Il lungo viaggio verso Remolino:  (prima parte)

Viaggio nell’Amazzonia Colombiana. Ogni viaggio è un’opportunità. Ogni viaggio è una
responsabilità. Ogni viaggio implica una «restituzione». Ecco il motivo di
queste pagine: la restituzione, seppur limitata, delle ricchezze viste e
ricevute, per farle conoscere e condividere. Il nostro viaggio è stato
caratterizzato da numerosi incontri: personaggi significativi che con il
proprio vissuto ci hanno mostrato un aspetto differente della realtà
colombiana. È attraverso di loro che vi racconteremo cosa abbiamo visto.

Partiamo da Torino l’11 settembre
2012. Siamo in quattro, di età differenti: due ventenni, una quarantenne e una
sessantenne. Un bel miscuglio e una bella sfida! Dopo aver fatto scalo a
Madrid, inseguiamo il sole per 900 km, per tutte le undici ore di viaggio fino
all’aeroporto Eldorado di Bogotá, arrivando in una nuova Babele per la varietà
dei lineamenti dei volti, del colore della pelle, del taglio degli occhi: una
varietà che fa sentire «a casa» chiunque. Una città-mondo che ritroviamo anche
all’interno della casa provinciale dei missionari della Consolata,
continuamente animata da chi arriva e chi parte. Un porto di mare a quota 2.600
metri.

Padre Carlos Olarte ci aiuta a muovere i primi passi in questa
metropoli di quasi 10 milioni di abitanti, risolvendoci le prime ed essenziali
questioni relative al cambio della moneta, all’attivazione delle chiamate
inteazionali dai cellulari, ecc. Con la sua tranquillità ci trasmette serenità
e, anche se nessuno di noi conosce bene la lingua (o non la conosce affatto!),
capiamo che la comunicazione è possibile con un po’ di sforzo da entrambe le
parti e un po’ di fantasia. Anche il direttore della Casa Provinciale, padre
Josè Grisales, ci dedica molto del suo tempo dandoci informazioni sulla
situazione economica e sociale della città e portandoci a visitare i nuovi
centri commerciali, vere e proprie «metropoli nella metropoli», così
catalizzanti che vi si praticano le vaccinazioni e si celebra la Messa.

Florencia


Siamo dunque sufficientemente attrezzati per affrontare il viaggio
verso la selva. Decolliamo da Bogotà con un simpatico piccolo aereo a elica e
atterriamo al nuovissimo ed efficiente aeroporto di Florencia: la quota è
diminuita di quasi 2500 metri, mentre la temperatura è aumentata di oltre 20
gradi. Ci assale un’aria calda e umida. La casa dei missionari si trova in cima
alla collina, dove sorge un quartiere completamente costruito dal vescovo
Torasso dopo un’inondazione, per dare un tetto a tutti coloro che l’avevano
perduto. Qui l’aria è più respirabile.

Siamo ai piedi delle Ande, in una delle prime cittadine
colonizzate a inizio ‘900 dalle popolazioni che dalle montagne migravano verso
la selva in cerca di nuove opportunità di vita e lavoro. Proprio in questi
giorni Florencia festeggia i 100 anni di municipalità, mentre compie 110 anni
di fondazione, della quale è testimone ancora vivo e imponente il grande mango
piantato per l’occasione nell’attuale piazza principale del paese e sotto le
cui fronde trova ombra il fondatore Doroteo di Pujales. Florencia, capitale del
Caquetà, è spesso definita la «porta della foresta amazzonica», avendo essa
dato avvio al processo di colonizzazione di tutta la fascia pedemontana e in
seguito dell’interno del bacino amazzonico. Oggi è una cittadina animatissima
di circa 20.000 abitanti, anche se con i villaggi vicini supera i 160.000, che
fanno capo alle sue strutture pubbliche (comune, scuole, ospedale, università …)
e alle sue attività commerciali. La nostra attenzione è attratta soprattutto
dai banchi della variegatissima frutta tropicale e dal mercato molto pittoresco
con bancarelle di artigianato locale, dai tessuti al vasellame. Numerosi i
carrettini di venditori di pietanze e di succhi preparati al momento.

Il Veterano

Nella casa dei missionari della Consolata, molto armoniosa ed
accogliente, troviamo padre Bruno Del Piero. È arrivato nella zona verso la metà
degli anni ’90 e da allora non si è risparmiato per dare dignità alla
popolazione locale, realizzando opere sociali e collaborando per un’istruzione
diffusa e il diritto alla sanità per tutti. Ancora oggi, all’età di 80 anni,
ogni mattina percorre a piedi un bel tratto di strada per raggiungere
l’ospedale e stare al fianco degli ammalati. È affascinante stare seduti
attorno a lui, la sera, ad ascoltare la descrizione di come era una volta la
zona, le avventure per raggiungere anche i più lontani insediamenti, le sfide
affrontate, la paura frequente per la situazione di guerriglia, le conquiste.
Ancora più affascinante ci appare l’amore per questa terra che lo pervade ai
nostri giorni, oggi. Un amore cresciuto, rinnovato, attuale, concreto. Quando
dal balcone di casa ci indica tutti gli edifici significativi della città, i
suoi occhi si animano e le vie del quartiere (che si chiamano calle e carrera,
a seconda dell’orientamento) si animano virtualmente davanti ai nostri.

La Pedemontana

Ci rimettiamo in viaggio verso l’interno. Ci vogliono 170
chilometri per raggiungere Cartagena del Chairà, l’ultimo paese dove arriva la
strada. Dopo, per proseguire, occorre utilizzare la barca e scendere lungo il
fiume Caguan. È il primo impatto con le vie di comunicazione colombiane e
soprattutto con i tempi necessari per percorrerle: qui si sa quando si parte,
ma non si sa né se si arriverà né quando. Si possono fare previsioni, tenendosi
tuttavia pronti a ogni sorta di inconveniente. Non bisogna avere fretta né
garantire la puntualità!

Da Florencia padre Angelo Casadei diventa il nostro «angelo
custode». Ancora una volta ci sentiamo coccolati perché ci viene a prendere con
la macchina del vescovo, messa a disposizione per tutti gli spostamenti. Lungo
il tragitto ci viene spontaneo fargli tante domande sulla vita in Colombia, la
situazione politica e sociale, la sua esperienza, approfittando del suo essere
italiano e dunque della lingua.
(clicca sul simbolo a sinistra per vedere un eccezionale documentario girato da p. Angelo Casadei)

La prima parte del nostro tragitto è costituita dalla pedemontana,
strada parallela alle montagne, ai piedi delle stesse. Tale strada rappresenta
un po’ il processo di colonizzazione della selva nel tempo. Infatti prima di
procedere verso il cuore della foresta, i coloni si sono mossi negli anni
parallelamente alla montagna, disboscando e destinando la maggior parte del
terreno ad allevamento. Per avanzare nella conquista di terra hanno creato
sentirneri divenuti sempre più marcati e importanti per i collegamenti tra i vari
insediamenti, fino a costituire vere tratte di comunicazione della zona.
Realizzate inizialmente dalla popolazione locale, con il tempo sono diventate
di interesse pubblico, richiamando l’attenzione dello stato che nel tempo le ha
asfaltate e ora le gestisce. Oggi queste strade più o meno asfaltate
costituiscono un elemento importante di sviluppo, ma allo stesso tempo uno
strumento di conflitto: per lo stato rappresentano la via per raggiungere zone
ricche di materie prime, spesso appaltate a multinazionali straniere, come nel
caso del petrolio nella zona di San Vincente; per la guerriglia rappresentano
l’ennesimo furto nei confronti della popolazione colombiana. Proprio due mesi
prima del nostro arrivo, in luglio, la guerriglia ha fatto saltare un ponte
lungo il tratto che noi percorriamo e ora, dopo la veloce ricostruzione da
parte dell’esercito, ogni ponte della pedemontana è sorvegliato 24 ore su 24 da
militari, con costi esorbitanti per lo stato.

La Madonina

Deviamo per un villaggio chiamato «La Madonina», presso la località
Santuario: ci sembra di essere dentro un presepe ambientato nel Far West!

Una signora, lungo la strada, spreme in un torchio di legno la
canna da zucchero e ne vende il succo. Qui incontriamo padre Marini Antonio: è
in Colombia ormai da cinquant’anni e guida una landrover che vuole
tenere in vita perché non arrugginisca. Ci racconta squarci di vita degni di un
romanzo: nel ’96 i campesinos avevano organizzato una protesta, che lo
stato aveva tentato di frenare con l’esercito. In tale contesto di violenza,
per evitare spargimenti di sangue il padre li aveva ospitati in parrocchia,
dove hanno stabilito regole precise per mantenere l’ordine all’interno
dell’istituto. Tra i militanti c’era un ufficiale, che era stato suo allievo:
per il grande rispetto nei suoi confronti non fece razziare le riserve
alimentari, permettendo a tutti di continuare ad avere cibo.

Durante la visita alla sua missione ci ha introdotti nel
laboratorio da lui stesso attrezzato dove è in grado di eseguire lavori di
carpenteria, piccola meccanica, manutenzione e ci ha spiegato che un tempo per
i seminaristi erano previste esercitazioni di edilizia idraulica elettrotecnica
perché fossero in grado di fare un po’di tutto.

Ora ha 86 anni e ammette di non avere più tanta forza fisica, ma
ci lascia una frase che è diventata nostro patrimonio, «Bisogna impiegare bene
il tempo per non averlo contro». Perciò ha ripreso a studiare teologia
dedicandosi a quella medioevale.

Bambini e Donne

Nella missione di Santuario, funziona molto bene un piccolo
collegio di 26 bambini, seguiti da Suor Agostina e suor Emilia. Entrambe sono
scampate al denghé, malattia che, se non curata in tempo, porta alla
morte e causata dalla puntura di una zanzara locale esclusivamente diua. Dopo
questa «avventura» hanno ripreso entrambe a pieno ritmo a portare avanti il
collegio. Le camerate dei ragazzi sono linde e allegre: le bambine sono
orgogliose di mostrarci i loro lavori di ricamo e i quadei. Frequentano tutti
la scuola pubblica, ma al pomeriggio eseguono i compiti con la guida delle
suore, per dedicarsi poi a tutte le faccende domestiche e di gestione della
casa. Le famiglie d’origine sono molto povere e le suore spesso non ricevono le
rette, nonostante la richiesta sia di soli 10.000 pesos (circa 5 euro)
all’anno. I bambini rimangono a Santuario fino alla V elementare. Le femminucce
ricevono nozioni di igiene, alimentazione, comportamento, che toeranno utili
nel giro di breve tempo perché a 14/15 anni solitamente sono già madri. Non
avendo contratto matrimonio, spesso il compagno le abbandona e si unisce ad
altre donne.

Le ragazze madri chiedono sostegno alle proprie madri per la
gestione dei figli, ma spesso sono sole e con una vita irregolare. Il ruolo dei
missionari è quindi quello di offrire luoghi sani in cui far crescere i
ragazzi, insegnando non solo le materie scolastiche, ma soprattutto la gestione
delle normali faccende quotidiane. Qui imparano a diventare adulti più
responsabili e anche a rispettare le regole di una comunità, nell’ottica di un
bene comune che porta benefici a tutti se rispettato.

Si riparte. EL Pauijl

Arriviamo a El Pauijl. Il paujil è un uccello – ormai
estinto – delle dimensioni di un tacchino, che seguiva l’uomo come un
cagnolino. Nel centro del paese sorge un monumento dedicato a questo animale.
Siamo arrivati proprio mentre si stava svolgendo un funerale: il carro funebre è
rosso, la partecipazione corale e, vien da dire, festosa. Abbiamo supposto che
il defunto fosse un taxista, perché all’uscita della chiesa le auto pubbliche
che stavano sulla piazza hanno suonato i clacson per poi incolonnarsi a seguito
del corteo fino al cimitero. Il paese di Pauji rappresenta un nodo cruciale: da
qui, andando dritti, si prosegue lungo la pedemontana fino a San Vincente, sede
del Vicariato; oppure, svoltando a destra, si prende la direzione della selva,
dell’entroterra. Si punta al cuore della foresta. Noi svoltiamo a destra.

Cambia la strada: non è più asfaltata, ma sterrata. Si tratta di
terra rossiccia pressata mescolata a bitume, che viene stesa direttamente sul
battuto, ma basta qualche giorno di pioggia per farla dilavare o il caldo
torrido della stagione secca per sgretolarla. Nel paese c’è molta corruzione
legata alle opere pubbliche: chi appalta i lavori spesso specula sui materiali
per trae vantaggio economico, a scapito della popolazione.

Inizia il paesaggio della seconda fase di colonizzazione con
sterminati allevamenti estensivi (in contrapposizione ai nostri allevamenti
intensivi), con colline verdissime e radi alberi isolati. Il paesaggio appare
ai nostri occhi stupendo e rilassante, ma ci rammentano che un tempo era tutta
foresta. L’erosione del terreno dovuta alle piogge stagionali incessanti e al
sottilissimo strato di humus non è ancora evidente come nei terreni della
pedemontana, ma nel raggio di 30/40 anni, se non ci sarà un’inversione di
tendenza, gran parte del terreno sarà arido e incolto.

(1. continua)
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Per le foto ringraziamo:
Angelo Casadei, Fabio Vasini, Marta Faccaro e Giacomo Lazari.

Cinzia Boschis, Stefania Biagini Ghiotti, Marta Faccaro e
Giacomo Lazari sono volontari e soci di Impegnarsi Serve, una onlus che,
tra molto altro, anima nelle scuole medie e superiori il progetto educativo «L’altra
faccia della coca».

Stefania Biagini




La Missione sui Monti dei Sogni

In viaggio di nozze a Sererit
«Dove si trova Sererit?», gli
chiedo. Lui sorride, si avvicina alla cartina geografica appesa alla parete e
ferma il dito su un punto a Nord del Kenya in direzione del Lago Turkana. Dice
che è lì, in mezzo alle Ndoto Mountains
(le montagne dei sogni). Mi avvicino cercando di aguzzare la vista per leggere
il nome della missione, ma non c’è proprio niente da vedere! Quel punto nel bel
mezzo delle montagne nessuno lo conosce eccetto chi ci vive.

Lui
si chiama Aldo Giuliani, classe 1940, trentino doc della Val di Non, e ha la
testa dura, quasi quanto quella di un calabrese! Noi siamo i calabresi: io
(Beatrice) per nascita, e Frank (keniano) per «adozione» da quando, il 10
settembre 2010, siamo diventati marito e moglie. Se vi state chiedendo che cosa
hanno in comune un trentino e due calabresi (oltre, naturalmente, la testa
dura!) eccovi accontentati: l’amore per la missione che Cristo Gesù affida a
ogni battezzato, di portare la sua Parola di salvezza a tutte le genti, e
quello per la sua, nostra e di tutti amata Mamma Celeste che veneriamo con
l’appellativo di Consolata. Siamo missionari della Consolata, due facce della
stessa medaglia: padre Aldo un religioso, noi laici della stessa grande
famiglia missionaria, che fonda le sue origini nell’ispirazione del beato
Giuseppe Allamano, padre fondatore dell’Istituto Missionario della Consolata.

Il missionario dalla foresta

Conosco padre Aldo Giuliani a Nairobi, nel 2009. Io sono la
cornordinatrice dell’Ufficio Progetti dei missionari della Consolata in Kenya. In
un tiepido pomeriggio di metà luglio sento un rumore di pati-pati (le
ciabattine infradito di gomma che tutti usano in Kenya) avvicinarsi dal
corridoio al mio ufficio. Qualcuno fa capolino: polo a manica corta un po’
stropicciata e pantaloncino rigorosamente a mezza gamba, capelli bianchi un po’
in disordine, viso letteralmente bruciato dal sole; il missionario si presenta
come uno che arriva dalla foresta… Nella sua missione, a Sererit, nel Nord del
Kenya, fa caldo, troppo caldo, anche solamente per pensare ad un abbigliamento
di tipo diverso. «Dove si trova Sererit?», gli chiedo. Lui sorride, si avvicina
alla cartina geografica appesa alla parete e ferma il dito su un punto a Nord
del Kenya in direzione del Lago Turkana. Dice che è lì, in mezzo alle Ndoto Mountains (le montagne dei sogni).
Mi avvicino cercando di aguzzare la vista per leggere il nome della missione,
ma non c’è proprio niente da vedere! Quel punto nel bel mezzo delle montagne
nessuno lo conosce eccetto chi ci vive: niente strade, nessun villaggio, niente
di niente che possa interessare i geografi. Un punto sulla mappa: 1°40’47,08”N, 37°10’37,31”E. Dal satellite si intravedono a fatica i riflessi delle lastre
zincate del campo della missione.

«Per capire dov’è, devi venire a trovarmi». Continua a sorridere
p. Aldo, quasi sicuro che a quella signorina mancherà il coraggio di accettare
l’invito… non sa ancora di aver di fronte una calabrese! Appena il missionario
lascia il mio ufficio esco anch’io, faccio in fretta una rampa di scale e
arrivo alla sede della rivista dei padri della Consolata, «The Seed», dove il
mio (allora) fidanzato Frank lavora come grafico. Per via del suo lavoro Frank
conosce quasi tutti i missionari. Gli racconto emozionata del mio incontro con
p. Giuliani e, curiosa come una scimmia, gli chiedo notizie su Sererit. Mi
racconta che la missione si trova nel distretto Samburu, circa 500 Km a Nord di
Nairobi; i Samburu, popolo di pastori nomadi, vivono, infatti, nella parte
centro settentrionale del Kenya. La loro origine è nilocamitica e, per le
similitudini somatiche, le usanze e le tradizioni antiche, sono parenti dei
Maasai. Il loro territorio è molto vasto: a Nord si estende fino alla sponda
meridionale del lago Turkana, e a Sud arriva fino al «fiume marrone»,
l’Ewaso-Ny’ro.

Dopo queste notizie la mia curiosità cresce, e così decidiamo di
andare a trovare p. Aldo: due mesi dopo, di buon mattino, lasciamo Nairobi alla
volta di Sererit. P. Fabio Chaparro, sacerdote colombiano Fidei Donum che presta il suo servizio proprio sulle sponde del
lago Turkana, a Loyangallani (un’altra missione dove operano i missionari della
Consolata), ci dà un passaggio fino alla missione di South Horr e p. Aldo viene
a prenderci lì. Il viaggio da Nairobi a South Horr, ai piedi del monte Nyiro,
ha le sue piacevolezze: 180 km di asfalto fino a Rumuruti; 120 di sterrato
tormentato e spesso insicuro fino a Maralal; 100 km infami su una strada
ridotta a pista fino a Baragoi e ancora 50 sullo sterrato discretamente ben
tenuto che porta a South Horr.

Verso Sererit

Partiamo il pomeriggio. Da South Horr a Sererit il tragitto è
tutto su pista: sassi, pietre, sabbia, letti di fiume e ancora sassi! 70 km di «fuoristrada».
Passiamo diverse piste battute, rese agibili grazie alle braccia volenterose di
tanti uomini samburu che p. Aldo ha coinvolto nel suo progetto di «urbanizzazione
primaria» avviato già a fine anni Novanta, quando è stato destinato a
cominciare quella missione. Tutt’intorno, il paesaggio è mutevole: passiamo
dalle colline con grandi acacie ombrellifere alla savana con vegetazione bassa
di arbusti e acacie spinose, da scarpate rocciose a ampi letti di fiumi
stagionali in secca. La sera arriva presto, anche perché la velocità su queste
piste è necessariamente ridotta al minimo e, pertanto, non potendo raggiungere
la nostra meta prima che faccia buio, ci fermiamo a passare la notte in una outstation
nei pressi (si fa per dire) della missione: il campo di Maragì. In fretta
montiamo la tenda dove io e Frank trascorreremo la notte; il fido Maharague
(fagioli!), il guardiano samburu del campo, ci prepara del fegato di capra
arrosto e del buon chai (tè bollente con latte) e appena cala la notte
saliamo sul tetto della land cruiser del padre a gustarci l’immensità di
un cielo stellato la cui bellezza difficilmente riesco a descrivervi a parole!
Sono appena le nove e mezza ma è già ora di andare a nanna. «E tu dove dormi?»,
chiedo a p. Aldo. Lui sorride ancora. Forse è il candore delle mie domande a
farlo sorridere ogni volta. Presto detto: dal bagagliaio della land cruiser
– che, se non fosse per le dimensioni, potrebbe facilmente essere paragonata
alla borsa di Mary Poppins per la quantità e varietà degli oggetti che contiene
– tira fuori un materasso, che durante il giorno funge da schienale e la sera
si trasforma nel fugace giaciglio di chi ha imparato a non temere l’imprevisto.
Ci si stende sopra, lasciandoci a bocca aperta senza darci neppure la
possibilità di complimentarci per la trovata geniale!

Il mattino dopo di buon’ora siamo nuovamente on the road:
Ngoronit, Nasunyei, Loikum kum, Lekerrì, infiliamo uno dopo l’altro i villaggi-outstations,
più o meno grandi, che portano verso la missione; in ognuno di essi facciamo
una breve sosta per distribuire acqua e farina. A sera, poco prima del
tramonto, giungiamo a destinazione. L’arrivo è per noi un momento
straordinario: p. Aldo adora la musica e mentre stiamo ancora dando una mano a
scaricare la macchina, lui corre in casa e mette su una canzone di alcuni anni
fa, Don’t cry for me Argentina. Appena giriamo l’angolo verso l’ingresso
della casetta di lamiere a noi riservata, si apre di fronte a noi uno
spettacolo mozzafiato: il Manmanet, la gigantesca cima amica del popolo
Samburu, illuminata dal rosso del sole calante, si erge maestosa nel gruppo
delle Ndoto Mountains che domina la vallata circostante. Io e Frank ci
innamoriamo all’istante di questo luogo ai confini della realtà.

La missione è situata in una zona ricca d’acqua, dove la savana
(quando piove) si colora di verde e la natura assume un aspetto rigoglioso, con
fiori e piante dai colori sgargianti.

In un mondo fuori dal mondo

(clicca su slideshow per altre immagini del viaggio di Bea e Frank)
Trascorriamo a Sererit cinque bellissimi e
intensissimi giorni, entrando in contatto con il mondo dei Samburu, gli «aristocratici
dell’Africa orientale»: facciamo nuove amicizie soprattutto tra i bambini che frequentano
l’asilo della missione e le donne, belle ed eleganti nelle loro vesti ricavate
da stoffe policrome. Impariamo in breve a conoscere il loro tipo di società:
una società forte in cui è importante il fattore umano, dove tutti sono
considerati allo stesso modo, dove si vive in simbiosi con la natura, e dove il
fulcro di questa vita è la manyatta, un recinto di rami spinosi al cui
interno vi sono le capanne della famiglia, e al centro ulteriori recinti (uno
per ogni moglie – vedi foto pagine seguenti) per proteggere il bestiame
dagli agguati dei predatori.

Nel tardo pomeriggio quando il sole non
picchia troppo facciamo delle lunghe passeggiate su per la collina. In
compagnia dei bambini arriviamo fino alle manyatta più vicine, scambiamo
due chiacchiere con le padrone di casa, prepariamo con loro i canti e le danze
per la messa della domenica, e intanto aspettiamo il rientro delle mandrie dal
pascolo. I Samburu allevano principalmente bovini, dalle lunghe coa di tipo
indiano con la gobba, da cui prendono il latte che, (a volte) mescolato al
sangue, costituisce il loro alimento principale, e capre che, invece,
rappresentano una risorsa durante i lunghi periodi di siccità e il cui latte è
usato soprattutto per i bambini. Silenziose e ordinate in fila indiana, ecco le
mucche che rientrano prima della notte: siamo circondati da una magnifica
armonia tra persone, animali e vegetazione; ognuno al suo posto, rispettoso
dello spazio degli altri.

A sera, dopo cena, ci stendiamo tutti a naso in sù perché p. Giuliani
ci insegna a conoscere le costellazioni e, mentre gareggiamo a chi avvista più
stelle cadenti nello sconfinato cielo africano, ci lasciamo cullare dalle
melodie antiche del popolo samburu che si riunisce intorno al fuoco prima di
dormire. Non è difficile immaginare perché, a distanza di un anno, alla
classica domanda: «E in viaggio di nozze dove andrete?», che tutti ci faranno
dopo il nostro matrimonio, la nostra risposta non potrà che essere: «In Kenya,
a Sererit!».

Beatrice Romeo Wainaina



Nomade tra i
Nomadi

Dagli appunti
di viaggio di Gigi Anataloni, giugno 2009.

La missione provvisoria

Abbarbicata sul costone della montagna, la missione è l’apoteosi
del provvisorio perenne. Un attento terrazzamento del terreno ha ricavato piani
su cui creare basamenti in cemento per una serie di casette in lastre zincate,
e strutture in legno: un magazzino, la casa multiuso per gli ospiti, la
struttura garage-officina-falegnameria-idraulica, il dispensario vicino al
cancello d’ingresso, la spaziosa chiesa-manyatta
in struttura di ferro coperta da lunghe erbe e plastica coloratissima, e la
casa del missionario, evidentemente cresciuta senza un piano preciso ma secondo
i bisogni del momento. Qua e là ci sono fiori coloratissimi, piante da frutta,
banani e aiuole con insalata, pomodori, cipolle e tante erbe aromatiche.

L’acqua è vicina, solo duecento metri più in basso, dove scorre il
torrente, ma non è potabile, perché inquinata dallo sterco degli animali e
salmastra. Così p. Aldo è andato verso la cima della montagna, all’inizio della
valle, dove ha scoperto una sorgente incontaminata. Con la gente del posto ha
messo tubi, cinque chilometri, e ora l’acqua potabile arriva alla missione e
all’asilo annesso. Il più grande problema è convincere i pastori/pastorelli
samburu a non far buchi nei tubi per risolvere le loro necessità immediate. Ci
sono volute ore e ore di discussioni con gli anziani e un bel po’ di tabacco
per ottenere dei risultati, ma alla fine si sono convinti tutti che l’acqua
potabile è meglio, soprattutto per i loro bambini che giorniosi frequentano il
coloratissimo asilo della missione.

Fondata nel 1999, Sererit (che significa acqua che scorre) ha una
superficie di circa 1400 km2 e quasi 6.500 abitanti in maggioranza Samburu, con alcuni piccoli
gruppi di Rendille e di Turkana. La disponibilità di acqua potabile è stata la
ragione principale della scelta del luogo attuale, stupendo, ma un po’
marginale rispetto a tutta l’area che la missione serve. Nel futuro si pensa di
trasferire il centro a Lekeri, in un luogo più piano, dove esiste già una
grande scuola con un regolare campo sportivo, ma prima occorrerà costruire un
lungo acquedotto.

Educazione, salute e Vangelo

La missione ha solo tre centri con scuole, chiesetta e catechista
residente, centri avviati circa trenta anni fa, quando tutto quell’immenso
territorio era ancora parte della missione di Baragoi (la prima missione del
distretto – oggi contea – Samburu, fondata nel 1952). Questi centri sono gli
unici ad avere anche alcune case in muratura e dei negozietti. Per il resto la
gente è nomade e ha molta mobilità secondo le necessità di pascolo o i cicli di
siccità. Per questo p. Aldo ha creato in luoghi strategici, dove ci sono pozzi
per l’acqua (spesso salmastra), dei punti d’incontro e aggregazione e li ha
foiti di una grande pentola nella quale cuocere del cibo (normalmente latte
più farina di grano o preferibilmente miglio e soia) per i bambini, prime
vittime di un ambiente arido e spesso ostile, e offrire loro i primi rudimenti
dell’educazione in asili provvisori. Là, sotto una pianta di acacia si radunano
anche i cristiani o gli aspiranti tali per la preghiera e la catechesi, ma
anche gli anziani per discutere di salute ed educazione, di acqua e di strade.

Il fiore all’occhiello è l’asilo di Sererit, costruito proprio a
ridosso della missione: coloratissimo, pieno d’ingegnosi strumenti didattici
portati da fuori o ideati e realizzati sul posto con materiale locale, a misura
della cultura e del modo di vivere Samburu. Con l’aiuto di volontari italiani
che, salute permettendo, ritornano regolarmente a Sererit, sono state formate
delle maestre locali che insegnano con entusiasmo e competenza. I risultati
sono eccellenti. Diversi bambini usciti da quell’asilo sono entrati
immediatamente nella seconda elementare saltando la prima.

Ma l’educazione rimane un grosso problema. Gli anziani non ne
capiscono la necessità. La loro vita ruota attorno al bestiame e i bambini sono
più utili a seguire le capre che sui banchi di scuola. E poi, le ragazze che
studiano diventano piene di pretese, vogliono continuare gli studi e non
accettano di sposarsi giovanissime come fanno invece le loro coetanee
analfabete.

Il governo, con l’aiuto della missione, ha creato scuole a
sufficienza, ma il livello dell’insegnamento è povero, perché molti dei maestri
mandati in queste aree sono tra i più scadenti, che nessuno vuole, o sono in
punizione perché ubriaconi. Manca poi una rete efficace di asili, nei quali i
bambini possano imparare le basi per entrare nella scuola elementare.

La salute è anche un altro spazio d’intervento della missione. Ci
sono due dispensari e una clinica, anche se sono ben poca cosa in quell’area
così vasta. Importante è l’aiuto e il servizio fornito da alcune infermiere
italiane e anche dalla presenza saltuaria di una suora della Consolata.
Fortunatamente il clima è salubre e ci sono pochi casi di Tbc o malattie
respiratorie come polmonite, raffreddori e bronchiti. Comunissime invece le
fratture e le ferite da strumenti da taglio, incidenti che capitano sul lavoro
soprattutto quando si va a raccogliere legna. Un settore di grande rischio è la
mateità, anche perché spesso le donne arrivano al dispensario all’ultimo
momento e pochissime partecipano ai controlli. Quando i casi sono troppo gravi,
p. Aldo salta in macchina, giorno o notte, pioggia o sole, e va al centro di
salute più vicino o all’ospedale di Wamba (quasi 150 km). In quei casi non
sente ragione. Il malato ha tutte le priorità. È quasi leggenda la volta che
perse le staffe con una suora che non voleva curare una paziente perché era
sera tarda (ed era davvero tardi!) e la comunità non doveva essere disturbata.


Una giornata tra spine e
saliscendi

La giornata di p. Aldo comincia presto la mattina. Controllato il
fuoristrada, caricata l’acqua potabile (più o meno 600 litri!), le medicine, il
cibo, verificate le gomme, riempito il serbatornio, è pronto a partire. Un
particolare colpisce: le gomme sono lisce e consumate all’inverosimile. Viene
da chiedergli: «Ma non hai i soldi per delle gomme nuove?». Lui ti guarda
soione e con pazienza ti spiega che di gomme ne ha a volontà e buone (che usa
solo quando va a Nairobi!). Che viaggia con tre ruote di scorta, ma a Sererit
le gomme lisce sono più sicure delle nuove, perché è meno facile che vengano
bucate dalle lunghe spine che si trovano ovunque. Nella gomma nuova è facile
che una spina si pianti e spezzi dentro, e poi, pian piano, arriva fino alla
camera d’aria e sei a terra.

E poi l’acqua. Perché tanti fusti stracolmi? Non ci sono
spiegazioni verbali per quello. Occorre viaggiare con lui per capirlo.

Partiamo allora con lui. Dopo un po’ lascia la pista principale,
si infila nel letto di un fiume dove viaggia anche agli ottanta (dice che è la
sua autostrada), poi rallenta, entra nella foresta seguendo un sentirnero da
capre che chiama strada. Dopo un sacco di su e giù, attenti a non mettere le
braccia fuori dal finestrino per non restare graffiati dai rami spinosi,
arriviamo vicino a una manyatta tutta circondata di spine. Si va un po’
più in là: in riva a un torrente secco. Nel letto sabbioso ci sono grandi buche
e dentro donne e uomini che con pazienza raccolgono acqua per sé e il bestiame.
Sentendo la macchina, le donne ci corrono incontro, bidoni e contenitori in
mano. Una vecchia, con un bidoncino bianco da due litri, si versa addosso tutto
il contenuto giallastro raccolto nel fiume, si lava allegramente la faccia e
poi si avvicina, saluta calorosamente e attende. P. Aldo tira su il telone del
vano posteriore, piazza un tubo di gomma nel primo dei fusti e distribuisce
acqua per tutti: acqua pulita, potabile, chiara, dolce… una delizia per chi ha
sempre acqua salmastra. Un fusto si svuota in un baleno. Riempiti i
contenitori, le donne felici si siedono attorno a lui per raccontare, ascoltare
e pregare. Più in là, sotto una grande acacia, un gruppo di bambini stanno
seduti in cerchio attorno a una ragazza con una bacchetta in mano. Appoggiata a
un tronco c’è quella che dovrebbe essere una lavagna con parole e numeri
scritti in grandi caratteri. La maggior parte dei bambini è vestita di sole, e
l’attenzione a quei segni è totale. Sotto lo stesso albero, appena più in là,
su due pietre bolle un pentolone: una donna ne mescola il contenuto, una
pappetta bianca, e un’altra attizza il fuoco. Vicino, c’è una gran quantità di
tazze di plastica coloratissime. Tra poco la lezione sarà finita e i bimbi
avranno il loro pasto semplice ma nutriente. È uno dei tanti asili
informalissimi e semplici, ma prima e unica fonte di scolarizzazione in quelle
terre ignorate da tutti. Si riparte. È stagione secca. Ancora su è giù per «gli
irti colli». Difficile descrivere il paesaggio. Le immagini provano a dire quel
che l’occhio vede. In un angolo una manyatta solitaria. P. Aldo si
ferma, saluta tutti e condivide il dono dell’acqua. E via di nuovo. Di manyatta
in manyatta, di asilo in asilo, di pozzo in pozzo, finché la macchina è
vuota. Mille incontri, mille sorrisi, mille parole di speranza. È già vicino il
tramonto quando ritorniamo alla missione. Le capre stanno tornando dal pascolo,
i bimbi dell’asilo della missione sciamano verso casa. Se non ci saranno
imprevisti, la sera sarà tranquilla, la cena semplice, la preghiera silenziosa
nella chiesa-manyatta e poi sdraiati a pancia in sù, in silenzio, a
guardare le stelle in un cielo incontaminato.

Gigi Anataloni

Bea Romeo e Gigi Anataloni




Myanmar/Birmania: Cambiamento è anche progresso?

La rivoluzione democratica in Birmania
Un tempo Birmania, oggi Myanmar, la nazione divenuta sinonimo di
dittatura e isolamento, sta ora vivendo i primi passi di una nuova stagione di
libertà e rinnovamento a una velocità frenetica. I rischi sono molti, ma non si
può fermare il tempo. La speranza è che il cambiamento porti reale pace e armonia
in un popolo che deve reinventare la propria identità senza perderla.

Con maestria il pescatore affonda
la propria rete conica nelle acque basse del lago Inle e, manovrando la barca
con un solo remo avvinghiato alla gamba, estrae dalla nassa un paio di
guizzanti pesci argentei: anche stasera la cena per la famiglia è assicurata e
l’uomo guadagna la strada di casa remando nel modo tradizionale degli Intha, il
gruppo etnico tibeto-birmano che da secoli abita questo incredibile ecosistema
lacustre. Osservare i movimenti lenti e armoniosi dei pescatori Intha che
tornano alle proprie semplici palafitte, nell’atmosfera serena e avvolgente del
tramonto, rende difficile pensare che la Birmania stia attraversando uno dei
momenti più significativi di cambiamento della sua storia secolare.

La Birmania deriva il suo nome dal gruppo etnico di maggioranza, i
Bamar; assunse la denominazione Union of Burma dopo essersi smarcata
dall’impero anglo-indiano e aver raggiunto una fragile indipendenza nel 1948.
La disgregazione sociale e i contrasti tra le varie etnie insanguinarono il
paese per lunghi anni del secolo scorso, finché nel 1988 un colpo di stato da
parte della giunta militare guidata dal generale Saw Maung instaurò un nuovo
regime autoritario e repressivo. Fu nel 1989 che la giunta militare al potere
cancellò d’ufficio il nome Birmania, sostituendolo con Myanmar (secondo i
militari più rappresentativo delle diverse etnie presenti nel paese e
soprattutto completamente differente dal vecchio nome che richiamava il passato
coloniale) e spostando addirittura la capitale nel 2006 da Yangon a Naypyidaw,
luogo meno accessibile e quindi più irraggiungibile per le manifestazioni di
dissenso popolari.

Ma la voce di tale dissenso proruppe lo stesso, in particolare dalla
esile figura di Aung San Suu Kyi, figlia dell’eroe dell’indipendenza Bogyoke
Aung San e paladina della libertà. Divenuta leader della Lega Nazionale per la
Democrazia, venne posta agli arresti in occasione delle finte elezioni indette
nel 1989, il cui risultato, una schiacciante vittoria per il partito di San Suu
Kyi, non venne mai riconosciuto dai militari al potere. Durante gli anni della
prigionia la donna ricevette numerosi premi inteazionali, tra cui il Nobel
per la Pace nel 1991, e non abbandonò mai la propria paziente attività di
mediazione e contemporaneamente di lotta, grazie anche all’opera clandestina di
tanti sostenitori nel paese e al sostegno pubblico di importanti personalità
della scena internazionale, tra cui l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu.

Vent’anni duri

Durante questa paziente e tenace resistenza, riconosciute virtù
asiatiche, le condizioni di vita del popolo birmano conobbero un ventennio di
drastico peggioramento. La giunta militare si preoccupò principalmente di fare
affari con grandi potenze quali la Cina e la Russia, a cui praticamente regalò
parte delle immense ricchezze naturali del paese (materie prime, giacimenti
minerari, pietre preziose), e con una rete di baroni locali dediti al
contrabbando di droga e alla creazione di imperi personali. In questo scenario,
la popolazione urbana e quella rurale subirono le conseguenze peggiori: la
prima vide soffocato ogni tentativo di libertà d’espressione, di organizzazione
sindacale, di sciopero e manifestazione del dissenso, di stampa, di contatti
con l’estero; la seconda, distante dai giochi del potere politico ed economico,
fu costretta a occuparsi solo della propria mera sopravvivenza quotidiana,
priva di qualsiasi sostegno statale e pubblico, terrorizzata dal possibile intervento
militare in caso di protesta per le proprie misere condizioni. Le rivolte di
fine Novecento ebbero come protagonisti gli studenti delle grandi città e i
monaci, le uniche fasce di popolazione sufficientemente istruite per
intercettare e manifestare la protesta. Esse furono soffocate nel sangue grazie
anche al ripristino della legge marziale.

In questa fase, l’embargo attuato dagli Stati Uniti e dall’Europa
nacque con intenzioni forse condivisibili (tagliare i rifoimenti economici e
finanziari al regime per indurlo alla trattativa e alla apertura), ma all’atto
pratico intaccò solo superficialmente il potere militare ed ebbe gravi
conseguenze sulla vita della maggioranza dei birmani. L’isolamento
internazionale tagliò fuori il paese dai flussi economici, dallo scambio di
informazioni (la rete Inteet non funzionava, le e-mail erano soggette
a controlli e censura, i visti non erano rilasciati a giornalisti e operatori
dei mass media) e dal progresso sociale.

Tra passato e presente

Chi ha avuto l’opportunità di viaggiare come turista nella
Birmania dell’inizio del Ventunesimo secolo è stato facile testimone di una
realtà sospesa tra passato e presente, caratterizzata dalla mancanza di un
sistema educativo e scolastico obbligatori, dall’assenza di una rete sanitaria
a livello nazionale, dalla presenza di infrastrutture desuete risalenti per la
maggior parte all’epoca coloniale britannica. Visitare la Birmania in quegli
anni significava attraversare il tempo e ritrovarsi in un passato quasi del
tutto dimenticato in Occidente: i bambini al lavoro nei campi con i genitori,
gli anziani a fumare serenamente i propri cheerot (grossi sigari fatti a
mano) e ad attendere il tramonto, paesaggi rurali rigogliosi, ricchi di colori
e profumi, impreziositi da pagode e stupa secolari, giovani
monaci buddisti in meditazione o in fila per la ciotola di riso quotidiana:
nell’estrema povertà, i birmani mantenevano una grande dignità e una timidezza
curiosa, che inevitabilmente sfociava in un bel sorriso. La terra delle pagode e
dei sorrisi: sorrisi semplici, sinceri, genuini. Viaggiare in Birmania in
quegli anni consentì inoltre di aprire una minuscola crepa nel guscio in cui i
generali avevano rinchiuso il paese. Nell’indifferenza dei grandi poteri, le
spese dei visitatori mantennero in vita uno strato sociale di persone dedite al
turismo, tra cui guide, autisti, camerieri, addetti alle pulizie, facchini,
piccoli ristoratori, e lo alimentarono con idee, immagini, racconti di sistemi
politici e sociali differenti, ma anche con aiuti economici concreti. Ma il
dilemma morale del viaggiatore (non voler contribuire con tasse, permessi,
gabelle varie ad arricchire un regime sanguinario) restava per molti un nodo
irrisolto e un ostacolo etico.

Lo stato si ricordava dei suoi cittadini solo quando questi
alzavano coraggiosamente la testa e protestavano per le condizioni di vita
misere in cui si trovavano a sopravvivere. In quei momenti scattava la
rappresaglia, dura e silenziosa, contro studenti, monaci e gente comune di
Yangon e Mandalay.

La latitanza dell’istituzione centrale in tutti gli altri campi,
in particolare delle politiche sociali, economiche e culturali, venne in parte
colmata da alcune figure eccezionali per abnegazione e tenacia: i sostenitori
clandestini dell’opposizione democratica e i seguaci di San Suu Kyi non
cessarono mai di tramare alle spalle del regime, di tessere la rete dei
contatti e delle idee e di esprimere il dissenso anche in forme d’arte meno
palesi, ma altrettanto efficaci (come la musica degli Iron Cross, che nella
grande tradizione del rock sfidò le istituzioni repressive con il proprio motto
Rock the junta). I monaci buddisti giocarono un ruolo fondamentale nella
circolazione delle idee e della cultura, accogliendo nei propri monasteri molti
bambini e giovani e insegnando loro la lettura, la scrittura, le lingue e le
strutture del pensiero filosofico. Infine i sacerdoti missionari cristiani, non
rappresentarono in quegli anni solo figure di riferimento spirituale, ma anzi
tradussero il Vangelo in azioni concrete di pura solidarietà e amore per il
prossimo, aiutando i bisognosi in ogni campo, in ogni remoto angolo del paese.

Padre John

Un esempio su tutti è padre John Aye Kyaw,
un instancabile sacerdote cattolico che ha trascorso un po’ di tempo in
Vaticano e ha imparato qualche parola di italiano. Quando viene a conoscenza di
qualche gruppo di turisti di passaggio a Mandalay si sobbarca tuttora almeno
sette ore di viaggio lasciando il suo villaggio nella remota campagna birmana
per venire a incantare tutti con i suoi racconti di prete di frontiera. Le sue
parole pennellano una realtà drammatica fatta di povertà e miseria, che preti
come lui combattono istruendo i bambini del villaggio, dando loro rudimentali
nozioni scolastiche nella scuola che lui stesso ha costruito, confortando gli
ammalati, distribuendo vestiti ai bisognosi, impugnando gli aesi da lavoro e
contribuendo alla costruzione di una paratia contro le alluvioni monsoniche,
effettuando visite mediche e assegnando farmaci, addirittura aiutando giovani
donne a partorire. Padre John è l’esempio più emblematico dell’assenza dello stato in
Birmania. Solo la sua instancabile opera di coinvolgimento dei viaggiatori nei
suoi progetti ha consentito a molti abitanti del posto di ricevere aiuti
concreti dall’estero.

Cambiamento

Verso la fine del primo decennio del Duemila, l’acuirsi delle
sanzioni inteazionali indussero il regime ad allentare gradualmente la presa
autoritaria, con mosse spesso di facciata ma che sancirono l’inizio di
un’inevitabile fase di riforma in direzione democratica. Nel 2010 si tennero le
prime elezioni dopo 20 anni dalle ultime e vennero promulgate leggi sul lavoro,
sull’associazionismo sindacale, sui diritti civili e sull’apertura a
un’economia mista. Il cambiamento era in atto e le riforme aprirono una nuova
fase politica di riconciliazione nazionale, segnata dalla lieta liberazione di
San Suu Kyi nel novembre di quell’anno e dalla vittoria della sua Lega
Nazionale per la Democrazia alle elezioni generali del primo aprile 2012, in cui
però si distribuiva solo una piccola parte dei seggi in Parlamento, dato che la
maggioranza veniva sempre attribuita a ufficiali nominati dalla giunta
militare. Oggi, il processo nato come una timida democratizzazione sta
assumendo sempre più i contorni di un evento epocale: la recente visita del
presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama ha definitivamente fatto
puntare i riflettori dei media inteazionali sulla Birmania, dopo anni di
isolamento la procedura di ottenimento dei visti turistici è stata resa più
semplice e un flusso sempre più consistente di viaggiatori inteazionali e
soprattutto asiatici affolla gli alberghi e i siti turistici.

Con impressionante rapidità l’inflazione è cresciuta, i banchetti
di souvenir si sono coperti di magliette con il volto di San Suu Kyi, Inteet è
più veloce e le e-mail arrivano a destinazione in tempo reale. Persino i
telefoni cellulari cominciano a diffondersi, mentre le banche cambiano la
valuta straniera senza più necessità del mercato nero clandestino e gli
alberghi 5 stelle di Yangon sono costantemente affollati di businessmen
in cerca di affari.

Nuovo ottimismo

La gente è in fermento, ottimista, speranzosa: vuole godere
appieno dei nuovi, inediti spiragli di libertà. Fino a pochi mesi fa, la gente
comune viveva con la preoccupazione di essere controllata nelle proprie azioni
e nell’espressione del proprio pensiero. Il regime non aveva mai riempito le
strade e i luoghi pubblici di militari in divisa, ma aveva creato un clima di
paura e diffidenza, una sorta di cappa che gravava minacciosa su ciascun
cittadino. Ora il più significativo segno del cambiamento, al di là dei piccoli
seppur importanti progressi pratici quotidiani, è proprio il dissolvimento di
questa cappa di paura e oppressione. Prima era meglio tenere per sé le proprie
idee, magari quel signore all’angolo in attesa dell’autobus era un militare in
borghese che sarebbe potuto intervenire se insospettito da una qualche forma di
dissenso… ora invece il timore e il sospetto di essere controllati è svanito,
la libertà è soprattutto psicologica, è uno stato mentale.

Nuovi rischi

Chi ha visitato il paese anni fa e vi torna ora non riconosce più
la Birmania di un tempo, soprattutto nelle città: i ritmi tranquilli e gli
atteggiamenti sottomessi di un passato recente lasciano spazio a ingorghi
stradali e attività frenetiche. Molte persone che si trovano a sperimentare per
la prima volta una forma seppur acerba di libertà, confondono questo nuovo
status con la possibilità di fare ciò che pare a loro. Il passo indietro del
regime oppressivo è interpretato come assenza di autorità e molti ignorano le
regole perché tanto non c’è più chi le fa rispettare rigidamente. La gente
comincia a vedere i visitatori stranieri non più con occhio curioso e timido,
ma come una risorsa da cui trarre guadagno. E i sorrisi appaiono un pochino
meno genuini di una volta, anche il fascino delle pagode di Bagan sfuma
lentamente mentre grandi bus scaricano decine di turisti thailandesi, coreani e
cinesi. In un tempo molto breve si è passati da 300mila ingressi annuali in
Birmania per turismo a quasi un milione di visitatori nel 2012.

Ci si può chiedere se il cambiamento, soprattutto quando è così
repentino, sia sempre sinonimo di progresso: la giunta militare tuttora al
potere è in grado di traghettare il paese verso il futuro limitando gli
strappi, le ingiustizie e gli effetti negativi che tali eventi (che rimandano
al crollo dell’Unione Sovietica) portano sempre con sé? Non bisogna dimenticare
che il processo di apertura è stato voluto e guidato dall’alto, grazie agli
elementi più illuminati tra le fila dei dirigenti militari: questi hanno
captato i segnali di una crescente insofferenza intea e internazionale ai
metodi di governo autoritari e, dopo una severa fronda intea, hanno scelto la
strada delle concessioni e delle riforme graduali. Gli esempi dell’Iraq, della
Libia, dell’Egitto, della Tunisia, della Siria devono aver pesato sulla scelta
di gestire dall’alto il cambiamento anziché di combatterlo frontalmente. Il
rischio è che la giunta, una volta attivato il processo dirompente di
democratizzazione, cerchi quantomeno di accaparrarsi una bella fetta del potere
economico prima di lasciare le briciole ai birmani più svelti e intraprendenti.

La speranza è che il carattere mite e semplice di questo popolo ne
esca rafforzato, e non stravolto, nella propria identità. Sono interrogativi e
questioni a cui solo il tempo potrà rispondere. Intanto, il pescatore Intha
gira i suoi pesci sulla brace e scruta l’orizzonte, mentre gli ultimi raggi di
sole scintillano sulle acque placide del lago Inle.

Andrea Mapelli e Daniele Biella

Andrea Mapelli e Daniele Biella




(Papa) Francesco: dalla fine del mondo

Abbiamo chiesto a tre argentini (un vescovo dal
Sudafrica, un prete dal Kenya e una giornalista dall’Argentina) di raccontarci
cosa hanno provato alla notizia dell’elezione dell’arcivescovo di Buenos Aires
a vescovo di Roma e papa di tutta la Chiesa cattolica. Ecco le loro
testimonianze, molto concordanti.

PREMESSA

«[Essere nel conclave] non è un
gioco divertente. È [un’esperienza] molto intensa e che davvero ti svuota
emozionalmente perché ci pensi notte e giorno. [Pensi:] “Questa è una delle
cose più importanti che mai farò: votare per il prossimo successore di Pietro”.
Così c’è una grande intensità. Non so come spiegarlo. [A un certo punto] è come
se si percepisse la bellissima sensazione del gentile movimento dello Spirito
Santo. Non ci sono tuoni e lampi. Niente colpi di testa. Nessuno che cade da
cavallo. Ma pian piano cominci a sentire come un movimento [che orienta] verso
un uomo. Si prega duro. Si parla tanto con gli altri. E questa convergenza
cresce gradualmente. È stata una cosa che ha generato tanta gioia e serenità. […]
Quelli sono momenti meravigliosi. E poi c’è il silenzio! Gran parte del
conclave è silenzio. Non è un caucus di partito, non è una convention,
è quasi una liturgia, un’occasione di preghiera. C’è molta pace. È come se tu
stessi facendo un ritiro, dove hai un sacco di spazio per pensare, riflettere e
pregare». [Nostra traduzione della testimonianza di Timothy Dolan, cardinale
e arcivescovo di New York, rilasciata alla Cnn il 15.03.2013].

Tra i fiumi di parole scritti e
detti nei primi venti giorni di marzo, ho scelto questa breve testimonianza del
cardinal Dolan di New York, perché mi sembra esprima meglio di qualunque altra
testimonianza la realtà di quanto è accaduto nel conclave che ci ha dato il
nuovo papa Francesco. Senza negare tutte le possibili passioni umane, i diversi
punti di vista dei cardinali – uomini sono! -, alla fine l’elezione del papa è
stata soprattutto un’esperienza di fede e di Chiesa, nel senso più vero del
termine. A dispetto di tutte le speculazioni, è stato un avvenimento dello
Spirito, che ancora una volta ha saputo sorprenderci e ha dato l’uomo giusto al
momento giusto.

Papa Francesco ha davanti a sé
una lista di desiderata che non finisce più. Tutti si sono sentiti in
dovere di esprimergli i loro desideri, da quello di vendere la Basilica di san
Pietro e liquidare il Vaticano, a quello di aprire il sacerdozio alle donne…
Il cardinal Hummes gli ha detto
di «non dimenticare i poveri».

Sì, papa Franceso, non
dimenticare i poveri e non permetterci di dimenticarli. Tu che vieni «dalla
fine del mondo» aiutaci ad aprirci al mondo, soprattutto al Sud del mondo e
alla sua Chiesa povera e fedele. Dacci dei pastori che abbiano il cuore e la
libertà di Cristo, non funzionari senza amore e senza misericordia. Aiutaci a essere
santi, veri santi, grandi santi. Facci gustare la faccia misericordiosa e viva
di Dio, celebrata nell’amore che si fa prossimo e nella festa, nella gioia,
nella semplicità di una liturgia che tocchi il cuore degli uomini e non sia
inbalsamata nel ritualismo ricco e barocco di chi ama più le pietre inerti che
le «pietre vive» della Chiesa.

Papa
Francesco, nel febbraio 2012 hai detto che «tutta l’attività ordinaria della
Chiesa si è impostata in vista della missione. Questo implica una tensione
molto forte tra centro e periferia, tra la parrocchia e il quartiere. Si deve
uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia
spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si
ammala. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna,
possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa
[…], invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una
Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima» (da
«La Stampa», 14.03.2013, pag. 7).

Guidaci col
tuo esempio sulla strada della nuova evangelizzazione. Incoraggia la nostra
debolezza!

Gigi Anataloni

Un Pastore da imitare

Nel mese di aprile del 2011 andai
in Argentina per le vacanze. Tra le tante cose che volevo programmare c’era
anche un incontro con l’arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Jorge
Bergoglio, non soltanto perché sono nato nella sua arcidiocesi, ma anche perché
volevo fargli sapere che un bambino di quella arcidiocesi, da grande era
diventato vescovo in Sudafrica.

Mi avevano
detto: «Se chiami alle 7 del mattino, egli stesso risponde al telefono». Poiché
non mi conosceva, decisi di scrivergli una email per presentarmi. Mi
rispose che aveva un calendario pieno di impegni, ma che sicuramente avrebbe
trovato il tempo. Concluse la email con le stesse parole che abbiamo
sentito nel suo primo giorno di pontificato: «Per favore, ti chiedo di pregare
per me». Ci incontrammo un pomeriggio nel suo ufficio per una mezz’ora. Con
semplicità condividemmo molte cose in pochissimo tempo. Poi mi accompagnò fino
in strada e mi disse: «Grazie per essere venuto a trovarmi. Te ne sono
veramente grato». Per quanto mi riguardava, gli dissi di apprezzare il fatto
che offrisse una nuova immagine di arcivescovo (era famoso perché a Buenos
Aires viaggiava in autobus o in metropolitana e perché viveva in modo
semplice), e i segnali che ci aveva regalato nel corso degli anni, soprattutto
il Giovedì Santo quando usciva dalla cattedrale per lavare i piedi delle
persone con Aids, degli anziani e delle donne in gravidanza. Credo che questo
uscire dalla cattedrale sia stato il segno visibile della sua pastorale
missionaria nella diocesi. Era la testimonianza di quello che voleva si vivesse
come Chiesa a Buenos Aires.

L’incontro mi segnò
personalmente. Tanto che, da due anni, nel vicariato affidatomi, il Giovedì
Santo lasciamo la Cattedrale e andiamo a celebrare in altre comunità, in modo
che tutti abbiano la possibilità di partecipare (il Vicariato di Ingwavuma, in
Sudafrica, si estende su una superficie di più di 200 km di lunghezza).

Ci rimane però ancora la sfida
culturale di fare la celebrazione fuori dal tempio e con uomini e donne,
giovani e vecchi…

Un altro aspetto del cardinal
Bergoglio che ho sempre tenuto ben presente è la sua disponibilità di cui avevo
sentito e letto in qualche giornale: quando un sacerdote aveva bisogno di
vederlo, il cardinale faceva l’impossibile per incontrarlo il giorno stesso
senza farlo aspettare. In questi anni, sia nel Vicariato di Ingwavuma che nella
Diocesi di Manzini (Swaziland) ho sempre cercato di mantenere un atteggiamento
similare e ho insistito sul fatto che i sacerdoti non si preoccupassero di
correre da un posto a un altro per incontrarmi, ma che, quando avessero avuto
bisogno di me, sempre sarei stato disponibile.

Qui il mio televisore riceve
soltanto canali sudafricani e per di più il segnale non è buono. Grazie a
Facebook ho appreso che era uscita la fumata bianca e grazie a Inteet sono
riuscito a seguire l’annuncio. È stata una grande sorpresa e una grande
emozione. Forse perché è la prima volta che come vescovo ho incontrato il papa.
Dopo l’elezione del papa il mio telefono non ha mai smesso di suonare e sono
stato inondato di messaggi email, segno della grande gioia del popolo,
sia in Sudafrica che in Swaziland.

Tutti sono stati colpiti dal nome
che il papa ha scelto (chi non conosce san Francisco d’Assisi?) e dai suoi
primi gesti: la semplicità, l’aver mantenuto la croce pettorale e l’anello;
l’essersi inchinato davanti al popolo di Dio affinché questi in silenzio
pregasse per Lui.

Le sue parole, il cammino del
popolo e del pastore compiuto assieme, il desiderio di costruire in comunione
il futuro: parole e gesti che hanno toccato i cuori di molti e che sembrano
ripetere ciò che è stato il suo servizio episcopale a Buenos Aires.

Spero che il Papa possa
continuare a regalarci questi piccoli segnali che sono come il seme di senape,
il quale, una volta piantato, produce molto frutto, perché essi parlano a
tutti. Senza riguardo per l’età, il colore della pelle o la fede di ognuno.

José Luis Ponce de León
Missionario della Consolata argentino, Vicario Apostolico di Ingwavuma,
Sudafrica.

 E’ LUI!

Appena dopo l’elezione del nuovo
papa ho ricevuto l’invito da padre Gigi a scrivere alcune righe sul nostro caro
cardinale Bergoglio, o semplicemente monsignor Bergoglio. Non voglio mancare di
rispetto, ma è così che noi lo chiamavamo. Jorge Mario Bergoglio, sacerdote
gesuita (Sj), ora possiamo chiamarlo papa Francesco! E perché non… papà
Francesco?

Padre Gigi mi ha chiesto di fare
parlare il cuore più che la mente. Grazie! Perché se dovessi far parlare la
mente dovrei mettermi a studiare, far delle ricerche, invece il cuore parla «in
diretta».

Nei giorni che hanno preceduto il
conclave leggevo la stampa internazionale per vedere se lo metteva in primo
piano. Ma nei pochi giornali che arrivano qui, non avevo trovato niente.
D’altra parte pensavo che avesse già la sua età, anche se era stato detto che
il card. Bergoglio era stato uno degli eletti quando il cardinal Ratzinger era
diventato Benedetto XVI. Solo su un giornale argentino era apparso come colui
che stava guadagnando il beneplacito di molti dopo alcuni suoi interventi.

È stato con grande gioia che ho
ricevuto un messaggio con la notizia della sua elezione. Son rimasto incredulo.
Ma, accesa la Tv, eccolo lì! Sì! Era lui! Anche se un po’ più grassottello di
come lo ricordavo. E subito ho visto il suo nome: Francesco! Da quel momento il
mio cellulare non ha più smesso di suonare: messaggi, chiamate, chi mi ripeteva
la notizia, chi si complimentava (non sono molti gli argentini in Kenya!), chi
voleva sapere le mie reazioni. E subito la mia risposta: «Ora vedete che c’è un
santo in Argentina!».

A dir la verità, non ho mai avuto
contatto diretto con lui, ma ovviamente so bene chi è. Mentre lo sentivo
parlare e poi salutare la gente radunata in San Pietro, mi son detto: «Sì, è
proprio lui!». Sorridente, piacevole, senza protocollo, umile… invitando a
pensare agli altri (al suo predecessore Benedetto XVI), inchinando il suo capo
di fronte alla gente per chiedere la loro benedizione (nella messa facciamo il
contrario, noi preti chiediamo alla gente di inchinare il capo), e il ripetuto
invito alla fratellanza. Sì, semplice come Francesco, Fratello Francesco!

In Argentina monsignor Bergoglio
era il vescovo missionario che camminava, e invitava i suoi colleghi vescovi a
camminare, verso le periferie, le baraccopoli… parlando con la gente,
ponendosi accanto ai poveri, non rimanendo nel «tempio». Coerentemente
incoraggiava i preti e i laici a organizzare «carpas misioneras», cioè delle
tende in città, negli incroci delle strade e nelle piazze, nella diaspora, dove
si trovano quelli che vanno in chiesa e quelli che non ci vanno proprio. Dove,
soprattutto, si può capire che il nostro Dio non è un Dio che si trova solo nel
tempio, ma è Emmanuele, il Dio con noi, tutti i giorni, in ogni momento, in
ogni luogo. Un Dio che cammina con l’uomo.

Il cardinal Bergoglio dimostrava
la sua semplicità girando in città coi mezzi pubblici: autobus, metropolitana,
treno… e vivendo in un appartamento molto sobrio vicino alla cattedrale.

Era vicino alla gente, in
particolare ai giovani in deversi momenti, come durante il pellegrinaggio
nazionale giovanile al santuario della nostra patrona, Nostra Signora di Luján.
I giovani marciano a piedi quasi 70 km, e lui molte volte li aspettava per
accoglierli e presiedere l’eucaristia, incoraggiandoli nella vita quotidiana.
In diverse occasioni ha presieduto la messa in onore di S. Gaetano, patrono per
noi del pane e del lavoro. Coinvolto in situazioni di Giustizia e Pace, in
situazioni sociali in favore dei poveri, papà Francesco, può aiutare il mondo e
la Chiesa a vivere i rapporti sulla base del rispetto e della corresponsabilità,
con serietà e gioia allo stesso tempo. Gioia che è frutto della speranza,
speranza certa che Cristo è vivo, e la Chiesa è sua!

Forse Francesco ha ravvivato la speranza
nella Chiesa. Preghiamo per lui, perché possa essere semplicemente uno
strumento di Dio nel mondo di oggi.

Daniel Bertea
Missionario della Consolata argentino, parroco del Consolata
Shrine in Nairobi, Kenya.

ORTODOSSO E PROGRESSISTA

Papa Francesco è la persona che il
mondo ha visto nei primi giorni del suo pontificato. E pare proprio che i
protocolli vaticani non riusciranno a impedirgli di mischiarsi alla gente.
D’altra parte, come arcivescovo di Buenos Aires, egli chiedeva ai suoi
sacerdoti di uscire dalle sacrestie e andare per le strade.

La sua semplicità, i suoi
comportamenti umili, il suo rifuggire dai lussi, sempre lo hanno
contraddistinto. Uomo dalla vita semplice, tanto che chi viaggia sui mezzi
pubblici di Buenos Aires lo poteva incontrare. Porteño (termine con cui si
indicano gli abitanti originari di Buenos Aires, ndr), amante del tango,
tifoso di calcio, peronista (come lo definiscono i vecchi militanti). Era
solito cucinarsi quello che mangiava. Ha viaggiato per il Conclave con un paio
di scarpe nuove regalategli da alcuni amici dopo aver notato che quelle che
indossava erano un po’ logore. Ma è certo che lui avrebbe preferito consumarle
del tutto.

Il «Bergoglio padre» è lo stesso
che i giornalisti hanno visto viaggiare in classe economica verso il Conclave,
lasciare da solo l’aeroporto di Fiumicino, trascinare la sua piccola valigia, e
poi, nei giorni precedenti l’elezione, raggiungere a piedi i luoghi delle
riunioni. Semplicità e austerità. Una sensazione strana per il Vaticano che di
solito mostra il contrario.

Se il linguaggio del corpo dice
qualcosa, allora Francesco ha già detto tutto quando, appena eletto papa, di
fronte ai fedeli, si è inchinato davanti a loro chiedendo la benedizione di Dio
su di lui. «Pregate per me» è una sua richiesta abituale.

Francesco è ciò che dice e come
lo dice. Persona affabile ma ferma. Ortodossa nella morale, progressista nel
sociale. Egli ha già dato segnali di ciò che vorrebbe, con parole semplici e
tono sereno: «Oh, come vorrei una Chiesa povera e dei poveri», ha detto. Che
altro ci si poteva aspettare dal primo papa latinoamericano, se non mettere in
cima alle scelte «l’opzione preferenziale per i poveri»?

A Buenos Aires, l’arcivescovo
Bergoglio ha creato il «Vicariato delle baraccopoli» (in Argentina si chiamano villas
miserias
, ndr) dando ai preti che lavorano lì una visibilità
speciale all’interno della Chiesa locale. E ha aperto la Casa San Giovanni
Bosco, nel bel mezzo di Villa 31 (quartiere tra i più emblematici), per
accogliere le vocazioni che sarebbero uscite dai bassifondi. Ha camminato,
lavorato e partecipato in drammi sociali come la tratta di esseri umani e il
lavoro forzato, offrendo rifugio, anche in prima persona, alle vittime di
questi flagelli. A lui, come a tutta la Chiesa argentina, sono arrivate accuse
di collaborazionismo, per azione o omissione, nell’ultima dittatura militare
(dal 1976 al 1983, ndr). Le ombre sulla Chiesa argentina di quel periodo
sono molte e hanno fondamento. Tuttavia, vari esperti in diritti umani sono
intervenuti in difesa di Francesco. Altri si sono limitati a ricordare che egli
è un esponente di una «Chiesa che oscurò il paese», come ha commentato la
presidente (Estela de Carlotto, ndr) delle «Nonne di Piazza di Maggio». È
certo che le ferite di quel tempo non si chiuderanno facilmente, anche se si
tratta di un papa.

La sua elezione ha anche causato
sorpresa tra le fila del governo di Cristina Feandez Kirchner, che ha sempre
considerato l’arcivescovo come «il leader dell’opposizione». È famosa la dura
battaglia dell’arcivescovo contro la legge sui matrimoni omosessuali, battaglia
persa, nonostante la chiamata in piazza dei cattolici argentini. Per tutto
questo, la prima reazione della presidente alla notizia arrivata da Roma
dell’elezione a papa del cardinal Bergoglio è stata fredda e distante (salvo
poi volare a Roma per incontrare il papa e presenziare all’inaugurazione del
papato, il 19 marzo, ndr). Francesco, il papa argentino, non era nei
piani della politica locale. La nomina di Bergoglio, inattesa e non sperata, ha
scosso fortemente sia il governo che l’opposizione, in un anno elettorale.

Per quanto mi riguarda, ho visto
padre Bergoglio ogni 11 febbraio, in occasione della festa di Nostra Signora di
Lourdes, nel «nostro quartiere» di Flores, dove papa Francesco è nato e
cresciuto. Confesso che io vi andavo soltanto per la sua presenza. Proprio
quest’anno non ci sono stata. Tuttavia, quello stesso giorno una vicina di casa
mi ha raccontato che, quando l’arcivescovo ha parlato delle dimissioni di
Benedetto XVI, la gente lo ha acclamato gridando: «Che Dio ti faccia papa». E
così è stato.

Alba Piotto
Gioalista
e scrittrice di Buenos Aires, vive a Flores, il quartiere nativo di papa
Francesco.

A cura di Gigi Anataloni




5_Orti: Passione e Metodo

L’intervista / Roberto Moncalvo, Coldiretti
Gli agri-asili, le agri-tate,
l’inserimento lavorativo di giovani. In un mondo dove le zone periferiche sono
sempre più sprovviste di servizi, le aziende agricole hanno qualcosa da dire.
L’agricoltura sociale diventa un risparmio per la collettività. Ma sono necessari competenza e
rigore. Parola di Coldiretti.

Roberto Moncalvo, 32 anni, è il
giovane presidente di Coldiretti Piemonte e di Coldiretti Torino. L’agricoltura
sociale è per lui, oltre che un compito istituzionale, una vocazione personale.
Insieme alla sorella Daniela, Roberto è titolare dell’azienda Settimo Miglio
(situata a Settimo Torinese), che in questi anni ha assunto nel proprio
organico un ragazzo psichiatrico, un disabile e un rifugiato politico della
Somalia.

Com’è nata nella Coldiretti l’idea
di aprirsi all’agricoltura sociale?

«In Piemonte nel 2002 abbiamo
iniziato a interrogarci sulla qualità della vita dei nostri associati, e su
come arginare l’abbandono delle terre da parte dei giovani. Attraverso una
mappatura della provincia di Torino ci siamo resi conto della carenza di
servizi sociali, ad esempio gli asili. In molte aree rurali o peri-urbane,
soprattutto a bassa densità di popolazione, c’è carenza di interventi del
pubblico ma a volte anche del terzo settore. Costruire un’impresa nuova
richiede investimenti e, con un numero basso di utenti, non c’è garanzia di
sostenibilità economica. Le imprese agricole invece sono già presenti e quindi
mettono a disposizione una parte dei loro spazi. Così, grazie anche
all’approvazione della legge di Orientamento, i nostri soci si sono attrezzati
per offrire nuovi servizi, dagli agriturismi alle fattorie didattiche. In
questi anni si sono moltiplicate le aziende del territorio che, con altri
attori locali, hanno realizzato diverse sperimentazioni nel campo
dell’agricoltura sociale».

Qualche fiore all’occhiello?

«Sì, per esempio La Piemontesina di
Chivasso (To), il primo agri-nido d’Europa. Si tratta di un asilo situato
all’interno di un’azienda agricola, gestito dall’imprenditrice insieme ad alcuni
educatori. Il progetto formativo è legato ai cicli naturali e alla vita
campestre, i giochi sono costruiti con materiali disponibili in loco. I bambini
possono sperimentare spazi e tempi di vita meno frenetici, più naturali.
Imparano anche a mangiare sano, solo prodotti di stagione, e maturano un
atteggiamento di rispetto verso l’ambiente.

Un’altra esperienza innovativa, nel
cuneese e in tutto il territorio piemontese, è quella delle «agri-tate»,
progetto di Coldiretti Piemonte che vede il coinvolgimento di tre assessorati
regionali: si tratta di imprenditrici, coadiuvanti o anche solo appartenenti a
una famiglia agricola, che dopo un corso di 400 ore (organizzato da Coldiretti)
possono offrire un servizio di cura per bambini fino a 3 anni all’interno dell’impresa
agricola, sperimentando un progetto educativo basato sulla pedagogia della
domesticità.

Così si creano posti di lavoro e si
offre ai bambini un ambiente protetto che ne favorisce la socializzazione. Ci
sono poi aziende che foiscono servizi di Estate ragazzi, andando a colmare il
vuoto dovuto al calo di preti e suore nelle parrocchie. Altre ancora, durante
le vacanze, accolgono i “nonni” che non se la sentono di andare in ferie con i
figli».

Che vantaggi trae da queste pratiche
l’impresa agricola?

«L’azienda ricava maggiore
visibilità e può aumentare il giro di vendite. L’agricoltura sociale funziona
secondo il modello win-win (vincente-vincente, ndr), cioè tutti
ci guadagnano. Prendiamo il caso di chi fa riabilitazione e inserimento dei
ragazzi psichiatrici: l’azienda migliora la sua produttività, i consumatori
mangiano cibi puliti e sani, i ragazzi vedono accrescere il proprio benessere,
le famiglie sono contente… e le Asl risparmiano. Perché se il ragazzo sta
meglio si riducono i costi per i ricoveri, per gli psicofarmaci, ecc.
L’agricoltura sociale è un risparmio per tutta la collettività».

Quali sono i punti di forza delle
aziende agricole?

«Una componente è senz’altro la
dimensione familiare: qui il luogo di lavoro coincide con la casa, con la
famiglia, il che favorisce l’instaurarsi di legami forti tra i residenti e i
ragazzi coinvolti nei progetti di reinserimento. Ma non basta la buona volontà,
servono anche competenza e rigore. Per questo Coldiretti Piemonte ha pubblicato
di recente un manuale di “Agricoltura sociale innovativa”, a cura di Francesco
Di Iacovo, che fornisce gli strumenti scientifici per una corretta valutazione
delle “buone pratiche” di agricoltura sociale».

Bibliografia
e sitografia

Agricoltura
sociale innovativa
, Francesco Di Iacovo (Coldiretti 2012)
La cooperazione
sociale agricola in Italia
, Aa.Vv. (Euricse-Inea 2012)
I buoni frutti:
viaggio nell’Italia della nuova agricoltura civica, etica e responsabile
,
Aa.Vv. (Agra Editrice 2011)
Farm City,
l’educazione di una contadina urbana
, Novella Carpenter (Slow Food 2011)
Mondi agricoli e
rurali. Proposte di riflessione sui cambiamenti sociali e culturali
, Aa.Vv.
(Inea 2010)
I nuovi
contadini
, Jan Douwe van der Ploeg (Donzelli 2009)
Linee guida per
progettare iniziative di agricoltura sociale
, Alfonso Pascale (Inea 2009)
Vite contadine.
Storie del mondo agricolo e rurale
, Aa.Vv. (Inea 2009)
Agricoltura
sociale: quando le campagne coltivano valori
, Francesco Di Iacovo (Franco
Angeli 2008)

www.torino.coldiretti.it
www.aiab.it
www.ortietici.it
www.aicare.it
www.fattoriesociali.com
www.lombricosociale.info
http//:sofar.unipi.it

Documentario La buona terra. Esperienze di agricoltura
sociale in Italia, Rai 2011.

 
Hanno contribuito a questo dossier:

Stefania Garini, torinese, ha una laurea in filosofia
con master di specializzazione in Bioetica. Da 15 anni lavora come giornalista,
occupandosi soprattutto di tematiche sociali e ambientali. È volontaria Avo
(Associazione volontari ospedalieri) e presta servizio con i malati
psichiatrici. Da tempo collaboratrice di MC, è autrice di questo dossier.

Foto di Stefania Garini, Massimo Maiorino, Cooperativa
Frassati, L’Orto dei ragazzi e Silvia -Venturelli per Cavoli nostri.

Coordinamento editoriale di Marco bello, redattore di
MC.

 

Stefania Garini




4_Orti: Contadina Provvidenza

Esperienze 3/ Cooperativa Cavoli Nostri
Dall’incontro tra due religiosi e un gruppo di giovani
nasce un’esperienza sostenibile. Grazie alla produzione orticola rifornisce un
centro per anziani del Cottolengo. Allo stesso tempo impiega persone
svantaggiate, dando loro un salario. Sempre con una grande fiducia nella
provvidenza.

In paese la indicano ancora con il nome antico, la
Colonia: una struttura settecentesca a due passi dal centro di Feletto (To),
circondata da sei ettari di terreno, sede dagli anni ‘40 della Piccola casa
della Divina Provvidenza (uno dei centri del Cottolengo di Torino) per
l’accoglienza di persone sordomute.

Nel tempo il numero di religiosi impegnati nella
struttura si è assottigliato, e i mezzi materiali hanno iniziato a scarseggiare
finché, nel 2007, la direzione della Casa è stata affidata a fratel Umberto
Bonotto, che ha deciso insieme al confratello Marco Rizzonato di «sfruttare» la
campagna a disposizione per rilanciare le attività agricole. Alcuni giovani,
venuti a conoscenza del progetto, si offrono «provvidenzialmente» di
collaborare nel ridare vita agli spazi in abbandono, accompagnati dalla
Coldiretti di Torino. Nasce così, nel 2011, la cornoperativa Cavoli Nostri. «Dopo
le prime perlustrazioni, insieme ad altri amici ci siamo innamorati del posto e
dello spirito che lo animava, e abbiamo iniziato a incontrarci una volta la
settimana per far crescere insieme il sogno di trasformare i terreni della
Piccola casa in qualcosa che, pur mantenendo la vocazione sociale, assumesse
però anche una valenza produttiva» racconta Silvia, 41 anni, socia volontaria
della cornoperativa sgorgata da quel sogno collettivo.

Silvia vive a Torino, dove lavora come psicologa e
collabora con l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), ma
appena ha un momento libero va a Feletto per fare anche lei la sua parte.
Seminare, zappare, togliere le erbacce, pulire… il lavoro non manca mai e i
volontari non si tirano indietro, qualunque sia la loro competenza
professionale: a parte Stefania, che per «puro caso» è agrotecnica di
professione, e Daniela, che è cresciuta in un’azienda agricola, ci sono
Martina, laureata in giurisprudenza, Elena, un’economista, Davide, impiegato…
13 soci in tutto, tra lavoratori e volontari, inclusi i due religiosi e tre
ospiti della Piccola casa in grado di lavorare.

Ispirazione religiosa, stile laico

Finora Cavoli Nostri ha ridato vita a 2,5 ettari dei sei
disponibili, impiegandoli per la coltivazione ortofrutticola. Il Cottolengo
concede i terreni in comodato d’uso, in cambio la cornoperativa fornisce alla
Piccola casa i prodotti necessari al sostentamento dei suoi ospiti, che oggi
sono una ventina, alcuni molto anziani, e tutti uomini.

«Ci sono anche 5-6 sordomuti, stiamo imparando il
linguaggio dei segni per comunicare meglio con loro» spiega Silvia. Mentre ci
accompagna a visitare le serre (ce ne sono tre già in funzione, ma ne stanno
montando altre per incrementare la produzione), Silvia ci racconta l’origine
del nome Cavoli Nostri. «Ci ha dato lo spunto fratel Marco, raccontandoci un
episodio della vita di San Giuseppe Cottolengo: per assistere i malati
rifiutati dall’ospedale, il Cottolengo aveva preso in affitto due stanzette a
Torino; poi però era scoppiata un’epidemia di colera ed era arrivato lo
sfratto. I volontari che aiutavano il santo erano disperati, non sapevano che
fine avrebbero fatto, ma lui li rassicurò dicendo: “Come il cavolo va
trapiantato per potersi riprodurre, così sarà anche per noi”. Detto fatto: il
Cottolengo prese in affitto un piccolo rustico, che fu all’origine dell’attuale
Casa della Divina Provvidenza di Torino, in grado di ospitare oggi centinaia di
persone».

Anche tra i soci della cornoperativa si respira quella «fiducia
nella Provvidenza» tipica del più genuino spirito cottolenghino: una fiducia
che spinge a non arrendersi davanti alle difficoltà, e a vivere secondo gli
ideali della sobrietà e della solidarietà. «Cerchiamo di fare buon uso delle
risorse a nostra disposizione, senza sprecare nulla, nel rispetto delle persone
e dell’ambiente» spiega Silvia mostrandoci la serra delle fragole: i bancali
con le piantine sono stati ricavati da vecchi letti del Cottolengo dismessi, e
sono rialzati da terra «così da permettere anche a chi ha problemi fisici di
poter lavorare, restando in piedi anziché a terra ginocchioni».

Se Cavoli Nostri continua la tradizione solidaristica
del Cottolengo, lo fa però in uno stile del tutto laico: «La cosa bella è che
pur trovandoci in una struttura religiosa viviamo nella piena libertà
d’espressione, credenti e non» spiega Silvia. «Quello che condividiamo sono valori
umani di solidarietà e di amore per il prossimo».

Ripensare il welfare

Cavoli Nostri è una cornoperativa sociale di tipo b che
cura la riabilitazione e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate dai
18 ai 60 anni: disabili psichici e intellettivi, ma anche rifugiati politici. «Oggi,
con la crisi dello stato sociale e il declino di molti servizi essenziali, nel
nostro piccolo vogliamo dimostrare che si può fare welfare in modo nuovo,
raggiungendo la piena sostenibilità economica per uscire dalle logiche
dell’assistenzialismo» spiega Stefania, socia volontaria di Cavoli Nostri. «Adesso
con la vendita ortofrutticola riusciamo a retribuire alcuni dei nostri ragazzi,
anche grazie all’apertura di un punto vendita diretto». Dallo scorso giugno
infatti Cavoli Nostri è aperto al pubblico tutti i sabati mattina (nella bella
stagione anche mercoledì pomeriggio). «Ogni sabato abbiamo una cinquantina di
acquirenti, non è poco se consideriamo che qui in paese quasi ogni abitante ha
il proprio orto», spiega Stefania. «Molti vengono a comperare dalla città,
lavoriamo grazie al passaparola e rifoiamo anche alcuni gruppi d’acquisto. I
nostri prodotti sono molto apprezzati perché, oltre alla componente “sociale”,
sono biologici al 100%; almeno di fatto visto che non abbiamo ancora concluso
le pratiche per la certificazione».

A Torino c’è un ristorante, Le Papille, che ha iniziato
con la passata di pomodoro di Cavoli Nostri e adesso propone ai clienti anche
gli altri prodotti della cornoperativa. «Il nostro sogno sarebbe aprire un
laboratorio per la trasformazione di sughi, conserve, confetture, in modo da
attivare qualche inserimento lavorativo in più» racconta Silvia. Nel frattempo
per trasformare i prodotti, Cavoli Nostri lavora in rete con altre realtà della
provincia, accomunate dalla filosofia dell’agricoltura sociale, come la cascina
Amalterna di Borgiallo, in Valle Sacra, e l’Agricò di Pecetto, che ha vinto
l’Oscar Green 2011 e offre inserimento lavorativo alle vittime di tratta.

Il valore della differenza

«Non è sempre facile far capire ai consumatori il valore
del cibo sano» dice Silvia, «all’inizio qualche cliente, contento di sostenere
il progetto d’inserimento dei ragazzi, si lamentava però dell’aspetto estetico
dei prodotti, dei calibri della frutta, ecc. In questi casi rispondiamo che “per
noi la differenza è un valore, in tutte le sue manifestazioni!”».

Non contenti di produrre cibi buoni e biologici, a
Cavoli Nostri stanno anche studiando le pratiche eco-sostenibili
dell’agricoltura biodinamica. Inoltre, grazie al progetto La Carriola
finanziato dalla Compagnia di S. Paolo, hanno potuto dotare sia l’interno delle
serre sia l’esterno di un nylon biodegradabile per la pacciamatura
(copertura del terreno per mantenere l’umidità del suolo e proteggere dall’erosione)
che non danneggia l’ambiente.

Ma come vivono questa esperienza i ragazzi che ci
lavorano? Paolino, di 35 anni, è tra i più disponibili a raccontarsi: è
arrivato qui da circa un anno, e dopo un tirocinio di sei mesi è stato assunto
dalla cornoperativa. Paolino abita in un paese vicino e due – tre volte la
settimana viene a Feletto in treno per lavorare un paio d’ore, un impegno
compatibile con le sue possibilità. «Prima di questa esperienza non avevo mai
fatto il contadino» ci racconta, «mi piace molto venire qui, stare a contatto
con la natura mi rilassa la mente ed è bello vedere le cose che crescono». Dopo
qualche difficoltà iniziale, Paolino si è perfettamente ambientato e il suo
viso si illumina mentre ci racconta i piccoli-grandi incarichi che svolge nella
cornoperativa. «Tolgo le erbacce, curo le piantine di fragola, raccolgo i
fagiolini… Quel poco che guadagno è una grande soddisfazione, così so che ho
qualche soldo da parte in caso di bisogno». Magari per fare un regalo al
nipotino di 2 anni, per cui Paolino stravede… La chiacchierata s’interrompe,
per Paolino è ora di tornare in stazione. Ci saluta raggiante stringendoci la
mano e ci dice, dopo averci dedicato il suo tempo, «grazie della disponibilità!».

 
Box 2
Agricoltura sociale

Le aree d’intervento dell’agricoltura sociale:
• riabilitazione/cura: per persone con gravi disabilità
(fisica, psichica/mentale, sociale) con una finalità socio-terapeutica;
• formazione e inserimento lavorativo: esperienze orientate
all’occupazione di soggetti a basso potere contrattuale o con disabilità;
• ricreazione e qualità della vita: esperienze rivolte a un
ampio spettro di persone con bisogni speciali, con finalità socio-ricreative
(agriturismo «sociale», fattoria didattica);
• educazione: per soggetti diversi che traggono utilità
dall’apprendere il funzionamento della natura e dei processi produttivi
agricoli;
• servizi alla vita quotidiana: agri-asili, accoglienza
diua, riorganizzazione di reti di prossimità per la cura e il supporto agli
anziani.

 (Fonte: Francesco Di
Iacovo, «Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori», Franco
Angeli 2008).

 

Stefania Garini




3_Orti: Coltivare l’Integrazione

Esperienze 2/ L’orto dei ragazzi
Rifugiati e richiedenti asilo
africani (e non solo) hanno trovato una nuova vita in Italia. Sulla collina
torinese si occupano di ortaggi, galline e api. C’è anche un campo collettivo
per l’agricoltura partecipata delle famiglie di città. Con lo scopo di formare
consumatori consapevoli.

«Sono arrivato in Italia come
clandestino 14 anni fa, dopo un viaggio in nave dal Marocco durato una
settimana, senza quasi mangiare né bere… In Italia mi sono adattato a fare
diversi lavori: muratore, imbianchino, carrozziere. Poi ho avuto dei guai con
la giustizia e sono entrato in contatto con il Gruppo Abele e altre
associazioni impegnate nel disagio giovanile, grazie a loro
ho conosciuto l’Orto dei ragazzi». A parlare è Mohamed, 38 anni, che oggi abita
a Beinasco, in provincia di Torino, è sposato con un’italiana e lavora in
pianta stabile all’Orto, dove si occupa delle consegne a domicilio di frutta e
verdura. Ubicato sulla collina torinese,
non lontano da Superga, l’Orto fa parte di un più ampio comprensorio: la Città
dei ragazzi, fondata nel 1948 da don Giovanni Arbinolo che, ispirandosi ad
analoghe esperienze diffuse negli Usa, intendeva offrire un’alternativa di vita
e di lavoro agli orfani di guerra, in gravi condizioni di miseria e abbandono.

«I tre pilastri del sistema di don
Arbinolo sono gli stessi che ancora oggi animano il nostro impegno:
l’accoglienza, la formazione professionale, il lavoro», spiega Paolo Orecchia,
39 anni, una laurea in Scienze forestali e ambientali, che dal 2004 cornordina le
attività agricole della Città dei Ragazzi. Qui nel tempo è cambiato il target
degli interventi, dagli orfani di guerra si è passati, negli anni ‘60-’70, ai
ragazzi delle periferie urbane disagiate per arrivare, ai giorni nostri,
all’accoglienza di stranieri, richiedenti asilo o rifugiati.

«I giovani che arrivano da noi
hanno un’età media di 20-30 anni, per la maggior parte provengono dall’Africa
(Somalia, Congo, Costa d’Avorio, Nigeria, Marocco) o comunque da zone di guerra
e di conflitto

più o meno espressi. In questi
mesi ad esempio c’è tra noi un ragazzo afghano» spiega Paolo. Lui è anche
l’attuale vicepresidente di «Uno di Due», cornoperativa di produzione e lavoro
nata un anno e mezzo fa da due realtà preesistenti, l’Orto dei Ragazzi nato in
collaborazione con Cisv e Pampili. Il Comune di Torino mette a disposizione di
questi giovani borse lavoro per la durata di 6 mesi durante i quali, oltre a
imparare un mestiere, acquisiscono anche regole di comportamento come la
puntualità, la continuità dell’impegno, l’abitudine a non usare il cellulare
mentre si lavora… «Per riuscire a essere puntuali molti di loro fanno grossi
sacrifici, perché stanno nei dormitori giù in città e devono alzarsi alle 5 di
mattina per arrivare qui alle 8» spiega Paolo. «A volte sono in Italia da poco
tempo e hanno bisogno di imparare la lingua, a qualcuno insegniamo a usare il
computer. Inoltre cerchiamo di formarli sui diversi aspetti del mondo del
lavoro: i diritti, le norme sulla sicurezza, ecc.».

L’altra faccia di Rosao

Le attività che i «ragazzi» si
trovano a svolgere sono numerose: dall’orticoltura alla vendita e consegna dei
prodotti a domicilio, dalla produzione del miele a quella delle uova. Oltre a
questo devono garantire tutta una serie di servizi a beneficio dell’intero
comprensorio, come il taglio dell’erba o l’abbeveraggio degli asini affidati
loro in comodato d’uso dai contadini del vicinato.

«Io guido il furgone per le
consegne a domicilio, si parte al mattino e si rientra la sera. Smerciamo 300
panieri di frutta e verdura ogni settimana, in tutta la città di Torino e nei
comuni della cintura» dice Mohamed. «I nostri prodotti sono certificati
biologici. Noi qui produciamo soprattutto miele e uova, ma da alcuni anni si è
creata una collaborazione con altre aziende del territorio specializzate in
produzioni diverse, sempre bio. Nessuna realtà locale da sola può produrre
tutto, così noi raccogliamo frutta e verdura da un gruppo di fattorie
selezionate e prepariamo i panieri, garantendo agli acquirenti prodotti sani e
coltivati nel rispetto dell’ambiente».

«Anch’io vado con Mohamed a fare
le consegne, inoltre ho il compito di tenere pulito il pollaio e di raccogliere
le uova: adesso abbiamo 200 galline ruspanti allevate a terra, che producono
120-130 uova ogni giorno» dice orgoglioso Francesco, 24 anni, in attesa di una
borsa lavoro dal Comune. E racconta: «Ho studiato da perito agrario, poi ho
iniziato a collaborare con l’Orto dei Ragazzi. Qui sto imparando tante cose, la
vita a contatto con la natura e con gli animali mi piace molto. Spero di
continuare questo lavoro ancora a lungo. Il mio sogno sarebbe metter su una
piantagione di zafferano insieme ai miei genitori».

Se necessario i ragazzi si fermano
nell’Orto anche per periodi superiori ai 6 mesi della borsa lavoro. «Non
abbiamo fretta di mandarli via, l’importante per noi è che riescano a trovare
una collocazione professionale adeguata, cioè dignitosa e con contratti
regolari», spiega Paolo Orecchia. «Noi vorremmo essere un po’ l’altra faccia di
Rosao. Oggi, malgrado la crisi, il settore agricolo ha bisogno di
manovalanza, ma spesso si preferisce far lavorare le persone in nero, mentre
noi puntiamo a che i nostri ragazzi trovino un lavoro legale e stabile. Per
questo offriamo loro un percorso guidato, in grado di accreditarli agli occhi
delle aziende. Il nostro compito è semplicemente questo: accoglierli,
orientarli e aiutarli a inserirsi nel mondo del lavoro facendo da “garanti”. Se
ci dimostrano di essere in gamba e volonterosi, se si impegnano, noi li
promuoviamo di fronte alla Coldiretti, alle aziende ecc. I ragazzi che hanno
voglia di lavorare riescono a collocarsi abbastanza facilmente». Oggi almeno il
50% dei ragazzi dell’Orto trova un lavoro fisso, «ma prima della crisi si
arrivava anche a percentuali del 60% o superiori. Adesso la maggior parte di
loro si sistema in aziende, cornoperative agricole o nei vivai, ma c’è anche chi
si inserisce in attività diverse. Abbiamo un ragazzo che fa il falegname, un
altro che lavora in un hotel, un altro ancora fa il panettiere…». Spesso i
contatti con i ragazzi continuano anche dopo che hanno lasciato l’Orto, e nel
corso dell’anno si organizzano cene e incontri conviviali per ritrovarsi e
mantenere vivi i legami d’amicizia creatisi durante il tirocinio.

I panieri dell’Orto

Per agevolare gli acquisti, i
clienti dell’Orto possono fare gli ordinativi via Inteet. La consegna a
domicilio avviene a cadenza settimanale mentre il pagamento si effettua con un
bonifico a fine mese, a fronte dell’emissione di una fattura, «sempre
all’insegna della trasparenza e della legalità» tiene a precisare Paolo. I
prezzi variano a seconda del peso e, considerato che è tutto rigorosamente
biologico, risultano più che onesti: un paniere piccolo (4 kg) ad esempio costa
9,5 euro, mentre uno grande (9 kg) 20 euro. Per chi richiede la consegna a
domicilio c’è un costo supplementare di 3 euro, ma è gratis se quattro famiglie
si uniscono per l’acquisto comune di quattro panieri.

Nei panieri si trovano anche
alcuni prodotti di «nicchia» come la farina biologica per la polenta di grano
pignoletto, il parmigiano reggiano proveniente da una cornoperativa sociale di
Reggio Emilia o il pane biologico, lievitato naturalmente e cotto nel foo a
legna in un’agrifoeria delle Valli montane di Lanzo.

«La nostra filiera è certificata e
trasparente» spiega Paolo, «ma per garantire un paniere vario non si può essere
troppo rigorosi sul discorso dei km zero. Da noi in Piemonte, ad esempio, per
avere gli zucchini a km zero si deve aspettare maggio. Nel periodo invernale ci
sono solo cavoli e patate, perciò in quei mesi ci rifoiamo da aziende di
Puglia e Sicilia, sempre selezionate e sempre biologiche».

Agricoltura partecipata

Insieme ai prodotti nei panieri,
viene consegnato un foglio informativo con alcune ricette per cucinare le verdure
di stagione e le ultime novità sulle iniziative dell’Orto. Oltre alla
produzione e commercializzazione, infatti, l’Orto dei Ragazzi svolge tutta una
serie di attività all’insegna dell’agricoltura sociale «partecipata». Come i
percorsi di educazione ambientale per gli alunni delle scuole: «Si tengono
alcuni incontri preparatori nelle classi, poi i bambini vengono all’Orto dove
possono seguire diversi percorsi formativi, ad esempio quello sull’humus, dove
si spiega qual è la funzione dei lombrichi in agricoltura, o quello
sull’apicoltura, per cui possono vedere le aie, assistere alla smielatura,
partecipare a laboratori di lavorazione della cera, ecc.», spiega Paolo.

Oltre a questo, dallo scorso anno è
stato avviato il progetto dell’Orto collettivo: un ettaro di terra messo a
disposizione di alcune famiglie interessate a coltivarsi da sé frutta e verdura
genuina. «Al momento si tratta di una quindicina di persone che vengono per lo
più il sabato a lavorare la terra» continua.

«Anche questo è un servizio di
agricoltura sociale partecipata, offriamo uno spazio di aggregazione, di vita
all’aria aperta, per produrre cibo sano. Per le famiglie è uno svago e
un’esperienza educativa per i loro figli». Oltre al lavoro, ai partecipanti
all’Orto collettivo è richiesto di depositare una certa somma di denaro nella
cassa comune che serve a sostenere le spese vive dell’orto. «Esperienze come
questa servono a coinvolgere i nostri clienti, avvicinandoli al mondo del
sociale e dell’agricoltura. Per lo stesso motivo, due volte l’anno invitiamo
gli acquirenti dei panieri a partecipare a momenti conviviali, può essere una
merenda nell’orto o una chiacchierata con gli agricoltori delle aziende…».

Tra le iniziative ci sono anche le
adozioni: «All’inizio non avevamo i soldi per comprare le api, allora abbiamo
lanciato una sottoscrizione, “Adotta un alveare”. Anche per mettere su il
pollaio, abbiamo proposto ai nostri acquirenti di “adottare” una gallina. In
cambio, una volta avviata l’attività, chi ha contribuito riceve miele o uova».
Sempre per coinvolgere le persone e avvicinarle alla realtà contadina,
periodicamente le si invita a partecipare ad alcune fasi della produzione. «Una
di queste è la smielatura, attualmente abbiamo 50 aie, ognuna produce circa
20-25 kg di miele, per un totale di alcune tonnellate di prodotto ogni anno»
racconta Paolo. «Partecipando alla smielatura i nostri amici imparano cose
nuove, ma soprattutto capiscono quello che sta dietro alla produzione, ad
esempio si rendono conto del perché, se è stata un’annata piovosa, non c’è il
miele di acacia». In questo modo si forma il vero consumatore consapevole.

Una scelta di vita

Per Paolo, sposato e con due
bambine di 9 e 13 anni, l’esperienza nell’Orto non è solo un lavoro, ma una
scelta di vita. «Il lavoro agricolo non prevede orari, sarebbe inimmaginabile
una cascina dove il contadino fa le 8 ore e poi se ne torna a casa», ci
racconta. «Solo per fare un esempio, d’estate le galline razzolano libere fino
alle 21.30 poi bisogna farle rientrare nel pollaio, perciò si è impegnati fino
a tarda sera. Così dopo i primi anni, dove lavoravo 50-60 ore la settimana, mi
sono reso conto che occorreva una presenza più costante, e con la mia famiglia
abbiamo deciso di trasferirci ad abitare nella Città dei Ragazzi».

Ma quali sono i progetti per il
futuro dell’Orto? «Innanzi tutto vorremmo potenziare le attività produttive
legate all’apicoltura, come la pappa reale, il propoli, ecc. Poi abbiamo in
programma una sperimentazione, per cui inseriremo qualche vitello e qualche
vacca che faranno da “taglia-erba” naturali e non inquinanti per il
comprensorio: oltre a tenere sotto controllo il livello della vegetazione, potrà
servire per ottenere un concime biologico…».

Ma quel che più conta, è l’aspetto
sociale e umano dell’Orto: «Qui i ragazzi lavorano a contatto con la natura,
imparano a fare le cose con le proprie mani, conoscono la fatica ma anche la
soddisfazione di raccogliere quel che loro stessi hanno prodotto, e imparano a
prendersi cura degli altri esseri viventi. Ed è questo che rende speciale la
loro esperienza».

 
Box
La storia di Mohamed

«Mi chiamo Mohamed, arrivo dal Marocco; sono venuto in
Italia in cerca di fortuna per poter aiutare la mia famiglia. Mi sono imbarcato
14 anni fa da Casablanca dentro una nave commerciale che trasportava container.
Quando mi sono infilato di nascosto dentro la canna fumaria ho pensato che
avrei viaggiato al massimo 3 giorni invece il viaggio ne è durato 7. Mi ero
portato dei ceci e una baguette di pane che potevano bastarmi per tre giorni
scarsi… così il mio viaggio verso la Spagna non è stato molto piacevole, ho
vomitato più volte perché ho dovuto bere l’acqua del motore per dissetarmi.

Ma ero determinato a proseguire per aiutare i miei genitori.
Siamo una famiglia di 14 fratelli e mangiamo solo il pane alla menta e qualche
verdura… la carne la vediamo raramente, un etto di pollo o agnello alla
settimana. Sono sceso dalla nave di notte scappando dalla polizia di frontiera.
Sono rimasto un giorno nascosto dentro un camion finché tutto si è calmato. Mi
sono trattenuto in Spagna per una settimana chiedendo aiuto in una chiesa dove
mi hanno sfamato a pane e formaggio.

Poi grazie a passaggi in autostop e in treno, sempre
nascosto nelle tornilette, sono arrivato a Marsiglia. Qui mi sono incontrato con
una persona su una montagna e abbiamo concordato il viaggio fino in Italia dove
avevo alcuni amici miei vicini di casa. Arrivato a Torino sono rimasto da loro
qualche giorno; poi mi sono trasferito per un paio di mesi in una casa abbandonata.
Ho trovato lavoro come carrozziere. D’estate, quando ha chiuso per ferie, sono
andato al mare dove ho iniziato a vendere teli da spiaggia fino a settembre. Al
ritorno non mi hanno ripreso al lavoro perché non avevo i documenti. E così
sono andato avanti ad aggiustarmi con lavoretti come il muratore. Quindi una
persona mi ha parlato della Città dei Ragazzi, lì ho conosciuto Paolo e ho
iniziato questa esperienza. Mi trovo bene con lui, i colleghi e tutti i clienti
ai quali porto la verdura e la frutta. Ringraziando tutti coloro che mi hanno
sostenuto, posso dire che sto bene. Grazie. Mohamed». 

Oggi Mohamed, oltre a lavorare per l’Orto dei Ragazzi, si è
preso la patente e un’automobile, ha ottenuto i documenti e l’estate scorsa è
tornato in Marocco a salutare la famiglia. (Ste.Gar.)

 
 

Stefania Garini




2_Orti: Matti per le lattughe

Esperienze 1/ La Cooperativa Pier Giorgio Frassati
Un gruppo di agronomi, educatori e
operatori socio assistenziali hanno dato vita a una «Fattoria sociale» alle
porte di Torino. Qui sono attivi quindici «ragazzi» tra i 20 e i 50 anni, con
varie disabilità. Sono arrivati a portare i loro prodotti agricoli al Salone
del Gusto e accolgono scolaresche per visite didattiche.

Una trentina d’anni fa, poco dopo la chiusura dei
manicomi voluta dalla Legge Basaglia, alcuni ex pazienti dell’ospedale
psichiatrico di Mogliano Veneto furono accolti a Torino, nel Centro di attività
diua (Cad) gestito dalla cornoperativa Pier Giorgio Frassati, dove si
svolgevano alcune attività agricole a scopo riabilitativo.

Queste attività sono continuate nel tempo, finché nel
2008 hanno dato vita a un nuovo progetto: la Fattoria sociale P.G. Frassati.
«L’idea di partenza è stata rendere più professionale la coltivazione
ortofrutticola che si svolgeva nel Cad, integrando due componenti importanti,
quella socio-assistenziale e quella tecnico-agronomica», ci spiega Sabrina
Serena Guinzio, giovane agronoma che lavora alla Cascina La Luna. Quest’ultima
sorge su un’area data in concessione dal comune di Torino: 6.000 m² nel cuore
della città, comprensivi di terreno irriguo, quattro tunnel e una serra
climatizzata per coltivare anche nei mesi invernali, primizie e fiori in vaso.

«La nostra è stata la prima fattoria sociale del
Piemonte, nata grazie alla collaborazione tra la Provincia di Torino, il Patto
territoriale della zona Ovest, la Coldiretti e la facoltà di agraria
dell’Università», spiega Guido Pomato, l’altro agronomo della Frassati. «Di
solito esperienze simili, in cui si cerca di stimolare le abilità residue dei
ragazzi disabili, sono affidate unicamente agli educatori, mentre la sfida qui è
stata quella di integrare le diverse professionalità». Per fare questo «all’inizio
tutti noi, educatori, Oss (Operatori socio sanitari) e agronomi facevamo tutto
in maniera intercambiabile, per capire anche il punto di vista degli altri»
racconta Sabrina, «solo quando abbiamo raggiunto un grado sufficiente di
amalgama ognuno è tornato al proprio mestiere».

Due facce della Luna: sociale…

Alle attività della fattoria partecipano, oltre al
personale specializzato e a due operai agricoli diversamente abili, anche gli
utenti del Centro di attività diua. «Una quindicina di “ragazzi” di età
compresa tra i 20 e i 50 anni, alcuni psichiatrici, altri disabili intellettivi
(ad es. con sindrome di Down), mandati qui dalle Asl o dal comune che, a
seconda del progetto terapeutico, possono fermarsi per periodi variabili, anche
diversi anni» ci spiega l’educatore Luigi Piras, 61 anni, che da 30 lavora alla
cornoperativa Frassati.

I ragazzi vivono in famiglia o in comunità, il loro
impegno in fattoria dovrebbe svolgersi dalle 8.30 alle 16.00, «ma alcuni
arrivano in cascina già di buon mattino, perché qui si trovano bene, apprezzano
il lavoro e stare in compagnia degli altri» dice Luigi. «Spesso sono ragazzi
soli, fuori di qui non hanno amici, non sanno cosa fare. Tra loro vanno
d’accordo, ma non riescono a mantenere il rapporto al di là della fattoria,
perché nessuno prende l’iniziativa di organizzare incontri o uscite. Anche se
qualcuno è qui da 10 anni…».

Le loro mansioni sono diverse e commisurate alle capacità:
zappare, seminare, raccogliere la verdura, rastrellare le foglie, aiutare nella
vendita dei prodotti al pubblico, ma anche tenere puliti gli spazi comuni,
apparecchiare per il pranzo (che si consuma tutti insieme), lavare i piatti,
ecc.

«La vita a contatto con la natura è di per sé
riabilitativa, e nel lavoro agricolo i limiti di questi ragazzi risultano meno
evidenti: l’insalata è sempre insalata, che a coltivarla sia o no un disabile»
dice Dario Flego, 46 anni, educatore alla Frassati dal 2000. «Anche se è raro
riuscire a inserire questi ragazzi nel mondo del lavoro “vero”, quello che
fanno qui permette loro di migliorare le proprie competenze e la capacità di
socializzare».

Gabriele, che ha 36 anni e frequenta il Cad da 13,
racconta: «Con i compagni mi trovo bene, tranne quando mi disturbano oppure
sporcano dove ho appena pulito. Mi dà fastidio quando le cose sono troppo
difficili da capire, o quando gli altri mi urlano dietro. Mi piace molto stare
in compagnia e pranzare tutti assieme, ma mi arrabbio quando l’educatrice non
mi dà il bis, se me lo sono meritato lavorando tutta la mattina… La cosa che mi
piace di più è lavorare nelle serre, soprattutto nelle giornate di sole». Anche
Anna, 44 anni di cui 6 trascorsi alla Frassati, dice di andare d’accordo con i «colleghi»,
«benché siano tutti maschi mentre noi ragazze siamo solo due, io e Lucia che ha
20 anni. I ragazzi si comportano bene e sono rispettosi, a me piace molto
venire qui. Però ho anche altre attività, a casa disegno, dipingo, fotografo.
Mi piace pulire, cucinare, fare un po’ di tutto… insomma, mi piace vivere!».

C’è anche chi nel Centro ha trovato l’amore, come
Emilio, che ha 50 anni e lavora alla Frassati da 10, occupandosi dell’orto ma
anche degli interventi da muratore e da imbianchino. «Io abito con mia madre,
in settimana sono impegnato in cascina, poi nel week end mi vedo con la mia
ragazza, che ho conosciuto qui. Adesso lei sta in una comunità, il nostro sogno
è poterci sposare presto».

… e produttiva

I terreni della Fattoria Frassati sono coltivati con
metodi tradizionali e a elevato fabbisogno di manodopera, integrati a sistemi
più innovativi. «Pur non avendo ancora la certificazione biologica», ci spiega
Guido Pomato, «interveniamo sui parassiti e le erbe infestanti attraverso
metodi preventivi e naturali, evitando l’uso di sostanze nocive, sia per la
qualità dei prodotti che per il benessere di chi lavora».

Tra gli obiettivi della Fattoria c’è quello di essere un
luogo dove le persone «entrano ed escono, in modo da integrare l’esperienza di
agricoltura sociale con il territorio» spiega Guido, «per questo pratichiamo la
vendita diretta e curiamo i rapporti con le scuole e i laboratori di formazione
per la cittadinanza». La vendita a «chilometro zero», direttamente dal
produttore al consumatore, avviene attraverso una bottega situata all’interno
della fattoria (aperta al pubblico dal lunedì al venerdì), ma anche tramite i
mercati rionali, le fiere e i punti vendita di altre aziende e cornoperative
sociali del territorio. I clienti vanno dal singolo consumatore ai gruppi
d’acquisto solidale. «Quest’anno per la prima volta abbiamo partecipato al
Salone del Gusto, e abbiamo iniziato a collaborare con altre aziende per far
trasformare i prodotti in esubero, come le melanzane e i peperoni sott’olio»,
dice Pomato. «Noi puntiamo a realizzare un’impresa economicamente sostenibile,
che si regga sulle proprie gambe senza bisogno di finanziamenti pubblici. La
sfida per noi è fare agricoltura sociale all’interno di una vera e propria
azienda agricola, come oggi stanno facendo anche alcune realtà della Coldiretti».
L’obiettivo nel medio-lungo termine sarebbe anche di arrivare a uno scambio di
competenze, «per cui i nostri educatori potrebbero fare accompagnamento alle
aziende agricole interessate ad assumere disabili, viceversa gli agricoltori potrebbero “prestare”
il proprio sapere alle fattorie sociali. Si tratta di costruire un modello
culturale nuovo».

Esperienze didattiche

Per favorire l’osmosi tra l’interno e l’esterno della
fattoria, un aspetto importante è la collaborazione con le scuole. «Proponiamo
percorsi didattici e laboratori», spiega Sabrina Serena Guinzio, «una volta la
settimana vengono in cascina alcune classi di terza e quarta elementare per
imparare a coltivare con i nostri ragazzi. È un’esperienza istruttiva,
soprattutto per le classi dove ci sono alunni disabili. In altri casi invece
gli studenti vengono mandati a lavorare la terra da noi come misura alternativa
alla sospensione, quando hanno combinato qualche guaio…».

Altre volte sono i ragazzi della Frassati che vanno ad
allestire orti o giardini presso qualche istituto scolastico, in collaborazione
con alunni e insegnanti. Oltre alle scuole, sono coinvolti nei percorsi di
formazione gli operatori professionali, i genitori con figli disabili, ecc.
Inoltre, nel corso dell’anno, per favorire la socializzazione dei ragazzi, la
Frassati organizza gite e feste, come quella di primavera dove la
partecipazione raggiunge anche picchi di 200 persone.

 

Stefania Garini




1_Orti: Orti Solidali viaggio nel fenomeno dell’«agricoltura sociale»

Agricoltura sociale, istruzioni per l’uso



Nella vecchia fattoria

Produrre cibo pulito e sano, favorendo al tempo stesso
la riabilitazione e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate: disabili,
immigrati, minori a rischio… Sono questi gli obiettivi dell’«agricoltura sociale»,
una pratica che si sta diffondendo in tutta Europa e che in Italia ha già messo
a segno un migliaio di progetti. Tra le regioni in pole position nel settore, il
Piemonte, che nella provincia di Torino ha avviato importanti esperienze di
questo tipo. Siamo andati a conoscerle.

Secondo la definizione del professor Saverio Senni,
docente di Economia e politica dello sviluppo rurale all’Università della
Tuscia (Viterbo) e tra i massimi esperti sul tema, l’agricoltura sociale
consiste in «un insieme di attività a carattere agricolo in senso lato –
coltivazione, allevamento, selvicoltura, trasformazione dei prodotti
alimentari, agriturismo, ecc. – con l’esplicito proposito di generare benefici
per fasce particolari della popolazione». Oltre a produrre beni agroalimentari,
questa pratica svolge dunque una funzione di servizio alle persone, in cui le
attività e il contesto rurale sono rivolti ad alleviare il disagio delle
categorie più svantaggiate: minori a rischio, immigrati, portatori di handicap
fisici o intellettivi, malati psichici, tossicodipendenti, detenuti, ecc.
L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) riconosce
questo tipo di agricoltura come una pratica «multifunzionale» che contribuisce
a più obiettivi sociali: terapeutici – si pensi a esperienze quali pet
therapy
, ippoterapia, onoterapia … – formativi, di inserimento
professionale o di «semplice» benessere, per individui a rischio di esclusione
e con un basso potere contrattuale sul mercato del lavoro. L’agricoltura sociale
ha dunque una valenza etica e risponde al modello di «impresa con finalità
sociale», indicato dall’economista e premio Nobel Muhammad Yunus: «Un’impresa
capace di porsi obiettivi diversi da quello del profitto personale, in grado di
dedicarsi anche alla risoluzione dei problemi sociali e ambientali».

«Buone pratiche» europee

In Europa esistono oltre 6.000 progetti di agricoltura
sociale, di cui 1.000 solo in Italia. Il primo paese a promuovere questa
pratica è stato l’Olanda – dove l’agricoltura sociale è ufficialmente
riconosciuta dal sistema sanitario nazionale – che conta oggi oltre 800 aziende
attive nel settore. Qui, a partire dagli anni ‘90, gli imprenditori agricoli si
sono dati disponibili per progetti terapeutico-riabilitativi destinati a soggetti
svantaggiati, ricevendo in cambio un’integrazione del proprio reddito in base a
un accordo quadro tra ministero dell’Agricoltura e ministero degli Affari
sociali. Analoghi sistemi di green care si sono diffusi anche in Belgio
e in Norvegia, mentre in Francia hanno preso piede i Jardins de Cocagne:
120 realtà agricole specializzate nella produzione biologica, diffuse su tutto
il territorio nazionale e gestite da realtà no profit che favoriscono
l’inclusione sociale e lavorativa di persone senza fissa dimora, disoccupati di lungo periodo, ecc. A differenza dei
sistemi «nordici», dove un ruolo importante è giocato dai finanziamenti
istituzionali, qui la sostenibilità economica si regge tutta sulla vendita
diretta dei prodotti.

In Italia i soggetti promotori dell’agricoltura sociale
sono per lo più aziende agricole o cornoperative sociali, istituite nel 1991 con
la Legge 381, e arrivate a quota 500 in poco più di un decennio.

La forma di aggregazione più diffusa è la «fattoria
sociale»: una fattoria o un allevamento gestiti da uno o più associati, con la
caratteristica di essere economicamente sostenibile. L’azienda agro-sociale
produce per la vendita sul mercato, ma lo fa in maniera «integrata» e a
vantaggio di soggetti deboli o residenti in aree fragili (montagne, centri
isolati), di solito in collaborazione con le istituzioni pubbliche che
finanziano parte delle attività. In Piemonte, una delle regioni più attive nel
settore, esistono numerose iniziative a partecipazione pubblico-privata, in cui
un ruolo di primo piano è giocato dalle realtà aderenti alla Coldiretti. Molte
di queste interessano la provincia di Torino.

Secondo una recente indagine dell’Associazione italiana
per l’agricoltura biologica (Aiab), nel triennio 2007-2010 il numero delle
fattorie sociali nel nostro paese è passato da 107 a 221 unità. Inoltre è
cresciuta l’incidenza delle aziende agricole sul totale dei soggetti che
praticano l’agricoltura sociale: benché la cornoperativa sociale resti infatti la
forma giuridica più diffusa, il settore agricolo privato ha registrato nel 2010
un aumento del 33% del totale degli operatori, rispetto ad esempio al 25% del
2007, con una massiccia presenza di giovani e donne impiegati nel settore.

L’Abc del contadino solidale

Ma quali sono le caratteristiche dell’agricoltura
sociale che favoriscono i percorsi educativi, di riabilitazione e di
inserimento lavorativo? Innanzi tutto la vita a contatto con la natura, che
permette di muoversi in spazi aperti e non costrittivi. Poi la flessibilità
dell’organizzazione del lavoro in termini sia di orario sia di mansioni,
ottenuta anche attraverso una strutturazione in piccoli gruppi; il metodo
biologico o anche di utilizzo di pratiche agro-eco-compatibili, che bandisce le
sostanze tossiche e consente a chiunque di lavorare in sicurezza; la vendita
diretta, che favorisce gli scambi e fa dell’azienda rurale un luogo aperto e
frequentato dalla cittadinanza; la filiera corta, che garantisce il risparmio
per i consumatori e la valorizzazione del territorio; infine la varietà di compiti
legati al corso dei giorni e delle stagioni, con la possibilità per le persone
accolte di partecipare al ciclo produttivo completo, dalla semina alla vendita.

In un periodo di crisi come questo, inoltre,
l’agricoltura sociale si configura come «un percorso di innovazione sociale che
coinvolge un’ampia gamma di soggetti locali per mobilizzare in modo nuovo le
risorse del territorio, dando risposte utili ai bisogni delle persone e delle
comunità», come chiarisce Francesco Di Iacovo, docente di Economia agraria
all’Università di Pisa e tra i massimi esperti europei del settore: «Oggi
abbiamo bisogno di cambiare, molto e molto rapidamente, per ricostruire
opportunità e senso di futuro», spiega il professore. «Per questo l’agricoltura
sociale, capace di creare al tempo stesso valore economico e valore sociale,
acquista una rilevanza strategica. Essa può funzionare come campo di prova del
cambiamento, per ripensare in modo più ampio i principi di funzionamento delle
comunità locali».

Stefania Garini




Forte Tenerezza

Nell’editoriale dello scorso mese esprimevo l’aspettativa
che lo Spirito Santo ci sorprendesse con un papa inedito, secondo il cuore di
Cristo. Lo Spirito ci ha ascoltati. Anzi, ha aggiunto sorpresa a sorpresa: ci
ha dato il papa della tenerezza. E questo è davvero una specie di nemesi
storica. Papa Francesco viene da un continente dove il Vangelo, soprattutto nei
primi secoli, è stato imposto più con la forza delle armi che con la
testimonianza dell’amore e ora, proprio quel continente dona alla Chiesa
universale un testimone della tenerezza di Dio. Mi sembra bellissimo.

Voglia di tenerezza. Era il titolo di un film del 1983 di J. L. Brooks.
Abbiamo tutti bisogno di tenerezza e misericordia. Questo papa ci sta facendo
capire la bellezza e la forza della tenerezza di Dio: un padre che sente
come una madre (vedi la parabola del «padre misericordioso» in Luca). E questo
mi riporta alla mente ricordi lontani. Forse maggio 1955. Ho appena quattro
anni. Mio padre è in ospedale da mesi. Una sera ritorno a casa dall’asilo. La
strada in salita è inondata dal sole al tramonto. All’improvviso dal grande
portone della cascina mezzadrile esce un uomo, nera siluette nel sole
accecante. è lui! Corro,
lasciando indietro i cuginetti. «Ubà!» (babbo). E sono nelle sue braccia. Gioia
indicibile. Il ricordo di una tenerezza che non mi lascia più. Spalle forti da
contadino, braccia muscolose come un pugile, mani callose che potevano
immobilizzare un toro per le coa ma si rifiutavano di dare una pur dovuta
sculacciata per timore di far troppo male. La forza e la tenerezza di un padre.

Papa Francesco con le
sue parole e la sua gestualità riporta la tenerezza nel cuore della missione
della Chiesa. La gioia raggiante sul volto di un ragazzo disabile offerto
all’abbraccio del papa in Piazza san Pietro parla della tenerezza di Dio mille
volte di più di tanti dotti documenti o liturgie sontuose. E davvero il mondo
di oggi ha tanta «voglia di tenerezza», tenerezza che è mettere al centro la
persona, è offrire attenzione all’altro, aiuto al povero, accoglienza allo
straniero, servizio all’ammalato, accompagnamento nel recupero al carcerato,
compagnia e aiuto all’anziano, protezione al bambino e molto altro, senza
limiti alla fantasia e alla creatività.

Papa Francesco sta aiutando tutta la Chiesa a ricuperare
questa dimensione divina dell’amore, infangata dalle tristi storie di pedofilia
che hanno offuscato quelle di dedizione e servizio di milioni di cristiani e
tantissimi sacerdoti, religiosi e missionari. La tenerezza di Madre Teresa, di
Giovanni XXIII, di Padre Pio, di Annalena Tonelli e di tantissimi altri, donne
e uomini, che hanno anche pagato con la vita il loro amore per gli altri, ha
aiutato un gran numero di persone a scoprire il vero amore di Dio, tenero e
forte, misericordioso ed esigente.

In questi anni si è prodotto
molto nel nostro mondo cristiano: documenti profondi, catechismi rinnovati,
traduzioni nuovissime della Bibbia, splendide riviste, pagine web, produzioni
cinematografiche e televisive; tutto materiale di altissima qualità. Con un
difetto forse: si è puntato troppo alla mente e poco al cuore. La gestualità
inedita e informale di papa Francesco riporta al centro il cuore e la persona.
La Chiesa missionaria sa bene quanto questo sia importante. è la testimonianza dell’amore vissuto
che conquista i cuori. Predicazione, catechesi e liturgia vengono dopo. Questo è
vero negli angoli più remoti del mondo come nelle parrocchie della nostra
Italia, dove la carenza cronica di preti rischia di ridurre gli stessi a
diventare funzionari del sacro e non a essere pastori che abbiano addosso
l’odore delle pecore.

Negli anni Sessanta
alcune delle mie sorelle lavoravano come «serve» in città. Toando a casa per
le feste o le ferie, si lamentavano con nostro padre perché puzzava di stalla,
dove conosceva ogni mucca per nome e loro conoscevano lui, anche da distante,
tanto che bastava il suono dei suoi passi per farle quietare. Oggi, invece,
nelle stalle ci sono troppe mucche, ognuna è un numero controllato a distanza,
schedato in un computer, e il «pastore» fa la doccia e non puzza più di vacca.
Almeno, così è nel nostro mondo. Ma là, alla «fine del mondo», da dove viene
papa Francesco, non è così. Il «pastore» conosce ancora le sue mucche/pecore
per nome, ne condivide l’odore, ne conosce i bisogni, le guida ancora nella ricerca
di pascoli erbosi e di acque fresche.

Grazie papa Francesco
per aver riportato la tenerezza di Dio al centro della vita e della missione
della Chiesa.

Gigi Anataloni