Parla monsignor Philippe Ouedraogo
Dalle stragi di Lampedusa all’integralismo islamico in
Africa. Dalla crisi di valori nella società burkinabè alle sfide della sua
Chiesa. Dall’impegno dei cattolici in politica alla formazione delle coscienze.
Colloquio con l’arcivescovo metropolitano di Ouagadougou.
Monsignor Philippe Ouedraogo è arcivescovo di Ouagadougou
dal 2010. Fin dal 1996 è stato vescovo di Ouahigouya, città nel Nord, a grande
maggioranza islamica. Lo incontriamo nel salone dell’arcivescovado, proprio
mentre nelle strade della capitale si festeggia la vittoria calcistica del
Burkina Faso sull’Algeria.
(Clicca sulla foto o sul simbolo per ascoltare l’intervista in francese su Youtube)
Monsignor Ouedraogo, come legge il dramma di Lampedusa?
«Oggi se si parla di Africa in Europa si parla di
Lampedusa. Un giornalista ha confrontato le migliaia di africani periti
nell’Atlantico a causa della tratta degli schiavi con i morti della migrazione
dall’Africa all’Europa. Forse è un po’ forzato come paragone. Le motivazioni
non sono le stesse e la situazione neppure.
Il Papa ha denunciato la mondializzazione
dell’indifferenza. In questo l’Europa è colpevole e ha anche delle
responsabilità: la colonizzazione, poi le indipendenze. Ora siamo in una
situazione catastrofica di povertà, di insicurezza a causa delle guerre, e
tutto questo contribuisce a far partire le persone. Ma noi, gli africani, cosa
abbiamo fatto per rendere vivibili i nostri stati? I responsabili si sono
riuniti ad Addis Abeba in questi giorni, hanno passato il tempo a parlare della
loro sicurezza, rispetto alla Corte penale internazionale, ma hanno trascurato
questo problema che è il più importante. Se i nostri governanti rubano, bisogna
giudicarli. L’autorità non è niente altro che un servizio. Se i dirigenti non
realizzano che sono in quella posizione per fare il bene del popolo, per il
bene comune, se saccheggiano le magre risorse, occorre giudicarli, a qualsiasi
livello.
Questa situazione di miseria che si perennizza, è sfida
enorme, e la responsabilità è grande sia a livello di chi governa sia della
popolazione. Bisogna lavorare, avere iniziativa, prendere il nostro destino in
mano. Dunque le responsabilità sono condivise».
Lo scorso luglio voi vescovi del Burkina Faso avete
scritto una lettera pastorale (box) critica nei confronti
dell’istituzione del Senato, voluto dal presidente. Una presa di posizione
coraggiosa.
«I vescovi sono dei pastori, dei servitori del popolo di
Dio. Se la situazione sociale, umana, sanitaria, alimentare, educativa, di sicurezza
della gente non interessasse noi pastori sarebbe una vera catastrofe. Abbiamo
una responsabilità comune e dobbiamo essere la voce dei senza voce. Siamo in
mezzo al popolo, siamo solidali con esso, abbiamo quotidianamente delle sfide
da affrontare, sulla povertà e sull’avvenire di questa gente. Siamo dei
cittadini come gli altri, e penso che abbiamo voce in capitolo. “Alla parola in
famiglia è convocato ogni membro della famiglia – diciamo in moore – al
lavoro della famiglia devono essere convocati tutti i membri della famiglia”,
compresi i vescovi: siamo anche noi membri della famiglia. Se la gente ci
rifiuta il diritto di parlare e vuole che stiamo confinati nelle nostre
sacrestie noi non siamo d’accordo, siamo qui e abbiamo una missione da compiere.
Abbiamo sottolineato che noi non abbiamo un ruolo politico, un ruolo
deliberativo, ma abbiamo un contributo da portare e teniamo a salvaguardare la
nostra neutralità e la nostra libertà per poter comunicare il Vangelo al
servizio di tutti gli uomini. È per
questo che abbiamo preso la parola, perché ci sono quelli che non riescono a
farsi sentire, i poveri e i dannati della terra, gli analfabeti, chi vive in
campagna. Poi c’è la minoranza di coloro che vivono nell’agio e hanno tutto in
mano. Bisogna riequilibrare le cose, in modo che tutti abbiano, ognuno al
proprio livello, una parte irrinunciabile nel costruire il bene comune, a
cominciare dai responsabili».
Le parole di papa Francesco vanno un po’ in questo
senso. Hanno influenzato la vostra iniziativa?
«In Africa e in Burkina Faso siamo stati molto contenti
ed entusiasti dell’elezione di papa Francesco. Il fatto di essere un non
europeo è un segno molto forte. La Chiesa è universale, occorre un cambiamento
di mentalità, in particolare che i cristiani d’Europa cambino, a cominciare dal
Vaticano. E il papa ha centrato il problema. Qui abbiamo un’opzione pastorale
fondamentale: “Chiesa famiglia di Dio”. Il sinodo speciale per l’Africa del
1994 ha generalizzato questa opzione fondamentale per tutta la chiesa africana:
costruire la Chiesa famiglia di Dio attraverso le piccole comunità cristiane di
base. Siamo contenti che questo papa arrivi dall’altro lato del mondo e abbia
un’esperienza e una sensibilità particolare, che porterà qualcosa alla Chiesa.
Sono stato a Roma recentemente, ho partecipato
all’udienza del mercoledì, e sono anche andato ad Assisi e ho concelebrato con
il papa. Questo uomo è straordinario! Il fatto stesso che abbia scelto il nome
Francesco è un segno forte: riportare la Chiesa al Vangelo. Come dice Charles
de Foucault: “Se non viviamo il Vangelo, Gesù non vive in noi”. Costruire
insieme, come ha detto Bergoglio, una Chiesa al servizio, una Chiesa umile,
fratea. Io sono in profonda comunione con lui e quando l’ho potuto salutare all’udienza
gli ho detto: “Santo Padre noi vi amiamo”. E lui: “Pregate per me”».
Come è stata accolta la lettera pastorale nelle
parrocchie?
«La lettera è stata letta nelle chiese. Un uomo politico è
venuto da me a lamentarsi perché dopo la lettura la gente ha applaudito:
scandalo! “La Chiesa fa politica. Non mi ritrovo più in questa Chiesa”. Gli ho
detto: “Calmati, il prete ha letto la lettera, non ha chiesto alle persone di
applaudire. Voi organizzate le manifestazioni, e forse le persone vi
partecipano perché le pagate. Ma ci sono altre manifestazioni a cui la gente
partecipa senza essere pagata”. Questo significa che le persone si sono
ritrovate nelle parole della lettera.
Non tutti l’hanno apprezzata, i cristiani non hanno tutti
la stessa sensibilità politica. Alcuni sono furiosi contro il loro pastore: “Si
immischiano in cose che non li riguardano” pensano. Oppure: “Dovevano dare la
lettera a Blaise (Compaoré, presidente del Burkina Faso, ndr), senza
pubblicarla”. La Chiesa ha la sua maniera di lavorare. Noi vogliamo assumere il
nostro ruolo morale e spirituale, non politico. Per questo rifiutiamo di andare
all’Assemblea Nazionale a deliberare, ma se ci sono delle istanze di
concertazione, siamo disponibili. Sempre restando nella prospettiva della
dottrina sociale della Chiesa: la dignità della persona, il bene comune, la
solidarietà e il principio della sussidiarietà. La lettera va in questo senso.
I sacerdoti l’hanno accolta e l’hanno distribuita al popolo di Dio. La
parrocchia universitaria ne ha diffuso 20.000 copie. Non vogliamo l’unanimità
totale. Abbiamo alimentato il dibattito, la gente si interroga, e penso questo
possa contribuire alla maturazione politica.
Non abbiamo scritto la lettera per fare la lezione alle
altre confessioni. Abbiamo letto su Inteet: “Anche i musulmani e i
protestanti devono pronunciarsi”. Ma non abbiamo la stessa organizzazione o lo
stesso metodo di lavoro. Noi siamo in armonia con loro».
E qual è stata la reazione a livello del governo?
Sono stati piuttosto discreti. Mesi fa avevamo dato la
nostra posizione rispetto alla modifica dell’articolo 37 della Costituzione, e
loro hanno scritto contro di noi. Noi non abbiamo replicato. Ma questa volta
non ci sono stati scritti che ci attaccavano. Siamo stati convocati dal
presidente, al quale abbiamo spiegato il perché della lettera: non è per creare
problemi al paese, al contrario. Si può dare un’altra lettura, ma il nostro
obiettivo non è la sovversione, non è rovesciare Blaise, ma contribuire al bene
comune, alla pace e alla coesione sociale, che è una delle nostre ricchezze».
Ci sono esperienze di dialogo interreligioso a livello
nazionale o della sua diocesi?
«A livello della conferenza episcopale esiste una
commissione per il dialogo interreligioso, organizzata con gruppi nelle diocesi
e nelle parrocchie. Nell’arcidiocesi di Ouagadougou abbiamo una commissione
diocesana. In Vaticano c’è un Consiglio pontificio per il dialogo
interreligioso. Ogni anno produce una lettera rivolta ai musulmani, noi la
trasmettiamo ai nostri fratelli islamici che la leggono alla preghiera o
talvolta durante le feste.
In tutte le famiglie c’è una certa tolleranza. I legami
di sangue sono più forti dei legami di religione. Inoltre ci sono dei matrimoni
interetnici e questa è una fortuna per noi e in Burkina Faso non abbiamo
problemi. Nella mia famiglia la maggioranza è musulmana, poi ci sono cristiani,
e chi segue la religione tradizionale. Ci ritroviamo per gli avvenimenti felici
e tristi. A Natale i cristiani offrono da mangiare ai musulmani, e viceversa
per le feste islamiche.
In questi ultimi anni vediamo crescere un certo
integralismo, ma è davvero recente e noi lottiamo per salvaguardare la
tolleranza tra differenti comunità religiose ed etnico culturali.
Da parte mia tentiamo di avere relazioni fratee:
conoscersi, stimarsi reciprocamente. I musulmani non sono indifferenti a
questo.
Ogni anno durante la festa islamica della Tabaski vado
alla preghiera alla grande piazza della Nazione. Tra Natale e Capodanno il
presidente della comunità musulmana, il grande imam e una decina di imam
sono venuti qui a salutarmi. Questo ha provocato la reazione di alcuni giovani
integralisti, che sono andati ad assediare il grande imam per chiedergli
conto della sua visita all’arcivescovo. Chi c’è dietro a questi giovani? Ma
capi religiosi hanno scritto una lettera molto chiara nel senso del dialogo
interreligioso e noi andiamo nello stesso senso, perché è un’opzione della
Chiesa. Gli integralisti hanno
mandato a dirmi di non andare più alle feste islamiche. Ma io ci andrò a causa
di Gesù. È un po’ come diceva Martin Luther King per l’apartheid: “Voi
potete umiliarci e gettarci in prigione, ucciderci, ma non potrete mai
impedirci di amarvi”. Questa è la forza del Vangelo: la forza di amarsi.
Esiste un documento del Consiglio pontificio, “Dialogo
ed evangelizzazione”. Non si tratta di proselitismo, ma non ci dimentichiamo
che abbiamo anche noi un messaggio da proporre».
Nei paesi confinanti, Mali e Niger, c’è la guerra e il
pericolo Al Qaeda.
«I contesti sono simili ma diversi. Ad esempio la
proporzione di musulmani è molto più elevata in Mali e Niger. In Niger 95%, in
Mali 90%. In Burkina le statistiche ufficiali dicono che ci sarebbe il 60% di
musulmani, il 19-20% di cattolici, 5% di protestanti e il resto di religioni
tradizionali. Ma non sappiamo come hanno fatto queste stime. Quel che è certo è
che non si deve dare troppa importanza a questi dati, altrimenti si rischia di
scivolare nel confronto etnico-religioso. Anche in Niger e a livello delle
famiglie c’è la stessa configurazione di solidarietà di qui anche se l’islam è
maggioritario. L’islam sub sahariano è diverso da quello dell’Africa del Nord,
dove nella stessa famiglia non si tollera la conversione, mentre qui si accetta
che l’altro sia differente, di un’altra religione».
Il Burkina può essere considerato una frontiera per
l’integralismo islamico?
«Ci rendiamo conto che l’equilibrio è fragile: quello
che succede nei paesi vicini potrebbe anche arrivare qui: al Qaeda, Ansar Dine,
Boko Haram (vedi MC novembre 2012). Anzi, è possibile che ci siano già.
Dobbiamo essere molto vigili e lavorare insieme a livello delle diverse
confessioni e delle autorità per promuovere una cultura di tolleranza, a
partire dalla scuola e anche dalle prediche. La reazione dei giovani agli
auguri degli imam per Natale ha avuto un risvolto positivo, perché ha
causato una presa di coscienza nei musulmani, e nelle prediche hanno parlato a
favore della tolleranza e contro l’integralismo.
Siamo di fronte a delle sfide importanti, non solo a
livello di Burkina, ma a livello mondiale. Occorre cornordinare gli sforzi di
tutti per una cultura di tolleranza, come direbbe papa Giovanni Paolo II: “La
civiltà dell’amore”. Se non arriviamo a rispettarci di più, amarci, vivere come
fratello e sorella, sarà una catastrofe. E in questo la Chiesa ha un ruolo
unico perché ha un messaggio insostituibile per il bene dell’umanità: il
Vangelo».
In Burkina Faso esiste una frattura sociale tra la città
e la campagna?
«Non sono scompartimenti stagni. C’è chi vive in città,
ma ha la mentalità rurale. Poi i legami famigliari sono tali per cui il
cittadino resta in osmosi permanente con i parenti in campagna. Un funzionario
non può isolarsi rispetto alla famiglia al villaggio.
Nonostante questo, ci sono problemi. Dovremmo fare di più
per accompagnare i giovani. C’è analfabetismo, ignoranza, Aids. Tutto questo ha
delle conseguenze nefaste per la vita dei giovani. Poi il problema della
mancanza di lavoro. Chi è in campagna è più stabile di chi vive in città e non
ha nulla da fare. La tentazione è il banditismo. Ci sono delle nuove povertà in
città alle quali dobbiamo far fronte. I mendicanti, i bambini di strada. Stiamo
cercando di organizzarci per queste situazioni che non troviamo in villaggio,
dove c’è più solidarietà famigliare. La Chiesa non è sempre attenta o
attrezzata. Ma se non è la Chiesa dei poveri non è la Chiesa di Gesù Cristo.
Dobbiamo avere occhi e cuore aperti e attenti a queste situazioni vissute da
una grande parte della nostra popolazione.
In campagna c’è una grande mancanza di servizi di base,
come l’acqua potabile. Ma ci sono famiglie in città che non possono avere il
loro pasto ogni giorno e l’acqua nei quartieri periferici non c’è. Occorre
vedere caso per caso».
I vescovi del Burkina parlano della necessità di una
trasformazione profonda della società. Qual è il ruolo della Chiesa?
«La scuola è il luogo della trasformazione della mentalità.
I media, la televisione: la gente vede immagini da tutto il mondo con le
antenne paraboliche. Come Chiesa cerchiamo di essere al servizio di una società,
con queste grandi sfide. Non abbiamo la pretesa di risolvere tutti i problemi,
ma vogliamo essere presenti, un po’ come il buon samaritano che ha pietà del
povero ferito al bordo della strada. Ci sono molte donne e uomini feriti al
bordo della strada, e cerchiamo di portare quello che possiamo. A livello di
scuole primarie, secondarie e università. Abbiamo due università cattoliche
(Ouagadougou e Bobo-Dioulasso) e un istituto superiore a Kaya. Nella sanità
abbiamo l’ospedale Paul VI che ha difficoltà, ma rende servizio alla
popolazione. Nelle parrocchie ci sono i comitati di salute per la visita dei
malati. Inoltre esistono molte associazioni parrocchiali per aiutare i meno
abbienti. Tutto questo è modesto e insufficiente rispetto all’ampiezza delle
sfide».
Come vede l’impegno dei cattolici in politica in Burkina
Faso?
«È complesso. Due anni fa ho fondato la parrocchia
dell’università. Ha il compito di seguire le scuole superiori, circa 100 sulle
300 di Ouaga, le scuole professionali e le università. Io credo nella pastorale
dei gruppi sociali, ovvero la pastorale tra pari. I medici sono organizzati con
i Camilliani, ci sono gli uomini d’affari cattolici, i banchieri, i
parlamentari e un’organizzazione parrocchiale che forma l’élite intellettuale
alla dottrina sociale. L’idea è di contribuire alla formazione dei decisori
della nostra società».
Perché parlate di giustizia, riconciliazione, pace?
«Il riferimento è al Sinodo per l’Africa del 2009.
Queste restano le grandi sfide per tutta l’Africa. Anche per il Burkina Faso:
abbiamo bisogno di una società più riconciliata, abbiamo la nostra storia, con
la rivoluzione, le ferite profonde, e non è sicuro che esse siano guarite. Se
c’è stata una reazione forte dei vescovi rispetto alla creazione del Senato è
per salvaguardare la pace sociale: se un’istituzione deve essere creata e far
scoppiare l’insieme della società, qual è il bene di questa istituzione? È una
priorità?».
Marco Bello
Burkina Faso: mosse politiche del presidente padrone
Rotta verso il 2015: tempi difficili
In sella da 26 anni Blaise Compaoré le studia tutte per
restare al potere. Adesso sta creando un Senato alle sue dipendenze. Ma il
popolo non ci sta. E le manifestazioni di piazza sfociano nella violenza.
Il Burkina Faso si prepara a giorni travagliati in vista
del 2015, anno delle elezioni presidenziali. In quella data, infatti «scadrà»
Blaise Compaoré, al potere indiscusso dal quel lontano 15 ottobre 1987, quando
fece assassinare il presidente Thomas Sankara e 12 suoi stretti collaboratori.
Blaise, così viene chiamato in Burkina, è passato indenne attraverso elezioni,
multipartitismo, assassinii politici eccellenti del suo regime (come quello del
giornalista Norbert Zongo, ucciso il 13 dicembre 1998), lotte intee del suo
partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), modifiche
costituzionali. Ed è proprio la Costituzione del 1991, modificata nel 2005, che
ha ridotto la durata della presidenza da 7 a 5 anni, e imposto il limite a due
mandati. Compaoré rieletto nel 2005 e 2010, sarebbe, il condizionale è
d’obbligo, al suo ultimo mandato. Ma da mesi ormai, il presidente e i suoi
lavorano per cambiare quel famoso articolo 37 della Costituzione, che limita i
mandati presidenziali.
L’ultima trovata è la creazione di un Senato, che
porterebbe il Parlamento a un sistema bicamerale (attualmente si basa
sull’Assemblea Nazionale di 111 membri). Creazione anacronistica, visto che in
altri paesi della regione, come in Senegal, il Senato è stato soppresso per
tagliare i costi della politica. Così il 21 maggio scorso i deputati hanno
approvato la legge sul Senato che sarà composto da 89 senatori, di cui 29
nominati direttamente dal presidente, 39 eletti o designati dalla collettività
territoriali e 21 indicati dalla società civile.
Il calcolo politico è chiaro: con un Senato sotto il suo
controllo, il Cdp avrebbe con tutta probabilità la maggioranza qualificata di
due terzi dei parlamentari per modificare l’articolo 37.
Ma i burkinabè, popolo mite e tollerante, questa volta
sembrano non essere d’accordo. L’idea del Senato manda in ebollizione la società
del paese. Diverse manifestazioni investono le strade della capitale
Ouagadougou e di altre città del paese, a maggio, giugno e luglio. Alcune, in
particolare condotte dagli studenti, sfociano in atti violenti come sequestro e
distruzione di vetture di passaggio, e
chiedono le dimissioni di Blaise. I giovani, il 59,1% dei burkinabè è sotto i
20 anni, diventano la spina nel fianco del presidente.
E la Chiesa non sta a guardare: il 15 luglio i vescovi
del Burkina Faso, che già si erano espressi in passato contro la modifica
dell’articolo 37, diffondono una Lettera pastorale dai toni pacati ma fermi,
che critica le nuove mosse del potere (vedi box).
Usa e Francia vorrebbero mantenere il paese nella
stabilità, vista la turbolenza che ha investito tutta la regione da circa due
anni (guerra in Mali, attentati qaedisti in Niger, gruppi integralisti in
Nigeria, ecc.). C’è chi dice che anche Blaise voglia farsi da parte (e per lui
si cerca una posizione di prestigio in una organizzazione internazionale), ma
il suo partito non è pronto e si scatenerebbe una guerra di successione. In
prima fila il fratello minore, François Compaoré, testa calda e implicato, tra
l’altro, nell’assassinio del giornalista Norber Zongo.
Marco Bello
La lettera pastorale dei vescovi del Burkina Faso
L’avvenire pieno di pericoli
Basta con clanismo, clientelismo e corruzione. Il Burkina ha
bisogno di una maggiore redistribuzione di ricchezza, trasparenza ed etica. I
vescovi prendono la parola contro la polveriera sociale.
Il 15 luglio scorso, i 16 vescovi
del Burkina Faso pubblicano una lettera pastorale sulla situazione del paese.
Esplicita sul malgoverno, è una presa di posizione forte. Nel testo, i prelati,
espongono la loro preoccupazione per la situazione politico-sociale del paese e
per le tensioni e agitazioni che lasciano trasparire un «malessere della società
burkinabè». Facendo un’istantanea la lettera descrive una società profondamente
cambiata, in cui l’alfabetizzazione e le conoscenze sono raddoppiate (dal 16%
al 32%), con un maggiore accesso all’informazione, grazie alle nuove tecnologie
e una maggiore presa di coscienza delle donne. Ma la «frattura sociale» sta
aumentando, con la base della povertà che si allarga, mentre il potere politico
ed economico interessa un gruppo sempre più ristretto. La lettera denuncia la «Crisi
di valori» con il denaro diventato valore di riferimento, più importante della
famiglia, della nazione, di Dio. I giovani sono sempre più emarginati e
rigettano e sfiduciano chi governa. Il malcontento profondo e il sentimento di
ingiustizia sfocia in un aumento della violenza.
«In questo contesto di grande
povertà e bisogno essenziali di base non coperti, quali salute, educazione,
lavoro, casa, cibo, che valore aggiunto fornisce il Senato?» si chiedono i
vescovi. Secondo l’opposizione, la camera alta costerebbe allo stato tra i 5 e
7,5 milioni di euro all’anno. «Le istituzioni sono legittime se sono
socialmente utili», continuano i vescovi.
La denuncia al potere assume
termini forti: «clanismo, clientelismo, corruzione finanziaria», da sostituire
con «democrazia consensuale, consultativa e inclusiva», perché «una democrazia
senza valori etici si trasforma facilmente in totalitarismo dichiarato o
soione in dispotismo legale». Il documento porta la proposta della Chiesa: «Affinché
il Burkina Faso non diventi una polveriera sociale occorre ricercare la
giustizia sociale, operare per una trasformazione sociale e democratica
profonda promuovere i valori cardinali di solidarietà e sussidiarietà. Questa
deve essere la preoccupazione di chi governa». E le raccomandazioni: «Più equità
nella distribuzione della ricchezza, più trasparenza nella gestione degli
affari pubblici, più etica nei comportamenti sociali e politici».
Marco Bello
Mons Philippe Ouedraogo è stato creato cardinale da papa Francesco il 22 febbraio 2014.
Marco Bello