,
economica, culturale, scientifica e tecnologica, dei trasporti. Questo non
permette un processo di inclusione sociale perché si tratta di un piccolo
gruppo che controlla tutte le aree, e che ha accesso a beni, servizi e
opportunità.
Un’altra questione chiave è il concetto meritocratico, che non è
ancora una realtà alla base dell’occupazione di posti nella struttura sociale.
Le competenze sociali e professionali, non sono ancora considerate come valori
chiave. Quello che conta è il clientelismo o l’appartenenza a una famiglia.
Esistono dunque disuguaglianze profonde e ben visibili tra i cittadini angolani
che possiedono e quelli che non hanno nulla o quasi».
La gran parte del Pil angolano è fornito dal petrolio. Come sono
gestite queste risorse dal potere? Sono investite in infrastrutture e in qualità
della vita per la popolazione?
«L’economia dell’Angola ha come principali fonti di reddito il
petrolio e il gas, insieme al settore diamantifero. Ma anche altri settori come
l’agricoltura cominciano ad avere un peso nel contributo al Pil. I proventi del
settore petrolifero e diamantifero sono stati usati soprattutto per la
costruzione di infrastrutture di base, come strade, scuole e ospedali. Il
programma di ricostruzione del paese è visibile e questo fa sì che la qualità
della vita del cittadino in generale migliori poco a poco. Tuttavia le sfide
restano grandi e importanti, e l’investimento dei fondi provenienti da questi
settori potrebbero essere usati in modo più efficace per creare benefici
diretti alla popolazione. In passato non c’era chiarezza sull’utilizzo di
questi soldi, mentre oggi la più grande impresa petrolifera dell’Angola, la
Sonangol, rende pubblici i propri bilanci, il che è un notevole passo avanti.
Dall’altro lato, le infrastrutture sono importanti, ma non è da meno
l’investimento nel capitale umano, e la diversificazione dell’economia, come
l’aumento dell’investimento nell’agricoltura, tanto a livello famigliare che
delle grandi fattorie».
L’Angola è il secondo fornitore mondiale di petrolio della Cina.
Può parlarci degli interessi della
potenza asiatica in questo paese? Come descriverebbe il partenariato
Angola – Cina?
«La Cina ha una strategia chiara sull’Angola, come su molti altri
paesi africani, ad esempio Namibia, Mozambico, Sud Africa. Questo interesse è
reciproco, perché anche l’Angola ha bisogno della Cina, in questa fase di
costruzione e ricostruzione del paese.
La Cina possiede un know how di cui l’Angola ha bisogno per
crescere. Nel settore ad esempio delle costruzioni esiste una forte cooperazione
tra i due paesi. Occorre dire che quando l’Angola aveva bisogno di fondi per
iniziare il processo di ricostruzione del paese, tutte le istituzioni come Bm,
Fmi, impedirono che si organizzasse una conferenza di donatori per l’Angola. La
Cina fu l’unico paese che si offrì di finanziare questo processo mettendo a
disposizione prestiti. È chiaro che in questo senso i cinesi si sentono
privilegiati nello sfruttamento del petrolio dell’Angola. Si tratta di uno
scambio commerciale sulla base di interessi reciproci».
José Eduardo dos Santos, dopo 33 anni come
presidente della repubblica, è stato rieletto per altri 5 anni nell’agosto
2012. Come vedono i diversi settori sociali la non alternanza al potere? C’è
opposizione politica in Angola?
«La questione dell’alternanza al potere in Angola deve essere
analizzata tenendo conto di variabili politiche, militari, sociali e
soprattutto culturali. Il popolo angolano non pensa come il popolo occidentale
o orientale. Per questo l’analisi dell’elezione del presidente dos Santos, ha
il suo inquadramento sociologico e politico basato su due aspetti: il primo è
associato all’esistenza di un sistema monopartitico dal 1975 al 1991. Questo
vuol dire che dal 1979 (anno in cui dos Santos accede al potere) fino al 1991
(firma degli accordi di Bicesse), non esisteva la possibilità di elezioni.
Nel 1992 furono realizzate le prime elezioni, nelle quali dos
Santos fu eletto come primo e più votato, ma senza avere la maggioranza che lo
consacrasse presidente. Poi si ritoò alla guerra civile, che fece retrocedere
il paese rispetto ai progressi democratici. È importante dire che fu l’Unita a
riprendere la guerra. Il secondo aspetto è associato al processo di pace
interno e alla necessità di consolidarlo. Passarono ancora dieci anni, dal 1992
al 2002, per arrivare finalmente alla pace.
Come realizzare elezioni ed eleggere un nuovo presidente in uno
scenario di guerra reale, passato dal contesto rurale a quello dei principali
centri urbani? Così passarono 23 anni dal 1979 al 2002. I primi 6 anni di pace
furono impiegati nella pacificazione degli animi e in una gestione del governo
condiviso con l’Unita, chiamato Gu (Goveo di unità e riconciliazione
nazionale), sulla base degli accordi di pace. Obiettivamente solo nel 2012, con
la nuova Costituzione, si arrivò alla seconda vera elezione presidenziale nel
paese. La questione chiave è che il presidente dos Santos non avrebbe, di
fatto, potuto lasciare il potere prima del 2012. Se non per un golpe o per
rinuncia».
«Come tutti i leader che stanno molto tempo al potere, in un paese
all’inizio della costruzione democratica, dos Santos è amato da alcuni,
idolatrato da altri e odiato da altri ancora. In ogni caso è riconosciuto come
persona che ha condotto il paese verso la pace e questo aiuta molto a
equilibrare la sua immagine. D’altro lato, l’Mpla è il partito politico con
maggior numero di sostenitori in Angola, il che significa
che la maggioranza degli angolani appoggia dos Santos e si riconosce nelle sue
politiche. Questo non vuol dire che non esistano contestatori, soprattutto
rispetto ad alcune politiche in relazione con il processo di inclusione
sociale. Ma globalmente lui ha tanti supporter».
Cosa
ci può dire rispetto alla società civile in Angola?
«La società civile è emergente in Angola. In questi anni
iniziano a nascere istituzioni che lavorano su temi specifici, per esempio i
diritti umani, l’uguaglianza sociale, gli obiettivi del millennio, la riduzione
della povertà. Storicamente la società civile pensava di essere contro il
governo e agiva in modo non allineato e disarticolato con le necessità della
popolazione, a diversi livelli. Questo generava diversi conflitti, e faceva in
modo che il governo non le desse spazio per condurre le proprie attività
normalmente. Oggi la società civile inizia a essere in linea con le attese
della popolazione e si è creato uno spazio di dialogo con il governo. Ad
esempio è grazie all’intervento delle associazioni che il governo ha creato un
segretariato dei diritti umani. Vediamo così segnali positivi nelle
realizzazioni della società civile».
Ci
parli allora del rispetto dei diritti umani in Angola? C’è libertà di stampa?
«I
diritti umani stanno evolvendo in Angola, per esempio la pena di morte è stata
abolita da parecchio tempo. Una parte dei diritti civili iniziano a essere
riconosciuti: come il diritto alla casa, alla salute, all’educazione, alla cura
dei figli e degli anziani, che sono la parte più vulnerabile di ogni società.
Iniziano a esserci investimenti e anche alcuni progressi a livello di
legislazione che regola alcune questioni del cittadino. Si osserva un
miglioramento. Intanto però continuano violazioni di alcuni diritti di base,
come il diritto a manifestare, molte volte represso dalla polizia. Questo
condiziona i progressi registrati. Si deve intendere la questione dei diritti
umani come un processo e soprattutto un mutamento di mentalità da parte di chi
detiene il potere politico.
Per
quanto riguarda la libertà di stampa dipende dal livello di analisi. Ad esempio
esistono vari giornali privati, radio e canali di televisione. Il più grande
partito di opposizione, l’Unita, ha una radio che è autorizzata a Luanda
24h/24. Ma questo non significa che tutto sia perfetto, come per i diritti
umani. È necessario lavorare di più per migliorare la libertà di stampa. Ad
esempio nella radio e nella televisione pubblica o statale, alcuni programmi
sono censurati. Ma esistono segnali di miglioramento nel trattamento di questi
temi da parte del governo».
Ci
sono problemi di libertà religiosa in Angola?
«No,
in Angola non esistono problemi di libertà religiosa. Il 90% della popolazione è
cristiana e sono state costruite alcune moschee che stanno funzionando,
svolgono il culto e non hanno mai avuto problemi. Probabilmente esiste troppa
libertà, perché ogni giorno che passa nascono nuove sette religiose, che creano
grande confusione nel cittadino comune».
Sull’Angola
MC ha pubblicato «Piedi a mollo nel petrolio», febbraio 2010.
«In Africa un leader lo è dalla nascita. Non viene messo in discussione.
C’è qualcosa di magico. La guerra ha distrutto le famiglie. Ha messo fratelli
contro fratelli. In campagna mancava tutto. Ma oggi vedo solo voglia di
riscatto. Nessuna vendetta».
Simone Teggi ha lavorato in Angola tra il 2003 e il 2006 per
circa tre anni. I suoi progetti erano in aree rurali, soprattutto in zone
dell’Unita: Kuito Bié e Mavinga. Ci racconta come la gente comune che ha
conosciuto vede il presidente dos Santos.
«La gente vede dos Santos come un regnante piuttosto che un
presidente. Dalla parte Unita, la gente continuava ad aspettare Jonas Savimbi,
che nelle zone di sua influenza era considerato una figura magica, un
immortale. Ogni due tre mesi girava la voce che Savimbi stava tornando e la
luce della speranza per molti si riaccendeva.
È strano, ma come in molti altri posti d’Africa, il
presidente è legato a un aspetto magico. Il leader è leader di nascita, e
quindi non può essere spodestato, perché ha la protezione dei fetiseros (stregoni). La gente, non ha
quasi mai un’ideologia chiara e sicuramente questa non contrappone Mpla e
Unita. La popolazione vive assieme, e accetta la propria guida quasi per
vocazione. La magia tradizionale in Angola è fortissima e la realtà spesso si
mescola alla fantasia. La rassegnazione al leader fa il resto».
Anche nei partiti politici di opposizione c’è stata una
certa assimilazione. «Qualcuno ha cercato di creare nuovi partiti di opposizione,
ma come per magia i loro leader scomparivano dopo pochi mesi. Inoltre i
generali Unita, poco a poco sono stati comprati con i diamanti da dos Santos,
perché li metteva a gestire le miniere, o li lasciava fare. Dopo la guerra, gli
accordi di pace prevedevano una divisione del potere amministrativo tra i due
partiti, ma poco a poco i capi dell’Unita si sono piegati alla volontà del Mpla
e ai soldi del petrolio e dei diamanti».
Petrolio, diamanti e
morti di fame
Simone ha vissuto e lavorato in zone rurali e ha anche visto
una grande differenza con le città. «I proventi del petrolio non si sentivano nelle campagne.
C’era Luanda, Benguela, Lobito (le grandi città) da un lato e il resto del
paese dall’altro. La gente in Angola era abituata a vivere bene, prima della
guerra. I servizi di base erano garantiti. Poi la distruzione e l’assenza,
almeno nelle campagne, del governo. E l’inesistenza di una struttura economica.
Si vedevano enormi cornoperative agricole distrutte. A metà anni 2000, l’unica
moneta erano il baratto o i diamanti, nell’interno del paese. Ci sono i ricchissimi (molto oltre i nostri ricchi) e chi
muore di fame. Niente borghesia, e gli stessi portoghesi a volte facevano i
meccanici, a volte avevano un chiosco o un piccolo bar».
Ma la gente si organizzava in associazioni? Si può parlare
di una società civile? «Gli angolani, hanno la tempra da leoni, sono forti, ma 30
anni di guerra, tra fratelli, blocca e distrugge ogni forma di società civile.
Le associazioni erano abbastanza assenti dopo la guerra, ma in poco tempo si
stavano ricostituendo. Io lavoravo per il rafforzamento di una associazione di
donne nata nel 1995. Ma la cosa interessante è che era continuata a crescere a
livello locale, mentre si era dissolta a livello di associazione. Quando è
finita la guerra, è bastato mettere in contatto i vari gruppi e ne è nata una
organizzazione a livello nazionale, abbastanza forte e con buone prospettive».
Angolani: persone
splendide
Simone si è trovato bene con gli angolani, nel lavoro e
nella quotidianità dei rapporti sociali. «La gente è calda, animata e dei gran
bevitori. Ma sono anche persone che hanno vissuto un conflitto interminabile.
Non vogliono più guerre, e per questo si sono inchinati alla morte di Savimbi. Ho
conosciuto persone splendide, che nascondono cicatrici e dolori immensi, che
spesso si riflettono sulla voglia di riscatto. Due aneddoti. Una delle donne
con cui lavoravo, un giorno, parlando della sua famiglia, mi fa vedere la
schiena, piena di cicatrici. Mi racconta che di sera mentre la sua famiglia era
in casa (Otto fratelli e i due genitori) sono stati bombardati. Lei è l’unica
superstite, ma non esiste pianto né commiserazione, solo voglia di riscatto per
la loro vita. La seconda storia riguarda il logista dell’Ong per cui lavoravo.
Un giorno mangiamo e beviamo assieme, eravamo rimasti soli. A un certo punto
lui, un omone tranquillo e apparentemente sereno, si mette a piangere. Dice: “Non
volevo farlo, non capisco come mi sia trasformato in una bestia”. Poi mi
racconta di quando faceva il militare. Quando vedeva morire i suoi amici, e
arrivava a conquistare un villaggio, l’unica idea era riprendere la vita di
altre persone, per soffocare il dolore della perdita dei suoi cari. Stupri,
gente tagliata a pezzi, insomma orrore.
A Kuito Bié, cittadina in cui ci sono stati 8 mesi di
conflitto, la gente di una stessa famiglia in parte era presa dall’Unita,
mentre il resto era preso dall’Mpla. Quindi la gente combatteva il giorno,
fratelli contro fratelli, e la sera si ritrovavano per mangiare insieme. Qui
una parte sostanziosa della popolazione era senza gambe, faceva impressione. Ma
con il trascorrere dei mesi, sembrava
quasi normale».
Le città e le campagne hanno vissuto la guerra in modo
diverso. «La città non ha mai vissuto la guerra e imprese, bianchi e ricchi si
installavano là, tra prostituzione, lusso e menefreghismo verso il resto del
paese. La situazione era incredibile. In campagna nessuno sapeva
cos’erano elettricità e acqua. La gente di campagna che andava in città,
pensava che con i soldi si potesse fare tutto, anche scappare da un paese che
per anni ha conosciuto solo l’inferno».
Distruzione del
tessuto sociale
Simone assiste alla profonda disgregazione sociale: «Come
Mao aveva fatto in Cina, in Angola le famiglie erano state distrutte, così
l’unica referenza era il comandante. Una volta a Kuito, incontro un ragazzo che
da 26 anni non vedeva nessuno della sua famiglia. Aveva circa 34 anni. Era
arrivato per cercarla, con un’emozione e paura enorme. Ma nel suo villaggio non
aveva trovato più nessuno, solo desolazione, e qualche zio.
Un giorno andiamo in un villaggio, e uno dei leader è un
personaggio ambiguo. Mi spiegano che era un cecchino. Ognuno sapeva dire che
membro della famiglia gli aveva ucciso. Rimango perplesso: la gente, dopo
trent’anni di distruzione ha imparato a perdonare e il miliziano era stato
accettatornin maniera incredibile».
Ricordi schioccanti: «La gente, soprattutto nel 2003,
saltava sulle mine ogni giorno. Contadini, bus pubblici scoppiavano, ma la
gente ne era abituata. Un giorno una donna è saltata per aria usando un ordigno
inesploso per pestare il mais nel mortaio. Un’altra volta un uomo che cercava
legna è saltato su una mina anti-uomo collegata a due mine anti-carro. È
rimasto solo un buco enorme.
Le mine erano nascoste ovunque, nelle scuole, lungo i ponti,
vicino alle fonti d’acqua e perfino negli alberi da frutta. A Kuito Bié,
durante la guerra la gente non poteva seppellire i propri cari e quindi lo
faceva nel giardino di casa. Mentre abitavo lì, avevano deciso di riesumare i
corpi. Più di 10.000 persone.
Ogni giorno, dei funerali rendevano l’atmosfera sempre più
pazza e, andando al lavoro, passavo attorno a fosse comuni in cui la
popolazione si scannava per identificare qualche cumulo di ossa come il proprio
caro».
Marco Bello