Perpetua
e Felicita, nobildonna cartaginese la prima e schiava/amica fedele la seconda,
sono protagoniste di un evento straordinario di testimonianza della loro fede
cristiana nella città di Cartagine del III secolo. Durante la persecuzione
dell’imperatore Settimio Severo, invitate a bruciare incenso alla statua
dell’imperatore, esse risposero con un fermo rifiuto. Il loro processo è uno
dei rari documenti pervenuti fino a noi di condanna a morte dei cristiani. Esse
sono ricordate nel canone romano dell’Eucarestia.
Carissime, di fronte a voi che avete saputo dare la vita per essere fedeli a Cristo Signore, mi sento piuttosto imbarazzato. Volete presentarvi?
Perpetua: Sono una giovane donna, di poco più di vent’anni, sposata e madre di un bambino. Appartengo al ceto sociale più alto della città di Cartagine. Nella mia casa vivono anche diverse persone che la logica del tempo considerava schiave, ma che, dopo aver incontrato il Vangelo di Gesù e la sua straordinaria prospettiva di vita, sono diventate per me come fratelli e sorelle, a cui è la mia famiglia che ha la responsabilità di garantire una vita degna.
Felicita: Io, che nella condizione di schiava vivo presso Perpetua, mia padrona, mi sento più una persona di casa che una serva sfruttata per fare dei lavori pesanti.
E com’è che nel III secolo dopo Cristo Cartagine è una delle città più importanti del Nord Africa, parte integrante dell’Impero Romano?
Perpetua e Felicita: La posizione naturale della nostra città ne fa un punto nodale dei traffici, sia per mare che per terra, nonché base di partenza per le carovane dirette verso Sud, verso il grande deserto e allo stesso tempo è un porto strategico per il commercio con Roma imperiale, «caput mundi».
Resto stupito nel vedere che una città dell’Africa lontana da Gerusalemme abbia fra le sue mura, nel III secolo dopo la nascita del Salvatore, una fiorente comunità cristiana.
Perpetua e Felicita: Una delle cose più sconvolgenti che anche a noi stessi causa meraviglia è il constatare come il messaggio di amore e tenerezza portato da Gesù di Nazareth si sia diffuso così velocemente in tutto l’Impero Romano e in modo particolare nell’area mediterranea. Per usare le parole di sant’Agostino, un padre della Chiesa che diede lustro alla nostra terra africana: «Tre sono le cose incredibili e tuttavia avvenute: è incredibile che Cristo sia risuscitato nella sua carne, è incredibile che il mondo abbia creduto ad una cosa tanto incredibile, è incredibile che pochi uomini, sconosciuti, inermi, senza cultura abbiano potuto far credere con tanto successo al mondo, e in esso anche ai dotti, una cosa tanto incredibile!». Difficile non scorgere in questi avvenimenti il piano di Dio.
Cos’ha di così affascinante la Buona Notizia di Gesù di Nazareth da coinvolgere così tante persone e far loro cambiare drasticamente il genere di vita che conducono?
Felicita: Per noi schiavi il messaggio di Gesù di Nazareth è qualcosa di sconvolgente e meraviglioso allo stesso tempo. Nella scala sociale siamo considerati all’ultimo posto e la nostra vita è legata agli umori dei nostri padroni. Venire a sapere che puoi rivolgerti a Dio chiamandolo Padre e scoprire che la tua dignità di persona vale tanto quanto quella dell’imperatore, è sufficiente perché questo nuovo stile di vivere ti conquisti e tu non desideri altro che vivere il Suo amore dando testimonianza di ciò che ha insegnato.
Perpetua: Lo stesso discorso, anche se in maniera diversa, vale per i nobili della società dell’Impero Romano. È straordinario scoprire l’umanità di chi ti circonda e scoprire che nel mondo non conta avere tanti benefici se si ha un cuore arido incapace di accogliere la tenerezza di Dio e l’affetto del prossimo. Il messaggio del Vangelo va ben oltre le aspettative esistenti di un cambiamento, in quanto ciò che viene realmente modificato è il proprio cuore e la propria coscienza, per cui anche coloro che possiedono molto, sentono impellente e bruciante il bisogno di condividere i propri beni con altri più sfortunati di loro.
Perpetua e Felicita: Durante la persecuzione, scatenata contro i cristiani dall’imperatore Settimio Severo, venne emanato un editto in cui ai governatori delle province veniva data la possibilità di «stanare» i cristiani, obbligandoli a bruciare incenso alla statua dell’imperatore, ritenuto dalla religione pagana un dio in terra. Questo per la nostra fede è inaccettabile, quindi fummo fatti sfilare davanti alle autorità romane, le quali avevano messo un braciere acceso ai piedi della statua dell’imperatore e venimmo invitati a gettare un po’ di incenso nel fuoco, attestando così lo status di divinità dell’imperatore. Ovviamente noi ci rifiutammo e fummo arrestati.
Perpetua e Felicita: Nella disgrazia fummo fortunate; in carcere c’erano dei cristiani che alimentavano in noi la speranza, non di essere esentati dai supplizi e dai tormenti, ma di incontrare presto il Signore nel suo Regno e di stare con lui per l’eternità. E siccome noi non avevamo completato l’iniziazione cristiana, essendo ancora dei catecumeni, con noi in carcere era finito anche Satiro, il nostro catechista, il quale provvide, nelle lunghe giornate in cui aspettavamo la sentenza, a completare la nostra formazione e a battezzarci, offrendoci così quella grazia santificante e quella fortezza di spirito più che mai necessaria per affrontare quelle terribili prove che ci aspettavano.
Quali erano le condizioni del carcere?
Perpetua: Terribili! In ambienti angusti, con poca aria e luce a disposizione, erano rinchiuse molte persone, anche se tutti si mostravano gentili e disponibili verso di noi, in quanto io avevo il mio bambino ancora lattante con me, mentre Felicita contava i giorni che la separavano dal lieto evento della nascita di una creatura che aveva in grembo.
Felicita: Pur essendo rinchiusi in celle umide e malsane e con numerosi compagni imprigionati come noi per la loro fede, la mia amatissima sorella Perpetua aveva delle visioni che prefiguravano la nostra entrata nel Regno dei Cieli dopo quella terribile prova, che è paragonabile a ciò che visse Gesù sul Calvario.
Perpetua e Felicita: Fu una farsa, era già tutto stabilito. Gli atti dei nostri interrogatori sono una delle poche pagine giunte sino a voi di come procedeva la giustizia romana verso coloro che considerava dei nemici. Agli inviti che i giudici facevano a noi affinché - vista la nostra condizione - abiurassimo la nostra fede e così ci salvassimo per rimanere accanto ai nostri figli, rispondevamo che alle nostre creature avrebbero pensato i nostri familiari, a noi premeva restare fedeli a Colui che ci aveva dato il vero senso di vivere, il significato di un’esistenza la cui fedeltà a Lui nel momento della morte ci avrebbe spalancato la porta del Regno dei Cieli.
Perpetua e Felicita: Alle domande che ci venivano rivolte rispondevamo con libertà e franchezza, non temevamo affatto il confronto con i nostri persecutori. In alcuni momenti avevamo la sensazione quasi palpabile che a parlare non fossimo noi, ma prestavamo la nostra voce alle risposte che Gesù stesso dava ai nostri inquisitori. Scoprimmo quell’atteggiamento che va sotto il nome di «parresia», ovvero quella franchezza di linguaggio che ci permetteva di rispondere a testa alta e senza remore alle domande più subdole e ai tranelli più iniqui che i funzionari dell’impero romano, ci tendevano.
Felicita: Nel momento in cui veniva pronunciata la condanna a morte che per noi fu applicata nel modo più orribile che si immaginasse a quei tempi, cioè tramite bestie feroci che ci avrebbero sbranati, il marito di Perpetua, che era ancora pagano, proruppe in alte grida invitandola a rinnegare la propria fede, ma la mia padrona, o meglio mia sorella nella fede, rimase ferma nel suo proposito di essere fedele al Signore Gesù e quindi, deposto tra le braccia del marito il suo bambino, si avviò tranquilla verso la gloria dei martiri.
Perpetua: Dopo la sentenza, nei giorni passati in carcere, in attesa che arrivasse una festa in cui ci fossero dei giochi e tra questi lo spettacolo orribile offerto alla folla di belve scatenate che si avventavano contro i cristiani, la mia cara Felicita partorì una creatura che fu affidata a una sua parente. Dopo alcuni giorni, tenendoci per mano, insieme ad altri cristiani, cantando entrammo nell’arena. Lì, guardando con occhi solo umani, si sarebbe consumato il nostro sacrificio, che noi, invece, dal punto di vista della fede, consideravamo l’incontro con il Signore Gesù, questa volta per rimane accanto a Lui per sempre.
Perpetua durante il periodo del carcere mantenne un diario in cui annotò tutto quello che stava vivendo lei e la sua schiava Felicita, ma non poté narrare l’epilogo della loro vicenda. Altri cristiani che assistettero al loro martirio scrissero, descrivendo gli ultimi istanti della loro vita, completando così la loro testimonianza di fede. Ciò che restò come documento scritto divenne un punto di forza e di edificazione. Dalla semplicità dello stile si coglie una fede diamantina e un amore sconvolgente per Gesù, certezza assoluta dei primi martiri cristiani; c’è il coraggio e la fermezza con la quale seppero affrontare i patimenti e la morte nel nome di Cristo, che, gioverà ricordare, ha assicurato ai discepoli di ogni tempo, che i persecutori e gli aguzzini possono uccidere il corpo, ma non possono nulla contro le anime, le coscienze e gli ideali che essi incarnano. Le annotazioni di Perpetua furono poi raccolte nella «Passione di Perpetua e Felicita», opera - si dice - di Tertulliano, padre della Chiesa d’Africa dei primi secoli, per essere consegnati alla memoria futura delle generazioni cristiane.