Viaggio nell’Amazzonia Colombiana, Là dove il cacao fa fatica a rimpiazzare la Coca.
Arriviamo finalmente a Remolino dove p. Giacinto Franzoi aveva
lanciato il sogno del Caquetà senza coca. Il sogno non è morto, ma certo
richiede un grandissimo coraggio a tutti coloro che vi si impegnano di persona.
Rimpiazzare la coca con il cacao è un’impresa ardua in un territorio dove
mancano le strade, e i trasporti sono costosissimi.
Ci fermano a un posto di blocco
vicino a un villaggio chiamato Km 52, perché lì, fino a poco tempo fa,
terminava la strada. L’esercito, non soddisfatto dal semplice controllo del
passaporto, perquisisce l’auto. I militari sono tutti molto giovani, tra i 18 e
24 anni, e per la maggior parte di origine afro. Sono gentili ma ci fa effetto
vederli con quei mitra indosso e le dita sul grilletto pronti a sparare.
Intanto osserviamo le case, baracche di legno con tetto di
lamiera, cani, galline, il recinto per i maiali, e la gente, che si muove a
cavallo e con il laccio, e la piccola scuola che, come tutte le altre
intraviste lungo il tragitto, è dipinta di azzurro.
Arriviamo a Cartagena del Chairà, dove termina la strada sterrata.
Abbiamo viaggiato tutto il giorno arrivando alla casa dei missionari per cena.
Lì ci raggiunge p. Emilio. Arriva direttamente da Bogotá dopo aver affrontato
un lunghissimo viaggio in pullman attraverso le Ande e la pianura. P. Emilio ha
29 anni: il più giovane prete del Vicariato apostolico di San Vicente. Si è
appena laureato e, malgrado la stanchezza, ci accoglie con un sorriso limpido e
solare. Lui è responsabile della parrocchia di Remolino, villaggio lungo il
fiume Caguan, a circa 200 km di distanza, raggiungibile in barca in quasi
cinque ore di fiume. Remolino è la nostra prossima meta.
Partiamo verso le dieci del mattino dal piccolo porto fluviale
presidiato da numerosi militari, che controllano di nuovo documenti e bagagli.
Il biglietto costa l’equivalente di 40 euro, una cifra sproporzionata rispetto
al costo della vita in questi posti. Ma non c’è alternativa per raggiungere i
villaggi della foresta. All’ora fissata per la partenza il lizador (la
motobarca veloce) ha ancora parecchi posti vuoti per cui si attendono
pazientemente i passeggeri ritardatari. Alla fine non solo i quindici posti
sono tutti occupati, ma aggiungendo i bambini in piedi e quelli in braccio
siamo venticinque persone più il bigliettaio in equilibrio sulla prua. Alcuni
passeggeri chiedono a p. Emilio di dire una preghiera per affidare il viaggio
e, sotto lo sguardo stupito di un giovane militare armato di fucile, preghiamo
tutti insieme. Si parte!
La navigazione è pericolosa: il nostro pilota fa lo slalom tra
gorghi, banchi di sabbia, reti da pesca, tronchi e altro materiale che
galleggia sull’acqua. I naufragi sono
frequenti, tanto che il vicariato ha dovuto proibire ai sacerdoti, essendone già
annegati due, di pilotare personalmente l’imbarcazione della parrocchia.
Durante il viaggio non ci siamo mai stancati di osservare le rive:
il paesaggio ondulato ha ben presto lasciato il posto alla pianura. Zone
disboscate, alcune coltivate a palmeto, altre tagliate di recente e adibite a
pascolo si alternano alla selva; alberi ad altissimo fusto, fitto sottobosco,
bianchi uccelli che al tramonto paiono fosforescenti; la laguna è molto varia!
Vi dimorano tartarughe che si mimetizzano perfettamente sui tronchi e diverse
specie di pesci tra cui una della famiglia dei piraña, commestibile. Di tanto
in tanto palafitte isolate o raggruppate in piccoli villaggi. Gli spostamenti
avvengono esclusivamente via acqua, a cavallo o a piedi attraverso la selva,
percorrendo distanze spesso lunghissime. I colonos vivono praticamente
isolati in grandi famiglie, dove è sempre la donna a farsi carico di
responsabilità e fatiche. Frequentemente l’uomo abbandona la famiglia per
andare a formae una nuova, o si ubriaca di birra o auguardiente, una
bevanda alcornolica che sa vagamente di anice.
Sulla barca non c’è la possibilità di muovere un muscolo, teniamo
gli zaini appoggiati sui piedi. Ma c’è molta collaborazione: ci si scambia
sorrisi, chiacchiere e cibo; ci si aiuta per i bagagli; i giovani cedono i
posti più agevoli agli anziani. Dopo alcune fermate dove scendono e salgono
nuovi passeggeri (in modo che il lizador sia sempre stracarico)
attracchiamo a Piñacolorada, il posto di blocco dell’esercito. Sbarchiamo tutti
lasciando i bagagli a bordo perché possa essee verificato il contenuto: altro
controllo di documenti e perquisizione. Sulle pareti della casermetta sul fiume
sono incollati gli avvisi di taglia dei guerriglieri ricercati e gli elenchi
delle sostanze trasportabili per le quali non si può superare un certo
quantitativo: benzina, cemento, medicinali a uso veterinario, cioè tutti quei
prodotti chimici che potrebbero essere adoperati per ricavare la cocaina,
proibita dal governo e prodotta e trafficata dai guerriglieri per finanziarsi.
Finalmente ci reimbarchiamo e raggiungiamo la nostra destinazione.
Allo sbarco, un altro controllo da parte di un giovanissimo soldato. Ci avviamo
per un sentirnero melmoso; ovunque uomini armati: il rapporto è di un militare
per abitante. Lo stato presidia questo luogo perché qui c’erano ben 18
laboratori attrezzati per la produzione della coca. Tuttavia più di 10 anni di
presidio militare non hanno fermato il narcotraffico, che si è spostato più
all’interno fino a raggiungere il bacino dell’Orinoco nel Potumayo. Lo si è
reso solo un po’ più difficoltoso. Questo spiega anche perché la strada finisca
a Cartagena del Chairà: l’unica via fluviale è molto più controllabile.
Anche se ora sembra impossibile, nei primi anni ‘90 Remolino era
molto popolato e il giorno di mercato i dollari giravano a sacchi. Piccoli
aerei privati atterravano a decine in piazza per caricare la pasta di coca. La
situazione era pesante. Per questo nel 1989 l’allora parroco, p. Giacinto
Franzoi, lanciò un progetto per liberare i suoi parrocchiani dalla schiavitù
della coca. Con lo slogan «No alla coca, sì al cacao» iniziò la prima
distribuzione di sacchetti di semi di cacao e di caucciù. L’obiettivo era di
sostenere i colonos nel passare ad una coltivazione alternativa di
prodotti che sono ricchezza di vita della foresta, ma il cui ricavato è
purtroppo decisamente inferiore a quello della coca. (vedi MC ottobre 1996,
numero monografico «Non di sola coca»)
Per sostenere il progetto p. Giacinto e gli altri missionari del
vicariato apostolico chiesero aiuto a tanti amici. Così, nel 1996, un gruppo di
italiani si recò in quelle zone per conoscere e valutare. Al rientro in Italia
iniziarono una grande campagna denominata «Non di sola coca – quando impegnarsi
serve» per far conoscere i retroscena del narcotraffico e, in particolare, la
drammatica situazione dei campesinos. I risultati dell’iniziativa furono
incoraggianti. Nacque così l’associazione Impegnarsi Serve Onlus che,
ancora oggi, continua a collaborare con la chiesa locale colombiana.
A Remolino molte cose sono cambiate da allora. Il progetto non è
morto, ma certo ha incontrato molte difficoltà. Molta gente se n’è andata. Oggi
i 300 abitanti rimasti vivono – si fa per dire – piantonati dai soldati, che a
loro volta non vivono ma guardano gli altri vivere. La presenza dell’esercito
non ha solo lo scopo di tenere a bada i guerriglieri, che ormai si sono
ritirati sulle montagne, ma piuttosto di mantenere una sorta di equilibrio
instabile laddove si sono subite violenze tali da innescare una catena infinita
di vendette.
Ciò nonostante qualcuno crede ancora che si possa vivere senza
coca e prova ad andare avanti, come la famiglia che la sera del nostro arrivo
ci ha invitato a cena con p. Emilio. Sono papà e mamma e cinque figli, insieme,
per amore, hanno accettato di vivere qui e hanno aperto una piccola attività
commerciale e provano a resistere. Lo stesso vale per Miguel che si è
trasferito a Remolino da Piñacolorada: ha un bimbo piccolo e gestisce una
drogheria. Si dedica al volontariato e spera che le cose cambino in meglio.
Incontrando queste persone comprendiamo come sia importante non abbandonarli a
se stessi.
A Remolino la corrente elettrica è disponibile solo per qualche
ora alla sera. Perciò nel presidio medico non si possono conservare i
medicinali, come i sieri antiveleno. Anche conservare il cibo a queste
temperature è un grosso problema con conseguenti malattie intestinali
soprattutto nei bambini. Per la stessa ragione la fabbrica di cioccolato Chocaguan,
fiore all’occhiello del progetto alternativo alla coca, è operativa solo per
quelle poche ore serali e non riesce a smaltire la grande quantità di chicchi
di cacao che arrivano dai contadini.
L’aspetto positivo è che quando c’è l’elettricità molti della
comunità si ritrovano nelle «case-bar» per chiacchierare, bere e sentire musica
ad alto volume. In tali occasioni, attraverso un altoparlante, sono comunicate
anche le decisioni che riguardano la comunità, prese da un comitato che si
consulta continuamente con tutti.
Funziona magnificamente l’Aldea, una casa fattoria dove
ragazzi e ragazze delle superiori sono ospitati dalle suore perché possano
frequentare la scuola pubblica (provengono tutti da villaggi sparsi nella
foresta). Vengono seguiti nell’apprendimento e dedicano alcune ore alla
coltivazione dei campi e alla cura degli animali (le 40 mucche da latte
permettono la produzione di 50 kg di formaggio al giorno). Imparano così un
mestiere, ma soprattutto sono formati a resistere alla violenza. In queste
realtà, infatti, la violenza è considerata una normalità. Per questo occorrono
testimonianze tangibili che la nonviolenza, il perdono e la riconciliazione
pagano. Nella finca (i campi) della fattoria oltre agli ortaggi si
coltivano caucciù e cacao. Per quest’ultimo è in atto una sperimentazione con
l’università in modo da creare ibridi di qualità superiore per resistenza e
produzione.
1. Quali sono le attività principali che caratterizzano la lotta
contro la coca in Remolino?
Il Vicariato di San Vicente ha avviato un notevole lavoro di rete
con le istituzioni locali, per portare avanti piste alternative. Con lo stato,
per esempio, ha concordato la possibilità di inserire il Chocaguan (il
cioccolato prodotto a Remolino) nel piano alimentare per le scuole, favorendone
la diffusione. Con l’Università Amazzonica Colombiana ha implementato un piano
di studio sui semi del cacao per individuare quelli di miglior qualità e
produzione. La collaborazione con tale università è già ben avviata e le piante
nate dai nuovi innesti sono già visibili nella finca. Per cui il colono è
aiutato dalla popolazione locale per il disboscamento e la preparazione del
terreno; i tecnici dell’Università lo assistono per le nuove sementi e
controllo della crescita delle nuove piante, il progetto Chocaguan
garantisce il pagamento del prodotto.
Il risultato principale è la creazione di una nuova mentalità
almeno nei contadini direttamente coinvolti nel progetto, il cui numero però
non ci è stato possibile verificare.
Una è la carenza di energia elettrica. Il problema principale però
rimane il costo del trasporto fluviale, che incide moltissimo e rende il
prodotto finale (cioccolato) non competitivo con quello delle grandi
multinazionali.
Purtroppo il cacao e il caucciù, a Remolino, non saranno mai competitivi
rispetto alla coca. Ma ciò non significa che non ci sia speranza. Si sta
lavorando sulle nuove generazioni perché possano crescere con una mentalità
differente, con una migliore capacità professionale sul piano agricolo, con
accesso a una varietà maggiore di prodotti e una più profonda coscienza e
conoscenza dell’impatto ambientale del loro lavoro. Se i giovani crescono, fin
da bambini, in questo clima e ambiente, ci sarà un futuro per questo progetto e
questa utopia.
5. Vale la spesa investire ancora nel progetto o è una battaglia
perduta?
Eccome! Perdere la speranza è come perdere la vocazione. Per
questo il vicariato sta investendo moltissimo nel creare rete e nell’approccio
polivalente (governo, università, sostenitori inteazionali, volontariato) al
progetto. Apparentemente tale lavoro non porta grossi miglioramenti immediati e
non genera grandi ritorni economici, in realtà porta i cambiamenti più radicali
e profondi, quelli che creano una nuova mentalità.
6.
Chi altro dovrebbe essere coinvolto nel progetto?
Cacao e caucciù non saranno economicamente più allettanti della
coca fino a che non ci sarà un grande cambiamento di mentalità, non solo nei campesinos,
ma soprattutto nei consumatori a livello internazionale. La militarizzazione
del territorio non risolve i problemi. Una soluzione a lungo termine richiede
di investire in strade, trasporti e infrastrutture che sostengano i contadini
che davvero vogliono un’Amazzonia senza coca.
Qualcuno lo subisce, ma per fortuna l’équipe del vicariato è una
sorgente di vita e di speranza che non smette di mettersi in ascolto della
realtà per affrontarla ascoltando il soffio dello Spirito. In particolar modo
il vescovo Munera, vero uomo di Dio.
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Per
le foto ringraziamo:
Angelo Casadei, Fabio Vasini, Marta Faccaro e Giacomo Lazari.
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Sulla
tematica coca e cacao vedi:
Angelo Casadei, Rinascere si può,
MC 6/2008;
Semana, Un prete per la pace, MC, 6/2006;
F. Rezzadore, Viaggio
in Caquetà, MC 12/2005;
Francesco Beardi, Amico, non essere oca, MC
5/1998;
Carlos Garcia Perez, Il Coraggio della sfida, MC 4/1997;
Aa.Vv.,
Colombia: non di sola coca, MC 9-10/1996, numero monografico.
Clicca sulla copertina
del numero monografico
per andare alla versione sfogliabile
nella collezione storica della rivista.
Stefania Biagini