Siamo un po’
tutti nomadi nel cuore. Emancipati dal vincolo dell’agricoltura di sussistenza
che ci legava indissolubilmente alla terra, abbiamo riscoperto quello spirito
nomade che fa parte del nostro Dna ancestrale. Che siano le uscite del fine
settimana, le vacanze estive o quelle invernali, sentiamo il bisogno di
muoverci, di uscire, di conoscere, di vedere: sempre più in là, sempre più
oltre. Per tantissimi invece muoversi non è una scelta, ma una necessità:
emigrare o morire. Interi popoli si muovono ancora oggi per questo. Per noi
Italiani è la fuga dei cervelli. Ma questo è vero non solo per noi: quanti
immigrati approdati sulle nostre coste hanno titoli universitari che non
possono investire nei loro paesi!
C’è invece chi si muove
per piacere e conoscenza. Un paio di secoli fa solo i ricchi potevano
permettersi il lusso di grandi viaggi, di esplorazioni avventurose. La gente
normale vi partecipava leggendone i libri. Così gli africani hanno conosciuto i
primi bianchi: esploratori, gente che andava in giro apparentemente senza una
meta precisa, wazungu appunto (quelli che vanno in giro), come dicono in
kiswahili, la lingua franca dell’Africa dell’Est. Oggi invece è turismo di
massa. Con un aereo si arriva agli antipodi in poche ore. Il mondo è alla
portata di tanti.
Quale incredibile
occasione di incontro, confronto e conoscenza, di creare nuove relazioni, di
aprire i propri orizzonti, di amare la mirabile varietà di facce della razza
umana, di incontrare persone vere. Eppure… quante occasioni perdute, quanta
superficialità, quanta fretta, quanti abusi e incomprensioni. Ci si incontra e
non ci si conosce; non ci si conosce e non ci si capisce; non ci si capisce e
non ci si ama. Dopo il viaggio restano i soliti stereotipi e le foto da
mostrare agli amici: io nel villaggio, io col leone, io col vestito afro, io
con le treccine a foggia indigena, io al mercato. Gli amici si annoiano e non è
cambiato niente.
Diventassero i nostri
viaggi occasione per conoscerci di più, quanti pregiudizi potrebbero cadere. Si
avrebbe il piacere di scoprire che siamo tutti «uomini» e non bestie strane o
alieni, nemici o minacce. Smetteremmo forse di parlare per slogan: «Gli
africani sono tutti…, gli albanesi, i romeni, i napoletani, i romani…». Gli
africani? Quali africani? Quelli del Marocco o del Sudafrica? I pastori Maasai
o gli agricoltori Kikuyu? I Pigmei dell’Ituri o i Boscimani del Botswana? Noi
stessi non amiamo essere classificati con generalizzazioni, soprattutto se
negative. Non vale lo stesso per gli altri? Verrà il giorno in cui parlando dei
nostri vicini potremo dire «il mio amico Li», invece de «i cinesi»; «il signor
Ali» invece de «i marocchini», «la mia vicina Klodiana» invece de «gli Albanesi»?
Sì, può venire. Basterebbe cominciare da cose semplici: farci un amico nuovo
ogni volta che andiamo in un posto nuovo e scambiarci qualche buona ricetta;
imparare una breve preghiera in lingua locale e magari andare a messa insieme
nella parrocchia del posto; conoscere un po’ della storia e cultura. Forse
basterebbero solo fantasia e cuore.
Stavo
scrivendo queste poche righe, quando una suora è arrivata trafelata con un
bigliettino in mano: «In occasione della mia S. Cresima ho voluto fare un gesto
di amore donando al posto della bomboniera, pappa e cure ai miei amici a 4
zampe». «Non ho dormito tutta la notte», mi ha detto. «Come è possibile dopo
cinque anni di catechesi? Cosa hanno capito? E siamo in un quartiere dove oltre
un terzo della popolazione è a rischio di sfratto, ma con tantissimi cani e ben
curati. Abbiamo parlato con loro di servizio, di carità, di accoglienza, di
condivisione. E mi fanno la “cresima per i cani”! Devi scrivere qualcosa».
Cara sorella, che scrivo?
Lo sa che non è politicamente corretto dire che prima vengono le persone e poi
i cani e che se i cani stanno male è perché gli uomini stanno peggio. Forse
potrei solo constatare che è meno impegnativo risolvere i problemi dei cani che
quelli degli uomini.
Papa Francesco ha detto (il
5/6/2013) che c’è bisogno di una ecologia umana, perché «la persona umana è
oggi in pericolo, … sacrificata agli idoli del profitto e del consumo: è la “cultura
dello scarto”». Così continuiamo a scrivere che non si tratta di fare una
scelta tra gli uomini e i cani, ma di amare «e l’uomo e il cane»!
Gigi Anataloni