Bolivia. La speranza abita sugli altipiani

Tra gli indigeni degli altipiani boliviani,
a 3.000-4.000 metri d’altezza, Evo Morales ha raccolto gran parte del proprio
consenso elettorale. La povertà è diminuita grazie ai programmi governativi.
Tuttavia, i problemi e le contraddizioni non mancano. La foglia di coca è
giustamente difesa, ma Morales è ambiguo sulla lotta al narcotraffico. E la brutta vicenda del Tipnis, un parco nazionale
e indigeno di inestimabile valore, macchia fortemente le credenziali
indigeniste e ambientaliste del presidente.

La Paz. Maxima
Machaca ha un negozio di artigianato in Calle Linares, una via popolarmente conosciuta come
«strada delle streghe». Sua sorella Ilaria è venuta a trovarla da El Alto. Ha un cappello bianco in testa e quasi
non parla spagnolo, ma anche senza tante parole risulta subito simpatica. Forse
perché, al contrario della sorella, lei non è in contatto con stranieri e
dunque è rimasta indigena anche negli atteggiamenti. Muovendosi tra pile di
maglie in lana di alpaca1, coperte colorate e borse in cuoio, buttiamo
lì qualche domanda di politica. Le due sorelle sono per Evo. «È uno di noi»,
dice Maxima senza alzare lo sguardo, mentre Ilaria annuisce con un sorriso.

Entriamo in un negozio molto diverso. Uno di quelli che
giustificano il nome di «strada delle streghe»: all’entrata sono esposti feti
di lama, usati dai locali come offerta alla Pachamama2;
all’interno, gli scaffali sono ricolmi dei rimedi erboristici più strani, ritenuti
capaci di risolvere ogni problema del fisico e dello spirito. Accanto a ciò, ci
sono poi i prodotti a base di coca: farina, unguento, liquore e altro ancora.
Perché la coca è nella storia e nella quotidianità della Bolivia.

UOMINI E COCA  

Un gruppo di persone, quasi tutte indigene, è
riunito in circolo a pochi metri dalla chiesa di San Francisco, nello spiazzo
costruito davanti al Mercado Lanza, un moderno (e brutto) centro
commerciale. Al centro,
per terra, c’è una coperta a strisce colorate su cui sono adagiate delle foglie
di coca.

Le donne stanno tra loro, sedute per terra,
avvolte nei loro abiti colorati e con in testa una bombetta nera o marrone. Gli
uomini sono in piedi. Chi vuole parlare fa un passo avanti. Parlano tutti con tono monocorde, senza
gestualità. Non si esprimono in spagnolo, ma in lingua aymara. Chiediamo
a uno spettatore quale sia l’argomento: la produzione della coca e le relazioni
con il governo.
Una persona gira tra il pubblico con un
bicchiere e una bottiglia di Coka Quina, una delle alternative locali
alla Coca Cola3: la serve a chiunque ne voglia. Tra i presenti alcuni evidenziano un
rigonfiamento su una guancia, quasi avessero in bocca una pallina. È la storica
pratica della masticazione delle foglie di coca, nota come acullico, che
soltanto da poco le Nazioni Unite hanno dichiarato legale all’interno della
Bolivia4.

Sulla questione della coca le relazioni tra
la Bolivia di Evo Morales e la comunità internazionale sono da tempo tese.
Trovare una soluzione che rispetti le esigenze (e gli interessi) di tutti pare
un’impresa ai limiti dell’impossibile. In Bolivia, l’importanza della coca è
addirittura sancita nella carta costituzionale del 2009. L’articolo 384 recita
infatti: «Lo Stato protegge la coca nativa e ancestrale come patrimonio
culturale, come risorsa naturale rinnovabile della biodiversità della Bolivia e
come un fattore di coesione sociale. Nel suo stato naturale essa non è uno
stupefacente. La rivalutazione, la produzione, la commercializzazione e
l’industrializzazione della stessa saranno regolate tramite legge».

Alcune province del paese – le due dello
Yungas (nel dipartimento di La Paz) e soprattutto quella del Chapare (nel
dipartimento di Cochabamba) – vivono grazie all’economia della coca. Per la
coca i confini tra legalità e illegalità, tra interessi locali e interessi
inteazionali sono alquanto labili. Di certo, a causa della coca, il
presidente Morales ha commesso un grosso errore. È successo nella vicenda –
tuttora insoluta – del Tipnis, un territorio naturale e indigeno di
inestimabile valore attraverso il quale il governo – incurante della Madre
Terra e dei diritti degli indigeni (leggere riquadro) – vorrebbe far
passare una strada. Una strada che risponderebbe alle richieste dei cocaleros
del confinante Chapare, bramosi di nuove terre per le loro coltivazioni.

Al riguardo, non va dimenticato che lo
stesso Evo Morales è un ex cocalero del Chapare ed è tuttora presidente
del sindacato dei produttori, che lo hanno rieletto nel luglio 2012, dando
buoni motivi a chi parla di conflitto d’interessi.

Anche i numeri della coca sono controversi.
Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite5, gli ettari coltivati a coca sono 27.200. Di questi
12.000 servono per soddisfare la domanda di acullico (compresa la coca
che viene assorbita da produzioni industriali). Dove finisce la restante
produzione se non nel circuito del narcotraffico? Una cosa è drammaticamente
certa: in tutti i paesi confinanti la droga rappresenta un’emergenza nazionale.
In particolare, in paesi come il Brasile e l’Argentina, invasi da sottoprodotti
della cocaina come il crack e la pasta basica, venduti a prezzi
molto bassi e dunque accessibili a chiunque.

GLI INDIGENI E LA DIGNITÀ RICONQUISTATA

Da plaza San Francisco a plaza Murillo sono
10-15 minuti a piedi. Qui si trovano il Congresso, la Presidenza della
repubblica e la cattedrale. Il giardino che è al centro della piazza, attorno
alla statua di Murillo, è luogo di ritrovo soprattutto per chi ama i piccioni,
presenti in gran numero.

Tre donne indigene, sedute sui gradini che
guardano verso la cattedrale, stanno gustandosi un gelato tra una chiacchiera e
l’altra. In Bolivia ci sono 5 milioni di indigeni su 10 milioni di abitanti:
dopo il Guatemala, è il paese latinoamericano con più popolazione indigena. Le
etnie principali sono, in ordine decrescente: i Quechua, gli Aymara, i Chiquitano, i Guaraní e i Moxeño6. È opinione diffusa che qui stia il principale successo
della presidenza Morales: il riscatto della dignità per ampie fette di
popolazione indigena. Sugli altipiani, dove gli indigeni sono in larga
maggioranza, la speranza è che, dopo aver riportato la dignità, il governo
riesca anche a vincere la povertà. Infatti, nonostante i progressi degli ultimi
anni (leggere intervista alle pagine seguenti), circa la metà dei
boliviani continua a vivere in povertà (relativa o estrema), soprattutto nelle
aree rurali.

UNA DURA ESISTENZA

Il micro (minibus) partirà soltanto a
pieno carico: 10 persone più l’autista. Il tempo passa e mancano ancora due
passeggeri. Siamo in tensione perché dobbiamo arrivare a Desaguadero, al
confine con il Perù. Sul lato peruviano c’è un bus a lunga percorrenza per
Lima, che però non aspetta i ritardatari.

Finalmente il minibus è pieno: si può
partire. Per il piccolo automezzo la salita per raggiungere El Alto sembra un
ostacolo insormontabile. Affronta i ripidissimi tornanti con una lentezza esasperante,
ma procede senza intoppi fino ai 4.000 metri di El Alto.

Passata la città, costeggiata la zona
archeologica di Tiahuanaco, l’altipiano appare in tutta la sua vastità e, se
così possiamo dire, nella sua nudità, dato che, a causa dell’altitudine, quasi
non ci sono alberi. Sullo sfondo s’intravvedono le cime innevate. Mentre lungo
la strada asfaltata si susseguono una miriade di minuscoli villaggi dove
l’esistenza è scandita dai tempi di un’agricoltura di sussistenza. Al contrario
che in altre zone, qui il reddito non può essere integrato dalla coltivazione
della coca, che a queste altitudini non cresce.

SUL CONFINE DI DESAGUADERO

Ecco finalmente Desaguadero, un brutto paese
che vive dei traffici con il confinante Perù. Tra le due frontiere è un
andirivieni di persone e cose. In direzione Perù biciclette-risciò a tre ruote
trasportano persone che vogliono attraversare la frontiera. Verso il lato
boliviano si dirigono invece carretti stracolmi di prodotti agricoli. Cerchiamo
un posto per cambiare i soldi. Lo fanno, in maniera informale ma sicura, una
fila di indigene sedute a lato del posto di controllo peruviano. Vestite
secondo tradizione, queste donne  hanno
lasciato i campi per un lavoro «moderno», ma senza rinnegare le proprie
origini.

Una donna con bombetta nera e treccia sulla
schiena ci cambia i bolivianos
avanzati in soles peruviani. Con la nuova moneta nelle tasche ci
avviamo alla fermata del bus.

Paolo Moiola
(seconda puntata – fine)7
Note

1 – L’alpaca è un mammifero
della famiglia dei camelidi originario dell’America Latina. Ne fanno parte
anche il lama, la vigogna e il guanaco.
2 – Indica la «Madre terra» in
lingua aymara e quechua.
3 – Le altre alternative
boliviane alla Coca Cola sono la Coca Colla e la Mendocina.
4 – Il 10 gennaio 2013 l’Onu
ha riammesso la Bolivia nella Convenzione di Vienna, legalizzando la pratica
del «masticato di coca» (acullico). Hanno votato a favore 168 paesi,
mentre 15 si sono dichiarati contrari.
5 – Unodc, Estado
plurinacional de Bolivia. Monitoreo de cultivos de coca 2011
, settembre 2012.
6 – Cepal, Los pueblos
indígenas de Bolivia: diagnóstico sociodemográfico a partir del censo del 2001
,
Santiago del Cile 2005.
7 – La prima puntata è stata
pubblicata sul numero di maggio 2013.

La vicenda del Tipnis

 

LA PACHAMAMA TRADITA

Il Tipnis è in pericolo. Il
governo vuole costruirvi una strada. Nessun dubbio sulle conseguenze: una
strada determinerebbe la fine del parco. Non lo dicono soltanto le associazioni
ambientaliste e indigene, ma anche un durissimo rapporto redatto dalla Chiesa
cattolica boliviana.

Il Tipnis – acronimo di
«Territorio Indigena Parque Nacional Isiboro Secure» – è un territorio indigeno
e parco nazionale di inestimabile valore naturale ed etnico. Localizzato nel
cuore della Bolivia, tra i dipartimenti di Cochamamba e Beni e soprattutto tra
le province cocalere di Yungas e Chapare, il Tipnis ha un’estensione di circa
1,2 milioni di ettari1. Da tempo il governo centrale spinge per costruire una
strada di 200 chilometri che dovrebbe attraversare il parco per unire Villa
Tunari (Cochabamba) e San Ignacio de Moxos (Beni). Evo Morales e il Mas
(partito Movimiento al Socialismo) sostengono che l’opera è necessaria per lo
sviluppo della regione e per semplificare i collegamenti tra i dipartimenti
coinvolti. Da più parti si sostiene invece che il vero obiettivo è aprire quel
territorio alla colonizzazione, soprattutto da parte dei cocaleros del Chapare
(sempre alla ricerca di nuove terre), ma anche di allevatori, boscaioli,
petrolieri e minatori. Qualunque sia l’obiettivo, è sicuro che una strada
decreterebbe la fine del parco, della sua straordinaria biodiversità e dei
gruppi indigeni ivi residenti (sul cui effettivo numero si litiga – si parla di
69, 58 e 42 – aumentando la confusione)2.

Il governo ha fatto leva sul
concetto di «intangibilità» del Tipnis, previsto dalla Legge 180, presentandolo
in maniera subdola alle comunità indigene: se vi appellerete all’intangibilità
– è stato detto loro -, non potrete più svolgere alcuna attività all’interno
del parco (né caccia, né pesca, né attività boschive). Una incredibile trappola
interpretativa, che non fà onore al governo di Evo Morales.

Infine, per ampliare il
consenso e dare una parvenza di legalità e democrazia, il governo ha indetto
una consultazione tra le comunità indigene del Tipnis. La consultazione –
svolta tra il 29 luglio e il 7 dicembre 2012 – avrebbe decretato, stando ai
dati ufficiali, che la maggioranza delle comunità indigene approvano la
costruzione della strada. Tuttavia, sia il risultato che le modalità di
consultazione sono fortemente contestate. Anche dalla Chiesa cattolica
boliviana e dall’Assemblea permanente per i diritti umani. Dal 29 novembre al
13 dicembre una commissione delle due organizzazioni ha visitato 36 comunità
del Tipnis. Il rapporto che ne è uscito è duro e circostanziato, parlando di
gravi violazioni nel processo consultivo, di mancanza di informazioni
sull’impatto della strada, di regali e minacce alle comunità per influenzare la
loro decisione e infine di risultati completamente falsati. Delle 36 comunità
indigene visitate dalla commissione soltanto 3 si sono espresse a favore
dell’opera3.

Per un ambientalista – e chi
scrive è tra costoro – leggere la Costituzione della Bolivia o alcune delle sue
leggi sulla Madre Terra è come leggere la descrizione di un mondo ideale in cui
uomo e natura convivono. La realtà mostra però altre facce. Anche nella Bolivia
di Evo Morales.

Paolo Moiola
Note

1 – Un’estensione di poco
inferiore a quella del Trentino Alto Adige.
2 – Fonti dei dati: Huellas,
La Paz, febbraio 2012; Mojón 21, Santa Cruz, novembre 2012.
3 – Il rapporto, presentato il
17 dicembre 2012, è reperibile sul web: www.cedib.org/documentos.

Incontro con il prof.
Francesco Zaratti
«NÉ INDIGENISTA, NÉ AMBIENTALISTA. EVO SENZA MASCHERA»

La presidenza Morales ha
ottenuto alcuni  significativi successi. Tuttavia,
l’attaccamento al potere e l’invasività governativa stanno producendo gravi
danni.  Le critiche (severe, ma  circostanziate) di  Francesco Zaratti, intellettuale conosciuto e
rispettato. La Paz. L’appuntamento è
davanti alla torre della Umsa, l’Universidad Mayor de San Andrés.
Francesco Zaratti vi ha insegnato fisica dal 1974. Oggi è professore emerito e
direttore del Laboratorio di fisica dell’atmosfera. Tuttavia, nonostante i
meriti professionali, la sua notorietà tra il grande pubblico non è nata in
ambito accademico, bensì dal suo incarico di assessore durante la presidenza di
Carlos Mesa1, editorialista di numerosi quotidiani (La Prensa, La
Razón, Página Siete, El Día
, ecc.) e oggi volto televisivo di Cadena A. In
ogni caso, Francesco Zaratti è un grande conoscitore della realtà boliviana.

Professor Zaratti, qualche anno fa lei disse che la vittoria elettorale
di Evo Morales rappresentava un’opportunità unica per il paese2.
Dopo 7 anni di presidenza, la sua opinione è cambiata?

«La presidenza di Evo Morales
era inevitabile o quasi. C’era troppa insofferenza sociale nelle classi
contadine ma anche in quelle medio-basse per una situazione che non cambiava. O
meglio: cambiavano i presidenti, ma non la situazione. I governi precedenti non
avevano avuto né la volontà politica né le risorse per fare riforme vaste e
profonde, soprattutto per il problema principale: l’estrema povertà della
popolazione. Evo Morales era l’unico condidato con proposte veramente
rivoluzionarie. Per questo, nel dicembre 2005, vinse con il 54% dei voti: una
cosa mai successa. Da quel momento è cominciata anche la fortuna di Morales.
Parlo di fortuna perché alcune delle sue idee ha potuto realizzarle grazie a
una bonanza economica mai vista, dovuta principalmente alla vendita del gas
boliviano al Brasile e all’Argentina».

Sui giornali e in televisione lei è un critico severo del governo.

«Con tutta evidenza lo sono.
Tuttavia, questo non mi ha impedito e non mi impedisce di riconoscere alcuni
successi che esso ha ottenuto. Una delle cose più interessanti è stata
l’inclusione sociale, che tutti – anche gli oppositori più intelligenti – gli
riconoscono. Evo è riuscito a fare in modo che anche le classi di etnia
indigena potessero accedere al potere. Adesso si può trovare un ministro o un
viceministro di discendenza aymara, cosa prima rarissima. C’è poi stata una
redistribuzione economica attraverso i sussidi (i cosiddetti bonos) che si
danno a settori poveri della popolazione, compresi anziani e donne con bambini.
Sono pochi soldi ma, se utilizzati bene, servono, soprattutto nei piccoli
villaggi. Oltre a ciò, ci sono stati investimenti nei municipi (scuole, strade,
infrastrutture), pur in presenza della corruzione».

Detto questo, cosa contesta a Evo Morales?

«Questo governo ha un
obiettivo principale: quello di rimanere al potere. Tutto è subordinato a
questo, compresa l’economia, che però ha tempi più lunghi, non coincidenti con
quelli delle elezioni. Succede così che gli
investimenti dall’estero siano praticamente nulli. I pochi che si sono
azzardati, si sono scottati. Nessuno vuole investire: è un segno di sfiducia
verso un paese dove non ci sono o non si rispettano le regole».

Professore, lei ha parlato di una bonanza economia fondata sullo
sfruttamento del gas. Come esperto in materia energetica, come valuta la
situazione?

«Allo stato va piú del 50% del
valore alla fonte. Nelle casse pubbliche entrano tanti soldi, ma la Bolivia
continua ad essere uno stato estrattivista senza un modello sostenibile di
sviluppo: estrae la ricchezza dalla terra (gas, ma anche stagno, zinco,
argento) e la esporta. Quando le riserve saranno esaurite, che faremo? Non si
fanno investimenti. Non si fanno esplorazioni per ricercare nuovi giacimenti e
non si industrializza responsabilmente il gas. La compagnia statale Ypfb
è inadeguata. Per parte loro, le compagnie petrolifere straniere che operano in
Bolivia (Petrobras, Repsol, ecc.) non fanno investimenti in esplorazione
perché non si fidano».

All’estero il presidente Morales è molto conosciuto per le sue origini
indigene e per le sue posizioni ambientaliste.

«Evo ha il volto indigeno, ma
non la cultura. Lui è un cocalero. Ha lavorato nel Chapare muovendosi
nell’ambito culturale del sindacato e non certo in quello indigeno. Un esempio
concreto: per gli indigeni è inconcepibile che un capo sia una persona non
sposata. Ed Evo non è sposato. Lui si giustifica dicendo che si sacrifica per
il bene pubblico e che non ha tempo per una famiglia. Sia come sia, il suo
indigenismo è soltanto di facciata. Quanto all’Evo ambientalista, è un ruolo
che prima non aveva mai vestito. Lo hanno introdotto i suoi collaboratori per
fare di lui un difensore della natura. Alla prima grande prova è stato però
smentito: voleva fare una strada nella foresta del Tipnis. Insomma, anche
questa è una maschera ad uso e consumo degli stranieri e degli europei in
particolare».

La coca viene coltivata in Chapare e Yungas. Ci spiega dove sta il
confine tra produzione legale e illegale?

«Chapare e Yungas sono
territori molto diversi. In Chapare ci sono più raccolti annuali, ma si  produce una foglia di coca che non serve per
l’acullico. Tanto che i contadini del Chapare masticano la coca dello Yungas.
Ora, se per l’acullico ci vogliono 12.000 ettari e se gli ettari
coltivati sono circa 30.000, allora la domanda è: dove va la coca eccedente? E
ancora: come utilizzare la produzione del Chapare? Hanno cercato di fare
prodotti industriali: mate di coca, dentifricio di coca, spaghetti di coca e
quant’altro3. Stringi stringi non si tratta però di volumi
importanti, soprattutto perché questi prodotti non si possono esportare a causa
delle convenzioni inteazionali4. Dunque, tutta la produzione
eccedente va al narcotraffico, un affare che muove milioni di dollari».

La Dea, l’agenzia statunitense per la lotta alla droga, è stata espulsa
dalla Bolivia nel 2008, così come l’ambasciatore Philip Golberg. Come si
combatte allora il narcotraffico? 

«Con la cooperazione
internazionale, ma non con le modalità che erano state imposte dagli Stati Uniti.
L’accordo antidroga con il Brasile e gli Usa (firmato il 20 gennaio 2012) è una
buona cosa. Inteamente invece il governo sbaglia. Dato che i cocaleros sono
suoi alleati, non fa alcuna azione repressiva. Soprattutto se si tratta di cocaleros
affiliati al sindacato del Chapare».

Esiste ancora un progetto camba? In altri termini, il
separatismo della Mezza Luna è un’istanza ancora viva?

«In Santa Cruz, ci sono almeno
2 settori – curiosamente agli antipodi – che appoggiano Evo. Uno è quello delle
classi popolari, il secondo è quello dei grandi industriali. Questi ultimi
furono i grandi avversari del presidente. I gruppi separatisti dell’Oriente –
con i loro pregiudizi razzisti – erano finanziati dall’oligarchia di Santa
Cruz. Avendo perso, si sono accordati con il governo centrale. In fondo,
l’unica vera ideologia dell’oligarchia cruceña era quella di fare i
soldi. Se si fanno i soldi, allora “Viva Evo”».

Proprio in Santa Cruz e Beni, abbiamo incontrato persone che ci hanno
parlato di questo paese come di una dittatura. La Bolivia è una democrazia?

«È una democrazia perché ha
strutture democratiche. Però è una democrazia sui generis, dato che il potere
esecutivo controlla il parlamento, la giustizia, la polizia, l’esercito, i
sindacati. Se le elezioni fossero oggi, vincerebbe Evo Morales senza problemi,
anche perché non c’è una figura significativa dell’opposizione».

Professore, la Costituzione boliviana del 2009 è un testo di
straordinario valore. Come lo sono altre leggi. Ad esempio, quella sui diritti
della Madre Terra (legge 71 del 2010) e quella sulla Madre Terra e sullo
sviluppo integrale per il benvivere (legge 300 dell’ottobre 2012). Lei è
critico anche su queste?

«Su questo ha ragione: si
tratta di leggi interessanti, ben fatte, modee. Purtroppo, sono anch’esse
delle maschere. Come accaduto con la Costituzione, il governo di Evo Morales ha
fatto approvare delle belle normative, che però vengono immediatamente messe da
parte quando si scontrano con i piani politici. La vicenda del Tipnis è lì a
dimostrarlo».

Paolo
Moiola

Note

1 – Carlos Mesa è stato
presidente dall’ottobre 2003 al giugno 2005.
2 – Si fa riferimento a
un’intervista con Francesco Zaratti pubblicata su Missioni Consolata nel marzo
2006.
3 – La coca industrializzata
non raggiunge l’1 per cento della coca prodotta legalmente.
4 – In particolare, le
convenzioni Onu del 1961 e di Vienna del 20 dicembre 1988. Nel gennaio 2013 il
governo di Evo Morales ha espresso la volontà di chiedere alla comunità
internazionale la possibilità di esportare la coca industrializzata (prodotti
alimentari e medico-farmaceutici).

Paolo Moiola




4_Schiavitù: Vergogna del XXI secolo

Dalla Mostra «spezziamo le catene»  



A 125 anni dalla famosa campagna antischiavista del cardinal
Lavigerie con l’obiettivo di fermare l’ignobile «commercio dei negri»,
nonostante la tratta sia bandita in tutti gli stati del mondo, la schiavitù
continua in altre forme più sottili e più inumane, costituendo uno degli affari
più redditizi. Per ravvivare la denuncia di tale fenomeno, riportiamo alcuni
episodi e forme di schiavitù illustrate dalla mostra «Spezziamo le catene»
organizzata dai Missionari d’Africa e Missionarie di N.S. d’Africa, con la
collaborazione della redazione di Africa, rivista dei Padri Bianchi.

I NUOVI TRAFFICANTI

Una barca stipata di migranti, intercettata da una
motovedetta della Gardia di Finanza a Lampedusa. La crisi economica che
flagella l’Europa meridionale non frena il flusso di gommoni e imbarcazioni
provenienti dalle coste nordafricane. Solo nel 2012 oltre 1400 persone – in
fuga da guerre e povertà – sono giunte via mare in Italia. Almeno 200 sono
morte o rimaste disperse durante la traversata. Le rotte dell’immigrazione
illegale sono controllate da scafisti criminali – i modei trafficanti di
esseri umani – che vendono i «viaggi della speranza» per non meno di 2.500
dollari.

MERCANTI DI BAMBINI

Un camion carico di baby-schiavi, scoperto e bloccato
dalla polizia di frontiera nigeriana. In Africa occidentale prospera ancora
oggi un traffico clandestino di bambini e bambine – provenienti soprattutto da
Togo, Benin e Camerun – che vengono rapiti o acquistati da bande criminali, per
essere smerciati all’estero come servi domestici, operai tuttofare, schiavi
sessuali. Di recente le autorità governative hanno smascherato alcune cliniche
clandestine in cui decine di povere donne mettevano alla luce figli con lo
scopo di venderli ai trafficanti per poche decine di dollari.

BABY-SOLDATI

Nelle guerre civili in Liberia (1989 e 1999) hanno
combattuto circa 20 mila bambini. Anche nel recente conflitto in Sierra Leone
sono stati utilizzati migliaia di minori in divisa. Negli ultimi 30 anni almeno
200 mila baby-soldati hanno combattuto in Angola, Sudan e Uganda. Ancora oggi
miriadi di bambini sono forzatamente arruolati da gruppi ribelli nella
Repubblica democratica del Congo e in Centrafrica. In tutto il mondo sono più
di 250 mila i minori di 18 anni coinvolti nei conflitti armati. La metà si
trova in Africa.

MAURITANIA!

Una famiglia di discendenti haratin,
nella sua baracca a El-Mina, periferia di Nouakchott. In Mauritania la schiavitù
è stata abolita almeno tre volte nel secolo scorso; ma solo sulla carta;
nell’agosto del 2007, fu dichiarata nuovamente illegale e criminalizzato il
possesso di schiavi. Ma i leader politici non hanno mai agevolato i gruppi
inteazionali che cercano di portare alla luce tale pratica. Per cui ancora
oggi migliaia di neri africani – chiamati haratin – sono sfruttati e
maltrattati dai loro padroni di origine araba o berbera. La condizione di
schiavo viene trasmessa per via ereditaria… finché qualcuno non trova il
coraggio di spezzare le catene.

«SPOSE DI DIO»

Un sacerdote tradizionale del Ghana circondato da due
schiave trokosi (spose di Dio). Nei villaggi del popolo ewé
centinaia di bambine e ragazze vergini vengono sacrificate dai genitori e
affidate ai dignitari religiosi. Il motivo? Devono espiare una colpa compiuta
da un familiare e placare le ire del dio Troxovi, una divinità potente e severa
che si aggira lungo le rive del fiume Volta. Le donne ridotte in schiavitù sono
condannate a lavorare tutta la vita come serve per i «preti» locali: obbligate
a soddisfare i loro desideri sessuali, segregate all’interno dei templi sacri e
costrette a procreare il maggior numero possibile di figli (destinati anch’essi
a vivere come schiavi).

Nati con le catene

Alcune donne del Niger attingono acqua da un pozzo
scavato nel deserto. Alla miseria causata dalla situazione del deserto, nel
Niger si aggiunge la pratica secolare della schiavitù. Su una popolazione di
oltre 13 milioni di abitanti si calcola che 900 mila di essi vivano in stato di
schiavitù, 8% della popolazione totale. Una legge del 2003 è tornata a proibire
la riduzione in schiavitù e ai lavori forzati, ma gli schiavi non lo sanno e
nessuno ha interesse a istruirli sui loro diritti alla libertà. Essi nascono
con le catene in testa e se qualche associazione cerca di toglierle loro,
governo e poteri interessati cercano di impedirlo. Tale genere di schiavitù è
diffusa in altre regioni desertiche del Sahel.

SULLA STRADA

Prostitute africane in attesa di clienti. Si stima che
nel mondo circa un milione di esseri umani siano vittime di sfruttamento
sessuale. La metà di esse si trova in Europa. In Italia, dove le prostitute
straniere sono circa 25.000, la mafia nigeriana controlla il traffico
clandestino delle donne (rapite o attirate con l’inganno) provenienti
dall’Africa. Le ragazze vengono obbligate a svendere il proprio corpo per meno
di 30 euro. Devono lavorare anche quando sono malate e avere rapporti sessuali
non protetti; se rimangono incinte sono costrette ad  abortire o vengono sottratti loro i figli e
usati come strumenti di ricatto.

SCHIAVE DEL VUDÙ

Cerimonia di iniziazione nella città di Ouidah, Benin,
culla spirituale del vudù e storico porto d’imbarco delle navi negriere. La
religione vudù, originaria dell’Africa occidentale, si è diffusa durante i
secoli dello schiavismo anche in Brasile e nelle isole caraibiche. Ancora oggi
in Benin e Togo è l’invisibile architrave della società che permea e condiziona
la vita della gente. Talvolta però degenera in pratiche deleterie. Alcuni
sacerdoti vudù complici di trafficanti di esseri umani, sottopongono delle
ragazze a un rito tradizionale – chiamato ju-ju – per assoggettarle ai
loro sfruttatori che le obbligano alla prostituzione sotto la minaccia di
ritorsioni e oscure maledizioni.

LAVORO INFERNALE

Nella regione del Katanga, cassaforte delle ricchezze
congolesi, si trovano i più colossali giacimenti di metalli strategici al
mondo. Ogni giorno migliaia di disperati scavano a mani nude nelle miniere di
questo sperduto Eldorado: armati di picconi e scalpelli, scendono nelle
voragini delle cave, strisciano nei cunicoli di pericolanti gallerie e spaccano
le pietre a martellate. Cercano minerali preziosi per l’Occidente: oro,
diamanti, rame, cobalto, coltan… Ricchezze che grondano sangue. E che riducono
in schiavitù i minatori congolesi.

NULLA DI NUOVO

Nelle miniere del Congo migliaia di bambini setacciano
ogni giorno la terra, immersi in pozze di acqua 
fetida, alla ricerca di pietre preziose. L’Africa continua a rimanere un
territorio di saccheggio come nel passato. Un tempo le potenze coloniali
europee bramavano il controllo di prodotti come la gomma, l’avorio, gli
schiavi. Oggi sono cambiate le materie prime, ma il meccanismo di sfruttamento è
sempre spietato. Scrive il giornalista Raffaele Masto: «Se fra qualche secolo
uno storico dovrà raccontare i nostri tempi, sarà costretto a scrivere che la
schiavitù – ufficialmente abolita nell’Ottocento – è proseguita, in forme più
nascoste e senza la copertura della legge, almeno fino ai primi decenni del
Duemila».

VERGOGNA ITALIANA

Braccianti africani al lavoro nelle campagne pugliesi.
La raccolta stagionale dei pomodori richiama ogni anno migliaia di immigrati,
costretti a lavorare in condizioni di schiavitù sotto i cosiddetti «caporali»,
modei negrieri che assumono i braccianti e ne sfruttano il lavoro. Le paghe
sono da fame: tre euro e mezzo per raccogliere un cassone di pomodori da 300
chili. Due euro a mezzo se si è clandestini. Quattordici ore al giorno di
lavoro sotto il sole. E baracche sovraffollate per dormire. Le stesse
condizioni sono imposte, in varie regioni italiane, ai raccoglitori di meloni,
angurie, agrumi, mele…

FERITE INDELEBILI

Nancy, 16 anni, fu sequestrata da bambina in un
villaggio del nord Uganda dal famigerato Esercito di Resistenza del Signore.
Dal 1987 questo gruppo terroristico, guidato dal sanguinario Joseph Kony, ha
rapito e ridotto in servitù oltre 15.000 bambini per fae dei soldati o
costringerli alla schiavitù sessuale. Nancy è stata fortunata: dopo anni di
prigionia e abusi, è stata liberata dall’esercito ugandese. Sul suo volto resta
la cicatrice di una ferita inflitta dai ribelli. E nei suoi occhi la sofferenza
di un incubo impossibile da dimenticare.

I MENDICANTI DI ALLAH

Un bambino-mendicante. A Dakar se ne vedono tanti:
appostati ai semafori, alle stazioni, nei mercati, davanti alle moschee. Non
hanno più di dieci, dodici anni. Fin dall’alba sono in strada per raccogliere
nelle loro ciotole qualche moneta, un pezzo di pane, qualcosa che possa
sfamarli. Li chiamano talibé (a Bamako, nel confinante Mali, garibus).
Sono i piccoli alunni delle scuole coraniche, obbligati a elemosinare sotto
minaccia da guide spirituali disoneste che sfruttano i bimbi per arricchirsi.
Secondo l’Unicef il loro numero – in preoccupante aumento – supera le centomila
unità: un esercito di piccoli schiavi.

LA MALEDIZIONE DEL CACAO

São Tomé e Príncipe: due operai in pausa in un vecchio
magazzino per il cacao. Il tempo sembra essersi fermato, in questo minuscolo
arcipelago trasformato per quattro secoli dai portoghesi in centro di raccolta
e smistamento per la tratta degli schiavi. Nel periodo coloniale i
conquistadores importarono qui dal Brasile la coltura del cacao, e dall’Angola
migliaia di schiavi per sfruttarli nelle piantagioni. Oggi la recessione in
Occidente ha fatto precipitare il prezzo del cacao, mettendo in ginocchio i
discendenti degli schiavi che lavorano nelle antiche fattorie.

SCHIAVI DEI DEBITI

Un bambino costretto a lavorare sulla strada. Dopo
decenni di guerra civile, l’Angola sta vivendo una stagione di sviluppo, ma i
profitti dei diamanti e del petrolio finiscono nelle tasche della nomenclatura
locale, lasciando nella miseria il 70 per cento della popolazione. Per
sopravvivere molte famiglie sono obbligate a chiedere prestiti, a cui spesso
sono applicati tassi d’interesse da usura. I creditori possono esigere di
essere rimborsati sfruttando il lavoro gratuito di uno o più membri della
famiglia. Oggi in tutto il mondo sono 20 milioni le persone schiave per debiti,
la maggior parte si trova nelle campagne in Africa.

SENZA DIRITTI

Uno dei centri di detenzione di migranti stranieri a
Tripoli. Negli ultimi cinquant’anni in Libia si sono riversati due milioni di
immigrati provenienti dall’Africa nera, costretti a lavorare sottopagati e
senza diritti, alla stregua dei vecchi schiavi. Anche nel resto del Nord
Africa, e in larga parte del Sahel, le oligarchie arabe e berbere hanno imposto
per lungo tempo condizioni di sfruttamento su base etnica alle minoranze nere
originarie dell’Africa subsahariana. In alcune nazioni queste ignobili
condizioni permangono ancora oggi.

NELLE VISCERE DELLA TERRA

Un minatore si cala in una galleria sotterranea per
cercare e raccogliere frammenti di una pietra preziosa conosciuta col nome di
tanzanite. Muniti di una torcia sulla fronte, senza alcuna protezione, anche i
baby- lavoratori riescono a infilarsi nei budelli più stretti e arrivano a
spingersi fino a trecento metri di profondità all’interno di cunicoli che
potrebbero crollare da un momento all’altro. Non di rado restano vittime di
incidenti o di malori: drammi destinati a restare sepolti nelle viscere
profonde dell’Africa.

IL TESORO MALEDETTO

Bambini impegnati a setacciare il terreno alla ricerca
della zoisite, conosciuta anche come tanzanite, una gemma rara e pregiata molto
richiesta dalle giorniellerie occidentali. Nella cava di Mererani (Tanzania) sono
impiegati centinaia di baby-minatori, tra gli otto e i tredici anni, che
lavorano anche dodici ore al giorno per una manciata di soldi. Secondo l’Unicef
oggi nel mondo sono costretti a lavorare 215 milioni di bambini e bambine,
spesso in condizioni disumane e sotto le minacce di un padrone. La gran parte
si trova nelle miniere dell’Africa.

Padri e Suore




3_Schiavitù: Sulle orme del Fondatore

Lotta alla schiavitù dei missionari e missionarie d’Africa


La liberazione degli africani dalla schiavitù era parte
essenziale della metodologia di evangelizzazione del cardinal Lavigerie. I suoi
missionari e missionarie a contatto diretto con lo schiavismo lo accompagnarono
nella sua campagna con le opere di carità, riscattando persone, costruendo
orfanotrofi e informando il loro fondatore sulle atrocità di cui erano
testimoni.

Prima della campagna (1868-1888)

La nascita della Società dei Missionari d’Africa, (Padri
Bianchi) in Algeria è strettamente legata alla vocazione di prendersi cura
dell’umanità sofferente. Di fronte al problema delle vittime della carestia in
Algeria (1866-1868) Lavigerie cercò una congregazione religiosa competente per
prendersi cura degli orfani e non essendo riuscito a trovarla cominciò a
pensare di fondae una. Molti dei primi missionari d’Africa ebbero una
esperienza pastorale negli orfanotrofi in Algeria sia durante il loro periodo
di formazione che in seguito.

Il secondo incontro con la miseria umana sotto forma di
schiavitù fu nei posti di missione nel Sahara (Leghouat 1872 e Ouargla 1875).
Lavigerie si domandava come i suoi missionari sarebbero stati coinvolti nella
lotta contro lo schiavismo. Uno dei modi che egli escogitò fu quello di
riscattare gli schiavi, specialmente i ragazzi, educarli e poi rimandarli in
dietro nei loro paesi di origine come agenti di evangelizzazione ed
eventualmente come attivisti dell’antischiavismo. In realtà egli considerava il
lavoro di evangelizzazione in sé, cioè insegnare la fede, la morale e i valori
cristiani, un mezzo efficace a lungo termine di lotta alla schiavitù fin dalle
sue radici.

Così ai missionari della seconda carovana diretta
all’Africa Equatoriale, Lavigerie ebbe a dire questo: «Non siate sorpresi che
io, come vescovo cui è stata affidata dal Santo Padre una parte di queste
immense regioni dove la schiavitù domina ancora, la denunci… Andate, figli
miei, andate e insegnate a queste popolazioni che questo Gesù, la cui croce voi
mostrerete loro, morì su di essa per portare al mondo ogni libertà: libertà
delle anime dal giogo del male, libertà dei popoli dal giogo della tirannia,
libertà delle coscienze dal giogo dei persecutori e libertà del corpo dal giogo
della schiavitù» (Cattedrale di Algeri, 20-6-1878). Inoltre Lavigerie aveva già
considerato la lotta contro la schiavitù come parte del piano generale
dell’evangelizzazione dell’Africa Equatoriale nel suo «Memoriale segreto»
presentato alla Congregazione di Propaganda il 2 gennaio 1878.

Durante la campagna (1888-1892)

Il cardinal Lavigerie non coinvolse direttamente i
membri della sua Società Missionaria nella sua campagna antischiavista. Ciò può
essere spiegato da due ragioni: la prima perché la sua campagna era indirizzata
per lo più ai paesi europei con lo scopo di forzare i loro governi, mediante
l’influenza dell’opinione pubblica, a prendere iniziative per abolire la
schiavitù in Africa. I pochi missionari della sua Società a quel tempo erano
soprattutto nel continente nero e dovevano come priorità iniziare nuove
missioni per l’evangelizzazione degli Africani.

Secondariamente, per motivi di prudenza; egli temeva le
ripercussioni negative che si sarebbero riversate sui missionari, come
persecuzioni, uccisioni, rifiuto del permesso di stare in quei paesi, impedendo
così di portare avanti l’opera di evangelizzazione, obiettivo principale della
loro presenza in quei paesi. Perciò, Lavigerie giunse fino ad ammonire i suoi
missionari di non scontrarsi con i mercanti di schiavi. Tuttavia, nonostante ciò,
alcuni missionari sfidarono gli schiavisti e sfidarono i capi locali perché
abolissero la schiavitù nelle loro aree.

Anche se i missionari non erano direttamente coinvolti
nella campagna antischiavismo del cardinale, essi vi contribuirono
direttamente, inviandogli informazioni di prima mano sulle atrocità di questo
odioso mercato e le sue conseguenze negative sulla vita sociale in generale e
su quella famigliare in particolare. Tali informazioni erano per lui di grande
utilità nelle sue conferenze e comunicati stampa.

Inoltre il cardinale incoraggiava i suoi missionari a
riscattare gli schiavi, a prendersene cura ed educarli. Perciò gli orfanotrofi
che furono costruiti in quasi tutte le stazioni di missione erano per lo più
riempiti con bambini schiavi riscattati. Questi ragazzi furono considerati la
base della futura comunità cristiana locale ed erano anche visti come una
risorsa a lungo termine per combattere la schiavitù, e distruggere col tempo le
strutture (mentali e sociali) che la favorivano.

Ma anche il problema del riscatto degli schiavi non era
senza difficoltà e opposizione. Alcuni erano contrari al riscatto perché lo
consideravano un incoraggiamento per i trafficanti a continuare in tale odioso
affare. Perfino tra i missionari c’erano delle differenze come nel caso dei
Buganda: il problema fu riferito al cardinale, come testimoniano le lettere
inviate nel 1882 dai padri Livinhac e Lourdel.

Un altro modo in cui i missionari in Africa
contribuirono alla lotta contro la tratta degli schiavi fu il provvedere
sicurezza alla gente nei cosiddetti «villaggi della pace o della libertà», come
quelli fondati nelle località di Karema e Mpala in Tanganika e Kibanga in
Congo.

Donne apostole tra donne

Quando il cardinal Lavigerie fondò la congregazione
delle Missionarie di nostra Signora d’Africa (Msola), nel 1869, voleva donne
apostole che si prendessero cura degli orfani causati dal colera in Algeria,
oltre a partecipare pienamente nell’evangelizzazione del continente africano.
Le «suore bianche», come venivano comunemente chiamate, cominciarono la loro
vita missionaria in Algeria, contribuendo a restituire dignità ai meno
privilegiati. Quando esse partirono per le missioni in differenti parti
dell’Africa, il continente era percorso dalla tratta degli schiavi. Mentre il
loro fondatore era impegnato nella campagna antischiavista, egli esortava le
sue missionarie a impegnarsi totalmente come educatrici e madri di tutte le
donne vittime della schiavitù. E tutte le attività delle suore erano dirette a
rispondere a tale invito.

Fin dall’inizio Lavigerie ricordò alle suore che
dovevano essere «donne apostole tra donne» e madri verso le ragazze vittime
dello schiavismo in Africa Equatoriale. Egli voleva le sue suore totalmente
missionarie, il cui apostolato era complementare a quello dei padri e fratelli,
non solo perché esse potevano entrare in gruppi chiusi ai missionari maschi, ma
anche per la loro abilità di agire da donne tra donne, per trasformare la
società intera.

Faccia a faccia con la schiavitù

Queste donne apostole furono mandate in Africa per
partecipare a modo loro nella lotta contro il commercio di schiavi, mediante il
loro impegno con gli schiavi riscattati (ragazze, donne, ragazzi). Lavigerie
aveva dato anche a loro prudenti linee guida su come comportarsi con bianchi e
neri trafficanti di schiavi. Questi erano troppo potenti e pericolosi per
essere affrontati direttamente da impotenti missionari. Lavigerie raccomandò
loro di mantenere relazioni amichevoli con i proprietari di schiavi, se
volevano continuare i loro impegni apostolici. In compenso, chiese loro di
inviargli relazioni dettagliate sulla tratta… Le suore si conformarono alle
linee guida del loro fondatore.

Esse si dedicarono agli schiavi riscattati e perfino ne
comprarono alcuni, quando potevano permetterselo, come avvenne per esempio in
Baudoinville (Moba) dove arrivarono nel 1895. I diari mostrano che esse non si
occuparono solo di schiavi neri riscattati o liberatisi con le proprie forze,
ma anche di ogni bambino bisognoso, compresi i figli dei mercanti di schiavi,
come si legge nei diari: «Il comandante di Deberghe ci ha mandato due ragazzi.
Il loro padre era un leader arabo della costa del Tanganika, che era stato
ucciso in una incursione. La sua vedova e i figli furono presi dai belgi. La
ragazza si chiama Leonora; è molto intelligente. Il primo giorno del suo arrivo
imparò a fare il segno di croce. L’altro è un bambino di due anni; non sa
ancora parlare ed è il più giovane del Barza» (09-07-1896).

Tutti i ragazzi erano raggruppati nello stesso centro.
Grazie alle suore, schiavi, figli di schiavi e figli di padroni ora vivevano
insieme in pace e fiducia, ricevevano crescendo la stessa educazione e
imparavano ad essere fratelli e sorelle, perché figli dello stesso Dio Padre.
C’è forse un modo migliore per combattere contro la schiavitù?

Dal 1909 nel diario di Tabora si notano alcuni
cambiamenti nel modo di riscattare gli schiavi: «Una vecchia schiava, sorella
di un catecumeno del villaggio, è arrivata qui da pochi giorni, ma il suo
padrone la reclama. Il caso va alla boma (Centro del governo locale) e
il reverendo padre superiore ci suggerisce di tentare un altro modo di
riscatto. Ciò significa che la somma richiesta dal padrone non sarà pagata
immediatamente tutta. La schiava lavorerà e ogni mese pagherà al padrone una
somma convenuta e così comprerà la propria libertà. La proposta fu adottata
dalle tre parti. Questa soluzione ci ha rese molto felici, nel fatto che la
nostra povera vittima può lavorare e perché essa può stare con noi per almeno
dieci mesi finché la somma viene pagata. Questa lunghezza di tempo significa
che la riscattata può seguire le istruzioni e conoscere la nostra religione e
così avere il desiderio di perseverare nel suo catecumenato».

La carità non basta

La storia del cardinal Lavigerie, dei suoi missionari e
missionarie contiene una lunga lista di opere di carità verso le vittime, a
cominciare dal riscatto di schiavi fino a ciò che si sta ancora facendo oggi,
per esempio a favore dei ragazzi di strada, vittime di caccia alle streghe,
guerre, ecc…

Tuttavia tale storia ci insegna che le opere di carità
da sole non possono eliminare la schiavitù dalla nostra società: Lavigerie stesso lo aveva notato, dicendo: «Ma io
ripeto, cari fratelli e sorelle, che la carità, per quanto grande possa essere,
non sarà sufficiente a salvare l’Africa. È necessario un rimedio più sollecito,
più efficace e più decisivo» (St. Sulpice, Parigi, 1° luglio 1888).

Il cardinal Lavigerie insegnava quindi che le opere di
carità devono andare di pari passo con le opere di giustizia; affermava che
l’evangelizzazione procede pari pari con l’attivismo sociale, diventando così
uno strumento efficiente contro lo schiavismo. C’è bisogno di leggi e strutture
sociali per prevenire ed eliminare alla radice le cause della schiavitù. Tale
metodo di evangelizzazione, valido oggi e in futuro (cf Nuova
evangelizzazione
), deve essere adattato alla situazione attuale nella lotta
contro le forme modee di schiavitù.

Come missionari, la preghiera è parte essenziale degli
sforzi nel combattere la schiavitù in qualsiasi forma si manifesti. Lavigerie
considerava la preghiera in generale e la preghiera pubblica in particolare
come mezzo indispensabile per raggiungere lo scopo della sua campagna. Con
queste parole si rivolse ai cristiani in Algeri: «Ho appena scongiurato i
governi in Europa, ma oggi non vi chiedo né l’aiuto delle armi né quello della
carità, come feci in precedenza; è un aiuto più importante che io, vescovo,
chiedo ai cattolici: è l’aiuto della preghiera» (Algeri, 19 aprile 1889). E
continuava spiegando che essa è uno strumento alla portata di tutti e non
esclude alcuno: bambini, giovani, anziani, malati o in buona salute. Tuttavia
anche la preghiera deve andare mano nella mano con i gli sforzi concreti nel
combattere la modea schiavitù. Nel diario di Mpala, lo scrittore, dopo aver
narrato una storia molto difficile sul riscatto di sei anziane donne e due
bambini, conclude dicendo: «Abbiamo fatto ciò che potevamo, Dio farà il resto»
(Diary, Mpala, 3 settembre 1890).


Richard Nnyombi




2_Schiavitù: La campagna antischiavista

Un impegno missionario
eccezionale del card. Lavigerie


La campagna umanitaria
lanciata 125 anni fa dal cardinal Lavigerie contro la schiavitù in Africa
costituisce un’iniziativa coraggiosa e rispecchia una strategia straordinaria
sia sotto l’aspetto dell’impegno missionario sia a livello culturale e
politico: il suo piano d’azione, infatti, mira prima di tutto a cambiare
l’opinione pubblica europea e alla ricerca di benefattori per sostenere la sua
campagna; in seguito si indirizza alle potenze politiche del suo tempo,
riuscendo effettivamente a risvegliare qualche coscienza.

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di Jean-Claude Ceilleier

Nato nel Sud Est della Francia nel 1825, Charles Allemand Lavigerie fu un brillante studente nel seminario maggiore e poi in quello dei Carmelitani a Parigi. Giovane prete, diresse con entusiasmo straordinario l’Opera delle Scuole d’Oriente. Lavorò per alcuni anni nella curia romana, finché venne nominato vescovo di Nancy nel 1863, all’età di 38 anni. Fu lì che, senza dubbio, maturò la sua vocazione missionaria, e quando gli fu chiesto di assumere la responsabilità della diocesi di Algeri nel 1867, accettò immediatamente.

Esercitò questo servizio pastorale per un periodo di 25 anni e fu in tale coice che egli aprì il suo ministero a una dimensione missionaria di mirabile ampiezza mai vista in precedenza. Fondatore di due istituti dedicati alla missione in Africa, le Missionarie di nostra Signora d’Africa (Msola) e i Missionari d’Africa (M.Afr), egli si appassionò di questo grande continente (ancora poco conosciuto dal mondo europeo a quell’epoca) per la sua storia, la sua cultura e i suoi popoli. Papa Leone XIII ebbe grande stima di questa personalità eccezionale e lo elevò al rango di cardinale nel 1882. È nel contesto di questo impegno per la missione e per il servizio all’umanità in generale che bisogna collocare la campagna antischiavista di cui trattiamo qui.

interviene presso stati e Papa

Nel 1888 Lavigerie aveva già una conoscenza approfondita di certe realtà che caratterizzavano il continente africano, e tra queste realtà ce n’era una in particolare che maggiormente lo sconvolgeva: lo schiavismo. Era ben informato dalle testimonianze di grandi esploratori; ma anche dalla corrispondenza dei suoi missionari che erano presenti nella regione detta dei Grandi Laghi, fin dall’arrivo della prima carovana nel 1878.

Conosceva l’ampiezza delle razzie, le rotte delle carovane di schiavisti tra i laghi del centro e la costa dell’Oceano Indiano. Conosceva pure le sofferenze inimmaginabili degli schiavi durante queste lunghe marce forzate e il cinismo dei trafficanti. A più riprese, dall’inizio degli anni ’80, Lavigerie cercò in varie occasioni di far intervenire l’una o l’altra delle maggiori potenze europee, specialmente la Gran Bretagna, e perfino la Santa Sede, ma senza alcun risultato.

Nel 1888 si presentò un’altra opportunità per intervenire di nuovo: il Brasile annunciò che avrebbe definitivamente abolito la schiavitù nel suo territorio e il papa Leone XIII decise di pubblicare un’enciclica per approvare tale decisione. Immediatamente il cardinale Lavigerie gli chiese di menzionare il dramma che l’Africa continuava a vivere in quel momento e il Papa accondiscese.

Al tempo stesso, nel mese di maggio di quell’anno 1888, si stavano preparando grandi festeggiamenti a Roma per celebrare il giubileo d’oro sacerdotale di Leone XIII; Lavigerie sollevò di nuovo il problema: si recò a congratularsi con il Santo Padre accompagnato da un gruppo di giovani neri cristiani e parlò di nuovo in udienza pubblica e privata a favore delle vittime dello schiavismo nel continente africano. Leone XIII, grandemente impressionato, pensò che si dovesse intervenire più apertamente e gli disse: «Noi contiamo su di voi, signor cardinale, per il successo di tale impresa». Questa risposta del Papa ebbe per Lavigerie immediatamente il valore di una missione da compiere, e fu così che prese l’impegno di organizzare una massiccia campagna antischiavista e ne incoraggiò lo sviluppo su più vasta scala possibile.

Guadagnare l’opinione pubblica 

Immediatamente Lavigerie escogitò un piano d’azione su tre fronti: una vasta copertura geografica attraverso l’Europa; interventi per attrarre il grande pubblico mediante conferenze, articoli di stampa e altri metodi; e infine la messa in moto di una rete di associazioni nazionali e locali destinate a mantenere alto l’interesse dei benefattori e sostenere altre attività concrete.

Proprio in ciò che riguarda le azioni pratiche Lavigerie pensò inizialmente di riprendere un progetto da lui concepito alcuni anni prima: il progetto di formare una milizia di laici armati, che avrebbe protetto i centri di rifugio per schiavi fuggiti o affrancati e che potesse intervenire in altre aree secondo le circostanze. Bisogna dire subito che tale progetto non andò mai in porto, principalmente a causa della marcata riluttanza dei poteri coloniali stabilitisi nel continente africano.

La prima manifestazione di questo vasto programma ebbe luogo a Parigi con una conferenza pubblica tenuta il 1° luglio 1888 nella chiesa di San Sulpicio. Dopo una lunga descrizione delle sofferenze subite dagli schiavi, Lavigerie fece appello alla generosità della gente sollecitando donazioni e ai giovani perché avessero il coraggio di arruolarsi per andare a difendere e proteggere quelle vittime.

Lavigerie era un oratore di grande talento; si imponeva per la sua forte personalità e questa prima conferenza ottenne un grande successo, tanto nella stampa che nell’opinione pubblica francese. Nelle settimane seguenti egli intervenne allo stesso modo in Italia, in Gran Bretagna e in Belgio, dove fece una commovente conferenza nella chiesa di san Gudule (Bruxelles) il 15 agosto. Una delle ultime grandi conferenze pubbliche ebbe luogo a Roma nella Chiesa del Gesù il 23 dicembre 1888.

Dappertutto l’opinione pubblica fu sconvolta dalle rivelazioni dell’ampiezza di tale traffico di schiavi nell’Africa Centrale. Le autorità politiche presero anch’esse coscienza del problema e Lavigerie fece del suo meglio per provocare le loro prese di posizione ufficiali; fece perfino diversi passi diplomatici o addirittura militari, per porre fine alla tratta schiavista, specialmente sulla costa dell’Oceano Indiano e del Mar Rosso.

Le reazioni furono però differenti, secondo gli interessi degli Stati interessati. In Inghilterra ci fu grande sostegno, perché il paese era ben coscientizzato da molto tempo su tale problema. In Belgio re Leopoldo temeva ingerenze nel suo territorio del Congo e Lavigerie dovette tenee conto nelle sue differenti conferenze. Tuttavia, dappertutto l’opinione pubblica approvava e sosteneva la sua campagna; e in questo senso, si può dire che la campagna riportava già un grande successo.

Comitati di sostegno e incontri inteazionali

In questo programma, il cardinale aveva previsto la creazione di comitati di solidarietà su base nazionale e locale. Vari comitati furono fondati nei paesi da lui visitati. In altri paesi dove non poté andare, allacciò contatti, inviò lettere e sostenne la creazione di gruppi di benefattori. In questo modo egli ebbe contatti in Germania, Svizzera, Paesi Bassi, Austria, Spagna e Portogallo. Egli volle estendere il problema ancora più lontano: chiese un congresso internazionale, dove i governi si sarebbero impegnati a cancellare la tratta degli schiavi in Africa. Dopo vari tentativi infruttuosi, questa proposta fu finalmente realizzata dal raduno di un congresso internazionale a Bruxelles nel novembre 1889. Sedici potenze erano rappresentate e il lavoro continuò per molti mesi. Ma non finì ufficialmente che nel luglio 1890. Lavigerie non era presente, ma il suo nome fu frequentemente citato ed egli stesso si dichiarò felice dei risultati, specialmente per la decisione di allestire pattugliamenti marini lungo le coste orientali del continente. Tuttavia egli stesso volle organizzare, sotto la sua personale supervisione, una nuova convenzione comprendente tutte le rappresentanze dei Comitati anti-schiavismo. Tale congresso ebbe luogo a Parigi in settembre 1890 e anche in tale occasione si poté ammirare il talento organizzativo e la forte personalità del cardinale che giocò un ruolo importante nel consolidare le iniziative già prese e nell’assicurare un migliore cornordinamento tra i progetti.

Dopo una visita a Roma, dove rese conto al papa della campagna, ormai consumato da mesi di enormi sforzi, Lavigerie ritoò alla sua diocesi ad Algeri, nell’autunno di quello stesso anno 1890. L’ampiezza di tale campagna e la sua ammirabile organizzazione hanno senza dubbio fatto fare grandi passi a favore della soluzione del problema dello schiavismo. Lo affermò lo stesso Lavigerie nella sua prima conferenza pubblica: un grande grido si è fatto sentire. Grido d’indignazione lanciato dal vecchio cardinale sia in nome dell’umanità che in nome del Vangelo.

 

Date principali nella vita di Charles-Martial Allemand Lavigerie:

1825 - Nasce a Bayonne
1841-49 – Studia a Parigi fino all’ordinazione sacerdotale (1849)
1850 – Dottorato in letteratura
1853 – Insegna alla Sorbona
1857 – Direttore della Oeuvre des Ecoles d’Orient (opera per le scuole d’Oriente)
1860 – Viaggio in Libano e Siria per aiutare le vittime di massacri
1861 – Uditore della Sacra Rota romana
1863 – Nominato vescovo di Nancy (5 marzo) e ordinato a Roma nella chiesa di S. Luigi dei francesi (22 marzo)
1867 – Arcivescovo di Algeri
1868 – Delegato apostolico per il Sahara e il Sudan e fondazione dei Missionari per l’Africa (Padri Bianchi)
1869 – Fondazione delle Suore missionarie di Nostra Signora d’Africa (Suore Bianche)
1878 - «Memorandum segreto sull’evangelizzazione dell’Africa Equatoriale»; prima carovana nell’interno dell’Africa;
          I Padri Bianchi prendono residenza a Gerusalemme
1882 – Nominato cardinale
1884 – Ri-erezione della sede (episcopale) di Cartagine; Primate d’Africa
1888 – Inizia la campagna antischiavismo con varie conferenze: chiesa di San Sulpizio a Parigi (1° Luglio); Prince’s Hall a Londra (31 luglio);
            chiesa di san Gudule a Bruxelles (15 agosto); chiesa del Gesù a Roma (23 dicembre)
1889 – Conferenza internazionale per l’abolizione della tratta degli schiavi – Bruxelles, 18 novembre-luglio 1890
1890 – Congresso a Parigi delle Società anti-schiavitù (21-23 settembre); festeggiamento ad Algeri (12 novembre)
1892 – Muore ad Algeri (26 novembre).
Jean-Claude Ceilleier




1_Schiavitù: Spezziamo le Catene

Premessa:
Nati uguali e liberi
A 125 anni dalla
campagna antischiavista del Cardinal Lavigerie.

Di Jean-Claude Ceilleier, Richard Nnyombi e redazione
rivista «Africa»;
a cura di Benedetto Bellesi

Un giorno un mio amico
mi raccontò una storia riguardante Davide e il suo amico Stefano. Davide fece
visita a Stefano e tutti e due andarono al cimitero poiché Davide voleva
ossequiare i genitori di Stefano che egli aveva conosciuto molto bene e ora
riposavano nel cimitero.

Appena arrivato, Davide fu impressionato dal fatto che
solo il nome inciso sulla croce distinguesse una tomba dall’altra. Avevano
tutte stessa forma e stesso stile. Quando egli espresse la sua meraviglia e
chiese all’amico Stefano il perché, si sentì rispondere: «Nella nostra città
abbiamo preso la decisione di offrire lo stesso stile di tomba a tutti i nostri
cittadini perché siamo nati uguali e alle fine, di fronte a Dio, siamo uguali.
Siamo tutti figli di Dio bisognosi di amore e comprensione. Nella stessa fila
dei miei genitori ci sono un poliziotto, un sindaco, un prete, ecc. Non lo
sapresti se non ti venisse detto». Con ragione Davide disse: «Nati uguali e
liberi: questa è la nostra sfida».

Il cardinal Lavigerie non fu il primo nella lotta allo
schiavismo, ma il suo ardente impegno nella campagna contro la schiavitù nel
diciannovesimo secolo ha certamente aiutato molta gente a realizzare il sogno
di essere liberi e schiavi di nessuno, così come siamo nati uguali davanti a
Dio.

E oggi, cosa si può fare? Non molto, saremmo tentati di
dire. Ma ricordiamo che la nostra voce in meno in una elezione può significare
perdere un’opportunità di servire gli altri con una certa visione. Conta ogni
voce, ogni occhio, bocca, mente e via dicendo. Se credi che il tuo contributo
non sia importante, osserva un gruppo di formiche, guarda come lavorano insieme
per radunare il cibo dentro il loro granaio. Nessuna è forte abbastanza per
trasportare qualcosa, ma lavorando insieme esse riescono a rotolare dentro il
granaio abbastanza cibo per la stagione magra.

L’impegno nella lotta alla schiavitù continuò anche dopo
Lavigerie, che stimolò altri a partecipare in tale impegno a seconda di come lo
Spirito muoveva la Chiesa e il mondo. Agenti pastorali, da papa Leone XIII fino
alle semplici persone dei lontani villaggi in Africa, continuarono a deplorare
l’ingiustizia di rimuovere migliaia di africani dalle loro case e portarle
altrove.

La celebrazione del 125o anniversario della
partecipazione del cardinal Lavigerie alla campagna antischiavitù, è per tutti
uno stimolo per prendere coscienza delle differenti forme di discriminazioni e
schiavitù che anche oggi negano a milioni di persone la loro uguaglianza
davanti a Dio e agli altri e le deprivano della propria libertà.

La conoscenza è cosa buona ma quando porta ad azioni
significative è anche meglio. Scopo di questo dossier, infatti, non è una
rievocazione storica, per risvegliare la consapevolezza del nostro passato, ma
vuole soprattutto aiutarci ad aprire orecchie, occhi e cuore di fronte alle
situazioni di schiavitù che vediamo ancora oggi attorno a noi e, come
missionari, annunciare un messaggio ben differente al popolo di Dio, che cioè
ognuno è nato uguale e libero. Come i profeti biblici, e come il cardinal
Lavigerie, dobbiamo essere capaci di denunciare le forme odiee della schiavitù
e impegnarci per sradicarle.

Si tratta prima di tutto di cambiare e lottare contro la
mentalità corrente: gli schiavi di oggi sono considerati più in termini
economici che di dignità personale; sono merce e tale mercificazione della
persona umana nega i valori di uguaglianza e libertà, la dignità di figli di
Dio e di nostri fratelli e sorelle.

Fr. Richard
K. Baawobr

Superiore
Generale M.Afr 
 

Richard K. Baawobr




Cultura di morte

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Qualche tempo fa il telegiornale ha presentato l’ultima tendenza in fatto di sballo giovanile: «L’alcolizzazione degli occhi». Non so se si chiami così. Lo sballo è assicurato con un processo molto semplice: ti anneghi gli occhi con un bagno di liquore forte. Il dolore è lancinante e il risultato tremendo. Risultati aggiuntivi: congiuntiviti, problemi oculari vari, danneggiamento della cornea, e via dicendo. Nonostante l’ovvia pericolosità dell’operazione, gli adepti aumentano ogni giorno, anche grazie ai folli video su youtube e ai post sui social network.

In testa mi si sono accavallate allora tante altre immagini: donne vittime della violenza e disagio maschile; ragazzi giovanissimi già alcolizzati; donne schiavizzate costrette a vendersi lungo le strade o nei bordelli più o meno clandestini; tatuaggi a gogo, piercing estremi e mode dark; giochi sempre più rischiosi, legittimati come nuovi sport; armi in regalo a bimbi piccolissimi; bambini nel ventre di miniere o incatenati a telai invece di essere sui banchi di scuola; contadini cacciati dalle loro terre accaparrate da multinazionali o altre nazioni; lavoratori lasciati a casa; fabbriche chiuse; giovani sfruttati; giochi di borsa che dissanguano nazioni... una lunghissima lista di morte con cui tutti abbiamo a che fare ogni giorno, olocausto al dio denaro, ricchezza e potere, l’antico Mammona che non demorde mai. Un dio che ha niente da spartire con il Dio di Gesù Cristo fatto di misericordia, giustizia e pace, paladino di uguaglianza, accoglienza e rispetto per ogni uomo e tenerezza soprattutto per i più piccoli e poveri.

La lista, forzatamente parziale, ben evidenzia come questa cultura di morte abbia molte facce e si adatti alla persone più diverse. Sta cambiando le nostre leggi, trasformando le tradizioni, rivoluzionando la cultura, delegittimando la pietà, la compassione, la sofferenza, l’onesto lavoro, la cultura della solidarietà, la tolleranza e l’accoglienza dell’«altro». Rende normale quello che era considerato «non normale» dalla stragrande maggioranza delle persone e dei popoli. Proclama la libertà di pensiero, ma è intollerante con chi non la pensa alla stessa maniera, soprattutto in termini di vita, famiglia e sessualità. Appiattisce tutto e tutti e rende il «tutti fanno così» la suprema regola di vita. Si alimenta di slogan e spot, trasforma le tragedie in spettacolo e lo spettacolo in realtà. Viaggia a suon di sondaggi e si adatta al mutare delle emozioni. Si alimenta dei riti di fine settimana - mare, montagna, centri commerciali, avvenimenti sportivi - che massificano l’individuo e rendono noiose le vere celebrazioni, come la messa domenicale e il pranzo in famiglia, che invece costruiscono comunità e offrono spazi di ascolto e interiorizzazione.

Mi rendo conto che ci vorrebbe molto più delle frasi provocatorie di un editoriale per decodificare l’enorme montagna di falsità che ci circonda e vuole rendere superfluo ogni riferimento a Dio, privata l’esperienza spirituale e folcloristica la religione. Una piccolezza mi ha fatto pensare molto: la notte di Pasqua, nel buio della chiesa, il cero pasquale era ben visibile a tutti, mentre di giorno, alla luce del sole, quella fiammella era quasi invisibile. Mi sono chiesto perché mai la Chiesa abbia affidato a un simbolo così debole una valenza così forte: quella di rappresentare la dirompente vittoria della Vita sulla morte, della Luce sulle tenebre, del perdono sulla vendetta.

Ho pensato che l’annuncio del Vangelo non si impone mai col rigore delle leggi, il potere suasivo della pubblicità, la forza delle armi, la seduzione del denaro, l’ebbrezza del potere, la fragorosità del tuono. è invece una piccola luce, invisibile nell’abbagliante mare dell’esteriorità, ma chiarissima nel silenzio dell’ascolto interiore, nell’amore fatto servizio, nella fedeltà senza ricompense, nella gratuità del volontariato, nel «bene fatto bene e senza rumore». Un annuncio affidato alla fragilità di uomini che credono e, pur nella loro debolezza, rendono credibile il Vangelo nel quotidiano. Scriveva Rosario Levantino, citato da Don Ciotti su La Stampa del 9/5/2013: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo credibili».

E' questo il segreto della Missione: uomini e donne credenti che danno «ragione della speranza» (Luce) che è in loro pagando di persona sia ai «confini del mondo» che nell’anonimato del vissuto quotidiano, «interferendo» («il parlar chiaro che è contrario all’ipocrisia», dice Don Ciotti) nella cultura di morte con scelte di vita e gratuità.

Gigi Anataloni




Remolino: l’utopia resiste (seconda parte)

Viaggio nell’Amazzonia Colombiana, Là dove il cacao fa fatica a rimpiazzare la Coca.
Arriviamo finalmente a Remolino dove p. Giacinto Franzoi aveva
lanciato il sogno del Caquetà senza coca. Il sogno non è morto, ma certo
richiede un grandissimo coraggio a tutti coloro che vi si impegnano di persona.
Rimpiazzare la coca con il cacao è un’impresa ardua in un territorio dove
mancano le strade, e i trasporti sono costosissimi.

Ci fermano a un posto di blocco
vicino a un villaggio chiamato Km 52, perché lì, fino a poco tempo fa,
terminava la strada. L’esercito, non soddisfatto dal semplice controllo del
passaporto, perquisisce l’auto. I militari sono tutti molto giovani, tra i 18 e
24 anni, e per la maggior parte di origine afro. Sono gentili ma ci fa effetto
vederli con quei mitra indosso e le dita sul grilletto pronti a sparare.

Intanto osserviamo le case, baracche di legno con tetto di
lamiera, cani, galline, il recinto per i maiali, e la gente, che si muove a
cavallo e con il laccio, e la piccola scuola che, come tutte le altre
intraviste lungo il tragitto, è dipinta di azzurro.

Arriviamo a Cartagena del Chairà, dove termina la strada sterrata.
Abbiamo viaggiato tutto il giorno arrivando alla casa dei missionari per cena.
Lì ci raggiunge p. Emilio. Arriva direttamente da Bogotá dopo aver affrontato
un lunghissimo viaggio in pullman attraverso le Ande e la pianura. P. Emilio ha
29 anni: il più giovane prete del Vicariato apostolico di San Vicente. Si è
appena laureato e, malgrado la stanchezza, ci accoglie con un sorriso limpido e
solare. Lui è responsabile della parrocchia di Remolino, villaggio lungo il
fiume Caguan, a circa 200 km di distanza, raggiungibile in barca in quasi
cinque ore di fiume. Remolino è la nostra prossima meta.

A tutta velocità sul fiume

Partiamo verso le dieci del mattino dal piccolo porto fluviale
presidiato da numerosi militari, che controllano di nuovo documenti e bagagli.
Il biglietto costa l’equivalente di 40 euro, una cifra sproporzionata rispetto
al costo della vita in questi posti. Ma non c’è alternativa per raggiungere i
villaggi della foresta. All’ora fissata per la partenza il lizador (la
motobarca veloce) ha ancora parecchi posti vuoti per cui si attendono
pazientemente i passeggeri ritardatari. Alla fine non solo i quindici posti
sono tutti occupati, ma aggiungendo i bambini in piedi e quelli in braccio
siamo venticinque persone più il bigliettaio in equilibrio sulla prua. Alcuni
passeggeri chiedono a p. Emilio di dire una preghiera per affidare il viaggio
e, sotto lo sguardo stupito di un giovane militare armato di fucile, preghiamo
tutti insieme. Si parte!

La navigazione è pericolosa: il nostro pilota fa lo slalom tra
gorghi, banchi di sabbia, reti da pesca, tronchi e altro materiale che
galleggia sull’acqua. I naufragi sono
frequenti, tanto che il vicariato ha dovuto proibire ai sacerdoti, essendone già
annegati due, di pilotare personalmente l’imbarcazione della parrocchia.

Durante il viaggio non ci siamo mai stancati di osservare le rive:
il paesaggio ondulato ha ben presto lasciato il posto alla pianura. Zone
disboscate, alcune coltivate a palmeto, altre tagliate di recente e adibite a
pascolo si alternano alla selva; alberi ad altissimo fusto, fitto sottobosco,
bianchi uccelli che al tramonto paiono fosforescenti; la laguna è molto varia!
Vi dimorano tartarughe che si mimetizzano perfettamente sui tronchi e diverse
specie di pesci tra cui una della famiglia dei piraña, commestibile. Di tanto
in tanto palafitte isolate o raggruppate in piccoli villaggi. Gli spostamenti
avvengono esclusivamente via acqua, a cavallo o a piedi attraverso la selva,
percorrendo distanze spesso lunghissime. I colonos vivono praticamente
isolati in grandi famiglie, dove è sempre la donna a farsi carico di
responsabilità e fatiche. Frequentemente l’uomo abbandona la famiglia per
andare a formae una nuova, o si ubriaca di birra o auguardiente, una
bevanda alcornolica che sa vagamente di anice.

Sulla barca non c’è la possibilità di muovere un muscolo, teniamo
gli zaini appoggiati sui piedi. Ma c’è molta collaborazione: ci si scambia
sorrisi, chiacchiere e cibo; ci si aiuta per i bagagli; i giovani cedono i
posti più agevoli agli anziani. Dopo alcune fermate dove scendono e salgono
nuovi passeggeri (in modo che il lizador sia sempre stracarico)
attracchiamo a Piñacolorada, il posto di blocco dell’esercito. Sbarchiamo tutti
lasciando i bagagli a bordo perché possa essee verificato il contenuto: altro
controllo di documenti e perquisizione. Sulle pareti della casermetta sul fiume
sono incollati gli avvisi di taglia dei guerriglieri ricercati e gli elenchi
delle sostanze trasportabili per le quali non si può superare un certo
quantitativo: benzina, cemento, medicinali a uso veterinario, cioè tutti quei
prodotti chimici che potrebbero essere adoperati per ricavare la cocaina,
proibita dal governo e prodotta e trafficata dai guerriglieri per finanziarsi.

Remolino

Finalmente ci reimbarchiamo e raggiungiamo la nostra destinazione.
Allo sbarco, un altro controllo da parte di un giovanissimo soldato. Ci avviamo
per un sentirnero melmoso; ovunque uomini armati: il rapporto è di un militare
per abitante. Lo stato presidia questo luogo perché qui c’erano ben 18
laboratori attrezzati per la produzione della coca. Tuttavia più di 10 anni di
presidio militare non hanno fermato il narcotraffico, che si è spostato più
all’interno fino a raggiungere il bacino dell’Orinoco nel Potumayo. Lo si è
reso solo un po’ più difficoltoso. Questo spiega anche perché la strada finisca
a Cartagena del Chairà: l’unica via fluviale è molto più controllabile.

Anche se ora sembra impossibile, nei primi anni ‘90 Remolino era
molto popolato e il giorno di mercato i dollari giravano a sacchi. Piccoli
aerei privati atterravano a decine in piazza per caricare la pasta di coca. La
situazione era pesante. Per questo nel 1989 l’allora parroco, p. Giacinto
Franzoi, lanciò un progetto per liberare i suoi parrocchiani dalla schiavitù
della coca. Con lo slogan «No alla coca, sì al cacao» iniziò la prima
distribuzione di sacchetti di semi di cacao e di caucciù. L’obiettivo era di
sostenere i colonos nel passare ad una coltivazione alternativa di
prodotti che sono ricchezza di vita della foresta, ma il cui ricavato è
purtroppo decisamente inferiore a quello della coca. (vedi MC ottobre 1996,
numero monografico «Non di sola coca»
)

Per sostenere il progetto p. Giacinto e gli altri missionari del
vicariato apostolico chiesero aiuto a tanti amici. Così, nel 1996, un gruppo di
italiani si recò in quelle zone per conoscere e valutare. Al rientro in Italia
iniziarono una grande campagna denominata «Non di sola coca – quando impegnarsi
serve» per far conoscere i retroscena del narcotraffico e, in particolare, la
drammatica situazione dei campesinos. I risultati dell’iniziativa furono
incoraggianti. Nacque così l’associazione Impegnarsi Serve Onlus che,
ancora oggi, continua a collaborare con la chiesa locale colombiana.

Remolino oggi

A Remolino molte cose sono cambiate da allora. Il progetto non è
morto, ma certo ha incontrato molte difficoltà. Molta gente se n’è andata. Oggi
i 300 abitanti rimasti vivono – si fa per dire – piantonati dai soldati, che a
loro volta non vivono ma guardano gli altri vivere. La presenza dell’esercito
non ha solo lo scopo di tenere a bada i guerriglieri, che ormai si sono
ritirati sulle montagne, ma piuttosto di mantenere una sorta di equilibrio
instabile laddove si sono subite violenze tali da innescare una catena infinita
di vendette.

Ciò nonostante qualcuno crede ancora che si possa vivere senza
coca e prova ad andare avanti, come la famiglia che la sera del nostro arrivo
ci ha invitato a cena con p. Emilio. Sono papà e mamma e cinque figli, insieme,
per amore, hanno accettato di vivere qui e hanno aperto una piccola attività
commerciale e provano a resistere. Lo stesso vale per Miguel che si è
trasferito a Remolino da Piñacolorada: ha un bimbo piccolo e gestisce una
drogheria. Si dedica al volontariato e spera che le cose cambino in meglio.
Incontrando queste persone comprendiamo come sia importante non abbandonarli a
se stessi.

Cammino comunitario

A Remolino la corrente elettrica è disponibile solo per qualche
ora alla sera. Perciò nel presidio medico non si possono conservare i
medicinali, come i sieri antiveleno. Anche conservare il cibo a queste
temperature è un grosso problema con conseguenti malattie intestinali
soprattutto nei bambini. Per la stessa ragione la fabbrica di cioccolato Chocaguan,
fiore all’occhiello del progetto alternativo alla coca, è operativa solo per
quelle poche ore serali e non riesce a smaltire la grande quantità di chicchi
di cacao che arrivano dai contadini.

L’aspetto positivo è che quando c’è l’elettricità molti della
comunità si ritrovano nelle «case-bar» per chiacchierare, bere e sentire musica
ad alto volume. In tali occasioni, attraverso un altoparlante, sono comunicate
anche le decisioni che riguardano la comunità, prese da un comitato che si
consulta continuamente con tutti.

Funziona magnificamente l’Aldea, una casa fattoria dove
ragazzi e ragazze delle superiori sono ospitati dalle suore perché possano
frequentare la scuola pubblica (provengono tutti da villaggi sparsi nella
foresta). Vengono seguiti nell’apprendimento e dedicano alcune ore alla
coltivazione dei campi e alla cura degli animali (le 40 mucche da latte
permettono la produzione di 50 kg di formaggio al giorno). Imparano così un
mestiere, ma soprattutto sono formati a resistere alla violenza. In queste
realtà, infatti, la violenza è considerata una normalità. Per questo occorrono
testimonianze tangibili che la nonviolenza, il perdono e la riconciliazione
pagano. Nella finca (i campi) della fattoria oltre agli ortaggi si
coltivano caucciù e cacao. Per quest’ultimo è in atto una sperimentazione con
l’università in modo da creare ibridi di qualità superiore per resistenza e
produzione.

Una valutazione

1. Quali sono le attività principali che caratterizzano la lotta
contro la coca in Remolino?

Il Vicariato di San Vicente ha avviato un notevole lavoro di rete
con le istituzioni locali, per portare avanti piste alternative. Con lo stato,
per esempio, ha concordato la possibilità di inserire il Chocaguan (il
cioccolato prodotto a Remolino) nel piano alimentare per le scuole, favorendone
la diffusione. Con l’Università Amazzonica Colombiana ha implementato un piano
di studio sui semi del cacao per individuare quelli di miglior qualità e
produzione. La collaborazione con tale università è già ben avviata e le piante
nate dai nuovi innesti sono già visibili nella finca. Per cui il colono è
aiutato dalla popolazione locale per il disboscamento e la preparazione del
terreno; i tecnici dell’Università lo assistono per le nuove sementi e
controllo della crescita delle nuove piante, il progetto Chocaguan
garantisce il pagamento del prodotto.

2. Quali i risultati raggiunti?

Il risultato principale è la creazione di una nuova mentalità
almeno nei contadini direttamente coinvolti nel progetto, il cui numero però
non ci è stato possibile verificare.

3. Quali le difficoltà da risolvere?

Una è la carenza di energia elettrica. Il problema principale però
rimane il costo del trasporto fluviale, che incide moltissimo e rende il
prodotto finale (cioccolato) non competitivo con quello delle grandi
multinazionali.

4. Quali sono le prospettive?

Purtroppo il cacao e il caucciù, a Remolino, non saranno mai competitivi
rispetto alla coca. Ma ciò non significa che non ci sia speranza. Si sta
lavorando sulle nuove generazioni perché possano crescere con una mentalità
differente, con una migliore capacità professionale sul piano agricolo, con
accesso a una varietà maggiore di prodotti e una più profonda coscienza e
conoscenza dell’impatto ambientale del loro lavoro. Se i giovani crescono, fin
da bambini, in questo clima e ambiente, ci sarà un futuro per questo progetto e
questa utopia.

5. Vale la spesa investire ancora nel progetto o è una battaglia
perduta?

Eccome! Perdere la speranza è come perdere la vocazione. Per
questo il vicariato sta investendo moltissimo nel creare rete e nell’approccio
polivalente (governo, università, sostenitori inteazionali, volontariato) al
progetto. Apparentemente tale lavoro non porta grossi miglioramenti immediati e
non genera grandi ritorni economici, in realtà porta i cambiamenti più radicali
e profondi, quelli che creano una nuova mentalità.

6.
Chi altro dovrebbe essere coinvolto nel progetto?

Cacao e caucciù non saranno economicamente più allettanti della
coca fino a che non ci sarà un grande cambiamento di mentalità, non solo nei campesinos,
ma soprattutto nei consumatori a livello internazionale. La militarizzazione
del territorio non risolve i problemi. Una soluzione a lungo termine richiede
di investire in strade, trasporti e infrastrutture che sostengano i contadini
che davvero vogliono un’Amazzonia senza coca.

7. La Chiesa locale crede ancora nel progetto o lo subisce?

Qualcuno lo subisce, ma per fortuna l’équipe del vicariato è una
sorgente di vita e di speranza che non smette di mettersi in ascolto della
realtà per affrontarla ascoltando il soffio dello Spirito. In particolar modo
il vescovo Munera, vero uomo di Dio.

Stefania Biagini
 
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Per
le foto ringraziamo:
Angelo Casadei, Fabio Vasini, Marta Faccaro e Giacomo Lazari.

___________________

Sulla
tematica coca e cacao vedi:

Angelo Casadei, Rinascere si può,
MC 6/2008;
Semana, Un prete per la pace, MC, 6/2006;
F. Rezzadore, Viaggio
in Caquetà
, MC 12/2005;
Francesco Beardi, Amico, non essere oca, MC
5/1998;
Carlos Garcia Perez, Il Coraggio della sfida, MC 4/1997;
Aa.Vv.,
Colombia: non di sola coca, MC 9-10/1996, numero monografico.

Clicca sulla copertina
del numero monografico
per andare alla versione sfogliabile
nella collezione storica della rivista.

Clicca sull’icona qui a destra
per vedere il video documentario
di P. Angelo Casadei, imc,
sulla coca e il progetto cacao.

Stefania Biagini