Lo Yom Kippur alla corte di Strasburgo
la sua richiesta di rinvio di un’udienza per partecipare alla festa del Yom
Kippur. E ricorre alla Corte di Strasburgo (Cedu) per il mancato rispetto del
suo diritto di culto. Un caso emblematico della difficile ricerca di equilibrio
tra diritti in conflitto. E del ruolo fondamentale che la Corte svolge nella
costruzione di una comune coscienza civile in Europa, anche sul tema della
libertà di religione. Prendendo in esame le sentenze della Cedu, possiamo
comprendere se in Europa esiste un problema di libertà religiosa e di pensiero
e, quindi, di laicità dello stato.
La Corte europea dei diritti
dell’uomo (Cedu) ha il compito di decidere se nei paesi che fanno parte del
Consiglio d’Europa e dell’Unione europea viene violata la libertà religiosa,
oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il pluralismo
religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i principi
costitutivi dell’Europa. La Cedu è sorta nel 1959 sulla base della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Chiunque ritenga che tali diritti non siano stati rispettati, si può appellare
a essa. Per i casi riguardanti la libertà religiosa l’articolo della
Convenzione europea a cui fare riferimento è il numero 9 sulla libertà di
pensiero, di coscienza, di religione e di manifestare la propria fede o le
proprie convinzioni.
A livello europeo le sentenze della Cedu sono molto importanti, al
di là di quanto affermano le singole Costituzioni nazionali (le quali, essendo
tutte democratiche, riconoscono esse stesse in linea di principio le medesime
libertà). Se infatti, all’interno di un singolo paese europeo i diritti e le
libertà fondamentali venissero, per qualsiasi motivo, violati, la Cedu può
riconoscerlo grazie al suo ruolo di giudice di ultima istanza.
È per questo che la Corte svolge il fondamentale compito di
contribuire alla costruzione in Europa di una comune coscienza civile, quindi
anche riguardo alla libertà di religione.
Analizzando le sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo ci
troviamo di fronte a casi emblematici che mostrano, spesso, quanto sia
difficile trovare l’equilibrio giusto tra diversi diritti: ad esempio il
diritto di culto di un avvocato e il diritto di altre persone alla durata
ragionevole di un processo.
È il caso della sentenza emessa dalla Corte il 3 aprile 2012 che
vedeva l’avvocato napoletano di religione ebraica Francesco Sessa in
contrapposizione al governo italiano per la presunta violazione del suo diritto
di culto.
Il 7 giugno 2005 l’avvocato Sessa si presenta al giudice delle
indagini preliminari (Gip) di Forlì in rappresentanza di uno dei due querelanti
in una causa penale contro diverse banche. Il Gip titolare non può presenziare
all’udienza, e il suo sostituto, per fissare l’udienza successiva, propone due
possibili date: il 13 o il 18 ottobre. Entrambe, tuttavia coincidono con feste
ebraiche: rispettivamente lo Yom Kippur e il Succot. L’avvocato di Napoli lo fà
presente. Osservante, membro della comunità ebraica della sua città, non potrà
partecipare all’udienza di rinvio. E chiede che venga indicata una data
diversa, appellandosi alla legge del 1989 che regola i rapporti tra lo stato
italiano e l’Unione delle comunità ebraiche. Ma il giudice non tiene conto
della richiesta, e fissa l’udienza per il 13 ottobre. Anche il Gip titolare
della causa, cui l’avvocato napoletano si rivolge immediatamente, respinge la
sua richiesta di rinviare la nuova udienza. L’interessato, allora, sporge
querela contro entrambi i giudici.
Arriva frattanto l’udienza del 13 ottobre e l’avvocato non si
presenta. Il Gip lo dichiara assente per «ragioni personali» e, raccolto il
parere delle parti, rigetta la sua richiesta di rinvio perché non aveva motivi
legittimi per ottenerlo. L’avvocato napoletano fa ricorso contro tale
decisione. La causa, attraversati tutti i gradi di giudizio, termina il 15
febbraio del 2008, quando il Gip di Ancona, cui era alla fine pervenuta,
l’annulla sostenendo che nessun elemento dimostrava una violazione del diritto
dell’avvocato di esercitare liberamente il culto ebraico o un attentato alla
sua dignità in ragione della sua fede religiosa.
Sessa decide quindi di fare ricorso alla Cedu. Appellandosi all’art.
9 della Convenzione per i diritti dell’uomo, sostiene che l’aver fissato
l’udienza nel giorno di una festa ebraica gli ha impedito di partecipare
all’udienza attentando al suo diritto di manifestare liberamente la propria
religione. La legge del 1989, secondo lui, l’autorizzava ad assentarsi dal
lavoro in occasione di feste ebraiche, per poter esercitare il proprio culto.
Il governo italiano, contro cui l’appello alla Cedu è rivolto,
naturalmente è di parere contrario. E sostiene che il diritto invocato dall’avvocato
di Napoli non riveste carattere assoluto. Infatti la stessa legge che regola i
rapporti dello stato con l’Unione delle comunità ebraiche prevede espressamente
che le esigenze legate a servizi essenziali dello stato prevalgano sul diritto
dell’individuo a esercitare liberamente il proprio culto. E l’amministrazione
della giustizia costituisce certamente un servizio essenziale. Inoltre
l’avvocato avrebbe potuto farsi sostituire per quella particolare giornata da
un collega, e non l’ha fatto. Egli dunque ha rinunciato a conciliare gli
obblighi religiosi legati al suo culto con le esigenze della buona
amministrazione della giustizia.
Questa causa riveste un interesse particolare per il tema della
libertà religiosa nel nostro continente, perché la Corte europea dei diritti
umani deve confrontare il caso specifico dell’avvocato napoletano con i
principi fondamentali espressi nell’articolo 9 della Convenzione: la libertà
religiosa riguarda prima di tutto il «foro interiore» delle persone, ma implica
egualmente il diritto di manifestare la propria religione sia in modo
collettivo, in pubblico e assieme a chi condivide la stessa fede, sia
individualmente e in privato. La Corte sottolinea quindi che la libertà
religiosa non è una questione solo «interiore», soggettiva e individuale. Essa
non è un fatto «privato», come un certo «laicismo» di carattere «radicale»
pretende. Ha invece anche dimensione e rilievo pubblici. E solo tutelando
entrambe queste dimensioni si può parlare di libertà religiosa.
La Corte, da un lato, sostiene, in base a queste valutazioni, che
l’avvocato di Napoli aveva tutto il diritto di partecipare alle feste della sua
religione.
Dall’altro lato, la stessa Corte afferma che tale diritto non è
assoluto. L’articolo 9, infatti non protegge qualsiasi atto ispirato a una
religione. E per chiarirlo ricorda altri due casi emblematici, su cui si era
espressa in precedenza. Il primo riguardava un agente di servizio pubblico,
Tuomo Konttinen, Finlandese, licenziato perché non aveva rispettato i suoi
orari di lavoro per la ragione che la Chiesa avventista del settimo giorno, a
cui egli apparteneva, vieta ai suoi fedeli di lavorare il venerdì dopo il
tramonto del sole. Il secondo si riferiva a un militare turco di nome Kalac
collocato d’ufficio in pensione per motivi disciplinari, perché manifestava
idee integraliste. In questi casi la Corte aveva ritenuto che non valesse
l’art. 9 perché le misure prese non erano motivate dalle idee religiose degli
interessati ma dagli obblighi contrattuali specifici che li legavano ai loro
datori di lavoro.
Anche nel caso dell’avvocato napoletano secondo la Corte non si è
verificata alcuna restrizione del suo diritto di esercitare liberamente il suo
culto. Infatti l’interessato aveva potuto svolgere i propri doveri religiosi.
Egli avrebbe dovuto invece soddisfare comunque i suoi doveri professionali
facendosi sostituire nell’udienza da un collega.
La sostanza della sentenza della Corte va quindi contro Francesco
Sessa: non è stato un caso di violazione del suo diritto di religione.
All’interno della Corte la decisione non è stata facile da
prendere. Dei sette membri che la costituivano, tre hanno sostenuto che si era
verificata comunque una ingerenza nei diritti dell’interessato.
In una società democratica la possibilità di ingerenza è ammessa
dalla legge quando si tratta di proteggere i diritti e le libertà altrui. In
questo caso il diritto dell’avvocato napoletano era in conflitto con il diritto
delle persone coinvolte nel processo al quale Sessa avrebbe dovuto prender
parte a godere di una buona amministrazione della giustizia e a vedere
rispettato il principio della durata ragionevole del processo. Secondo i tre
membri della corte che davano «ragione» all’avvocato, tuttavia, l’ingerenza non
aveva risposto al criterio della proporzionalità, secondo cui tra i vari mezzi
che permettono di raggiungere lo scopo legittimo perseguito, le autorità devono
scegliere quello che lede meno i diritti e le libertà. Si doveva infatti
scegliere una soluzione che permettesse di conciliare sia i diritti di libertà
religiosa dell’avvocato di Napoli sia quello di buona amministrazione della
giustizia delle parti in causa, ad esempio organizzando in modo diverso il
calendario delle udienze. In quel caso, i disagi e i problemi provocati da tale
scelta avrebbero rappresentato un modico prezzo da pagare per il rispetto della
libertà di religione in una società multiculturale. In più, secondo loro, non
esisteva alcun motivo di urgenza, dato che non erano previste misure che
privassero qualcuno della libertà. Per questo, tre giudici su sette erano del
parere che fosse stata violata la libertà religiosa di Francesco Sessa.
Fatto sta che alla fine, nonostante i tre pareri a favore
dell’avvocato di fede ebraica, la sentenza della Corte gli ha invece dato
torto. Si può non essere d’accordo. Occorre tuttavia sottolineare l’importanza
dei principi affermati dalla Corte nella sua sentenza. Il fatto stesso che essa
abbia deciso a stretta maggioranza, dimostra quanto delicata sia la questione
del rispetto del diritto alla libertà religiosa, sia nella sfera privata sia in
quella collettiva e pubblica. Esso non è, come detto, un diritto assoluto, e la
sua limitazione – possibile esclusivamente per tutelare i diritti altrui – va
considerata con grande attenzione e prudenza. La libertà religiosa, come quella
di pensiero e di coscienza, è uno dei cardini fondamentali su cui si basa una
società autenticamente laica e pluralista.
Paolo Bertezzolo