Uno sviluppo a tutto biogas

Produrre energia pulita con prodotti, rifiuti e residui
biodegradabili locali, liberandosi progressivamente della dipendenza dai
combustibili fossili come il petrolio e dai conflitti a essi legati, e
diminuendo i costi per i cittadini e le aziende. Non si tratta di uno slogan
che descrive il sogno a occhi aperti di un manipolo di visionari, ma di una
realtà che va prendendo forma nella vita di milioni di persone, e che getta
tutto il suo peso sulla bilancia dei temi che decidono le consultazioni elettorali.

Le
fonti di energia rinnovabili hanno oggi un peso che era impensabile solo pochi
anni fa, se è vero che nelle recenti elezioni tedesche, che hanno confermato Angela
Merkel alla guida del paese, sono state uno dei temi caldi. Quel tipo di fonti è
responsabile di ben un quinto della produzione energetica della Germania.
L’ambizioso piano tedesco per abbandonare i combustibili fossili entro il 2050
si sta rivelando più costoso del previsto per i cittadini, che si sono trovati
un aumento di circa il venti per cento sulla quota della bolletta che va a
sostenere gli incentivi alle rinnovabili (da 5,3 a 6,5 centesimi di euro per
chilowattora).

Fra queste fonti rinnovabili ci sono le biomasse che la
Direttiva Europea 2009/28/CE definisce come «la frazione biodegradabile dei
prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura
(comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie
connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile
dei rifiuti industriali e urbani». Sottoponendo una biomassa a un processo di
digestione o fermentazione anaerobica (cioè in assenza di ossigeno) è possibile
produrre biogas, composto per circa il settanta per cento da metano, che può
essere usato per la combustione (cioè ad esempio per far funzionare un
fornello) oppure, attraverso un ulteriore passaggio in un cogeneratore,
trasformato in energia elettrica. Il digestato, cioè il sottoprodotto della
digestione, può essere utilizzato come fertilizzante. Oltre al metano, il
processo di digestione produce anidride carbonica (CO2); questo,
tuttavia, non ha effetti sul riscaldamento globale poiché quella quantità di
anidride carbonica sarebbe stata prodotta comunque dalla biomassa nel suo
naturale decomporsi.

Secondo il rapporto 2012 della Iea, l’agenzia
internazionale per l’energia fondata dall’Organizzazione per la Cooperazione e
lo sviluppo economico (Ocse), i biocombustibili, fra cui il biogas,
rappresentano a livello mondiale circa il dieci per cento della produzione
totale di energia. In Italia, secondo il rapporto 2013 dell’Osservatorio
Agroenergia, a fine 2012 erano 850 gli impianti di biogas in funzione, per un
fatturato complessivo di due miliardi e mezzo di euro e un potenziale di
produzione pari a 5,6 miliardi di metri cubi l’anno. L’Osservatorio ha
calcolato che «il biometano può arrivare a coprire fino al dieci per cento del
consumo lordo di energia (scenario di “crescita accelerata”) o circa il 5%
(scenario di “crescita moderata”) al 2020». Il Consorzio italiano biogas stima
in un miliardo e mezzo di euro il risparmio che deriverebbe dal non dover
comprare gas dall’estero e ricorda che l’industria italiana del biogas dà
attualmente lavoro a circa dodicimila addetti.

Sulla carta, quindi, quella delle biomasse è
un’opportunità da non perdere per ridurre la dipendenza italiana dal gas
importato, pari a circa settanta miliardi di metri cubi l’anno. La
realizzazione pratica, tuttavia, non si sta svolgendo senza intoppi. Da un
lato, infatti, ci sono casi di successo come quello di Bertiolo, in provincia
di Udine, dove il biogas è stato ribattezzato il «petrolio verde». L’impianto
della Greenway, società che riunisce dieci aziende agricole locali,
produce oltre ottomila megawattora di elettricità in dodici mesi e ha creato un
giro d’affari di circa un milione di euro all’anno. La filiera corta, cioè
basata su operatori che agiscono in un territorio circoscritto e in contatto diretto
fra loro, è indicata dai produttori come una condizione imprescindibile per il
successo dell’iniziativa: i produttori, infatti, ricavano da circa trecento
ettari di coltivazioni locali tutta la materia prima necessaria per far
funzionare l’impianto, senza spese aggiuntive per trasporti delle materie prime
e creando un indotto importante per i piccoli paesi della zona.

Ma accanto a casi virtuosi come quello friulano, ce ne
sono altri nei quali la situazione non è così rosea: a Ponte Guerro, in
provincia di Modena, i cittadini hanno ingaggiato una lunga battaglia con Hera,
il gestore dell’impianto di biogas, esasperati dai miasmi prodotti dalla
centrale locale; il Centro Documentazione Conflitti Ambientali, nell’ambito
della campagna Green Lies (Bugie Verdi) che indaga i lati oscuri della green
economy
ha poi raccolto in un documentario le testimonianze dei cittadini
di Bondeno (Ferrara) e Mezzolara (Bologna) dai quali emerge che l’alimentazione
degli impianti a biogas previsti dal piano energetico regionale richiederebbero
seicentomila ettari di mais coltivati localmente e il conseguente
sconvolgimento dell’uso tradizionale dei terreni agricoli del ferrarese e del
bolognese.

Il documentario segnala inoltre «mancanza totale di
coinvolgimento e corretta informazione dei cittadini (…); piani di sviluppo
lontani dalle necessità e dall’esigenza dei territori e dei cittadini che lo
abitano; sistemi di incentivi sregolati che non permettono lo sviluppo graduale
e sostenibile di nuove economie locali a medio e lungo termine; assenza di
reali e efficienti misure di valutazione dei progetti, di controllo degli
impianti e del trattamento dei residui pericolosi e di future misure di
bonifiche; mancanza di conoscenza e curiosità tecnica da parte dei decisori che
avallano progetti inadatti».

Infine va considerato lo stravolgimento dei prezzi di
mercato nei casi di siccità (come è successo nel 2012) e, quindi, di scarsa
produzione, perché il bisogno di biomasse assorbe anche il prodotto vergine
destinato all’alimentazione animale e umana.

In assenza di una regolamentazione chiara e univoca e
guardando al biogas nella sola ottica del business, insomma, il rischio è
quello di trasformare una possibile occasione di crescita economica in
un’attività che danneggia il territorio. L’Energy & Strategy Group
del Politecnico di Milano, proprio partendo dall’analisi di questi rischi, ha
raccomandato di tornare al principio del chilometro zero: piccoli impianti
sostenibili alimentati da scarti agricoli e forestali locali e non da biomasse
vergini, cioè da prodotti coltivati ex-novo con lo scopo di essere
utilizzati per la produzione di biogas.

Il biogas nel Sud del mondo

Il biogas sta rivelandosi una novità dai risvolti
potenzialmente decisivi anche per le economie del Sud del mondo. Si
moltiplicano, anno dopo anno, i progetti sostenuti dalle istituzioni
inteazionali e dalle Ong con l’obiettivo di rispondere alla crescente domanda
di energia dei paesi in via di sviluppo, e diversi rapporti illustrano i
vantaggi di cui beneficia chi si è lanciato nella nuova avventura del biogas.
La Thomas Reuters Foundation riporta il caso di Parshottambhai Shanabhai
Patel, un contadino dello Stato di Gujarat, nell’India nord-occidentale, che
dal 2009 produce biogas grazie al quale fa funzionare il suo impianto di
irrigazione. Con duecento chili al giorno di letame delle sue vacche riesce a
produrre energia per otto – dieci ore e non deve più affrontare il costo, pari
a quattrocento euro l’anno, per il gasolio che alimentava la pompa. Inoltre,
soddisfatti i bisogni della propria fattoria, Patel può vendere l’energia in
avanzo agli altri coltivatori per sessanta rupie (circa un dollaro) all’ora.

Il Christian Science Monitor illustra poi
l’esempio della scuola di Gachoire, nel Kenya centrale, dove le acque reflue
delle latrine usate dagli oltre ottocento ragazzi della scuola vengono
convogliate nel digestore e convertite in gas per i fornelli della cucina. E
ancora, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), gli
scarti di un mattatornio a Dagoretti e la raccolta dei rifiuti a Kibera (due slums
di Nairobi) permettono di soddisfare, rispettivamente, il fabbisogno energetico
per il funzionamento del mattatornio e il fornello comunitario. I benefici per
l’ambiente derivano ovviamente anche dal fatto che i rifiuti animali del
macello non finiscono più nel vicino fiume (che era stato ribattezzato «il
fiume di sangue») e che la raccolta di rifiuti ha migliorato la salubrità del
quartiere.

Energypedia,
l’enciclopedia dell’energia avviata fra gli altri dall’agenzia di cooperazione
internazionale tedesca (Giz – Gesellschaft für Inteationale Zusammenarbeit),
riporta che il consumo energetico kenyano viene soddisfatto per oltre due terzi
dalla legna da ardere e dalla carbonella; la richiesta di legna sarebbe pari a
trentacinque milioni di tonnellate annue e rimane inevasa per oltre la metà.
Con questi numeri, è evidente che il rischio di deforestazione per il paese è
altissimo e il biogas può davvero rappresentare una svolta verso una soluzione
che impedisca la devastazione del patrimonio forestale del paese.

Mediamente, nei paesi in via di sviluppo, gli impianti
sono di piccole, se non piccolissime, dimensioni e vanno a sopperire alla
richiesta energetica di singole famiglie o comunità. Il rischio, nel Sud del
mondo come nel Nord, è quello delle speculazioni da parte di grandi produttori
industriali o società finanziarie.

Chiara
Giovetti

Progetto_____________________

La Fiamma di Natale

Quest’anno, la campagna di
Natale di Missioni Consolata Onlus si concentra su un tema
apparentemente poco natalizio: il biogas.

Questa volta abbiamo dato
un’interpretazione diversa del «regalare la vita» (lo slogan delle nostre
passate campagne): «preservare la vita che ci dà la Terra».

Su un pianeta che si sta
suicidando, utilizzando indiscriminatamente le risorse naturali a vantaggio di
pochi, l’attenzione per i temi dell’ambiente non può essere un lusso radical
chic
da occidentali ma un problema di tutti, ovunque. Un cittadino del Sud
del mondo ha diritto come chiunque altro a vivere in un ambiente pulito,
salubre, in un territorio non devastato da disastri ambientali provocati dalla
deforestazione e dall’inquinamento. L’energia, che permette di cucinare, di
pulire, di illuminare deve poter essere a disposizione di tutti.

Ecco perché quest’anno
abbiamo scelto di sostenere il progetto biogas di Familia ya Ufariji, a
Kahawa West, un quartiere della periferia di Nairobi.

Familia ya Ufariji
(Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di
strada fondata nel 1996 dai Missionari della Consolata. Oggi ospita sessanta
bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Da anni, Familia
ha avviato una serie di attività agricole che hanno il doppio risultato di
permettere alla struttura di contribuire al proprio mantenimento e ai ragazzi
ospitati di collaborare alle attività, apprendendo tecniche agricole che
permetteranno loro di avere una competenza professionale da utilizzare per il
proprio sostentamento.

Nella piccola fattoria di Familia
ci sono attualmente sei vacche e tre vitelli che possono fornire letame per far
funzionare un impianto per la produzione di biogas. Il gas prodotto sarà
utilizzato per integrare ed eventualmente sostituire la legna, il gas Gpl e gli
scarti del mais attualmente utilizzati per il fuoco della cucina. Un digestore
di ventiquattro metri cubi sarà sufficiente per fornire il gas a un fornello.

Padre Lorenzo Cometto e
fratel Kenneth Wekesa si occuperanno della realizzazione del progetto,
coadiuvati da tecnici locali specializzati per garantire che il piccolo
impianto sia costruito e messo in funzione nel rispetto delle norme di
sicurezza. Il costo del progetto è di 8.156 euro. Anche una piccola donazione
può servirci per acquistare le cistee, il cemento, i tubi e tutto il
materiale necessario alla realizzazione del digestore e alla sua messa in
funzione. (Chi. Gi.)

Maggiori informazioni sui dettagli del progetto sono
disponibili sul sito di Missioni Consolata Onlus:
www.missioniconsolataonlus.it

Chiara Giovetti

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