Santa Idelgarda di Bingen

Ildegarda nasce nell’estate del
1089 a Bermersheim, presso Alzey, nell’Assia-Renana in Germania, ultima di
dieci fratelli. Fin da bambina ha delle visioni che l’accompagneranno per tutta
la vita. A otto anni i suoi genitori, Ildeberto e Matilda di Vendersheim,
l’affidano al monastero di Disibodenberg, dove viene educata da Jutta di
Sponheim. A quindici anni emette la professione monastica e si avvia con
entusiasmo allo studio di opere patristiche e teologiche. Alla morte di suor
Jutta, intorno al 1136, Ildegarda le succede come magistra. Di salute
malferma, ma vigorosa nello spirito, si impegna a fondo per il rinnovamento
della vita religiosa del suo tempo e mantiene un intenso scambio epistolare con
personaggi di rilievo. Scrive inoltre trattati di filosofia e teologia, di
medicina, scienza e persino cosmologia; trova il tempo di comporre anche brani
musicali. Colpita da malattia nell’estate del 1179, Ildegarda si spegne in fama
di santità nel monastero del Rupertsberg, presso Bingen, il 17 settembre dello
stesso anno.

A essere sincero sono molto emozionato
nell’entrare in dialogo con una donna consacrata come te, una monaca
contemplativa, che durante la sua vita incise non poco nelle vicende ecclesiali
del suo tempo, in particolare nella sua terra, la Germania. Mi faccio forza
quindi, e ti chiedo di parlarci un po’ della tua vita.

Fin
dalla mia infanzia sono stata prescelta da Dio, che mi ha fatto dono di un
fenomeno molto particolare, ossia delle visioni celestiali che, data la mia
giovane età. Inizialmente non riuscivo a capire, ma in seguito pian piano
imparai a riconoscerle come doni del Signore affinché io mi dedicassi e
consacrassi totalmente a Lui.

I tuoi genitori come vivevano questo
fatto? Ne erano spaventati oppure tentavano di nascondere quello che tu stavi
vivendo per non suscitare troppo clamore attorno a te?

Certo
erano anche loro meravigliati di quello che mi succedeva, perciò all’età di
otto anni mi affidarono al monastero di Disibodenberg. Non appaia questo, a voi
modei, un gesto coercitivo. Ai miei tempi infatti era abbastanza normale che
sin da bambini si entrasse a far parte della comunità di un monastero. Del
resto, anche altre Sante entrarono in monastero in età piuttosto giovane, per
non dire adolescenziale.

Appartenente a una famiglia nobile e
affidata a una comunità monastica, fu abbastanza facile per te ricevere
un’istruzione di prim’ordine e nel contempo essere educata secondo le regole di
San Benedetto.

In
convento ebbi la fortuna di avere come Madre Maestra (Mater Magistra
come si diceva allora), Jutta di Sponheim, una nobile tedesca che si era
consacrata al Signore, dotata di un’intelligenza fuori dal comune e molto
addentro alle questioni teologiche, filosofiche di quel tempo. Fui presa sotto
la sua ala protettrice e grazie a lei ebbi un’istruzione di prim’ordine,
imparando ad accostarmi ai testi teologici e della nascente teologia scolastica
medioevale, che, data la presenza di personaggi di spicco miei contemporanei
come san Beardo e sant’Anselmo d’Aosta e influenze come quelle della scuola
di Chartres, cominciavano a circolare e a essere conosciuti nei circoli
accademici, nonché ovviamente in ambito religioso.

Ti piaceva studiare, addentrarti nei
meandri della Patristica e della teologia?

Molto,
in questa passione mi buttai a capofitto leggendo quasi tutti i testi dei santi
Padri in circolazione e i libri dell’enciclopedismo medioevale. Avevo una
particolare preferenza per san Dionigi l’Areopagita e il grande padre della
Chiesa, sant’Agostino di Ippona.

Con l’istruzione che hai avuto quindi non
ti deve essere costato molto scrivere anche ciò che sperimentavi durante le tue
visioni.

Di
certe cose ero piuttosto restia a parlare. Ma dopo i quarant’anni capii che i
doni che il Signore mi faceva dovevo condividerli con gli altri. Incominciai a
scrivere con particolare intensità tutto ciò che avveniva in me. Io non le
definivo visioni del cuore o della mente, ma, essendo visioni che prendevano tutto
il mio essere, fisico, psichico e spirituale, preferivo chiamarle: «Visioni
dell’anima».

Immagino che avendo tu acquisito una certa
notorietà per la santità di vita e per i trattati che hai scritto e che
cominciavano a circolare, molta gente ricorresse a te per avere dei consigli o
preziosi aiuti spirituali.

Sì.
Ma oltre a queste cose, cominciavano anche a chiamarmi a predicare nei villaggi
e nelle città. Del resto tutta la comunità civile e religiosa sentiva il
bisogno di una riforma morale del clero, dei monaci e del popolo. In questo
senso compii diversi viaggi pastorali e predicai nelle cattedrali di Colonia,
di Treviri, di Liegi, di Magonza, di Metz e di altre città.

Beh, per l’immagine che abbiamo noi del
Medioevo: quella di un’epoca triste e buia, sapere di una donna – sia pure
monaca – che predicava alla gente e al clero nelle cattedrali delle città
tedesche provoca un certo effetto.

Qualcuno
pensa che questo mio modo di fare sia l’antesignano del femminismo come lo
conoscete voi. In realtà il ruolo della donna nella Chiesa è sempre stato un
ruolo importante, anche se ha compiti diversi da quelli degli uomini. Inoltre,
all’interno dei nostri monasteri e dei nostri conventi, si provvedeva a
eleggere democraticamente i superiori, una cosa che neanche la società civile
medioevale riusciva a concepire. Questo per dire come bisogna smontare gli
stereotipi che, da un certo momento in poi, hanno fatto da padroni nella storia
della Chiesa.

Prova a sintetizzare la specificità della
tua predicazione e delle tue riflessioni teologiche che avevano tanto successo
e che ti ponevano ben al di sopra di tanti eruditi del tempo?

Cercavo
di manifestare la straordinaria armonia che esiste tra la Parola di Dio, la
dottrina cristiana che ne consegue e la vita quotidiana. Per capire sempre
meglio e sempre di più qual era il disegno che il Signore aveva su di me,
approfondivo le radici bibliche, liturgiche e patristiche alla luce della
Regola di san Benedetto, dando così origine e consistenza a una riflessione che
incideva sia nella prassi del popolo cristiano, che nella vita dei consacrati.
In questo modo, la pratica dell’obbedienza alla regola di vita del nostro
grande fondatore, san Benedetto da Norcia, faceva sì che la semplicità
dell’esistenza, l’ospitalità e la carità verso gli altri, fossero vissute come
una totale imitazione di Cristo. Proprio attraverso questa testimonianza si
riesce a lasciare traccia del mistero di Dio che agisce nella nostra vita.

Immagino che la considerazione culturale
che ti eri conquistata e la tua fama di santità abbiano richiamato discepoli –
o meglio, discepole – che volevano vivere la vita comunitaria accanto a una
persona così straordinaria, benedetta dal Signore con grazie particolari.

Quella
fu una stagione meravigliosa, le sorelle cominciarono ad arrivare e a un certo
punto diventammo così numerose che intorno al 1150 fondammo un monastero sul
colle chiamato Rupertsberg, nei pressi di Bingen, dove mi trasferii insieme a
diverse consorelle. Nel 1165, ne istituii un altro a Eibingen, sulla riva
opposta del Reno. In entrambi i monasteri fui nominata badessa, ma la mia
preoccupazione principale fu quella di curare sempre il bene spirituale e
materiale delle consorelle, che sentivo ormai figlie mie, favorendo in modo
particolare l’armonia della vita comunitaria, l’istruzione delle persone e una
pratica liturgica sempre accurata. Nei nostri monasteri davamo rilievo
all’ospitalità: accogliere cioè chi ricercava un luogo per riposare, pregare,
istruirsi e stare un po’ di tempo insieme al Signore.

Durante la tua vita sei entrata in
contatto con personaggi illustri del tuo tempo, ce ne vuoi parlare?

Ebbi
uno scambio di lettere con l’imperatore Federico Barbarossa, con il conte
Filippo d’Alsazia, con san Beardo di Chiaravalle e con il Papa Eugenio III.
L’imperatore Federico Barbarossa si pavoneggiava un po’ dicendo che lui era il
mio protettore, ma quando si schierò contro il Papa Alessandro III, nominando
ben due antipapi, io e Beardo da Chiaravalle gli scrivemmo una lettera di
fuoco per aiutarlo a riconsiderare la cosa. Devo dire che Federico accettò il
nostro richiamo e non intraprese nessuna iniziativa punitiva nei nostri
confronti.

Se non vado errato, ti sei occupata oltre
che di teologia, di politica, ecc., anche di scienza e di medicina.

Beh,
con le conoscenze del tempo, più che di scienza e di medicina, badavo al
rapporto che l’uomo, con le sue emozioni e con la sua razionalità, può avere
con la natura, perché questa è una preziosa alleata quando si tratta di guarire
dalle malattie. C’è un’energia vitale tra la creatura e il creato che sfugge a
un’esperienza empirica, ma che è profondamente vera e autentica in una
dimensione spirituale. Il rapporto, infatti, tra la persona e l’universo, è un
rapporto fondamentale che Dio stesso ha voluto. Bisogna aver cura quindi di ciò
che ci circonda. Il nostro pianeta, se trattato bene, saprà ridare il centuplo
all’uomo che ha nei suoi confronti un’attenzione tutta particolare.

Cara sant’Ildegarda, pur essendo tu una
figura di spicco del XII secolo, sei più modea di tanti nostri contemporanei.

Il
Signore, nella sua divina sapienza e benevolenza, fa in modo che le persone
considerate punti di riferimento per la loro vita cristallina non siano
soltanto ammirate da chi vive durante la loro epoca, ma siano esempio per ogni
tempo.

Sant’Ildegarda
di Bingen morì il 17 settembre 1179. Fu proclamata Santa a furor di popolo
quasi subito. Papa Giovanni Paolo II nella ricorrenza dell’ottocentesimo
anniversario della sua morte, la definì «la profetessa della Germania», una
donna «che non esitò ad uscire dal convento per incontrare, intrepida
interlocutrice, vescovi, autorità civili, e lo stesso imperatore Federico
Barbarossa». Alla santità del genio di Ildegarda, Papa Wojtyla fa cenno
nell’Enciclica sulla dignità femminile, Mulieris Dignitatem. Nel maggio
del 2012, Benedetto XVI l’ha proclamata Dottore della Chiesa.

 
Don Mario Bandera, Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Uno sviluppo a tutto biogas

Produrre energia pulita con prodotti, rifiuti e residui
biodegradabili locali, liberandosi progressivamente della dipendenza dai
combustibili fossili come il petrolio e dai conflitti a essi legati, e
diminuendo i costi per i cittadini e le aziende. Non si tratta di uno slogan
che descrive il sogno a occhi aperti di un manipolo di visionari, ma di una
realtà che va prendendo forma nella vita di milioni di persone, e che getta
tutto il suo peso sulla bilancia dei temi che decidono le consultazioni elettorali.

Le
fonti di energia rinnovabili hanno oggi un peso che era impensabile solo pochi
anni fa, se è vero che nelle recenti elezioni tedesche, che hanno confermato Angela
Merkel alla guida del paese, sono state uno dei temi caldi. Quel tipo di fonti è
responsabile di ben un quinto della produzione energetica della Germania.
L’ambizioso piano tedesco per abbandonare i combustibili fossili entro il 2050
si sta rivelando più costoso del previsto per i cittadini, che si sono trovati
un aumento di circa il venti per cento sulla quota della bolletta che va a
sostenere gli incentivi alle rinnovabili (da 5,3 a 6,5 centesimi di euro per
chilowattora).

Fra queste fonti rinnovabili ci sono le biomasse che la
Direttiva Europea 2009/28/CE definisce come «la frazione biodegradabile dei
prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura
(comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie
connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile
dei rifiuti industriali e urbani». Sottoponendo una biomassa a un processo di
digestione o fermentazione anaerobica (cioè in assenza di ossigeno) è possibile
produrre biogas, composto per circa il settanta per cento da metano, che può
essere usato per la combustione (cioè ad esempio per far funzionare un
fornello) oppure, attraverso un ulteriore passaggio in un cogeneratore,
trasformato in energia elettrica. Il digestato, cioè il sottoprodotto della
digestione, può essere utilizzato come fertilizzante. Oltre al metano, il
processo di digestione produce anidride carbonica (CO2); questo,
tuttavia, non ha effetti sul riscaldamento globale poiché quella quantità di
anidride carbonica sarebbe stata prodotta comunque dalla biomassa nel suo
naturale decomporsi.

Secondo il rapporto 2012 della Iea, l’agenzia
internazionale per l’energia fondata dall’Organizzazione per la Cooperazione e
lo sviluppo economico (Ocse), i biocombustibili, fra cui il biogas,
rappresentano a livello mondiale circa il dieci per cento della produzione
totale di energia. In Italia, secondo il rapporto 2013 dell’Osservatorio
Agroenergia, a fine 2012 erano 850 gli impianti di biogas in funzione, per un
fatturato complessivo di due miliardi e mezzo di euro e un potenziale di
produzione pari a 5,6 miliardi di metri cubi l’anno. L’Osservatorio ha
calcolato che «il biometano può arrivare a coprire fino al dieci per cento del
consumo lordo di energia (scenario di “crescita accelerata”) o circa il 5%
(scenario di “crescita moderata”) al 2020». Il Consorzio italiano biogas stima
in un miliardo e mezzo di euro il risparmio che deriverebbe dal non dover
comprare gas dall’estero e ricorda che l’industria italiana del biogas dà
attualmente lavoro a circa dodicimila addetti.

Sulla carta, quindi, quella delle biomasse è
un’opportunità da non perdere per ridurre la dipendenza italiana dal gas
importato, pari a circa settanta miliardi di metri cubi l’anno. La
realizzazione pratica, tuttavia, non si sta svolgendo senza intoppi. Da un
lato, infatti, ci sono casi di successo come quello di Bertiolo, in provincia
di Udine, dove il biogas è stato ribattezzato il «petrolio verde». L’impianto
della Greenway, società che riunisce dieci aziende agricole locali,
produce oltre ottomila megawattora di elettricità in dodici mesi e ha creato un
giro d’affari di circa un milione di euro all’anno. La filiera corta, cioè
basata su operatori che agiscono in un territorio circoscritto e in contatto diretto
fra loro, è indicata dai produttori come una condizione imprescindibile per il
successo dell’iniziativa: i produttori, infatti, ricavano da circa trecento
ettari di coltivazioni locali tutta la materia prima necessaria per far
funzionare l’impianto, senza spese aggiuntive per trasporti delle materie prime
e creando un indotto importante per i piccoli paesi della zona.

Ma accanto a casi virtuosi come quello friulano, ce ne
sono altri nei quali la situazione non è così rosea: a Ponte Guerro, in
provincia di Modena, i cittadini hanno ingaggiato una lunga battaglia con Hera,
il gestore dell’impianto di biogas, esasperati dai miasmi prodotti dalla
centrale locale; il Centro Documentazione Conflitti Ambientali, nell’ambito
della campagna Green Lies (Bugie Verdi) che indaga i lati oscuri della green
economy
ha poi raccolto in un documentario le testimonianze dei cittadini
di Bondeno (Ferrara) e Mezzolara (Bologna) dai quali emerge che l’alimentazione
degli impianti a biogas previsti dal piano energetico regionale richiederebbero
seicentomila ettari di mais coltivati localmente e il conseguente
sconvolgimento dell’uso tradizionale dei terreni agricoli del ferrarese e del
bolognese.

Il documentario segnala inoltre «mancanza totale di
coinvolgimento e corretta informazione dei cittadini (…); piani di sviluppo
lontani dalle necessità e dall’esigenza dei territori e dei cittadini che lo
abitano; sistemi di incentivi sregolati che non permettono lo sviluppo graduale
e sostenibile di nuove economie locali a medio e lungo termine; assenza di
reali e efficienti misure di valutazione dei progetti, di controllo degli
impianti e del trattamento dei residui pericolosi e di future misure di
bonifiche; mancanza di conoscenza e curiosità tecnica da parte dei decisori che
avallano progetti inadatti».

Infine va considerato lo stravolgimento dei prezzi di
mercato nei casi di siccità (come è successo nel 2012) e, quindi, di scarsa
produzione, perché il bisogno di biomasse assorbe anche il prodotto vergine
destinato all’alimentazione animale e umana.

In assenza di una regolamentazione chiara e univoca e
guardando al biogas nella sola ottica del business, insomma, il rischio è
quello di trasformare una possibile occasione di crescita economica in
un’attività che danneggia il territorio. L’Energy & Strategy Group
del Politecnico di Milano, proprio partendo dall’analisi di questi rischi, ha
raccomandato di tornare al principio del chilometro zero: piccoli impianti
sostenibili alimentati da scarti agricoli e forestali locali e non da biomasse
vergini, cioè da prodotti coltivati ex-novo con lo scopo di essere
utilizzati per la produzione di biogas.

Il biogas nel Sud del mondo

Il biogas sta rivelandosi una novità dai risvolti
potenzialmente decisivi anche per le economie del Sud del mondo. Si
moltiplicano, anno dopo anno, i progetti sostenuti dalle istituzioni
inteazionali e dalle Ong con l’obiettivo di rispondere alla crescente domanda
di energia dei paesi in via di sviluppo, e diversi rapporti illustrano i
vantaggi di cui beneficia chi si è lanciato nella nuova avventura del biogas.
La Thomas Reuters Foundation riporta il caso di Parshottambhai Shanabhai
Patel, un contadino dello Stato di Gujarat, nell’India nord-occidentale, che
dal 2009 produce biogas grazie al quale fa funzionare il suo impianto di
irrigazione. Con duecento chili al giorno di letame delle sue vacche riesce a
produrre energia per otto – dieci ore e non deve più affrontare il costo, pari
a quattrocento euro l’anno, per il gasolio che alimentava la pompa. Inoltre,
soddisfatti i bisogni della propria fattoria, Patel può vendere l’energia in
avanzo agli altri coltivatori per sessanta rupie (circa un dollaro) all’ora.

Il Christian Science Monitor illustra poi
l’esempio della scuola di Gachoire, nel Kenya centrale, dove le acque reflue
delle latrine usate dagli oltre ottocento ragazzi della scuola vengono
convogliate nel digestore e convertite in gas per i fornelli della cucina. E
ancora, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), gli
scarti di un mattatornio a Dagoretti e la raccolta dei rifiuti a Kibera (due slums
di Nairobi) permettono di soddisfare, rispettivamente, il fabbisogno energetico
per il funzionamento del mattatornio e il fornello comunitario. I benefici per
l’ambiente derivano ovviamente anche dal fatto che i rifiuti animali del
macello non finiscono più nel vicino fiume (che era stato ribattezzato «il
fiume di sangue») e che la raccolta di rifiuti ha migliorato la salubrità del
quartiere.

Energypedia,
l’enciclopedia dell’energia avviata fra gli altri dall’agenzia di cooperazione
internazionale tedesca (Giz – Gesellschaft für Inteationale Zusammenarbeit),
riporta che il consumo energetico kenyano viene soddisfatto per oltre due terzi
dalla legna da ardere e dalla carbonella; la richiesta di legna sarebbe pari a
trentacinque milioni di tonnellate annue e rimane inevasa per oltre la metà.
Con questi numeri, è evidente che il rischio di deforestazione per il paese è
altissimo e il biogas può davvero rappresentare una svolta verso una soluzione
che impedisca la devastazione del patrimonio forestale del paese.

Mediamente, nei paesi in via di sviluppo, gli impianti
sono di piccole, se non piccolissime, dimensioni e vanno a sopperire alla
richiesta energetica di singole famiglie o comunità. Il rischio, nel Sud del
mondo come nel Nord, è quello delle speculazioni da parte di grandi produttori
industriali o società finanziarie.

Chiara
Giovetti

Progetto_____________________

La Fiamma di Natale

Quest’anno, la campagna di
Natale di Missioni Consolata Onlus si concentra su un tema
apparentemente poco natalizio: il biogas.

Questa volta abbiamo dato
un’interpretazione diversa del «regalare la vita» (lo slogan delle nostre
passate campagne): «preservare la vita che ci dà la Terra».

Su un pianeta che si sta
suicidando, utilizzando indiscriminatamente le risorse naturali a vantaggio di
pochi, l’attenzione per i temi dell’ambiente non può essere un lusso radical
chic
da occidentali ma un problema di tutti, ovunque. Un cittadino del Sud
del mondo ha diritto come chiunque altro a vivere in un ambiente pulito,
salubre, in un territorio non devastato da disastri ambientali provocati dalla
deforestazione e dall’inquinamento. L’energia, che permette di cucinare, di
pulire, di illuminare deve poter essere a disposizione di tutti.

Ecco perché quest’anno
abbiamo scelto di sostenere il progetto biogas di Familia ya Ufariji, a
Kahawa West, un quartiere della periferia di Nairobi.

Familia ya Ufariji
(Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di
strada fondata nel 1996 dai Missionari della Consolata. Oggi ospita sessanta
bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Da anni, Familia
ha avviato una serie di attività agricole che hanno il doppio risultato di
permettere alla struttura di contribuire al proprio mantenimento e ai ragazzi
ospitati di collaborare alle attività, apprendendo tecniche agricole che
permetteranno loro di avere una competenza professionale da utilizzare per il
proprio sostentamento.

Nella piccola fattoria di Familia
ci sono attualmente sei vacche e tre vitelli che possono fornire letame per far
funzionare un impianto per la produzione di biogas. Il gas prodotto sarà
utilizzato per integrare ed eventualmente sostituire la legna, il gas Gpl e gli
scarti del mais attualmente utilizzati per il fuoco della cucina. Un digestore
di ventiquattro metri cubi sarà sufficiente per fornire il gas a un fornello.

Padre Lorenzo Cometto e
fratel Kenneth Wekesa si occuperanno della realizzazione del progetto,
coadiuvati da tecnici locali specializzati per garantire che il piccolo
impianto sia costruito e messo in funzione nel rispetto delle norme di
sicurezza. Il costo del progetto è di 8.156 euro. Anche una piccola donazione
può servirci per acquistare le cistee, il cemento, i tubi e tutto il
materiale necessario alla realizzazione del digestore e alla sua messa in
funzione. (Chi. Gi.)

Maggiori informazioni sui dettagli del progetto sono
disponibili sul sito di Missioni Consolata Onlus:
www.missioniconsolataonlus.it

Chiara Giovetti




Lo Yom Kippur alla corte di Strasburgo

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 15
Un avvocato napoletano di religione ebraica vede rifiutata
la sua richiesta di rinvio di un’udienza per partecipare alla festa del Yom
Kippur. E ricorre alla Corte di Strasburgo (Cedu) per il mancato rispetto del
suo diritto di culto. Un caso emblematico della difficile ricerca di equilibrio
tra diritti in conflitto. E del ruolo fondamentale che la Corte svolge nella
costruzione di una comune coscienza civile in Europa, anche sul tema della
libertà di religione. Prendendo in esame le sentenze della Cedu, possiamo
comprendere se in Europa esiste un problema di libertà religiosa e di pensiero
e, quindi, di laicità dello stato.

La Corte europea dei diritti
dell’uomo (Cedu) ha il compito di decidere se nei paesi che fanno parte del
Consiglio d’Europa e dell’Unione europea viene violata la libertà religiosa,
oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il pluralismo
religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i principi
costitutivi dell’Europa. La Cedu è sorta nel 1959 sulla base della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
.
Chiunque ritenga che tali diritti non siano stati rispettati, si può appellare
a essa. Per i casi riguardanti la libertà religiosa l’articolo della
Convenzione europea a cui fare riferimento è il numero 9 sulla libertà di
pensiero, di coscienza, di religione e di manifestare la propria fede o le
proprie convinzioni.

Costruire una comune coscienza civile europea

A livello europeo le sentenze della Cedu sono molto importanti, al
di là di quanto affermano le singole Costituzioni nazionali (le quali, essendo
tutte democratiche, riconoscono esse stesse in linea di principio le medesime
libertà). Se infatti, all’interno di un singolo paese europeo i diritti e le
libertà fondamentali venissero, per qualsiasi motivo, violati, la Cedu può
riconoscerlo grazie al suo ruolo di giudice di ultima istanza.

È per questo che la Corte svolge il fondamentale compito di
contribuire alla costruzione in Europa di una comune coscienza civile, quindi
anche riguardo alla libertà di religione.

Tra Yom Kippur e lavoro

Analizzando le sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo ci
troviamo di fronte a casi emblematici che mostrano, spesso, quanto sia
difficile trovare l’equilibrio giusto tra diversi diritti: ad esempio il
diritto di culto di un avvocato e il diritto di altre persone alla durata
ragionevole di un processo.

È il caso della sentenza emessa dalla Corte il 3 aprile 2012 che
vedeva l’avvocato napoletano di religione ebraica Francesco Sessa in
contrapposizione al governo italiano per la presunta violazione del suo diritto
di culto.

Il 7 giugno 2005 l’avvocato Sessa si presenta al giudice delle
indagini preliminari (Gip) di Forlì in rappresentanza di uno dei due querelanti
in una causa penale contro diverse banche. Il Gip titolare non può presenziare
all’udienza, e il suo sostituto, per fissare l’udienza successiva, propone due
possibili date: il 13 o il 18 ottobre. Entrambe, tuttavia coincidono con feste
ebraiche: rispettivamente lo Yom Kippur e il Succot. L’avvocato di Napoli lo fà
presente. Osservante, membro della comunità ebraica della sua città, non potrà
partecipare all’udienza di rinvio. E chiede che venga indicata una data
diversa, appellandosi alla legge del 1989 che regola i rapporti tra lo stato
italiano e l’Unione delle comunità ebraiche. Ma il giudice non tiene conto
della richiesta, e fissa l’udienza per il 13 ottobre. Anche il Gip titolare
della causa, cui l’avvocato napoletano si rivolge immediatamente, respinge la
sua richiesta di rinviare la nuova udienza. L’interessato, allora, sporge
querela contro entrambi i giudici.

Diritti o «ragioni personali»?

Arriva frattanto l’udienza del 13 ottobre e l’avvocato non si
presenta. Il Gip lo dichiara assente per «ragioni personali» e, raccolto il
parere delle parti, rigetta la sua richiesta di rinvio perché non aveva motivi
legittimi per ottenerlo. L’avvocato napoletano fa ricorso contro tale
decisione. La causa, attraversati tutti i gradi di giudizio, termina il 15
febbraio del 2008, quando il Gip di Ancona, cui era alla fine pervenuta,
l’annulla sostenendo che nessun elemento dimostrava una violazione del diritto
dell’avvocato di esercitare liberamente il culto ebraico o un attentato alla
sua dignità in ragione della sua fede religiosa.

Cedu: ultima istanza

Sessa decide quindi di fare ricorso alla Cedu. Appellandosi all’art.
9 della Convenzione per i diritti dell’uomo, sostiene che l’aver fissato
l’udienza nel giorno di una festa ebraica gli ha impedito di partecipare
all’udienza attentando al suo diritto di manifestare liberamente la propria
religione. La legge del 1989, secondo lui, l’autorizzava ad assentarsi dal
lavoro in occasione di feste ebraiche, per poter esercitare il proprio culto.

Il governo italiano, contro cui l’appello alla Cedu è rivolto,
naturalmente è di parere contrario. E sostiene che il diritto invocato dall’avvocato
di Napoli non riveste carattere assoluto. Infatti la stessa legge che regola i
rapporti dello stato con l’Unione delle comunità ebraiche prevede espressamente
che le esigenze legate a servizi essenziali dello stato prevalgano sul diritto
dell’individuo a esercitare liberamente il proprio culto. E l’amministrazione
della giustizia costituisce certamente un servizio essenziale. Inoltre
l’avvocato avrebbe potuto farsi sostituire per quella particolare giornata da
un collega, e non l’ha fatto. Egli dunque ha rinunciato a conciliare gli
obblighi religiosi legati al suo culto con le esigenze della buona
amministrazione della giustizia.

Ribadire il diritto alla libertà religiosa…

Questa causa riveste un interesse particolare per il tema della
libertà religiosa nel nostro continente, perché la Corte europea dei diritti
umani deve confrontare il caso specifico dell’avvocato napoletano con i
principi fondamentali espressi nell’articolo 9 della Convenzione: la libertà
religiosa riguarda prima di tutto il «foro interiore» delle persone, ma implica
egualmente il diritto di manifestare la propria religione sia in modo
collettivo, in pubblico e assieme a chi condivide la stessa fede, sia
individualmente e in privato. La Corte sottolinea quindi che la libertà
religiosa non è una questione solo «interiore», soggettiva e individuale. Essa
non è un fatto «privato», come un certo «laicismo» di carattere «radicale»
pretende. Ha invece anche dimensione e rilievo pubblici. E solo tutelando
entrambe queste dimensioni si può parlare di libertà religiosa.

La Corte, da un lato, sostiene, in base a queste valutazioni, che
l’avvocato di Napoli aveva tutto il diritto di partecipare alle feste della sua
religione.

…puntualizzandone i limiti

Dall’altro lato, la stessa Corte afferma che tale diritto non è
assoluto. L’articolo 9, infatti non protegge qualsiasi atto ispirato a una
religione. E per chiarirlo ricorda altri due casi emblematici, su cui si era
espressa in precedenza. Il primo riguardava un agente di servizio pubblico,
Tuomo Konttinen, Finlandese, licenziato perché non aveva rispettato i suoi
orari di lavoro per la ragione che la Chiesa avventista del settimo giorno, a
cui egli apparteneva, vieta ai suoi fedeli di lavorare il venerdì dopo il
tramonto del sole. Il secondo si riferiva a un militare turco di nome Kalac
collocato d’ufficio in pensione per motivi disciplinari, perché manifestava
idee integraliste. In questi casi la Corte aveva ritenuto che non valesse
l’art. 9 perché le misure prese non erano motivate dalle idee religiose degli
interessati ma dagli obblighi contrattuali specifici che li legavano ai loro
datori di lavoro.

Anche nel caso dell’avvocato napoletano secondo la Corte non si è
verificata alcuna restrizione del suo diritto di esercitare liberamente il suo
culto. Infatti l’interessato aveva potuto svolgere i propri doveri religiosi.
Egli avrebbe dovuto invece soddisfare comunque i suoi doveri professionali
facendosi sostituire nell’udienza da un collega.

4 a 3: la delicatezza dell’equilibrio

La sostanza della sentenza della Corte va quindi contro Francesco
Sessa: non è stato un caso di violazione del suo diritto di religione.

All’interno della Corte la decisione non è stata facile da
prendere. Dei sette membri che la costituivano, tre hanno sostenuto che si era
verificata comunque una ingerenza nei diritti dell’interessato.

In una società democratica la possibilità di ingerenza è ammessa
dalla legge quando si tratta di proteggere i diritti e le libertà altrui. In
questo caso il diritto dell’avvocato napoletano era in conflitto con il diritto
delle persone coinvolte nel processo al quale Sessa avrebbe dovuto prender
parte a godere di una buona amministrazione della giustizia e a vedere
rispettato il principio della durata ragionevole del processo. Secondo i tre
membri della corte che davano «ragione» all’avvocato, tuttavia, l’ingerenza non
aveva risposto al criterio della proporzionalità, secondo cui tra i vari mezzi
che permettono di raggiungere lo scopo legittimo perseguito, le autorità devono
scegliere quello che lede meno i diritti e le libertà. Si doveva infatti
scegliere una soluzione che permettesse di conciliare sia i diritti di libertà
religiosa dell’avvocato di Napoli sia quello di buona amministrazione della
giustizia delle parti in causa, ad esempio organizzando in modo diverso il
calendario delle udienze. In quel caso, i disagi e i problemi provocati da tale
scelta avrebbero rappresentato un modico prezzo da pagare per il rispetto della
libertà di religione in una società multiculturale. In più, secondo loro, non
esisteva alcun motivo di urgenza, dato che non erano previste misure che
privassero qualcuno della libertà. Per questo, tre giudici su sette erano del
parere che fosse stata violata la libertà religiosa di Francesco Sessa.

Fatto sta che alla fine, nonostante i tre pareri a favore
dell’avvocato di fede ebraica, la sentenza della Corte gli ha invece dato
torto. Si può non essere d’accordo. Occorre tuttavia sottolineare l’importanza
dei principi affermati dalla Corte nella sua sentenza. Il fatto stesso che essa
abbia deciso a stretta maggioranza, dimostra quanto delicata sia la questione
del rispetto del diritto alla libertà religiosa, sia nella sfera privata sia in
quella collettiva e pubblica. Esso non è, come detto, un diritto assoluto, e la
sua limitazione – possibile esclusivamente per tutelare i diritti altrui – va
considerata con grande attenzione e prudenza. La libertà religiosa, come quella
di pensiero e di coscienza, è uno dei cardini fondamentali su cui si basa una
società autenticamente laica e pluralista.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Voglia di tenerezza

Tra i vari richiami di papa Benedetto XVI in riferimento
all’attuale situazione, ricordo quanto disse ai vescovi italiani: «In vaste
zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non
trova più alimento. Siamo davanti a una profonda crisi di fede, a una perdita
del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi.
Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità dell’impegno della Chiesa
intera ai nostri giorni».

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Fede non limitata all’aspetto dottrinale, ma fede come vita, preghiera, celebrazione, trasmissione ad altre persone. Chi incontra veramente il Signore sente il bisogno di comunicarlo ad altri. I primi annunciatori sono coloro che hanno avuto gli occhi e il cuore pieni della visione del Cristo Risorto, come i discepoli di Emmaus, che possono considerarsi i cristiani di oggi: dubitano, sono delusi, ascoltano magari distratti, camminano con lui, mangiano insieme, lo riconoscono, ne restano abbagliati e corrono a dirlo agli altri discepoli. Così Matteo, la Samaritana, la Maddalena e le donne che corrono al sepolcro. Tutti dicono: «Abbiamo visto il Signore». È così sempre, fino a oggi.

Il racconto del cieco Bartimeo indica un cammino di fede: non si accontenta di correre da Gesù per essere risanato dalla sua cecità, ma rimane con lui, cammina sulla sua strada, lo segue, percorre il suo stesso cammino: «Getta via il mantello e balza in piedi» (Mc 10, 46-52).

Il problema grave del nostro tempo è che chi è stato avviato alla fede a volte si ferma, rimane a una fede bambina, del tempo del catechismo. O, peggio ancora, ritorna indietro, i suoi genitori non l’hanno fatto battezzare, rinviando tutto al solito ritornello che cioè toccherà a lui decidere quando sarà adulto, senza nessuna educazione religiosa (eppure è sempre prevista una educazione civile e umana). Magari sta alla porta della Chiesa, ma non vi entra, come dissero qualche anno fa i nostri vescovi, che sono ben consapevoli di questo fatto. Tuttavia, come scriveva Giovanni Paolo II all’inizio del nuovo millennio, anche le persone «del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai cristiani non solo di parlare a loro di Cristo, ma in certo senso di farlo vedere» (Novo millennio ineunte, 16).

Ci è di esempio e ci incoraggia in modo molto umano e sorridente la testimonianza di papa Francesco, la quale è chiaramente fondata sulla riscoperta dei contenuti veri della fede, perché diventi sempre più viva, solida e in crescita, essere «testimoni credibili e giorniosi del Signore risorto, capaci di indicare alle tante persone in ricerca la porta della fede» (Nota Pastorale per l’Anno della Fede). Senza gioia non si comunica nulla, non si dona nulla, ma si rifiuta qualsiasi dono, anche il più bello e il più costoso.

Impegno nuovo

È questo, per molti aspetti, un impegno nuovo chiesto ai cristiani di oggi. Perché? Cosa c’è di tanto nuovo nel nostro mondo da costringerci a cercare una nuova via di comunicazione della fede? In che senso è così diverso il mondo di oggi da quello di ieri, di non tanto tempo fa?

La prima novità è la cosiddetta globalizzazione. Messaggi di posta elettronica entrano a fiotti ormai nelle nostre case, e il mondo giovanile ne è affascinato. La crisi economica, e soprattutto culturale e religiosa, circola ovunque. Non abbiamo più nessuna identità, se non quella che ci offrono i massmedia, che danno di tutto ma un po’ di tutto, soprattutto una certa mentalità circa la politica, la famiglia, il mondo e le sue pazzie (che ci rendono sempre meno ottimisti e più depressi e ci mandano in tilt).

Viviamo in un villaggio globale, dove si parla di tutto nel bene e nel male. Praticamente nessun luogo dista più di un giorno di viaggio. Forse il frutto peculiare della globalizzazione è nel non sapere dove noi e il mondo stiamo andando. In quale direzione vada la nostra storia e la nostra società. Oggi si parla di un «mondo che cambia» (A. Giddens), di «modeità liquida» (Zygmunt Bauman) nel senso che tutto è relativo, che tutto è accettabile; che come l’acqua ci infiliamo dappertutto senza meta fino a impantanarci. Il guru di Tony Blair, Antony Giddens, lo chiama «mondo inafferrabile». La storia sembra ormai al di fuori del nostro controllo. La nostra mente non è più in grado di cogliere tutto, di capire tutto quanto avviene attorno a noi (pensate al telefonino, a Google, a Facebook, a Twitter, a Youtube, e ai milioni e milioni che li usano), come avveniva un tempo non molto lontano nel nostro villaggio, in cui in fondo si condivideva la direzione verso la quale si andava. I socialnetwork rendono davvero globale l’accesso alla cultura, che diventa comunicazione di massa, su vasta scala, che da one to many (da uno a molti) diventa una comunicazione da many to many (da molti a molti).

Nel mondo passato i rischi del vivere erano certo molti: epidemie, cattivi raccolti, tempeste, siccità, invasioni di popoli stranieri. Tuttavia erano rischi in gran parte estei a noi, fuori controllo. Oggi abbiamo inventato nuovi rischi, quelli derivati dalla nostra civiltà: surriscaldamento globale, sovrappopolamento, inquinamento, instabilità dei mercati finanziari (contro cui papa Francesco si è pronunciato come causa della crisi e dell’aumento della forbice della povertà mondiale, invitando il 16 maggio 2013 gli Ambasciatori non residenti presso la Santa Sede a farsi governare non dall’idolatria del denaro, ma dall’etica e dalla solidarietà per non ridurre l’uomo a mero bene di consumo).

Sapienza e ottimismo

Di fronte a questo mondo in fuga, quello che i cristiani possono offrire non è conoscenza, ma sapienza e ottimismo, la sapienza della destinazione ultima dell’umanità, la meta del Regno di Dio per noi indicato da Gesù. Senza meta non si va avanti. E il mondo globalizzato, pur ricco di conoscenza e informazione, è scarso di sapienza, quella dell’ultimo destino e del valore della vita. La sapienza del fine e della fine cui siamo chiamati ci libera dall’ansietà e dalla paura. Il fine è il regno di Dio, Gesù Cristo è stato colui che ce ne ha parlato. Importante in questo frangente mettere al centro Gesù Cristo, il suo messaggio, la sua parola, le sue scelte, più che le istituzioni che ne sono derivate, sempre fallibili, perché umane (Ecclesia semper reformanda est, la Chiesa è sempre da riformare).

Nella lettera agli Efesini Paolo parla e invita a «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra» (Ef 1, 9-10). I cristiani sono un segno del Regno; per esserlo vale non ciò che si fa o si possiede, ma ciò che si è, ciò che sono io per me e per gli altri. Nell’essere non solo per me, ma anche per altre persone, io scopro una nuova identità. Non è facile, richiede fedeltà.

Dialogo e rispetto

Il mondo che cambia porta con sé anche molti cambiamenti nella vita religiosa, e per conseguenza nel nostro cristianesimo. Per prima cosa è inevitabile il confronto con altre religioni: scontro o dialogo? I cristiani sono invitati a scegliere il dialogo, pensando alla storia religiosa dell’Europa e del mondo intero che ha interpretato e vissuto questo incontro come lotta e guerra di religione, per far prevalere il proprio Dio, che è poi il Dio di tutti. È comunque inevitabile il confronto con una, due, tre e tante altre religioni o pseudo-religioni, presenti nel nostro mondo. Questo spiega i diversi cambiamenti di fede e religione che si verificano anche in Italia e l’innalzamento di templi di religioni diverse da quella che riteniamo la «nostra», come quelli dell’Islam (le moschee).

Il relativismo di cui parlava Benedetto XVI contagia ormai non poche coscienze, sempre più spaesate nell’attuale clima d’incertezza morale, economica e culturale. Il rischio è che questo clima porti a ritenere che non ci sia più nulla di valido nella nostra esistenza umana e religiosa, o, all’opposto, a guardare alla dimensione religiosa come a un rifugio con la conseguenza di una vita spirituale intimistica, al limite dell’integralismo. Ci rifugiamo in chiesa di fronte a questo nostro mondo che non capiamo più, che ci travolge e ci spaventa.

Domande nuove

Si aprono domande nuove che nessuno può ignorare, domande esistenziali, che nascono dall’esperienza dell’uomo e che reclamano risposte. Come per esempio quella della evoluzione umana, della sua complessità e del suo rapporto con la creazione biblica. L’uomo, «una scimmia nuda», l’uomo, «una scimmia intelligente». Definizioni come queste lasciano spazio a tutto quanto si vuole nel campo della vita e del suo valore, della biologia e della scienza: vecchiaia, clonazione, eutanasia, donazioni di organi...

Nel 2012 in Belgio ci sono stati 1492 casi di eutanasia. La tendenza a livellare l’uomo al piano animale o a elevare la scimmia a quello umano è ricorrente, e secondo alcuni troverebbe supporto nella teoria dell’evoluzione. Certo, la religiosità e la spiritualità dell’uomo non sono misurabili con metodi empirici o scientifici.

Inoltre la cultura assume una grande importanza nel rapporto dell’uomo con l’ambiente. Mediante la cultura l’uomo è in grado di modificarlo, di trasformarlo per renderlo adatto alle sue necessità, ma anche per distruggerlo. Non mancano scienziati che ritengono il pensiero un puro prodotto dell’attività cerebrale. Un pensiero e la coscienza si possono misurare e come?

Anche il rito viene ritenuto il lato debole della fede. Per questo il rito, la messa domenicale, può essere tranquillamente tralasciato come un involucro ingombrante. Non si riconosce più nel rito un momento incisivo della propria fede. Svincolato dal fondamento della fede, il rito è al massimo un fattore oamentale e non offre i veri contenuti della fede, come è per esempio la celebrazione della messa domenicale. La celebrazione domenicale e l’esperienza viva della fede ci permettono di iniziare a credere e vivere e crescere in una dimensione autentica di fede insieme a tutti i credenti. Non si è muti ed estranei spettatori, ma la liturgia chiede sempre una partecipazione attiva. La liturgia attualizza qui, oggi per noi, il mistero di Cristo fatto uomo. In essa Dio parla da uomo, parla la lingua dell’uomo, e a sua volta l’uomo parla a Dio nella sua lingua insieme a tutta la comunità cristiana.

Stereotipi

Scattano così le accuse contro la Chiesa: inquisizione, nemica della scienza, maschilista, vuole solo la sofferenza, i protestanti sono più modei, è contro il sesso. Sono questi alcuni stereotipi molto diffusi. Ad essi si devono aggiungere numerosi libri polemici contro il Vaticano: I segreti del Vaticano di Corrado Augias (Mondadori), o, l’ultimo, Vaticano massone di Giacomo Galeazzi e Ferruccio Finotti (Piemme). Ma è anche uscito ultimamente un libro dal titolo La grande meretrice a cura di Lucetta Scaraffìa, che chiarisce dal punto di vista storico alcuni di questi stereotipi (edito dalla Libreria Editrice Vaticana). Sono tanto diffusi e indiscussi, questi stereotipi, che chi li legge non tenta neppure un minimo controllo: «Sanno tutti che è così» e basta, senza discussione.

Quale risposta?

Come inserirsi da cristiani in questo mondo che cambia? Limitarsi ad aggiungere il volto di Cristo alla folla di volti che bombardano il nostro mondo, la nostra televisione e la nostra stampa, non è sufficiente. Potrebbe magari essere cosa buona, ma certo non sufficiente, se la Walt Disney trasformasse in cartoni animati i Vangeli. Molte chiese fanno pubblicità all’esterno dei loro edifici, con cartelli che recano espressioni evangeliche, in concorrenza con gli annunci pubblicitari. Può essere cosa ammirevole, ma imbarazzante vedere la propria fede messa all’asta.

La sfida è come possiamo comunicare la fede ai non credenti, a coloro che dubitano o sono scandalizzati da quanto accade nella Chiesa: pedofilia (perfino di un cardinale), la banca vaticana, lo sfarzo dei cardinali, la mediocrità di certi parroci, la predicazione che fa pena, il modo poco umano e poco cristiano di trattare chi è separato e risposato, e così via. Come però possiamo comunicare loro la bellezza della nostra fede? Come possiamo mostrare loro il volto di Dio, quello vero, quello dei Vangeli, quello di Gesù?

La bellezza del volto di Dio

Intanto, invece di maledire il buio è meglio accendere una candela. Il Vangelo colloca la bellezza del volto di Dio nell’amore e non altrove (per esempio nelle tante devozioni spesso devianti).

Il Medioevo è passato, ora la gente è più istruita e crede nella scienza e nella medicina più che nei miti del passato. Specialmente i giovani sono permeati da questo nuovo orientamento, ma come scriveva già Marco Fabio Quintiliano (35-95 d.C.): «I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere».

Ma non basta! Che cosa vuol dire la dimostrazione dell’amore di Dio per noi e tutta l’umanità? Dio si svela sulla croce come amore totale e unico, in un uomo morente e abbandonato! È una idea tanto scandalosa al punto da essere già messa in evidenza da Paolo con particolare vigore: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 23-24; Gal 5, 11). L’assoluta bellezza irresistibile di Dio splende nella sua povertà, nel suo abbassamento, nel suo essere servo per noi, nella lavanda dei piedi (ricordiamo papa Francesco nella Pasqua 2013). Dicono che a inventare il presepe sia stato Francesco d’Assisi, segno di Dio che per amore abbraccia la nostra povertà. Questa è la sfida nel villaggio globale, che è il nostro mondo: mostrare la bellezza di Dio povero e impotente.

Segni di risurrezione

Come mostrarla? Attraverso i nostri atti di trasformazione interiore, di cambiamento del cuore, come intendeva fare Gesù: cambiare il cuore dell’uomo in profondità. Lo dice ancora Paolo nella lettera ai Galati: «Siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri». Li aiuta in questo lo Spirito del Signore. «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge» (Gal 5, 13-23). In tal modo il cristiano raggiunge la vera libertà e di conseguenza la totale liberazione dal dominio della legge e del proprio egoismo. Sono questi i segni della Risurrezione che irrompe in noi e nel mondo globalizzato con gesti di liberazione e trasformazione.

Ildegarda di Bingen (1098-1179), una mistica tedesca del secolo XII, proclamata da Benedetto XVI Dottore della Chiesa (7 ottobre 2012), preferiva parlare non di croce ma di Risurrezione del Signore, come scoperta, come primavera, come nuova nascita, luce, risveglio, liberazione, come amore, speranza, riconciliazione, dono, fede (vedi pag. 79).

Voglia di tenerezza

Infine, il nostro cristianesimo è sovente accusato o almeno sospettato d’indottrinamento e di arroganza. In ogni caso la nostra società è profondamente scettica verso ogni certezza di verità. Succede anzi che la verità oggi è quello che ci fanno apparire sullo schermo. L’enciclica Fides et ratio del 1998 di Giovanni Paolo II afferma che «Si può definire l’essere umano… come colui che cerca la verità» (n. 28). L’oggetto della nostra verità, ossia della nostra fede, non sono le nostre parole o le nostre verità, ma è amare e conoscere Dio, o come diceva Galileo: la scienza insegna come vada il cielo non come si vada in cielo. Noi non possediamo la verità, né la padroneggiamo.

Di fronte alla scienza, alla ricerca, ma anche di fronte alla fede e alle affermazioni di altre religioni, dobbiamo mantenere una profonda umiltà. Proclamiamo un mistero, il mistero di Dio fatto uomo e non è facile spiegarlo nella sua realtà. Ognuno di noi non possiede tutta la verità; anch’io ho bisogno della verità degli altri. Sono un mendicante della verità, come tutti gli uomini di questo mondo. Dobbiamo perciò stare attenti al nostro facile chiacchiericcio sul Vangelo e sulla fede. Solo così possiamo distruggere le false immagini di Dio che potremmo essere tentati di adorare, e liberarci dalle trappole dell’ideologia e dell’arroganza circa la verità e la nostra fede, altrimenti anche noi rischiamo di cadere nel fondamentalismo religioso.

È la testimonianza dell’amore vissuto che conquista i cuori e la mente. Tu non credi; non preoccuparti, è Dio che crede in te. Non importa quante cose fai, ma quanto amore metti in ogni cosa che fai. «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili» (Rosario Levantino). Predicazione, catechesi, liturgie vengono dopo. Lo sottolinea papa Francesco: «Non siamo funzionari. Abbiamo tutti bisogno di tenerezza». Voglia di tenerezza è il titolo di un film del 1983 di T. L. Brooks.

Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




Pastori: non mollate il gregge

Parla monsignor Philippe Ouedraogo



Dalle stragi di Lampedusa all’integralismo islamico in
Africa. Dalla crisi di valori nella società burkinabè alle sfide della sua
Chiesa. Dall’impegno dei cattolici in politica alla formazione delle coscienze.
Colloquio con l’arcivescovo metropolitano di Ouagadougou.

Monsignor Philippe Ouedraogo è arcivescovo di Ouagadougou
dal 2010. Fin dal 1996 è stato vescovo di Ouahigouya, città nel Nord, a grande
maggioranza islamica. Lo incontriamo nel salone dell’arcivescovado, proprio
mentre nelle strade della capitale si festeggia la vittoria calcistica del
Burkina Faso sull’Algeria.

(Clicca sulla foto o sul simbolo per ascoltare l’intervista in francese su Youtube)

Monsignor Ouedraogo, come legge il dramma di Lampedusa?

«Oggi se si parla di Africa in Europa si parla di
Lampedusa. Un giornalista ha confrontato le migliaia di africani periti
nell’Atlantico a causa della tratta degli schiavi con i morti della migrazione
dall’Africa all’Europa. Forse è un po’ forzato come paragone. Le motivazioni
non sono le stesse e la situazione neppure.

Il Papa ha denunciato la mondializzazione
dell’indifferenza. In questo l’Europa è colpevole e ha anche delle
responsabilità: la colonizzazione, poi le indipendenze. Ora siamo in una
situazione catastrofica di povertà, di insicurezza a causa delle guerre, e
tutto questo contribuisce a far partire le persone. Ma noi, gli africani, cosa
abbiamo fatto per rendere vivibili i nostri stati? I responsabili si sono
riuniti ad Addis Abeba in questi giorni, hanno passato il tempo a parlare della
loro sicurezza, rispetto alla Corte penale internazionale, ma hanno trascurato
questo problema che è il più importante. Se i nostri governanti rubano, bisogna
giudicarli. L’autorità non è niente altro che un servizio. Se i dirigenti non
realizzano che sono in quella posizione per fare il bene del popolo, per il
bene comune, se saccheggiano le magre risorse, occorre giudicarli, a qualsiasi
livello.

Questa situazione di miseria che si perennizza, è sfida
enorme, e la responsabilità è grande sia a livello di chi governa sia della
popolazione. Bisogna lavorare, avere iniziativa, prendere il nostro destino in
mano. Dunque le responsabilità sono condivise».

Lo scorso luglio voi vescovi del Burkina Faso avete
scritto una lettera pastorale (box) critica nei confronti
dell’istituzione del Senato, voluto dal presidente. Una presa di posizione
coraggiosa.

«I vescovi sono dei pastori, dei servitori del popolo di
Dio. Se la situazione sociale, umana, sanitaria, alimentare, educativa, di sicurezza
della gente non interessasse noi pastori sarebbe una vera catastrofe. Abbiamo
una responsabilità comune e dobbiamo essere la voce dei senza voce. Siamo in
mezzo al popolo, siamo solidali con esso, abbiamo quotidianamente delle sfide
da affrontare, sulla povertà e sull’avvenire di questa gente. Siamo dei
cittadini come gli altri, e penso che abbiamo voce in capitolo. “Alla parola in
famiglia è convocato ogni membro della famiglia – diciamo in moore – al
lavoro della famiglia devono essere convocati tutti i membri della famiglia”,
compresi i vescovi: siamo anche noi membri della famiglia. Se la gente ci
rifiuta il diritto di parlare e vuole che stiamo confinati nelle nostre
sacrestie noi non siamo d’accordo, siamo qui e abbiamo una missione da compiere.
Abbiamo sottolineato che noi non abbiamo un ruolo politico, un ruolo
deliberativo, ma abbiamo un contributo da portare e teniamo a salvaguardare la
nostra neutralità e la nostra libertà per poter comunicare il Vangelo al
servizio di tutti gli uomini. È  per
questo che abbiamo preso la parola, perché ci sono quelli che non riescono a
farsi sentire, i poveri e i dannati della terra, gli analfabeti, chi vive in
campagna. Poi c’è la minoranza di coloro che vivono nell’agio e hanno tutto in
mano. Bisogna riequilibrare le cose, in modo che tutti abbiano, ognuno al
proprio livello, una parte irrinunciabile nel costruire il bene comune, a
cominciare dai responsabili».

Le parole di papa Francesco vanno un po’ in questo
senso. Hanno influenzato la vostra iniziativa?

«In Africa e in Burkina Faso siamo stati molto contenti
ed entusiasti dell’elezione di papa Francesco. Il fatto di essere un non
europeo è un segno molto forte. La Chiesa è universale, occorre un cambiamento
di mentalità, in particolare che i cristiani d’Europa cambino, a cominciare dal
Vaticano. E il papa ha centrato il problema. Qui abbiamo un’opzione pastorale
fondamentale: “Chiesa famiglia di Dio”. Il sinodo speciale per l’Africa del
1994 ha generalizzato questa opzione fondamentale per tutta la chiesa africana:
costruire la Chiesa famiglia di Dio attraverso le piccole comunità cristiane di
base. Siamo contenti che questo papa arrivi dall’altro lato del mondo e abbia
un’esperienza e una sensibilità particolare, che porterà qualcosa alla Chiesa.

Sono stato a Roma recentemente, ho partecipato
all’udienza del mercoledì, e sono anche andato ad Assisi e ho concelebrato con
il papa. Questo uomo è straordinario! Il fatto stesso che abbia scelto il nome
Francesco è un segno forte: riportare la Chiesa al Vangelo. Come dice Charles
de Foucault: “Se non viviamo il Vangelo, Gesù non vive in noi”. Costruire
insieme, come ha detto Bergoglio, una Chiesa al servizio, una Chiesa umile,
fratea. Io sono in profonda comunione con lui e quando l’ho potuto salutare all’udienza
gli ho detto: “Santo Padre noi vi amiamo”. E lui: “Pregate per me”».

Come è stata accolta la lettera pastorale nelle
parrocchie?

«La lettera è stata letta nelle chiese. Un uomo politico è
venuto da me a lamentarsi perché dopo la lettura la gente ha applaudito:
scandalo! “La Chiesa fa politica. Non mi ritrovo più in questa Chiesa”. Gli ho
detto: “Calmati, il prete ha letto la lettera, non ha chiesto alle persone di
applaudire. Voi organizzate le manifestazioni, e forse le persone vi
partecipano perché le pagate. Ma ci sono altre manifestazioni a cui la gente
partecipa senza essere pagata”. Questo significa che le persone si sono
ritrovate nelle parole della lettera.

Non tutti l’hanno apprezzata, i cristiani non hanno tutti
la stessa sensibilità politica. Alcuni sono furiosi contro il loro pastore: “Si
immischiano in cose che non li riguardano” pensano. Oppure: “Dovevano dare la
lettera a Blaise (Compaoré, presidente del Burkina Faso, ndr), senza
pubblicarla”. La Chiesa ha la sua maniera di lavorare. Noi vogliamo assumere il
nostro ruolo morale e spirituale, non politico. Per questo rifiutiamo di andare
all’Assemblea Nazionale a deliberare, ma se ci sono delle istanze di
concertazione, siamo disponibili. Sempre restando nella prospettiva della
dottrina sociale della Chiesa: la dignità della persona, il bene comune, la
solidarietà e il principio della sussidiarietà. La lettera va in questo senso.
I sacerdoti l’hanno accolta e l’hanno distribuita al popolo di Dio. La
parrocchia universitaria ne ha diffuso 20.000 copie. Non vogliamo l’unanimità
totale. Abbiamo alimentato il dibattito, la gente si interroga, e penso questo
possa contribuire alla maturazione politica.

Non abbiamo scritto la lettera per fare la lezione alle
altre confessioni. Abbiamo letto su Inteet: “Anche i musulmani e i
protestanti devono pronunciarsi”. Ma non abbiamo la stessa organizzazione o lo
stesso metodo di lavoro. Noi siamo in armonia con loro».

E qual è stata la reazione a livello del governo?

Sono stati piuttosto discreti. Mesi fa avevamo dato la
nostra posizione rispetto alla modifica dell’articolo 37 della Costituzione, e
loro hanno scritto contro di noi. Noi non abbiamo replicato. Ma questa volta
non ci sono stati scritti che ci attaccavano. Siamo stati convocati dal
presidente, al quale abbiamo spiegato il perché della lettera: non è per creare
problemi al paese, al contrario. Si può dare un’altra lettura, ma il nostro
obiettivo non è la sovversione, non è rovesciare Blaise, ma contribuire al bene
comune, alla pace e alla coesione sociale, che è una delle nostre ricchezze».

Ci sono esperienze di dialogo interreligioso a livello
nazionale o della sua diocesi?

«A livello della conferenza episcopale esiste una
commissione per il dialogo interreligioso, organizzata con gruppi nelle diocesi
e nelle parrocchie. Nell’arcidiocesi di Ouagadougou abbiamo una commissione
diocesana. In Vaticano c’è un Consiglio pontificio per il dialogo
interreligioso. Ogni anno produce una lettera rivolta ai musulmani, noi la
trasmettiamo ai nostri fratelli islamici che la leggono alla preghiera o
talvolta durante le feste.

In tutte le famiglie c’è una certa tolleranza. I legami
di sangue sono più forti dei legami di religione. Inoltre ci sono dei matrimoni
interetnici e questa è una fortuna per noi e in Burkina Faso non abbiamo
problemi. Nella mia famiglia la maggioranza è musulmana, poi ci sono cristiani,
e chi segue la religione tradizionale. Ci ritroviamo per gli avvenimenti felici
e tristi. A Natale i cristiani offrono da mangiare ai musulmani, e viceversa
per le feste islamiche.

In questi ultimi anni vediamo crescere un certo
integralismo, ma è davvero recente e noi lottiamo per salvaguardare la
tolleranza tra differenti comunità religiose ed etnico culturali.

Da parte mia tentiamo di avere relazioni fratee:
conoscersi, stimarsi reciprocamente. I musulmani non sono indifferenti a
questo.

Ogni anno durante la festa islamica della Tabaski vado
alla preghiera alla grande piazza della Nazione. Tra Natale e Capodanno il
presidente della comunità musulmana, il grande imam e una decina di imam
sono venuti qui a salutarmi. Questo ha provocato la reazione di alcuni giovani
integralisti, che sono andati ad assediare il grande imam per chiedergli
conto della sua visita all’arcivescovo. Chi c’è dietro a questi giovani? Ma
capi religiosi hanno scritto una lettera molto chiara nel senso del dialogo
interreligioso e noi andiamo nello stesso senso, perché è un’opzione della
Chiesa. Gli integralisti hanno
mandato a dirmi di non andare più alle feste islamiche. Ma io ci andrò a causa
di Gesù. È un po’ come diceva Martin Luther King per l’apartheid: “Voi
potete umiliarci e gettarci in prigione, ucciderci, ma non potrete mai
impedirci di amarvi”. Questa è la forza del Vangelo: la forza di amarsi.

Esiste un documento del Consiglio pontificio, “Dialogo
ed evangelizzazione”. Non si tratta di proselitismo, ma non ci dimentichiamo
che abbiamo anche noi un messaggio da proporre».

Nei paesi confinanti, Mali e Niger, c’è la guerra e il
pericolo Al Qaeda.

«I contesti sono simili ma diversi. Ad esempio la
proporzione di musulmani è molto più elevata in Mali e Niger. In Niger 95%, in
Mali 90%. In Burkina le statistiche ufficiali dicono che ci sarebbe il 60% di
musulmani, il 19-20% di cattolici, 5% di protestanti e il resto di religioni
tradizionali. Ma non sappiamo come hanno fatto queste stime. Quel che è certo è
che non si deve dare troppa importanza a questi dati, altrimenti si rischia di
scivolare nel confronto etnico-religioso. Anche in Niger e a livello delle
famiglie c’è la stessa configurazione di solidarietà di qui anche se l’islam è
maggioritario. L’islam sub sahariano è diverso da quello dell’Africa del Nord,
dove nella stessa famiglia non si tollera la conversione, mentre qui si accetta
che l’altro sia differente, di un’altra religione».

Il Burkina può essere considerato una frontiera per
l’integralismo islamico?

«Ci rendiamo conto che l’equilibrio è fragile: quello
che succede nei paesi vicini potrebbe anche arrivare qui: al Qaeda, Ansar Dine,
Boko Haram (vedi MC novembre 2012). Anzi, è possibile che ci siano già.
Dobbiamo essere molto vigili e lavorare insieme a livello delle diverse
confessioni e delle autorità per promuovere una cultura di tolleranza, a
partire dalla scuola e anche dalle prediche. La reazione dei giovani agli
auguri degli imam per Natale ha avuto un risvolto positivo, perché ha
causato una presa di coscienza nei musulmani, e nelle prediche hanno parlato a
favore della tolleranza e contro l’integralismo.

Siamo di fronte a delle sfide importanti, non solo a
livello di Burkina, ma a livello mondiale. Occorre cornordinare gli sforzi di
tutti per una cultura di tolleranza, come direbbe papa Giovanni Paolo II: “La
civiltà dell’amore”. Se non arriviamo a rispettarci di più, amarci, vivere come
fratello e sorella, sarà una catastrofe. E in questo la Chiesa ha un ruolo
unico perché ha un messaggio insostituibile per il bene dell’umanità: il
Vangelo».

In Burkina Faso esiste una frattura sociale tra la città
e la campagna?

«Non sono scompartimenti stagni. C’è chi vive in città,
ma ha la mentalità rurale. Poi i legami famigliari sono tali per cui il
cittadino resta in osmosi permanente con i parenti in campagna. Un funzionario
non può isolarsi rispetto alla famiglia al villaggio.

Nonostante questo, ci sono problemi. Dovremmo fare di più
per accompagnare i giovani. C’è analfabetismo, ignoranza, Aids. Tutto questo ha
delle conseguenze nefaste per la vita dei giovani. Poi il problema della
mancanza di lavoro. Chi è in campagna è più stabile di chi vive in città e non
ha nulla da fare. La tentazione è il banditismo. Ci sono delle nuove povertà in
città alle quali dobbiamo far fronte. I mendicanti, i bambini di strada. Stiamo
cercando di organizzarci per queste situazioni che non troviamo in villaggio,
dove c’è più solidarietà famigliare. La Chiesa non è sempre attenta o
attrezzata. Ma se non è la Chiesa dei poveri non è la Chiesa di Gesù Cristo.
Dobbiamo avere occhi e cuore aperti e attenti a queste situazioni vissute da
una grande parte della nostra popolazione.

In campagna c’è una grande mancanza di servizi di base,
come l’acqua potabile. Ma ci sono famiglie in città che non possono avere il
loro pasto ogni giorno e l’acqua nei quartieri periferici non c’è. Occorre
vedere caso per caso».

I vescovi del Burkina parlano della necessità di una
trasformazione profonda della società. Qual è il ruolo della Chiesa?

«La scuola è il luogo della trasformazione della mentalità.
I media, la televisione: la gente vede immagini da tutto il mondo con le
antenne paraboliche. Come Chiesa cerchiamo di essere al servizio di una società,
con queste grandi sfide. Non abbiamo la pretesa di risolvere tutti i problemi,
ma vogliamo essere presenti, un po’ come il buon samaritano che ha pietà del
povero ferito al bordo della strada. Ci sono molte donne e uomini feriti al
bordo della strada, e cerchiamo di portare quello che possiamo. A livello di
scuole primarie, secondarie e università. Abbiamo due università cattoliche
(Ouagadougou e Bobo-Dioulasso) e un istituto superiore a Kaya. Nella sanità
abbiamo l’ospedale Paul VI che ha difficoltà, ma rende servizio alla
popolazione. Nelle parrocchie ci sono i comitati di salute per la visita dei
malati. Inoltre esistono molte associazioni parrocchiali per aiutare i meno
abbienti. Tutto questo è modesto e insufficiente rispetto all’ampiezza delle
sfide».

Come vede l’impegno dei cattolici in politica in Burkina
Faso?

«È complesso. Due anni fa ho fondato la parrocchia
dell’università. Ha il compito di seguire le scuole superiori, circa 100 sulle
300 di Ouaga, le scuole professionali e le università. Io credo nella pastorale
dei gruppi sociali, ovvero la pastorale tra pari. I medici sono organizzati con
i Camilliani, ci sono gli uomini d’affari cattolici, i banchieri, i
parlamentari e un’organizzazione parrocchiale che forma l’élite intellettuale
alla dottrina sociale. L’idea è di contribuire alla formazione dei decisori
della nostra società».

Perché parlate di giustizia, riconciliazione, pace?

«Il riferimento è al Sinodo per l’Africa del 2009.
Queste restano le grandi sfide per tutta l’Africa. Anche per il Burkina Faso:
abbiamo bisogno di una società più riconciliata, abbiamo la nostra storia, con
la rivoluzione, le ferite profonde, e non è sicuro che esse siano guarite. Se
c’è stata una reazione forte dei vescovi rispetto alla creazione del Senato è
per salvaguardare la pace sociale: se un’istituzione deve essere creata e far
scoppiare l’insieme della società, qual è il bene di questa istituzione? È una
priorità?».

Marco Bello
Burkina Faso: mosse politiche del presidente padrone

 
Rotta verso il 2015: tempi difficili

In sella da 26 anni Blaise Compaoré le studia tutte per
restare al potere. Adesso sta creando un Senato alle sue dipendenze. Ma il
popolo non ci sta. E le manifestazioni di piazza sfociano nella violenza.

Il Burkina Faso si prepara a giorni travagliati in vista
del 2015, anno delle elezioni presidenziali. In quella data, infatti «scadrà»
Blaise Compaoré, al potere indiscusso dal quel lontano 15 ottobre 1987, quando
fece assassinare il presidente Thomas Sankara e 12 suoi stretti collaboratori.
Blaise, così viene chiamato in Burkina, è passato indenne attraverso elezioni,
multipartitismo, assassinii politici eccellenti del suo regime (come quello del
giornalista Norbert Zongo, ucciso il 13 dicembre 1998), lotte intee del suo
partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), modifiche
costituzionali. Ed è proprio la Costituzione del 1991, modificata nel 2005, che
ha ridotto la durata della presidenza da 7 a 5 anni, e imposto il limite a due
mandati. Compaoré rieletto nel 2005 e 2010, sarebbe, il condizionale è
d’obbligo, al suo ultimo mandato. Ma da mesi ormai, il presidente e i suoi
lavorano per cambiare quel famoso articolo 37 della Costituzione, che limita i
mandati presidenziali.

L’ultima trovata è la creazione di un Senato, che
porterebbe il Parlamento a un sistema bicamerale (attualmente si basa
sull’Assemblea Nazionale di 111 membri). Creazione anacronistica, visto che in
altri paesi della regione, come in Senegal, il Senato è stato soppresso per
tagliare i costi della politica. Così il 21 maggio scorso i deputati hanno
approvato la legge sul Senato che sarà composto da 89 senatori, di cui 29
nominati direttamente dal presidente, 39 eletti o designati dalla collettività
territoriali e 21 indicati dalla società civile.

Il calcolo politico è chiaro: con un Senato sotto il suo
controllo, il Cdp avrebbe con tutta probabilità la maggioranza qualificata di
due terzi dei parlamentari per modificare l’articolo 37.

Ma i burkinabè, popolo mite e tollerante, questa volta
sembrano non essere d’accordo. L’idea del Senato manda in ebollizione la società
del paese. Diverse manifestazioni investono le strade della capitale
Ouagadougou e di altre città del paese, a maggio, giugno e luglio. Alcune, in
particolare condotte dagli studenti, sfociano in atti violenti come sequestro e
distruzione di vetture di passaggio,  e
chiedono le dimissioni di Blaise. I giovani, il 59,1% dei burkinabè è sotto i
20 anni, diventano la spina nel fianco del presidente.

E la Chiesa non sta a guardare: il 15 luglio i vescovi
del Burkina Faso, che già si erano espressi in passato contro la modifica
dell’articolo 37, diffondono una Lettera pastorale dai toni pacati ma fermi,
che critica le nuove mosse del potere (vedi box).

Usa e Francia vorrebbero mantenere il paese nella
stabilità, vista la turbolenza che ha investito tutta la regione da circa due
anni (guerra in Mali, attentati qaedisti in Niger, gruppi integralisti in
Nigeria, ecc.). C’è chi dice che anche Blaise voglia farsi da parte (e per lui
si cerca una posizione di prestigio in una organizzazione internazionale), ma
il suo partito non è pronto e si scatenerebbe una guerra di successione. In
prima fila il fratello minore, François Compaoré, testa calda e implicato, tra
l’altro, nell’assassinio del giornalista Norber Zongo.

Marco Bello


La lettera pastorale dei vescovi del Burkina Faso
L’avvenire pieno di pericoli

Basta con clanismo, clientelismo e corruzione. Il Burkina ha
bisogno di una maggiore redistribuzione di ricchezza, trasparenza ed etica. I
vescovi prendono la parola contro la polveriera sociale.

Il 15 luglio scorso, i 16 vescovi
del Burkina Faso pubblicano una lettera pastorale sulla situazione del paese.
Esplicita sul malgoverno, è una presa di posizione forte. Nel testo, i prelati,
espongono la loro preoccupazione per la situazione politico-sociale del paese e
per le tensioni e agitazioni che lasciano trasparire un «malessere della società
burkinabè». Facendo un’istantanea la lettera descrive una società profondamente
cambiata, in cui l’alfabetizzazione e le conoscenze sono raddoppiate (dal 16%
al 32%), con un maggiore accesso all’informazione, grazie alle nuove tecnologie
e una maggiore presa di coscienza delle donne. Ma la «frattura sociale» sta
aumentando, con la base della povertà che si allarga, mentre il potere politico
ed economico interessa un gruppo sempre più ristretto. La lettera denuncia la «Crisi
di valori» con il denaro diventato valore di riferimento, più importante della
famiglia, della nazione, di Dio. I giovani sono sempre più emarginati e
rigettano e sfiduciano chi governa. Il malcontento profondo e il sentimento di
ingiustizia sfocia in un aumento della violenza.

«In questo contesto di grande
povertà e bisogno essenziali di base non coperti, quali salute, educazione,
lavoro, casa, cibo, che valore aggiunto fornisce il Senato?» si chiedono i
vescovi. Secondo l’opposizione, la camera alta costerebbe allo stato tra i 5 e
7,5 milioni di euro all’anno. «Le istituzioni sono legittime se sono
socialmente utili», continuano i vescovi.

La denuncia al potere assume
termini forti: «clanismo, clientelismo, corruzione finanziaria», da sostituire
con «democrazia consensuale, consultativa e inclusiva», perché «una democrazia
senza valori etici si trasforma facilmente in totalitarismo dichiarato o
soione in dispotismo legale». Il documento porta la proposta della Chiesa: «Affinché
il Burkina Faso non diventi una polveriera sociale occorre ricercare la
giustizia sociale, operare per una trasformazione sociale e democratica
profonda promuovere i valori cardinali di solidarietà e sussidiarietà. Questa
deve essere la preoccupazione di chi governa». E le raccomandazioni: «Più equità
nella distribuzione della ricchezza, più trasparenza nella gestione degli
affari pubblici, più etica nei comportamenti sociali e politici».

Marco Bello



Mons Philippe Ouedraogo è stato creato cardinale da papa Francesco il  22 febbraio 2014.

Marco Bello




Jampi Wasi, la casa della salute

Il diritto alla salute in Perù / 2:


A Lima, come in quasi tutte le metropoli del mondo, ci sono
le periferie delle periferie. A Corona, Pradera e in altri «insediamenti umani»
le persone arrivano dalle zone intee del Perù per cercare un nuovo inizio. Si
installano su una terra desertica, dove manca tutto. Vi trovano però anche
Gianni Vaccaro e Nancy Ortiz, una coppia che, attraverso una associazione solidale,
li aiuterà con servizi per la salute, l’educazione e il lavoro. Rifuggendo ogni
patealismo.

Tablada de Lurín. Il taxi cholo1 è scomodo,
traballante e rumorosissimo, ma per muoversi a Tablada – città di 60 mila
abitanti – è perfetto. Ci facciamo lasciare ai piedi del Cerro de las
conchitas
, la «Collina delle conchiglie», un nome poetico per un luogo che
poetico certamente non è. Percorreremo a piedi un paio di chilometri fino alla
sommità. La via è una ripida strada di sassi e sabbia che s’inerpica lungo la
collina. Le abitazioni sono abbarbicate sul pendio polveroso. La maggior parte
sono costruite con materiali poveri: tavole di legno di recupero, onduline di
eternit, cartoni, teloni di plastica, pareti di esteras2. Tuttavia,
oggi – sono ormai molti anni che frequentiamo questo luogo – un numero
crescente, benché ancora esiguo, di case (pur rimanendo molto umili) è in
mattoni, cemento e finestre dotate di vetri.

Corona Santa Rosa – questo il nome dell’insediamento
umano (asentamiento humano) – si è sviluppato sopra e sotto la strada
sterrata. Vi abitano oltre 1.500 persone, discendenti di quelle che, negli anni
Settanta3, invasero queste terre desertiche in cerca di
un’esistenza più dignitosa.

Nonostante i dati del Perù da anni evidenzino una
crescita economica importante, una parte rilevante della popolazione continua a
vivere in povertà, nell’interno del paese o in periferie come questa. Mancanza
di un lavoro stabile, cattiva alimentazione, assenza di controlli sanitari
regolari, violenza intrafamiliare, bambini e adolescenti che crescono senza una
normale istruzione scolastica, ragazze che rimangono incinte in età
adolescenziale, questi sono i principali problemi che ancora oggi affliggono la
popolazione.

CINQUE SOLES DI SALUTE

Le persone che incrociamo lungo la strada
salutano la nostra guida con un amichevole «professor Gianni…». Gianni
Vaccaro, sposato con Nancy Ortiz, quattro figli maschi, qui è una vera
istituzione. Nel settembre 2001 ha fondato l’Asociación de Desarrollo
Solidario Yachay Wasi
, un’associazione che a Corona si occupa di salute,
educazione, microcredito ed ecologia. Negli ultimi 13 anni la condizione degli
abitanti di Corona è migliorata soprattutto per merito suo. Oggi infatti essi
possono usufruire di un centro di salute, un centro educativo, un laboratorio
tessile e servizi altrimenti inimmaginabili in luoghi come questo.

Ecco la sede di Jampi Wasi, la «Casa della
salute». Il nome è in quechua, perché questa è la lingua madre della
maggior parte degli adulti. Ma esso serve anche a chi è nato qui e parla
soltanto spagnolo. «È un modo semplice – spiega Gianni – per ricordare alle
nuove generazioni la cultura di provenienza».

Un portone in ferro introduce in una stanza
che è un poliambulatorio in miniatura: c’è una piccola farmacia, un banco con
prodotti naturali e la reception dove si pagano, tra l’altro, i 5 soles4 della
visita (un costo dimezzato rispetto ai centri più economici). E poi ci sono due
stanze: in una si pratica l’agopuntura, nell’altra si fanno le visite.

Spiega Gianni: «A Villa María del Triunfo, il
distretto urbano di appartenenza, abbiamo solo un ospedale del ministero della
Salute e quindi un centro medico come il nostro è necessario per creare una
rete d’assistenza che possa filtrare i casi non gravissimi. Inoltre, noi
cerchiamo di lavorare molto per formare una cultura della salute in persone
che, per povertà e per ritrosia, vanno
in un centro medico soltanto se stanno estremamente male».

Le pareti sono piene di manifesti: per
riconoscere i farmaci contraffatti, per difendersi dal dengue, in favore
dell’allattamento al seno, per incentivare la donazione di sangue e altro
ancora. L’informazione serve per far crescere una cultura della salute e quindi
della prevenzione. 

Come il programma denominato Cred – «Crecimiento
y Desarrollo
» (crescita e sviluppo) -, dedicato a bambini da 0 a 5 anni per
prevenire eventuali problemi di salute. Spiega Gianni: «Controllando per tempo
psicomotricità, vista, udito, linguaggio, possiamo scoprire eventuali problemi
e curarli con maggiori possibilità di successo».  

Entriamo nell’ambulatorio di Luz Arevalo, una
medico giovane e timida con lunghi capelli neri e un bellissimo sorriso.
Scambiamo qualche parola, anche se le sottili pareti di compensato non agevolano
la conversazione. «Molti dei miei pazienti sono vicini di casa – racconta la
dottoressa -. Questo mi piace molto». Le chiediamo quali siano i problemi
principali che si trova ad affrontare. «Sono le patologie respiratorie. E poi
anemia e denutrizione, soprattutto con riferimento ai bambini». Domandiamo cosa
pensi di una sanità pubblica che è a pagamento o per persone assicurate. «Per
fortuna – ricorda Luz – esiste il Sis5, che offre cure mediche gratuite ai più
poveri. Certamente, se potessi fare una richiesta ai politici, direi loro che
sarebbe importante ampliare l’offerta medica nei confronti della popolazione.
Troppe persone non vedono mai un dottore». In Perú ci sono abbastanza medici,
ma mancano gli specialisti. Per questo Luz lascerà (temporaneamente) il centro
per dedicarsi agli studi specialistici. «Spero in chirurgia», ci dice al
momento dei saluti.

Adiacente alla prima, il centro medico
possiede una seconda, piccola sede, caratterizzata da scritte e disegni dai
colori sgargianti che vivacizzano un panorama generale dominato dal grigio.
Tramite i disegni si raccontano i diritti della persona e si mostra – con la
piramide alimentare – quale sia l’alimentazione più corretta per i bambini. Qui
vengono ospitati alcuni ambulatori e un piccolo laboratorio di analisi.

Il centro medico Jampi Wasi è frequentato da
una media di 450 persone al mese. «Ma in questo numero – precisa Gianni con una
punta di orgoglio – non sono incluse le persone raggiunte attraverso le nostre
campagne». Le campagne mediche sono visite che per un giorno, normalmente una
domenica, si offrono gratuitamente a tutta la popolazione, chiamando
specialisti in varie discipline (pediatria, ginecologia, nutrizione, ecc.).

Solidarietà, dignità, responsabilità 

Lasciamo le strutture di Jampi Wasi e ci
incamminiamo verso la sommità del Cerro de las conchitas, poche decine
di metri più in alto, dove l’associazione gestisce altre due strutture con
finalità diverse.

Nel piccolo laboratorio tessile di taglio e
cucito –Taller La Corona si chiama – lavorano una decina di signore del
posto. Progettano e confezionano maglie, tovaglie, borse. E soprattutto
insegnano ad altre una professione che non sia quella – consueta per gran parte
di queste donne – di venditrice ambulante.

Sul costone più alto della collina, al
termine della strada, c’è l’edificio delle attività educative: Yachay Wasi,
ancora un’espressione quechua per indicare la casa (wasi) del sapere,
della cultura, della saggezza (yachay). Ospita un frequentatissimo asilo e un
doposcuola per bambini e ragazzi delle scuole primarie e secondarie. Qui
lavorano 16 persone tra insegnanti ed educatori.

Come si paga tutto questo?, chiediamo,
scusandoci con Gianni per l’arida concretezza della domanda. «Siamo finanziati
– ci spiega – da strutture laiche (come alcune Ong italiane) e da alcune entità
religiose (come la Conferenza episcopale italiana). E poi ci sono gruppi di
amici che si autotassano mensilmente, a dispetto della crisi».  

Salute, lavoro, educazione: l’Associazione di
sviluppo solidale opera a 360 gradi, perché l’obiettivo – molto ambizioso – è
lo «sviluppo integrale della persona».

Cosa spinge una persona con moglie e figli a
dedicare la propria esistenza agli emarginati? Gianni Vaccaro, che ha una
giovinezza da seminarista, è molto legato alla teologia della liberazione (nata
proprio in Perú).

«Nel nostro lavoro la applichiamo con la
scelta preferenziale dei poveri, nella lotta contro una povertà ingiusta,
escludente, che uccide di morte lenta. Sono per una Chiesa dove la missione
religiosa non possa essere disgiunta dalla missione sociale urgente. Secondo
me, essa è chiamata a mettersi al lato dei deboli e degli oppressi, lottando –
appunto – per la loro liberazione. Se Giovanni Paolo II pensava l’appartenenza
cattolica come identità contro il comunismo, papa Francesco sembra voler
privilegiare la problematica sociale come contesto per l’evangelizzazione».

Nelle attività di aiuto ai meno fortunati il
pericolo si nasconde soprattutto nel patealismo, ma anche nella
sopravvalutazione di sentimenti quali la compassione e la carità. Gianni e
Nancy hanno evitato di cadere in questi errori agendo sempre nel solco di tre
concetti forti: solidarietà, dignità, responsabilità. Questa filosofia ha una
traduzione concreta: ogni struttura costruita dall’associazione di Gianni e
Nancy è proprietà dell’insediamento umano Corona Santa Rosa, entità
giuridicamente riconosciuta. Inoltre, la gestione delle stesse avviene in forma
comunitaria, coinvolgendo il personale e i dirigenti dell’asentamiento. «Soltanto
in questo modo – chiosa Gianni – i poveri possono assumere il ruolo di soggetto
attivo della trasformazione sociale».

Polvere e speranza

Siamo in cima alla collina pietrosa di
Corona. In lontananza, sul fondovalle, s’intravvede la grande fabbrica di cemento
(accusata di arrecare seri danni alla salute dei residenti)6. A destra,
sulle aride pendici si vedono le prime umili abitazioni di Pradera,
insediamento più giovane e più povero. Poco sotto di noi c’è un campetto di
cemento dove stanno giocando un gruppo di ragazzi. Un venticello rinfrescante
ma inevitabilmente polveroso (considerato che siamo in un deserto) porta
sollievo. Mentre la luce del tardo pomeriggio rende meno aspro il paesaggio
circostante.   

Paolo Moiola
Note
 1 – Mototaxi, si tratta di veicoli a tre ruote, tipo Piaggio Ape.
Vengono chiamati popolarmente «taxi cholo» perché sono usati soprattutto dai cholos, i migranti di origine
andina e amazzonica.
2 – Le esteras sono stuoie e canne di bambù intrecciate.
3 – In particolare negli anni 1968-1975, durante il governo di Juan
Velasco Alvarado.
4 – Un euro vale 3,7 soles (ottobre 2013).
5 – Sis, «Seguro integral de salud». Ne abbiamo parlato nella prima
puntata.
6 – Cementos Lima (gruppo Unacem). La fabbrica nega qualsiasi
inquinamento. Secondo il Copdes (www.copdes.org), l’inquinamento dell’aria
prodotto dall’attività è invece molto grave.

Tra pubblico e privato


L’ospedale è «nella» parrocchia

Quando lo stato è assente o troppo debole, quando le risorse
private sono insufficienti, per molte persone l’esistenza diventa ancora più
precaria. A Tablada de Lurín la locale parrocchia offre servizi – medici,
giuridici,

Tablada de Lurín.
Se non fosse per il nome che campeggia sul muro – Parroquia San Francisco de Asis (Parrocchia San Francesco d’Assisi) – , si potrebbe
pensare che l’edificio sia un centro civico che ospita una serie di servizi:
medici, giuridici, assistenziali. L’entrata della chiesa omonima si affaccia
sulla piazza, recentemente sistemata, di Tablada de Lurín, nella parte
conosciuta come «zona antica». I molteplici uffici si trovano invece sulla via
laterale. A guidare la parrocchia è padre Stuart Flores, ma il lavoro è portato
avanti da laici e volontari, soprattutto donne. Come Ines Villanueva che
indossa una maglietta contro la violenza sulle donne, fenomeno molto diffuso: «Ferma
la mano – recita la scritta -. Il maschilismo uccide e maltratta la donna» (Para la mano. El machismo mata y maltrata a la mujer). O come Rosa Pajares che, entusiasta, ci vuole
mostrare il centro medico, di cui è cornordinatrice.

L’ingresso è poco appariscente,
segnalato da una piccola targa che ricorda soltanto gli orari di apertura. Ma
dietro quella porta si scopre – con sorpresa del cronista – un piccolo mondo
fatto di ambulatori, medici, infermieri e naturalmente di pazienti. Sulle
pareti ci sono una pluralità di manifesti che pubblicizzano le vaccinazioni per
i bambini, ma anche per gli adulti: antipolio, antitetanica, quelle contro
epatite B, febbre gialla, morbillo, papilloma virus e altre ancora. Vicino alla
cassa, un avviso ricorda che le visite mediche costano 10 soles. Il centro
medico offre servizi di medicina generale, ostetricia, odontorniatria,
psicologia.

Rosa
ci apre le porte di alcuni ambulatori. Ecco le infermiere con un camice bianco
su cui è ricamato un San Francesco. Ecco il dentista che – impegnato su un
paziente – ci fa con la testa un segno di saluto.

Il
centro medico della parrocchia di San Francesco funziona e merita parole
d’elogio. Tuttavia, l’inadeguatezza, se non l’assenza, dello stato fanno
riflettere. Per troppi peruviani le cure mediche non sono un diritto acquisito
ma una conquista individuale da strappare ogni giorno. Con i denti, le unghie e
una buona dose di fortuna.

Paolo Moiola
 

Paolo Moiola




Natale, ancora Natale, ma quale Natale?

Potrebbe sembrare strano, eppure di Gesù, sul piano storico,
sappiamo poco, e quel poco che i vangeli riportano per noi è molto, anzi
tantissimo. I vangeli non sono «una storia di Gesù», ma una catechesi per chi
crede già in lui come Figlio di Dio e Messia. Di conseguenza i quattro libretti
sono un catechismo, originariamente predicato in forma orale dagli apostoli,
dai catechisti, dai predicatori e da chi aveva conosciuto Gesù (famiglia,
paesani, amici, ecc.). A distanza di 40-80 anni dalla sua morte, sono stati
messi per iscritto per due motivi: per conservare la memoria di quanto accaduto
e suscitare la fede in lui anche nelle generazioni future e per poterli usare
come «Scrittura» di compimento dell’Antico Testamento nell’Eucaristia delle
Chiese, ormai diffuse in tutto l’oriente fino a Roma.

Di
Gesù sappiamo …

Marco, il
primo degli evangelisti scrittori, non parla affatto della nascita di Gesù; in
compenso Giovanni, l’ultimo degli evangelisti scrittori, accenna all’eternità
del Lògos che per volere di Dio «s’incarna», cioè diventa uno di noi in un
preciso paese (Israele), in una determinata cultura (Giudaismo), in una
specifica religione (Ebraismo), in un tempo ben definito (fine del sec. I a.C.
e sec. I d.C.), nel cuore di specifici eventi (occupazione romana della
Palestina). Chi, invece, parla della nascita di Gesù in maniera esplicita, sono
i due evangelisti Matteo (capp. 1-2) e Luca (capp. 1-2), ma non dicono le stesse
cose perché hanno prospettive diverse e si rivolgono a comunità diverse.

Un elenco
schematico di ciò che sappiamo di Gesù, potrebbe essere il seguente:

• è nato
intorno al 6/7 a.C. (v. Box) da una ragazza-madre, appena adolescente,
di nome Miriàm/Maria;

• non si
conoscono il giorno, il mese e neanche le condizioni della nascita;

• è nato a
Betlemme, a sud d’Israele, patria di Davide da cui discende Giuseppe, il padre
legale di Gesù;

• è nato in
una zona periferica, considerata dalla religione «impura» perché abitata da
pastori;

• è stato
circonciso all’ottavo giorno dalla sua nascita ed e stato chiamato «Joshua-Gesù»
dopo 40 giorni;

• ha
trascorso la sua vita a Nàzaret, nel Nord della Palestina;

• a
compimento del 12° anno di età (inizio del 13°), nel tempio di Gerusalemme ha
celebrato il rito della «Bar-mitzvàh – Figlio del comandamento», che per gli
Ebrei è l’inizio della maggiore età (cf Lc 2,41-50);

• ha
predicato per la Palestina e anche fuori i confini per circa un anno, un anno e
mezzo, all’età di 34-35 anni;

• non
apparteneva alla casta sacerdotale, ma era un laico;

• si è
scontrato con il potere religioso e il potere politico che alla fine si sono
coalizzati e lo hanno fucciso, condannandolo a morte come «rivoluzionario»: il
Sinedrio ha emesso la sentenza di crocifissione e i Romani, nemici alleati per
l’occasione, l’hanno eseguita;

• è morto
all’età di circa 36 anni (30/33 d.C.?), la stessa età di Isacco quando fu
legato sul monte Moria per essere sacrificato (cf Gen 22,1-23);

• è risorto
da morte alle prime luci dell’alba del giorno dopo il sabato, dando inizio
all’avventura della nuova Alleanza;

• non ha
lasciato nulla di scritto, ma solo undici apostoli e altre apostole che inviò
nel mondo;

• il suo
insegnamento è stato raccolto in quattro vangeli che persone innamorate di lui
hanno scritto per i loro contemporanei e per noi che li ascoltiamo e vogliamo
tramandare a chi verrà dopo di noi.

Nota storica
sulla data di Natale

Nei sec. II-III dell’èra
cristiana in tutto l’Oriente, alla data del 6 gennaio, si celebrava una festa
generica detta Epifania (manifestazione) che inglobava tre memoriali: Natale
(manifestazione agli Ebrei), Magi (manifestazione ai Pagani) e Sposalizio di
Cana (manifestazione nel segno dell’alleanza universale). In Spagna nel sec. IV
si celebrava il Festum Nativitatis Domini Nostri Jesu Christi. San
Giovanni Crisostomo (345 ca.-407) in un’omelia sul Natale, pronunciata nel 386,
dichiarava che nella chiesa di Antiochia già da dieci anni vi era l’uso di
celebrare la Nascita del Salvatore il 25 dicembre. Anche nella chiesa di Roma,
come in quella di Milano, fin dal 336 si celebrava il Dies natalis Domini
sempre al 25 dicembre, considerato il giorno genetliaco di Gesù. Papa Liberio
nel 354 scorporò la festa in due, assegnando Natale al 25 dicembre e l’Epifania
al 6 gennaio. Nella chiesa ortodossa e armena, invece, le due feste sono ancora
accorpate al 6 gennaio (cf Dictionnaire de Spiritualité, f.
LXXII-LXXIII, Paris 1981, 385). I cristiani del Nord del mondo celebrano il
Natale in inverno, mentre i cristiani del Sud lo celebrano d’estate. Il 25
dicembre è una data convenzionale perché in relazione al 25 marzo, giorno in
cui, secondo la tradizione, nella casa di Nazaret l’Angelo annunciò a Maria il
concepimento di Gesù. Maria partorì il Figlio nove mesi dopo, cioè il 25
dicembre. è il Natale.

Il 25 dicembre è anche il
solstizio d’inverno, in cui si ha il giorno più corto dell’anno e la notte più
lunga. Sia in Oriente che a Roma questo giorno era dedicato al «dio Mitra»,
divinità di origine persiana, venerato come il «Sole Invitto». La festa,
centrata sul simbolismo della luce, ebbe una diffusione enorme nell’impero
romano tra i sec. I-III d.C., tanto che l’imperatore Diocleziano (284-305 d.C.)
dovette proclamare il dio-Mitra «sostegno del potere imperiale»,
incrementandone il culto. Durante i giorni di festa, tutto diventava lecito
perché veniva meno ogni freno inibitore e si scatenava ogni sorta di
trasgressione specialmente sessuale che si concretizzava in riti magici,
baccanali e orge, in cui avevano un posto privilegiato le «vergini» che
sacrificavano al dio della luce la loro verginità. Non di rado la festa era
occasione per vendette personali fino all’omicidio. I cristiani opposero a
queste licenziosità l’austera memoria del Lògos incarnato che nacque in una
stalla, nella povertà più estrema, fissando il Natale appositamente al 25
dicembre, compimento esatto dei nove mesi della gestazione di Maria, dal 25
marzo, giorno dell’annunciazione, equinozio di primavera. Per contrastare i riti
delle vergini che offrono la loro integrità al «dio Mitra» in baccanali
orgiastici, i cristiani esaltarono la
nascita «verginale» di Gesù, «sole che mai tramonta», offerto al mondo
da una «vergine» che si abbandona al disegno di Dio.Nello stesso periodo,
almeno da oltre due secoli, il 25 del mese di Kislèv, corrispondente a
una data tra il 15 e il 25 dicembre ca., i Giudei celebravano (ancora oggi
celebrano) la festa ebraica di Chanukkàh (= inaugurazione/dedicazione),
detta anche Chàg Haneròth (Festa dei lumi), Chàg Haurìm (Festa
delle luci) e Chàg Hamakkabìm (Festa dei Maccabei), per fare memoria
della riconsacrazione del tempio che Antioco IV dissacrò con una statua di Zeus
e che Giuda Maccabeo con la sua famiglia riconquistò nell’anno 165 a.C., ricostruendo
e riconsacrando l’altare del sacrificio. La Chiesa per non isolare i cristiani
accerchiati dal culto pagano del dio-sole/Mitra e dalla ebraica Festa delle
luci, inventò la celebrazione del Natale del Signore, il Sole che sorge e mai
tramonta. A Natale non domina solo il simbolismo della luce che contrasta il
buio della notte, ma si celebra Cristo stesso, «Luce che illumina le genti» (Lc
2,32), «Stella luminosa del mattino» (Ap 22,16), sapienza di splendore «che non
tramonta» (Sap 7,10). Celebrare il Natale in pieno inverno è anche un atto di
coraggio e di speranza, un invito a guardare oltre le apparenze: il seme appare
morto e perduto nei solchi, le giornate sono brevi e buie, il senso di morte
tutto pervade; al contrario, la nascita di un bimbo è una grande profezia che
illumina il mondo e anticipa la primavera, quando la vita danzerà e sconfiggerà
la morte in vista dell’estate che porterà la gioia del raccolto e
dell’abbondanza, simbolo di pienezza di vita.

Nota:
L’autore di uno scritto anonimo, Adversus Judaeos/Contro i
Giudei (8,11-18, CCL 2, 1954, pp. 1360-64) attribuito da alcuni a Tertulliano
(150/160-220), già nella seconda metà del sec. II, riteneva che Cristo fosse
nato il 25 marzo e fosse anche morto lo stesso giorno. Doveva essere così perché
la perfezione della natura divina di Cristo esigeva che gli anni della sua vita
sulla terra fossero anni interi senza frazioni. è evidente che siamo
in piena speculazione teologica fuori da ogni spiegazione storica. Clemente
d’Alessandria (160-240) testimoniò che i cristiani copti celebravano non solo
l’anno, ma anche il giorno della nascita del Salvatore e cioè il 25° giorno del
mese di Pachòn (15 maggio) o il 25 del mese Pharmùth (20 aprile)
e sostenne che non esisteva una tradizione univoca e condivisa sulla data
esatta della nascita del Salvatore (Stromates I, 21, PG 8,888).

Sul culto
misterico di Mitra

Il culto del
dio Mitra, raffigurato con in mano una fiaccola e un coltello, sviluppa una
forma religiosa riservata agli iniziati per cui è caratterizzato dalla
segretezza; per questo i rituali, che si chiamavano «culti misterici», si
celebravano in luoghi sotterranei, detti mitrei, cui potevano accedere
solo gli adepti, ammessi dopo prove e cerimonie che comprendevano sette gradi
per essere ammessi al mistero della conoscenza: corvo, ninfo, soldato, leone,
persiano, corriere del sole, padre. Pare che lo stesso imperatore Nerone fosse
uno di questi iniziati. Il culto di Mitra fu introdotto nel mondo greco-romano
dai pirati di Cilicia, deportati da Pompeo nel 67 a.C. in Grecia. Da qui al
seguito delle legioni romane (molti soldati erano iniziati) si diffuse
velocemente in Italia, in Dacia (Romania-Moldavia), Pannonia (parte di
Ungheria, Austria e Slovenia), Mesia (Bulgaria), Britannia e Germania.

Mitra è
circondato da «miracoli»: con il lancio di una freccia fa scaturire acqua da
una roccia, segno di vitalità e purificazione; stipula un patto con il dio
Sole, a cui è associato fino a identificarsi con esso. Anche il dio Veruna (il
greco Urano) è associato a Mitra, e insieme personificano la notte e il giorno:
Veruna castiga i malvagi (notte) e Mitra protegge la giustizia e gli uomini
onesti (giorno). Il centro del culto è la tauroctonìa (il sacrificio del
toro), simbolo della fecondità universale e sempre presente in tutti i mitrei.
Accanto al toro vi sono altre figure simboliche: il serpente che beve il sangue
del toro, lo scorpione che gli punge i testicoli (per impedire la fecondità
della terra), il cane che bevendone il sangur acquista energia e vitalità che
trasferisce alla terra perché dalla sua coda germoglia il grano (simbolo della
risurrezione della terra) e un corvo che fa da tramite tra il sole-Mitra e la
terra. Il dio Mitra è accompagnato da altre due divinità, Catèus e Cautòpates,
raffigurati sempre con le fiaccole, simbologia plastica di una trinità solare
che raffigura il ciclo quotidiano del sole all’aurora, a mezzogiorno e al
tramonto.

Il
mitraismo, pur con tante somiglianze cristiane (verginità, trinità,
luce-tenebra; sangue-vita, visione apocalittica, ecc.), fu uno dei principali
antagonisti del cristianesimo sul quale sicuramente avrebbe prevalso senza
l’apostolo delle genti, Paolo di Tarso e la sua opera di evangelizzazione e di
diffusione del Cristianesimo in forma capillare in tutto il Medio Oriente, la
Grecia, parte dell’Asia fino Roma, cuore dell’impero, segnando così il declino
del mitraismo. Il Cristianesimo, infatti, nato come «sètta giudaica», tale
sarebbe rimasto, senza l’impeto paolino che di fatto creò la religione
cristiana come «sistema» teologico e organizzativo. Il sec. I d.C. fu un secolo
di passaggio, segnato dalla decadenza di ogni sistema ideologico, morale e
religioso, frutto inevitabile della fine di un millennio e inizio di uno nuovo.
In un contesto di «pensiero debole» e di corruzione che aveva minato lo stato
in ogni suo ambito, forte era il bisogno di spiritualità e «pulizia», di aria
pulita e di rinnovamento. In questo contesto, Paolo predicò la verginità come
misura del provvisorio (il mondo sta per finire, bisogna prepararsi e restare
liberi), il matrimonio come comunità stabile e regolata, la Chiesa come
orizzonte escatologico, cioè come compagna di viaggio che stabilisce le regole
in vista della fine del mondo. Ebbe successo perché proponeva un ideale forte e
controcorrente. Gesù ne era il modello, ma la sua predicazione e le sue parole
furono adattate e adeguate alle nuove circostanze. Gesù aveva annunciato il
Regno di Dio, Paolo dava vita alle «Chiese locali»; Gesù agì da profeta, Paolo
operava da uomo dell’istituzione.

Nota:
Mitraismo e il
Cristianesimo
sono due religioni
apocalittiche: rappresentano l’eterno combattimento del bene contro il male,
dei figli della luce contro i figli delle tenebre. L’imperatore Aureliano
(270-275 d.C.) eleva il culto del Sole a religione di stato. Costantino che
deve la sua prima vittoria ai cristiani, ribalta la situazione con l’editto del
313 d.C. a favore del Cristianesimo. Giuliano l’Apostata (361-363 d.C.) cerca di
riportare in auge il culto di Mitra, ma inutilmente perché  nel 394 d.C. con la vittoria di Teodosio su
Eugenio, il Cristianesimo diventa religione di stato e i mitrei  saccheggiati e distrutti per fare posto alle
nuove chiese e basiliche cristiane. Famosi in Roma sono i mitrei del Circo
Massimo e S. Clemente ancora oggi visitabili.

Natale:
il capovolgimento di Dio

Natale per
i cristiani di routine è la festa civile del buonismo a buon mercato, risolto
in una prassi scontata di regali, odiati da chi li fa. Per chi crede, Natale è
la contraddizione di Dio che non potendo essere visto e conosciuto, decide di
farsi conoscere: egli stesso diventa esegeta di sé (Gv 1,18). A Natale Dio
spiega Dio nell’unica maniera che a noi è possibile capire: facendosi uno di
noi e rivelando il volto nascosto di Dio Padre nel volto visibile dell’Uomo. E
perché nessuno possa avere anche la minima possibilità di avere paura, sceglie
la forma più indifesa e più disarmante: il bambino. Nella cultura del tempo di
Gesù, il bambino non ha alcun titolo e conta nulla perché senza valore
giuridico; per questo egli lo assume come «metro» del Regno: «Se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei
cieli» (Mt 18,3). Non basta. Dio vuole svelarci il suo volto di bambino povero
e perseguitato, profugo, straniero, emigrante, clandestino: nessuno nel Regno
di Dio ha le carte in regola per essere accreditato, nessuno è più in regola di
un altro. Una sola condizione è necessaria: essere figli di Dio. Questo è il
Natale, questa la nostra speranza. Diventiamo anche noi esegeti di Dio,
manifestando in pieno la sua umanità, riconoscendo negli altri la loro dignità
di esseri umani e figli di Dio.

A Natale
tutto si capovolge. La logica umana non regge quella divina perché Dio è capace
di sorprenderci sempre, oltre ogni aspettativa, rovesciando i criteri e i «valori»
del mondo: all’imperatore potente, contrappone 
una ragazza inerme; a chi pretende di «contare» (censimento) l’umanità
contrappone un uomo, una donna incinta e un bambino appena nato;
all’onnipotenza della religione, contrappone la fatica di vivere la volontà di
Dio; allo splendore della reggia e del tempio, contrappone la povertà e
l’autenticità della vita. Per questo a Natale bisogna sapere e avere coscienza
che il Bambino che chiede di nascere ancora:

• è un
extracomunitario perché è un palestinese di Nazaret;

• è un
emigrato in Egitto, perché perseguitato politico e religioso fin dalla nascita;

• è vittima
delle leggi razziali e razziste delle politiche di espulsione, perché senza
permesso di soggiorno;

• è ebreo
di nascita e ricercato per essere eliminato;

• è un
fuorilegge perché clandestino e ricercato dalla polizia;

• è un poco
di buono perché figlio di una ragazza-madre, appena adolescente;

• è
oppositore del potere religioso e politico ed è ammazzato per vilipendio della
religione;

• è povero
dalla parte dei poveri e «deve» essere eliminato;

• è un
laico, credente atipico e controcorrente;

• è poco
raccomandabile perché frequenta lebbrosi e prostitute;

• è Dio
perché i suoi pensieri non sono mai i pensieri dei benpensanti (Is 55,8).

È Natale! La speranza di essere uomini e donne nuovi per
un mondo nuovo è possibile perché Natale è l’annuncio profetico che la
Resurrezione è la mèta della Storia. Anche oggi, anche adesso. Anzi è già
compiuta e noi possiamo rinascere e risorgere ogni giorno, perché Gesù non ha
bisogno di nascere di nuovo, essendo eterno, ma noi abbiamo necessità di
rinascere anche oggi a vita nuova. Questo è Natale: Dio-con-noi-Emmanuel (cf Mt
1,23). Buon Natale a tutte e a tutti i lettori e le lettrici di MC.
Paolo Farinella

Avviso importante:
Con questo articolo don Paolo Farinella sospende temporaneamente
la sua collaborazione con la rivista Missioni Consolata e, quindi, anche la
rubrica «Così sta scritto» con cui, fedelmente, ci ha accompagnati per otto
anni, dal febbraio 2005. Don Paolo ha chiesto una pausa per preparare un «Corso
biblico» che esporrà nella sua città, Genova, e che pubblicherà anche sulla
nostra rivista, molto presumibilmente dalla primavera del 2014, a partire da
maggio. Nell’attesa, lo ringraziamo e salutiamo frateamente e, su sua
esplicita richiesta, abbracciamo con affetto ciascun lettore e lettrice di MC,
nei cui confronti si sente debitore e grato perché lo hanno costretto a «stare
sulla Parola». Chi volesse, può consultare sul nostro sito www.rivistamissioniconsolata.it tutti gli articoli di don Paolo già
pubblicati, o andare sul suo sito www.paolofarinella.eu
per leggere o stampare la liturgia della domenica, cliccando prima su blog e poi su Liturgia.

 

Paolo Farinella




Lasciamoli in pace

La questione dei popoli incontattati.


Le tribù indigene
incontattate non sono un’invenzione degli ambientalisti. Che fare con esse?
L’esperienza storica dimostra che il contatto con l’uomo bianco per loro è
stato quasi sempre fatale. Per le malattie, la violenza o la prevaricazione. Il
nostro dibattito sul tema continua ospitando le riflessioni dell’organizzazione
internazionale «Survival».

Molti
ricorderanno le immagini della tribù amazzonica isolata fotografata alla fine
del maggio 2008 in Brasile, appena al di qua del confine peruviano. Nonostante
il tono sensazionalista con cui molte testate diffusero la notizia, le immagini
raggiunsero l’obiettivo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica
mondiale sulla minaccia che gravava sui popoli della zona. L’esistenza delle
tribù incontattate non poteva più essere considerata una leggenda tipo quella
del mostro di Loch Ness, come affermavano l’allora presidente del Perú Alan
García e i portavoce della compagnia petrolifera di stato nel tentativo di
svicolare dalle proprie responsabilità. E nemmeno «un’invenzione degli
ambientalisti». Pochi mesi dopo, il giornale britannico The Observer,
responsabile di aver insinuato che le fotografie fossero una farsa e una
«bufala», dovette presentare le sue scuse ufficiali ai lettori e a Survival
per aver fornito una versione «menzognera e distorta» dei fatti.

A scattare quelle immagini aeree e ad affidarle a Survival
era stato José Carlos dos Reis Meirelles, un funzionario della Funai (il
dipartimento governativo agli affari indigeni del Brasile) preoccupato per il
drammatico esodo verso il Brasile di alcuni gruppi di indiani incontattati del
Perú. Le loro terre erano invase in modo crescente da taglialegna illegali e
compagnie petrolifere autorizzate dal governo peruviano a compiere prospezioni
e trivellazioni anche negli angoli più remoti della foresta, dimora ancestrale
di alcuni dei popoli più isolati del paese. Quelle attività rischiavano di
decimare o addirittura sterminare la tribù all’insaputa del resto del mondo,
com’era già accaduto troppe altre volte nel passato.

Quanti
sono i popoli incontattati contemporanei e quali minacce pendono sul loro
futuro? Secondo le nostre stime, i popoli indigeni che vivono senza alcun
contatto con il mondo esterno sono almeno un centinaio. La loro consistenza
numerica varia molto. Da un solo sopravvissuto, come nel caso «dell’uomo della
buca» individuato nel 2006 nello stato brasiliano di Rondônia, fino a cento o
duecento persone. Vivono in ambienti diversi: dagli angoli più remoti della
foresta amazzonica fino alle isole dell’Oceano indiano. Non è dato sapere
quanti esattamente siano, ma sappiamo con certezza che esistono: lo provano le
tracce che lasciano dietro di sé (utensili e case abbandonate frettolosamente sotto
l’avanzare degli invasori), e alcuni incontri fortuiti e fugaci.

In Asia li troviamo nelle Isole Andamane e in Nuova
Guinea. Nell’America del Sud, dove si ha la concentrazione maggiore, ci sono
almeno 60 tribù. Oltre 40 risiedono entro i confini del Brasile, 15 in Perú. Il
resto vive tra Bolivia, Colombia, Ecuador e Paraguay. Ognuno di questi popoli è
unico e le loro lingue, le loro culture e le loro visioni del mondo sono
insostituibili. Sono sicuramente i popoli più vulnerabili del pianeta.

Dei popoli incontattati si sa poco, se non che il loro
isolamento è sempre frutto di una scelta obbligata, compiuta per sopravvivere
alle invasioni. Molti di loro hanno sofferto la perdita dei loro cari per mano
dell’uomo bianco nel corso di decenni di massacri silenziosi o per effetto del
dilagare di epidemie. Sono proprio le malattie introdotte dall’esterno,
infatti, a costituire la principale causa di morte tra loro, perché non hanno
difese immunitarie contro virus da noi molto comuni come l’influenza, il morbillo
o la varicella.

Spesso, sono essi stessi dei sopravvissuti, o discendono
da sopravvissuti ad atrocità commesse in epoche precedenti. Violenze
raccapriccianti che hanno lasciato segni indelebili nella loro memoria
collettiva, inducendoli a rifuggire da ogni contatto con il mondo esterno. Gli
antenati degli attuali popoli amazzonici isolati furono sterminati dal fenomeno
brutale e devastante della schiavitù che accompagnò il boom del caucciù alla
fine del XIX secolo. Il 90% di loro morì. I popoli incontattati vivono tutti in
modo autosufficiente: di ciò che la foresta dona loro. Le loro vite sono
profondamente legate a quella del loro ambiente. Per questo, la protezione
delle terre che abitano e delle risorse che utilizzano è fondamentale per la
loro sopravvivenza. Spesso lo stile di vita nomade o seminomade (basato sulla
caccia, sulla pesca e sulla raccolta) è il risultato delle persecuzioni che
hanno sofferto, come nel caso degli Awá brasiliani. Si pensa infatti che un
tempo gli Awá fossero agricoltori stanziali, e che si siano solo
successivamente frammentati in gruppi di 20-30 persone sotto l’avanzata dei
bianchi, passando poi alla vita nomade, che offriva più alte possibilità di
sopravvivenza. Nessuno sa con esattezza quanti siano (probabilmente 460, di cui
un centinaio vive completamente isolato nelle foreste dello stato del
Maranhão), ma possono certamente essere considerati la tribù più minacciata
della Terra. Sette di loro morirono nel 1979, avvelenati con la farina intrisa
di un pesticida letale lasciata «in dono» dai coloni… Oggi sono assediati da
orde di taglialegna illegali che, quando li vedono, li uccidono. La maggior
parte dei popoli incontattati vive ancora oggi in fuga perenne. Cercano di
sopravvivere rifugiandosi in luoghi sempre più remoti. Tuttavia, l’avanzata
della cosiddetta «civilizzazione» sta rendendo sempre più difficile la loro
stessa sopravvivenza. In ogni paese del mondo sono circondati su tutti i
fronti: le compagnie petrolifere e di disboscamento invadono i loro territori
in cerca di risorse naturali, i coloni usurpano le loro terre e le convertono
in allevamenti di bestiame e aziende agricole. Le strade attraversano le loro
terre aprendo le porte a bracconieri, missionari fondamentalisti e turisti, e
introducendo il rischio di incontri violenti e malattie. Le foreste da cui
dipendono per il loro sostentamento vengono tagliate a ritmi vertiginosi; la
selvaggina è sempre più scarsa.

Alcuni pensano che i popoli tribali, in particolare
quelli incontattati, siano reliquie del passato, reperti archeologici destinati
inevitabilmente all’assimilazione culturale ed economica, oppure
all’estinzione. Ma non è così. Certamente, la loro estrema vulnerabilità alle
aggressioni estee è aggravata dal mancato riconoscimento del loro diritto
specifico all’isolamento volontario. Eppure, la storia dimostra che laddove le
loro terre vengono riconosciute legalmente e protette in modo adeguato, il loro
futuro è assicurato. Al contrario, il primo contatto forzato costituisce sempre
un’enorme minaccia e, quasi invariabilmente, qualsiasi sia la ragione per la
quale viene compiuto, si trasforma in una catastrofe fatta di impoverimento,
malattia, disperazione e morte.

In
Perú, padre Piovesan (vedere riquadro di pagina 28, ndr) – alla radio e
su altri mezzi di comunicazione – continua a porre ai suoi ascoltatori una
domanda solo apparentemente innocua: «Si salva un popolo se lo si isola o se lo
si integra? Si migliora una comunità mettendola a contatto con altri o
mantenendola isolata?». A lui Survival e tutti coloro che hanno a cuore la vita
dei popoli indigeni non possono che rispondere in un solo modo: «Se, come e
quando interagire con il mondo esterno è una decisione che spetta solo a loro,
e a nessun altro». Riconoscere e proteggere il diritto alla proprietà della
terra dei popoli indigeni, inclusi quelli incontattati, è la chiave della loro
sopravvivenza. Solo così potranno mantenere il controllo delle loro vite e
decidere autonomamente del loro futuro lasciandosi alle spalle secoli di
colonizzazione e patealismo. Il diritto alla terra e all’autodeterminazione
sono sanciti oggi anche dalla Convenzione Ilo 169, che è la legge
internazionale più importante in materia di popoli indigeni, e dalla
Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni e tribali approvata dall’Onu nel
settembre 2007. Non possiamo cambiare il passato ma possiamo certamente evitare
che la storia si ripeta semplicemente facendo rispettare la legge.

Francesca
Casella*

*
Dal 1989 Francesca Casella è direttrice della sede italiana di Survival Inteational.
Collaboratrice di varie testate giornalistiche, ha curato l’edizione nazionale
del volume Siamo tutti uno. Omaggio ai
popoli indigeni della Terra
. SITO: www.survival.it

Scheda ______________________

I popoli isolati del Perú


Basta un raffreddore

Nelle regioni più remote del Perú
vivono almeno 15 popoli isolati distinti. Alcuni entrarono in contatto con il
mondo esterno tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, durante il boom
del caucciù che li decimò e li spinse a scegliere l’isolamento per assicurarsi
la sopravvivenza. Altri gruppi, invece, potrebbero non essere mai entrati in
contatto con l’esterno. Tra i gruppi di cui si conosce il nome ci sono gli
Isconahua, i Capanahua, i Cacataibos, i Murunahua, i Mastanahua, i Machigengua,
i Nanti, gli Ashaninka e i Mashco-Piro.

Sono quasi
tutti cacciatori-raccoglitori nomadi e vivono di caccia e pesca. Amano le uova
di tartaruga, che raccolgono lungo le rive dei fiumi in primavera, quando le
acque si ritirano. Alcuni coltivano piccoli orti. Sono concentrati soprattutto
nel Perú Sud orientale, ma ci sono stati avvistamenti anche nel Nord-ovest,
vicino al confine con l’Ecuador, e a Nord-est, al confine con il Brasile. Tra i
fiumi più frequentati ci sono il Tahuamanu, il Las Piedras, il Los Amigos, il
Manu, il Purús, il Curanja, lo Yurua e il Serjali.

Oltre la metà
dei Nahua, che all’epoca erano incontattati, fu sterminata nei primi anni ’80,
quando iniziò l’esplorazione petrolifera nella loro terra. La stessa tragica
sorte toccò ai Murunahua a metà degli anni ’90, dopo il contatto con i
taglialegna che abbattevano illegalmente il mogano. Jorge è uno dei Murunahua
sopravvissuti, e ha perso un occhio durante il contatto. «Con i taglialegna
arrivò anche l’epidemia – ha raccontato a noi di Survival -. Prima non
sapevamo nemmeno cosa fosse un raffreddore. La malattia ci ha uccisi. La metà
di noi sono morti. Mia zia è morta, mio nipote è morto. È morta la metà del mio
popolo».

Nonostante
siano state create cinque riserve a uso esclusivo degli indiani isolati, i loro
territori continuano a essere invasi diffondendo violenze e malattie letali. La
situazione è particolarmente grave là dove si trovano alcune delle ultime
riserve di mogano rimaste al mondo: approfittando della mancanza di efficaci
controlli da parte dello stato, i taglialegna illegali saccheggiano le foreste
liberamente mettendo a repentaglio la vita dei popoli isolati che vi abitano.
Il governo peruviano ha anche autorizzato alcune compagnie petrolifere a
condurre prospezioni nelle terre di queste tribù, facilitando ulteriormente
l’ingresso di coloni e taglialegna in zone che un tempo erano remote. Altre
gravi minacce vengono dalla ricerca mineraria, dalla costruzione di nuove
strade e da missionari estremisti che vogliono entrare in contatto con gli
indiani isolati a qualsiasi costo.

Survival sta
cercando anche di fermare l’espansione del gigantesco progetto energetico
Camisea all’interno della Riserva Nahua-Nanti, promosso dalle compagnie
petrolifere Pluspetrol, Hunt Oil e Repsol. I lavori comporterebbero il
disboscamento di aree di foresta pluviale, la detonazione di migliaia di
cariche esplosive e la perforazione di pozzi. L’espansione viola sia le leggi
peruviane sia quelle inteazionali, ed è contestata anche dalla Commissione
Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale (Cerd), che ha chiesto la
sospensione immediata del progetto.

Francesca
Casella

Opinione ________________________

Purús (Perú): Una lettera da «Survival Inteational»


Una questione di vita o di morte

I commenti di padre Miguel Piovesan
e monsignor Francisco González Heández – pubblicati da MC nell’ottobre 2013 (Senza
uscita
) – sono estremamente faziosi e omettono dettagli importanti sui
problemi che deriverebbero dalla costruzione di una strada di collegamento tra
le città di Puerto Esperanza e Iñapari. Vi scriviamo quindi per chiarire alcuni
punti e permettere ai Vostri lettori di comprendere meglio la vicenda.

Puerto
Esperanza è una comunità isolata del Perú sud-orientale, al confine con il
Brasile. Come molte altre città amazzoniche (anche grandi come Iquitos), Puerto
Esperanza non è raggiungibile su strada ma solamente via fiume o,
limitatamente, per via aerea. Una parte degli abitanti è costituita da coloni,
ed è soprattutto la loro voce che padre Miguel Piovesan e monsignor Francisco
González Heández hanno riportato nelle loro lettere. Tuttavia, l’80% della
provincia del Purús è abitata da diversi popoli indigeni che vivono sia
all’interno della città sia in insediamenti estei.

Non solo. In
questo angolo isolato del Perú vivono anche altri gruppi di persone. Sono gli
indiani incontattati: gruppi che non hanno alcun contatto pacifico con il mondo
esterno e attraversano frequentemente il confine tra Perú e Brasile. Si pensa
appartengano alla tribù dei Mashco-Piro e sono state raccolte molte prove della
loro esistenza proprio lungo il percorso proposto per la strada. Cancellarli
dal dibattito significa omettere la ragione principale per la quale questa
strada non può essere costruita, né legalmente né eticamente.

Gli indiani
incontattati sono tra i popoli più vulnerabili del pianeta. Non hanno difese
immunitarie verso le malattie portate dall’esterno e, spesso, è accaduto che in
pochissimo tempo almeno la metà di una tribù sia stata sterminata dalle
epidemie introdotte con il «primo contatto».

Oltre a
questi pericoli immediati dovuti al contatto, la costruzione della strada
provocherebbe anche la rapida distruzione della loro foresta. Prove evidenti si
trovano poco distante da lì, in Brasile, proprio a Est della strada proposta.
Le immagini satellitari mostrano quello che è definito l’effetto «a spina di
pesce» provocato dalla costruzione della strada BR 317: una volta aperto
l’accesso a terre un tempo remote, la regione è stata invasa da voraci
taglialegna e ampie zone di foresta sono state disboscate.

Secondo padre
Miguel Piovesan e monsignor Francisco González Heández, per la popolazione
del Purús la strada costituirebbe «la salvezza» poiché porterebbe, dichiarano,
lo «sviluppo» di cui hanno bisogno i poveri abitanti del luogo. È innegabile
che in quest’area vi sia una vergognosa mancanza di sostegno da parte del
governo. Allo stesso tempo, però, è indubbio che la strada porterebbe più
problemi che benefici non solo ai gruppi incontattati ma anche ai popoli
indigeni locali, la maggioranza dei quali si è detta fermamente contraria al
progetto.

Survival difende i diritti dei popoli
incontattati, in Perú e nel resto del mondo. Le tribù incontattate non possono
essere consultate sulla strada o su qualsiasi altro progetto di «sviluppo» che
li riguardi. Per loro, la strada proposta nel Purús causerebbe solo la
diffusione di malattie, la distruzione della loro terra e, in conclusione,
segnerebbe la loro fine. Sono gli abitanti originali di questa regione, com’è
possibile ignorare i loro diritti territoriali?

Padre
Piovesan ha definito gli indiani «arretrati» e tecnologicamente «preistorici».
Durante la sua trasmissione radiofonica settimanale, che si scaglia con
veemenza contro qualsiasi individuo o organizzazione si opponga alla «necessità
urgente» di costruire la strada, si è riferito agli indigeni del Purús
chiamandoli addirittura «porci e vermi»1. Ma è impossibile immaginare in
che modo questo progetto possa portare qualche tipo di «sviluppo» positivo agli
indiani incontattati del Purús. Per questi cacciatori-raccoglitori nomadi,
infatti, la terra non è solo sacra, ma è anche essenziale per la sopravvivenza.
Senza la foresta, cesserebbero semplicemente di esistere.

Infine, non
si deve dimenticare che la costruzione della strada sarebbe illegale sia
secondo la legge peruviana sia secondo quella internazionale, e che il progetto
è stato definito «impraticabile» e «incostituzionale» da tre ministri
peruviani. Se la strada venisse comunque approvata, le conseguenze sulle vite
di migliaia di indigeni sarebbero devastanti2. Per risolvere il problema
dell’isolamento della regione non si possono spazzare via interi popoli.

Rebecca
Spooner, Survival
Inteational*, Londra

Note
(1)  Radio Esperanza: riportato nel documento
dell’organizzazione indigena Feconapu, giugno 2012, pagina 2, punto 4 (leggere nota del direttore di MC
a pagina 29, ndr).
(2)  Per maggiori informazioni, consigliamo di
leggere il rapporto di «Global Witness»: www.globalwitness.org.

(*)
Fondata nel 1969, Survival aiuta
i popoli indigeni di tutto il mondo a difendere le loro vite, a proteggere le
loro terre e a decidere autonomamente del loro futuro. Con sedi e centri di
supporto in Europa e negli Stati Uniti, Survival lavora perché vengano
riconosciuti ai popoli indigeni i loro diritti fondamentali contro ogni forma
di violenza, persecuzione e genocidio. Apartitica e aconfessionale, lavora a
stretto contatto con le organizzazioni indigene locali offrendo loro assistenza
legale e un palcoscenico da cui rivolgersi direttamente al resto del mondo;
promuove campagne di informazione e pressione per il largo pubblico e porta
nelle scuole laboratori di educazione alla diversità e alla pace. Sito multilingue:
www.survivalinteational.org.

Nota di redazione ________________

Un reportage da Madre de Dios di
Paolo Moiola, pubblicato nei mesi di giugno, luglio e agosto 2012, ha suscitato
l’indignazione del parroco di Puerto Esperanza (Purús), p. Piovesan, che lo ha
letto solo nel 2013 tornando in Italia per una vacanza. Su sua richiesta
abbiamo riconosciuto al sacerdote il diritto di replica sulla rivista di
ottobre 2013. Nell’articolo p. Piovesan e il suo vescovo, mons. Heández,
accusano amaramente i «Wwf-ecologisti» di manipolare dal di fuori la
situazione, non per il bene della gente locale ma per i propri fini.
L’organizzazione Survival Inteational, coinvolta nella vicenda, ha chiesto a sua volta il diritto di
replica, che concediamo volentieri in questo numero, pur non condividendone
alcune parti troppo ad personam.

Per noi, come rivista MC, il
dibattito circa la strada del Purús finisce qui. Non vogliamo diventare veicolo
di scambio di accuse a distanza tra persone e organizzazioni (da noi stimate)
che, pur avendo a cuore la stessa realtà, hanno visioni molto diverse e, almeno
al momento, non sembrano molto disponibili ad ascoltarsi.

Gigi Anataloni, Direttore di MC

 

Francesca Casella




Il lago che dà vita

Reportage dal Lago Mweru


Al confine tra Zambia e Congo Rd, il Lago Mweru è una
risorsa per decine di migliaia di persone. Ma negli ultimi anni i pesci sono
diminuiti, mentre i pescatori sono aumentati a dismisura. Occorre puntare su attività
alternative, come la piscicoltura. Mentre la Cina sta invadendo il mercato di
pesce surgelato.

Mweru significa «lago» in alcune lingue Bantu, per
questo, spesso, quando la gente del posto si riferisce al lago Mweru, lo chiama
semplicemente Mwelu (la pronuncia locale sostituisce la r con la l). Da sempre
le acque del lago, che fanno parte del bacino del fiume Congo, secondo per
portata d’acqua solo al Rio delle Amazzoni, hanno costituito un’immensa fonte
di ricchezza per gli abitanti dei due paesi confinanti: lo Zambia, sull’argine
meridionale e la Repubblica Democratica del Congo al Nord.

Nonostante la passata gloriosa ricchezza delle acque,
oggi pescatori, commercianti e contadini fanno tutti la stessa constatazione: «Nel
lago Mweru non ci sono più pesci».

La pesca dagli anni Settanta è diventata in queste zone
un’attività sempre più attrattiva. Essendo libera, perché non è richiesta
alcuna licenza, e priva di regolamentazione, il numero di pescatori è cresciuto
immensamente e nel 2011 sul lago se ne contavano oltre 22.000. Per contrastare
l’impoverimento delle acque dal 1986 lo Zambia ha attivato un periodo annuale
di divieto di pesca, che va dal primo dicembre al primo marzo, per permettere
ai pesci di riprodursi. Nel 2011 è stata anche promulgata una legge che
istituisce il reato della pesca illegale: chi durante il periodo di divieto
viene sorpreso a pescare o in possesso di pesce è sanzionabile con multe e con
la reclusione. Tuttavia, le autorità responsabili non hanno mezzi sufficienti
per garantire l’applicazione del divieto. Eest Ngula, del Dipartimento della
Pesca nel municipio di Nchelenge, lo dice chiaramente: «Le barche che abbiamo
per il pattugliamento sono vecchie, non abbiamo sufficiente benzina e non
sempre siamo scortati dagli agenti della polizia».

Risorse da condividere

Come ci spiega Joyce Nsamba, la
rappresentante per il ministero dell’Agricoltura e Allevamento dello Zambia
(che si occupa anche di pesca) nella provincia di Luapula, nel Nord del paese,
il fiume Luapula, che traccia il confine tra Zambia e Rd del Congo prima di
gettarsi nel lago Mweru, non è una vera frontiera. I pescatori di entrambi i
paesi ne traggono la loro unica fonte di sostentamento e lo attraversano
quotidianamente.

Sono numerosi i congolesi che vivono sul
versante dello Zambia. Pochi sono registrati ufficialmente, ma preferiscono
questo lato perché i servizi e le infrastrutture, malgrado siano scarse, sono
migliori che sull’altro versante. In generale non ci sono problemi di
convivenza, ma non ci sono neanche politiche di gestione comune, né un sistema
condiviso per raccogliere informazioni sullo stato delle risorse ittiche.

Lo stesso vale per il lago Mweru. Anzi, gli
approcci utilizzati sono molto distinti. Lo Zambia ha optato per una
co-gestione della pesca, ovvero un sistema dove vengono coinvolti in comitati
locali i pescatori, le autorità tradizionali e i funzionari del ministero, per
promuovere una gestione sostenibile delle risorse anche attraverso la
sensibilizzazione e la diversificazione delle fonti di reddito. In Congo,
invece, il sistema di controllo è gestito dall’esercito, spesso corrotto.

A inizio giugno, un pescatore dello Zambia è
stato ucciso dai militari perché trovato in acque congolesi mentre praticava la
pesca illegale. In passato, si sono spesso verificati casi di arresti e
detenzione, ma la morte del pescatore ha suscitato scalpore. Il presidente del
distretto di Nchelenge, Mudenda, spiega che adesso anche dal lato dello Zambia
arriveranno alcuni contingenti dell’esercito per aiutare nel controllo del lago
e per ridurre la pesca illegale. Malgrado sia necessaria una gestione più
uniforme ed efficace del lago, il rischio in questo modo è di promuovere una
militarizzazione delle acque.

La pesca è vita

I pescatori sono persone semplici e a basso
reddito, spesso la pesca è la loro unica fonte di sostentamento e con l’attuale
stato delle risorse ittiche, usare metodi illegali è diventato per loro il solo
modo per riuscire a sopravvivere. I metodi più diffusi sono l’utilizzo di reti
molto fini, come le zanzariere, per riuscire a catturare i pesci anche di
piccola taglia, ma si ricorre anche a esplosivi rudimentali e al veleno
chiamato localmente ububa. Di notte nel lago si possono vedere delle
tenui luci galleggianti: sono i pescatori che cercano di scappare ai controlli.

Il dottor Abila, esperto di risorse ittiche
che lavora nella Provincia di Luapula per fornire assistenza tecnica al
ministero dell’Agricoltura e Allevamento, è convinto che occorra insistere sul
principio di co-gestione della pesca e promuovere attività alternative per i
pescatori, in particolare l’acquacoltura: «Il pesce fa parte della dieta
locale, la domanda di questo prodotto è superiore all’offerta disponibile, e
per questo la pesca di allevamento ha potenziali enormi. Però occorre appoggio
tecnico, e un credito iniziale per avviare l’attività. Ci sono già oltre 2.000
vasche di allevamento nella regione, ma la produttività è bassa e poco
redditizia, specie per il costo degli alimenti da dare ai pesci. Stiamo
portando avanti il principio di allevamento integrato, ovvero associare
all’acquacoltura, la produzione agricola e l’allevamento di polli, galline e
maiali, perché gli scarti animali e vegetali sono un ottimo alimento per i
pesci. Ma ci va del tempo per avere risultati, e i cinesi sono già dietro
l’angolo con i loro pesci surgelati, pronti a invadere il mercato».

Attualmente infatti si calcola che l’80% del
pesce consumato in Zambia sia importato da Cina e Zimbabwe. In Cina la pesca
d’allevamento è sussidiata e i prezzi sono più competitivi, mentre in Zambia
l’acquacultura è ancora molto disorganizzata, non beneficia di economie di
scala e non riceve sufficiente supporto dalle politiche governative.
L’agricoltura è sempre stata sussidiata dallo stato, attraverso la
distribuzione di fertilizzanti e l’acquisto del mais a un prezzo sovvenzionato,
invece la pesca e l’allevamento non hanno beneficiato di analoghi incentivi.

Commercio al femminile

Se la pesca sul lago Mweru è attività
principalmente maschile, la commercializzazione dei pesci è riservata alle
donne. Si riuniscono all’alba sulle rive del lago e aspettano, armate di
bacinelle, l’arrivo delle piccole barche sgangherate dei pescatori, che sono
letteralmente prese d’assalto ancora prima di toccare terra. «Siamo troppe
commercianti, ormai è diventato durissimo ottenere il pesce da vendere. È una
vera lotta, ogni mattina. Non c’è abbastanza pesce per tutte» spiega Janet, del
quartiere di Queens, municipio di Nchelenge. Lei, insieme ad altre donne, fa
parte dell’Associazione della Pesca di Luapula. Hanno uno spazio dove fare il
mercato, i prezzi sono prestabiliti e la qualità è garantita.

Il principale prodotto del lago è la tilapia,
la comprano a unità, sei pezzi costano 50 kwacha (la valuta locale,
circa sei euro), e li rivendono a 60 kwacha. In media vendono circa
sessanta pesci a giornata, per un ricavo totale di 60 kwacha. I prezzi
variano in base alla stagione, ma il ricavato è abbastanza costante.

Poi c’è il periodo del divieto della pesca,
dove è proibito commercializzare il pesce fresco. Resta il pesce sotto sale e
affumicato che si conserva a lungo. Disposti sui banchi, infatti, si vedono
anche ordinati i pesciolini dorati e bianchi, conservati con delle tecniche
tradizionali tipiche degli isolani.

«I pesci secchi li preparano gli indigeni
delle isole, è da loro che li compriamo» ricorda Janet. Nel lago Mweru ci sono
varie isole flottanti, e sul versante dello Zambia due sono le più estese e
abitate da oltre 28.000 persone. Sulle due isole però non c’è alcun tipo di
servizio: né scuole, né ospedali, né elettricità. In queste comunità, la piaga
dell’Hiv è ancora preoccupante: l’alta mobilità dei pescatori, le relazioni di
potere con le commercianti, i flussi transfrontalieri e lo scarso accesso a
strutture sanitarie ne favoriscono la diffusione, malgrado si possa constatare
una generale consapevolezza e informazione sulla malattia.

Lungo la strada che costeggia il fiume Luapula
si vedono ragazzini con pesci in mano che cercano di vendere alle rare macchine
che passano. Chisela ha un sorriso fulminante mentre mostra la sua «preda»: è
un pesce gatto di oltre quattro chili. Il dottor Abila spiega che i pesci nella
stagione della pioggia, tra maggio e ottobre, risalgono dal lago il corso del
fiume dove si riproducono. «Vedendo pesci di questa taglia è difficile
affermare che ci sia un sovra-sfruttamento biologico delle risorse ittiche; è
invece più corretto parlare di sovra-sfruttamento economico delle acque dovuto
a una crescita sproporzionata del numero di pescatori, barche e reti. Oggi, per
darvi un dato chiaro, la resa della pesca annuale di un pescatore è di circa la
metà di quindici anni fa: si è passati da 1,3 tonnellate a 0,6».

Morgan, cornordinatore del comitato per la
gestione della pesca del villaggio di Chitondo lo dice chiaramente: «Mwelu non è
più quella miniera d’oro che era in passato; dobbiamo prendee atto, e
comportarci di conseguenza».

Ermina
Martini


Insieme per il lago

Nella regione di Luapula il ministero dell’Agricoltura e
l’Allevamento, supportato dai programmi di cooperazione  promossi da Finlandia e Giappone, ha
istituito 136 comitati di villaggio per la gestione della pesca. Sono gruppi di
volontari, in media otto per ogni comitato, eletti a livello di villaggio, che
hanno ricevuto formazioni specifiche e assumono la responsabilità di promuovere
il rispetto delle norme della pesca attraverso la sensibilizzazione e il
controllo.

Fare parte del comitato è vissuto come un onore, ma non
mancano le frustrazioni. Spesso i membri dicono di non avere nessuno strumento
per operare, e usare il controllo sociale e dare il buon esempio non sono
sufficienti.

Bisogna promuovere attività alternative per i pescatori, come
l’agricoltura e l’allevamento, ma il ministero manca dei mezzi. Nelle
sensibilizzazioni si parla anche dell’aspetto ambientale per prendere coscienza
di come il lago stia cambiando e del problema dell’Hiv.

E.M.

Ermina Martini




Dove i contadini sono poeti

Sertão / Incontro con Zé Vicente,
Il sertão è una regione semiarida del Nord-est brasiliano. A Orós, nello stato di Ceará, abbiamo incontrato Zé Vicente, noto poeta e musicista, vicino alla Teologia della liberazione e alle Comunità ecclesiali di base. L’artista è anche ideatore di «Sertão vivo», un progetto di sviluppo alternativo che – partendo dall’arte, dall’educazione ambientale, dalla salvaguardia delle tradizioni contadine – cerca di costruire il bem-viver, il «buon vivere».

Orós (Ceará).
«Il problema del sertão non è la siccità ma il recinto
del padrone»1 recita un detto popolare del Nord-est
brasiliano. Ancora oggi è questa la realtà sociale della regione semi-arida del
Brasile, che Zé Vicente, poeta-contadino-ecologista, mistico, cantante e autore
di musica popolare celebrativa, descrive nelle sue composizioni. Rime e ritmi
che hanno le radici nella tradizione nordestina dei repentistas, maestri
dell’improvvisazione, e degli agricoltori poeti del Ceará, come Patativa de
Assaré, che trovava nel lavoro della terra i motivi della sua ispirazione.

Negli anni ’90, Zé Vicente ha ideato il progetto «Sertão
vivo», con questa convinzione: uno sviluppo alternativo è possibile e, nel caso
del sertão, significa imparare a con-vivere con la siccità, partendo dal
rispetto della natura, riscattando e valorizzando i saperi tradizionali. Contro
la logica delle grandi opere che devastano l’ambiente e sradicano dai loro
territori migliaia di persone.

Per intervistarlo siamo andati nel municipio di Orós,
centro-sud dello stato del Ceará, a 400 km dalla capitale Fortaleza, nel sitio2 Aroeiras, sede del «Sertão
vivo». Qui si realizzano attività di arte ed educazione ambientale rivolte agli
abitanti delle comunità vicine e si incontrano alternativamente teologi della
liberazione e operatori olistici, custodi delle sementi e «profeti della
pioggia» per apprendere e celebrare l’arte del bem-viver (buon vivere)
nel sertão.

Zé Vicente, innanzitutto vorrei chiederti
qual è la definizione che più ti si addice: artista, attivista/ecologista,
educatore popolare, mistico o piuttosto tutte queste cose insieme?

«Sono un essere umano, poeta-agricoltore, innamorato del
mio popolo e della mia terra, del pianeta e delle sue radici sacre. Vivo nella
costante ricerca di una dimensione superiore. Attraverso la poesia e la musica
solidarizzo con la mia gente e con tutti coloro, soprattutto i giovani, che
sono in cerca di una fede matura e impegnata di fronte alle profonde
trasformazioni sociali ed ecologiche del nostro tempo».

Zé, tu sei molto attivo in campo sociale
nello stato del Ceará ed in altri stati del Nord-est collaborando con le
Comunità ecclesiali di base (Cebs). Secondo te, che capacità ha oggi la Chiesa
brasiliana di negoziare con le istanze politiche del tuo paese legate a un
modello economico «sviluppista» che produce conseguenze ambientali irreparabili
e che aumenta le diseguaglianze sociali?

«Penso che stiamo attraversando un momento molto
delicato: la situazione della vita sulla terra e dello stesso pianeta desta
molta inquietudine e preoccupazione. Siamo in una situazione di emergenza. Di
fronte a tutto ciò le Chiese e le religioni, così come tutte le altre grandi
istituzioni economiche e politiche non possono restare a guardare ma al
contrario devono incoraggiare i popoli ad assumere le attitudini necessarie ad
affrontare questa situazione. Non bastano i grandi meeting, i congressi,
i documenti, i culti: c’è bisogno di intraprendere azioni che abbiano impatto
in tutti i campi della società. Anche noi artisti possiamo, anzi, abbiamo
l’obbligo di esprimere, attraverso l’arte, l’utopia e di dare voce alle
rivendicazioni del nostro tempo. Se poi le chiese rimarranno in silenzio, nuove
forze nasceranno per fare clamore e lottare.

Io credo che i settori rappresentativi della Chiesta
cattolica abbiano ancora la forza morale e l’obbligo etico di dialogare e far
pressione su tutte le istanze del potere e sui governi affinché prendano
decisioni in difesa della giustizia, della pace e della vita in tutti i settori
della società, specialmente in favore delle moltitudini di esclusi ed
emarginati dal sistema».

Zé, so che hai rapporti stretti con alcuni
esponenti della Teologia della liberazione: Marcelo Barros, Carlos Mesters, tra
gli altri. Ritieni che si tratti di una corrente ancora espressiva in Brasile?

«È vero, ho buone relazioni con gli amici e le amiche
della Teologia della liberazione. Credo che essa rappresenti ancora oggi un
riferimento vivo nella nostra “camminata”.

Devo dire però che mi sento ancora più legato alle
piccole pratiche quotidiane realizzate nella base e ai tanti leader
popolari che agiscono nell’ombra, lontano dai media. Sono loro che, a mio
parere, fanno la differenza. Sono giovani, lavoratrici e lavoratori, che
troviamo per le strade, nelle campagne, senza terra, senza tetto e senza molte
altre cose, ma pieni di volontà.

Finché esisterà una sola persona esclusa, oppressa, la
Teologia della liberazione avrà significato e dovrà vivere per annunciare la
buona novella della liberazione, che Gesù ci ha dato e che lo Spirito rivela
ogni momento».

Ho avuto l’opportunità di conoscere
personalmente il progetto di sviluppo alternativo che porti avanti nella tua
terra d’origine, il sertão cearanse. Un progetto basato sulla
sensibilizzazione, coscientizzazione e lavoro rivolto alla sostenibilità
economica, socio-ambientale e culturale a livello familiare e comunitario.
Potresti raccontarci la nascita e le finalità del progetto? Si tratta di un
caso isolato o può funzionare da modello di riferimento nella regione, nello
stato del Ceará e in altre zone del Brasile?

«L’esperienza che ha portato alla nascita del progetto
“Sertão vivo” è il segno più concreto della mia passione artistica, come poeta
e musicista, per la camminata del mio popolo. La mia arte sarebbe incompleta se
non sapessi creare nella mia famiglia e nella gente della mia regione
l’“incanto” per qualcosa di più immediato, più concreto, più vicino alla vita,
come la cura della terra, dell’ambiente e dell’essere umano.

Ogni mese da Fortaleza, città dove sono emigrato, too
nel sitio Aroeiras, nella casa dei miei genitori, per mantenere vivo il
legame con la mia famiglia, con gli antenati e sensibilizzare la mia comunità
attraverso le giornate di “Arte e Vita”: seminari sull’alimentazione naturale (na
roça e na comida sertão vivo com mais vida
3, lo slogan utilizzato
per questa giornata) e nuove pratiche agricole
e di preservazione della natura di cui siamo parte – per coltivare senza
bruciare il terreno e senza usare agrotossici, camminate ecologiche, laboratori
di musica, teatro, pittura, medicina naturale e alternativa, incontri con i
“custodi delle sementi e delle esperienze della pioggia”4,
senza trascurare le nostre feste tradizionali come San Giovanni, celebrata nel
mese di giugno, dove la gente, tra canti e danze, esprime una fede
profondamente radicata nella cultura. Tutte queste attività sono realizzate
utilizzando il linguaggio e l’essenza dell’arte come punto di partenza e di
arrivo e adottando una mistica di rispetto e dialogo con le differenze
culturali, politiche e religiose, cercando di riunire sempre più persone per la
grande mobilitazione che il presente e il futuro dell’umanità e del pianeta
richiedono.

Questo, in breve, è quello che realizziamo attraverso la
nostra micro esperienza. Non abbiamo la pretesa di essere un punto di
riferimento per altre iniziative, ma qualora accadesse ne saremo felici. Anche
se una maggiore visibilità comporta sempre sfide e rischi e questo mi preoccupa».

Come valuti lo stato di salute dei movimenti
sociali in Brasile e le manifestazioni che hanno percorso il tuo paese nei mesi
scorsi?

«Rispetto alla salute dei movimenti sociali e popolari,
tutto quel che accade in Brasile non è separato da quel succede in tutti gli
angoli del mondo. Stiamo in un momento di passaggio. Si parla di cambiamento
epocale, totale, planetario e, pertanto, abbiamo bisogno di molta ricerca,
studio, silenzio e impegno per comprendere e costruire nuovi cammini. Io voglio
continuare a dare il mio contributo, con la poesia e la musica, affinché la
gente alimenti la Speranza, la meraviglia di fronte allo spettacolo della vita
e l’allegria di lottare sempre per la vera trasformazione dell’umanità e della
terra». 

Quest’anno
(2013) Zé Vicente ha lanciato il suo ultimo album Zé Vicente da esperança,
nuovo nome del poeta ecologista e contadino, figlio del sertão, delle forze
della natura e del tenace popolo nordestino che non abbandona mai la speranza. «Perché
è la speranza – dice Zé Vicente -, che ci fa vincere il deserto e arrivare alla
terra dell’abbondanza, della giustizia, della pace».

Silvia
Zaccaria

Note:

1 – In portoghese: «O problema do sertão não è a seca,
mas a cerca do patrão». Il verso gioca sull’assonanza tra la parola seca
– siccità – e cerca – recinto.
2 –  «Piccola
proprietà», tenuta agricola, ma anche «locus amenus», ritiro, riparo.
3 –  «Nel campo e
nel piatto sertão vivo, con più vita».
4 – L’obiettivo dell’iniziativa è quello di mantenere
viva la tradizione, la memoria degli antenati che nei mesi di dicembre e
gennaio erano soliti fare previsioni sull’inverno che nel sertão indica la
stagione delle piogge. I partecipanti agli incontri sono contadini che, sin da
bambini, accompagnavano i nonni nelle loro esperienze di previsione delle
piogge, sulla base della direzione e potenza del vento e l’osservazione della
natura. L’incontro si chiude con scambio dei semi non transgenici con
l’obiettivo di creare una banca di semi nativi. 

 
         Il sertão, tra siccità e ingiustizie                       

Il sertão (dal portoghese «desertão»)
è una regione semi-arida che abbraccia gli stati del Nord-est brasiliano:
Bahia, Sergipe, Alagoas, Peambuco, Paraiba, Rio Grande do Norte, Piauí e Ceará
e il Nord dello stato di Minas Gerais. La vegetazione caratteristica di questa
regione è la caatinga, che consiste principalmente di cespugli bassi e
spinosi, capaci di adattarsi al suo clima estremo. Tra le specie originarie
della caatinga c’è il cactus mandacarù, i cui frutti rossi
spiccano nella macchia. La zona è soggetta periodicamente a secas
(siccità), causando spesso negli anni gravi carestie. Durante quella del 1877,
considerata la peggiore di tutte, solo nel Ceará morirono 500.000 persone,
dando origine al fenomeno dei retirantes, migranti che, abbandonato
tutto, andavano verso le grandi città costiere o verso il sud del paese in
cerca di fortuna e di migliori condizioni di vita. Una migrazione che non si è
mai fermata.

Questa regione ha ispirato una
ricca ed originale produzione letteraria e cinematografica, tra cui spiccano il
romanzo Grande Sertão di João Guimaraes Rosa e il film Deus e o diabo
na terra do Sol
(«Il dio nero e il diavolo biondo») di Glauber Rocha: in
una terra senza stato, dove vige la legge del più forte, vaccari e piccoli
contadini cercano di sfuggire alla miseria e allo sfruttamento dei padroni
mettendosi al seguito di santoni fanatici o dei banditi, i cangaçeiros.
La siccità e i retirantes, i movimenti millenaristi e l’epopea del cangaço
sono inoltre il tema ricorrente della letteratura di cordel (lett. «dello
spago») illustrata con la tecnica della xilografia, della musica e della poesia
popolare, di cui uno dei maggiori esponenti è stato il cearense Patativa do
Assaré (1909-2002). Zé Vicente si inserisce nella tradizione inaugurata da
Patativa, che conobbe da giovane e da cui, come dice lui stesso, fu
influenzato. La principale tematica dell’opera di Patativa è la seca,
problema cronico del sertão, mentre Zé Vicente addita un nemico ancora
più odioso: l’ineguale distribuzione delle terre e la mancanza di accesso
all’acqua.

Silvia Zaccaria

       TEMPO DI POESIA                            

«Per questo nostro tempo trafitto
dal dolore,
segnato dalla guerra,
di notti insonni
porto in me una meta:
la poesia concreta
esplicita
lucida
attraente
fatta corpo
emancipato
nella primavera della vita!

Ho qui nel mio petto
un progetto:
il nostro campo
un rifugio
da piantare
coltivare
ricreare
e raccogliere,
i fiori
e i frutti
del sogno vivo
divenuto alimento
cibo per gli sposi
e per le feste,
con sapore, intenso,
d’amore!

Metto sulle labbra
di questo giorno
qualcosa di più.

La certezza dell’incontro
della comunione,
superando l’indifferenza
colmando l’assenza,
lasciando che succeda
la più bella sapienza:
stare insieme
danzare insieme…

La canzone degli intenti
delle rime
dei riti
dei ritmi
del bene più grande
dell’allegria piena!

Il nostro canto!»

Zé Vicente*,
dicembre 1996
(inedita)

* Per leggere e ascoltare le poesie
di Zé Vicente:
www.letras.mus.br.

Silvia Zaccaria