Armi: commercio trasparente?

Ad aprile l’Onu ha approvato il trattato
sul commercio delle armi. Gli stati dovranno dichiarare la destinazione delle
armi prodotte. Ma l’accordo entrerà in vigore solo con la ratifica di 50 paesi.

Sembra
paradossale, ma un effetto positivo la crisi lo ha avuto: le spese mondiali per
armamenti nel 2012 sono diminuite dello 0,5%. È la prima volta in dieci anni.
Le nuove guerre del terzo millennio, che si sono sommate a quelle vecchie, e la
lotta al terrorismo hanno fatto crescere smisuratamente gli investimenti in
armi che oggi superano i livelli del periodo della guerra fredda: nel 2012 sono
stati spesi 1.750 miliardi di dollari, il 2% per prodotto mondiale lordo. La
diminuzione rispetto all’anno precedente è dovuta alla contrazione della spesa
nei paesi occidentali colpiti dalla crisi, in compenso hanno speso di più le
nuove potenze economiche: la Cina registra un 8% in più, la Russia ben il 16%.
Insomma non si tratta di un’inversione di tendenza, il pianeta continua a
essere super armato e il commercio delle armi fiorente, al primo posto nella
classifica degli esportatori rimangono gli Stati Uniti, in contrasto con le
crociate di Obama contro le troppe armi in casa propria, poi la Russia e più
distanti Germania e Francia, l’Italia non sfigura piazzandosi all’ottavo posto.
I migliori clienti sono in Asia: India, Cina, Pakistan, Corea, ma anche i paesi
del Nord Africa hanno aumentato le importazioni.

Questo è il commercio, per così dire, legale, in cui le
transazioni sono registrate dai governi, poi c’è quello clandestino che
alimenta i conflitti più spaventosi, come quello della Siria, 200 mila vittime
e un milione e mezzo di rifugiati.

In Italia, timida e inascoltata dalla politica, si è
alzata la voce dei movimenti pacifisti contro gli F-35 che non
solo costano al bilancio della stato decine di miliardi, che investiti
diversamente potrebbero far ripartire l’economia e l’occupazione, ma sono
mostri attrezzati per trasportare armi nucleari telecomandate. Nel nostro paese
mancano le risorse per la ricerca contro le malattie e le varie associazioni, come
l’Airc (Associazione italiana ricerca sul cancro) devono contare sulla
generosità dei cittadini, eppure l’industria italiana degli armamenti continua
a disporre, anche grazie ai finanziamenti pubblici, di sostanziosi mezzi per lo
sviluppo tecnologico.

In
questo scenario desolante, lo scorso aprile si è aperto uno spiraglio: dopo
sette anni di complicate mediazioni, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha
approvato a larga maggioranza il Trattato internazionale sul commercio delle
armi
. Scopo dell’accordo non è quello di bloccare l’import e l’export di
armamenti convenzionali: dai carri armati alle pistole, dagli aerei da guerra
ai sistemi di artiglieria, piuttosto di porvi dei limiti, scoraggiando la
vendita a paesi sotto embargo, come la Siria o l’Iraq, o a paesi responsabili
di gravi violazioni dei diritti umani, come l’ Uzbekistan o il Congo
Rd.

Il governo degli Stati Uniti che, pressato dalle lobby
dell’industria bellica, ha contribuito alla lungaggine delle trattative, ha
dichiarato che si tratta di un accordo storico perché contribuirà a «ridurre la
violenza nel mondo». Gli Stati continueranno legittimamente a produrre ed
esportare armi, ma dovranno dichiarare dove sono destinate, evitando che
vengano utilizzate da paesi e gruppi colpevoli di genocidi, crimini contro
l’umanità o atti di terrorismo. Amnesty Inteational, che avrebbe sperato in
un trattato vincolante che prevedesse divieti e sanzioni, ha dichiarato: «Non è
l’accordo che avevamo sperato, ma è un effettivo passo avanti, in quanto
obbliga tutti gli stati ad una maggiore trasparenza»

L’opinione pubblica potrà sapere e intervenire, questo è
l’aspetto più importante dell’accordo che, occorre ricordarlo, entrerà in
vigore solo quando almeno 50 paesi l’avranno ratificato. Sotto questo profilo
l’Italia può fare da scuola, infatti, grazie alla pressione di Ong e Istituti
missionari e all’impegno di molti parlamentari, già nel 1997 ha adottato la legge
n. 185/97 che pone vincoli precisi all’export italiano, obbligando tra l’altro
le banche a segnalare le transazioni che effettuano nel settore, inclusi gli
importi finanziari e i paesi destinatari.

Gli istituti di credito hanno espresso a più riprese la
loro protesta, anche con qualche ragione (l’obbligo riguarda solo le banche
italiane), ma le più attente alla propria reputazione hanno capito che è
controproducente fare affari sulla morte e sulle stragi e si sono dotate di policy
per regolamentare il proprio intervento nel settore delle armi.

Un grande aiuto è venuto dal professor Umberto Veronesi
che, insofferente allo squilibrio tra spese per la difesa e per la ricerca
scientifica, ha dato vita da due anni a questa parte a un tavolo di confronto
tra banche e società civile che ha portato all’adozione di un codice di
condotta condiviso.

Sabina Siniscalchi