Myanmar/Birmania: Cambiamento è anche progresso?
La rivoluzione democratica in Birmania
Un tempo Birmania, oggi Myanmar, la nazione divenuta sinonimo di
dittatura e isolamento, sta ora vivendo i primi passi di una nuova stagione di
libertà e rinnovamento a una velocità frenetica. I rischi sono molti, ma non si
può fermare il tempo. La speranza è che il cambiamento porti reale pace e armonia
in un popolo che deve reinventare la propria identità senza perderla.
Con maestria il pescatore affonda
la propria rete conica nelle acque basse del lago Inle e, manovrando la barca
con un solo remo avvinghiato alla gamba, estrae dalla nassa un paio di
guizzanti pesci argentei: anche stasera la cena per la famiglia è assicurata e
l’uomo guadagna la strada di casa remando nel modo tradizionale degli Intha, il
gruppo etnico tibeto-birmano che da secoli abita questo incredibile ecosistema
lacustre. Osservare i movimenti lenti e armoniosi dei pescatori Intha che
tornano alle proprie semplici palafitte, nell’atmosfera serena e avvolgente del
tramonto, rende difficile pensare che la Birmania stia attraversando uno dei
momenti più significativi di cambiamento della sua storia secolare.
La Birmania deriva il suo nome dal gruppo etnico di maggioranza, i
Bamar; assunse la denominazione Union of Burma dopo essersi smarcata
dall’impero anglo-indiano e aver raggiunto una fragile indipendenza nel 1948.
La disgregazione sociale e i contrasti tra le varie etnie insanguinarono il
paese per lunghi anni del secolo scorso, finché nel 1988 un colpo di stato da
parte della giunta militare guidata dal generale Saw Maung instaurò un nuovo
regime autoritario e repressivo. Fu nel 1989 che la giunta militare al potere
cancellò d’ufficio il nome Birmania, sostituendolo con Myanmar (secondo i
militari più rappresentativo delle diverse etnie presenti nel paese e
soprattutto completamente differente dal vecchio nome che richiamava il passato
coloniale) e spostando addirittura la capitale nel 2006 da Yangon a Naypyidaw,
luogo meno accessibile e quindi più irraggiungibile per le manifestazioni di
dissenso popolari.
Ma la voce di tale dissenso proruppe lo stesso, in particolare dalla
esile figura di Aung San Suu Kyi, figlia dell’eroe dell’indipendenza Bogyoke
Aung San e paladina della libertà. Divenuta leader della Lega Nazionale per la
Democrazia, venne posta agli arresti in occasione delle finte elezioni indette
nel 1989, il cui risultato, una schiacciante vittoria per il partito di San Suu
Kyi, non venne mai riconosciuto dai militari al potere. Durante gli anni della
prigionia la donna ricevette numerosi premi inteazionali, tra cui il Nobel
per la Pace nel 1991, e non abbandonò mai la propria paziente attività di
mediazione e contemporaneamente di lotta, grazie anche all’opera clandestina di
tanti sostenitori nel paese e al sostegno pubblico di importanti personalità
della scena internazionale, tra cui l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu.
Vent’anni duri
Durante questa paziente e tenace resistenza, riconosciute virtù
asiatiche, le condizioni di vita del popolo birmano conobbero un ventennio di
drastico peggioramento. La giunta militare si preoccupò principalmente di fare
affari con grandi potenze quali la Cina e la Russia, a cui praticamente regalò
parte delle immense ricchezze naturali del paese (materie prime, giacimenti
minerari, pietre preziose), e con una rete di baroni locali dediti al
contrabbando di droga e alla creazione di imperi personali. In questo scenario,
la popolazione urbana e quella rurale subirono le conseguenze peggiori: la
prima vide soffocato ogni tentativo di libertà d’espressione, di organizzazione
sindacale, di sciopero e manifestazione del dissenso, di stampa, di contatti
con l’estero; la seconda, distante dai giochi del potere politico ed economico,
fu costretta a occuparsi solo della propria mera sopravvivenza quotidiana,
priva di qualsiasi sostegno statale e pubblico, terrorizzata dal possibile intervento
militare in caso di protesta per le proprie misere condizioni. Le rivolte di
fine Novecento ebbero come protagonisti gli studenti delle grandi città e i
monaci, le uniche fasce di popolazione sufficientemente istruite per
intercettare e manifestare la protesta. Esse furono soffocate nel sangue grazie
anche al ripristino della legge marziale.
In questa fase, l’embargo attuato dagli Stati Uniti e dall’Europa
nacque con intenzioni forse condivisibili (tagliare i rifoimenti economici e
finanziari al regime per indurlo alla trattativa e alla apertura), ma all’atto
pratico intaccò solo superficialmente il potere militare ed ebbe gravi
conseguenze sulla vita della maggioranza dei birmani. L’isolamento
internazionale tagliò fuori il paese dai flussi economici, dallo scambio di
informazioni (la rete Inteet non funzionava, le e-mail erano soggette
a controlli e censura, i visti non erano rilasciati a giornalisti e operatori
dei mass media) e dal progresso sociale.
Tra passato e presente
Chi ha avuto l’opportunità di viaggiare come turista nella
Birmania dell’inizio del Ventunesimo secolo è stato facile testimone di una
realtà sospesa tra passato e presente, caratterizzata dalla mancanza di un
sistema educativo e scolastico obbligatori, dall’assenza di una rete sanitaria
a livello nazionale, dalla presenza di infrastrutture desuete risalenti per la
maggior parte all’epoca coloniale britannica. Visitare la Birmania in quegli
anni significava attraversare il tempo e ritrovarsi in un passato quasi del
tutto dimenticato in Occidente: i bambini al lavoro nei campi con i genitori,
gli anziani a fumare serenamente i propri cheerot (grossi sigari fatti a
mano) e ad attendere il tramonto, paesaggi rurali rigogliosi, ricchi di colori
e profumi, impreziositi da pagode e stupa secolari, giovani
monaci buddisti in meditazione o in fila per la ciotola di riso quotidiana:
nell’estrema povertà, i birmani mantenevano una grande dignità e una timidezza
curiosa, che inevitabilmente sfociava in un bel sorriso. La terra delle pagode e
dei sorrisi: sorrisi semplici, sinceri, genuini. Viaggiare in Birmania in
quegli anni consentì inoltre di aprire una minuscola crepa nel guscio in cui i
generali avevano rinchiuso il paese. Nell’indifferenza dei grandi poteri, le
spese dei visitatori mantennero in vita uno strato sociale di persone dedite al
turismo, tra cui guide, autisti, camerieri, addetti alle pulizie, facchini,
piccoli ristoratori, e lo alimentarono con idee, immagini, racconti di sistemi
politici e sociali differenti, ma anche con aiuti economici concreti. Ma il
dilemma morale del viaggiatore (non voler contribuire con tasse, permessi,
gabelle varie ad arricchire un regime sanguinario) restava per molti un nodo
irrisolto e un ostacolo etico.
Lo stato si ricordava dei suoi cittadini solo quando questi
alzavano coraggiosamente la testa e protestavano per le condizioni di vita
misere in cui si trovavano a sopravvivere. In quei momenti scattava la
rappresaglia, dura e silenziosa, contro studenti, monaci e gente comune di
Yangon e Mandalay.
La latitanza dell’istituzione centrale in tutti gli altri campi,
in particolare delle politiche sociali, economiche e culturali, venne in parte
colmata da alcune figure eccezionali per abnegazione e tenacia: i sostenitori
clandestini dell’opposizione democratica e i seguaci di San Suu Kyi non
cessarono mai di tramare alle spalle del regime, di tessere la rete dei
contatti e delle idee e di esprimere il dissenso anche in forme d’arte meno
palesi, ma altrettanto efficaci (come la musica degli Iron Cross, che nella
grande tradizione del rock sfidò le istituzioni repressive con il proprio motto
Rock the junta). I monaci buddisti giocarono un ruolo fondamentale nella
circolazione delle idee e della cultura, accogliendo nei propri monasteri molti
bambini e giovani e insegnando loro la lettura, la scrittura, le lingue e le
strutture del pensiero filosofico. Infine i sacerdoti missionari cristiani, non
rappresentarono in quegli anni solo figure di riferimento spirituale, ma anzi
tradussero il Vangelo in azioni concrete di pura solidarietà e amore per il
prossimo, aiutando i bisognosi in ogni campo, in ogni remoto angolo del paese.
Un esempio su tutti è padre John Aye Kyaw,
un instancabile sacerdote cattolico che ha trascorso un po’ di tempo in
Vaticano e ha imparato qualche parola di italiano. Quando viene a conoscenza di
qualche gruppo di turisti di passaggio a Mandalay si sobbarca tuttora almeno
sette ore di viaggio lasciando il suo villaggio nella remota campagna birmana
per venire a incantare tutti con i suoi racconti di prete di frontiera. Le sue
parole pennellano una realtà drammatica fatta di povertà e miseria, che preti
come lui combattono istruendo i bambini del villaggio, dando loro rudimentali
nozioni scolastiche nella scuola che lui stesso ha costruito, confortando gli
ammalati, distribuendo vestiti ai bisognosi, impugnando gli aesi da lavoro e
contribuendo alla costruzione di una paratia contro le alluvioni monsoniche,
effettuando visite mediche e assegnando farmaci, addirittura aiutando giovani
donne a partorire. Padre John è l’esempio più emblematico dell’assenza dello stato in
Birmania. Solo la sua instancabile opera di coinvolgimento dei viaggiatori nei
suoi progetti ha consentito a molti abitanti del posto di ricevere aiuti
concreti dall’estero.
Verso la fine del primo decennio del Duemila, l’acuirsi delle
sanzioni inteazionali indussero il regime ad allentare gradualmente la presa
autoritaria, con mosse spesso di facciata ma che sancirono l’inizio di
un’inevitabile fase di riforma in direzione democratica. Nel 2010 si tennero le
prime elezioni dopo 20 anni dalle ultime e vennero promulgate leggi sul lavoro,
sull’associazionismo sindacale, sui diritti civili e sull’apertura a
un’economia mista. Il cambiamento era in atto e le riforme aprirono una nuova
fase politica di riconciliazione nazionale, segnata dalla lieta liberazione di
San Suu Kyi nel novembre di quell’anno e dalla vittoria della sua Lega
Nazionale per la Democrazia alle elezioni generali del primo aprile 2012, in cui
però si distribuiva solo una piccola parte dei seggi in Parlamento, dato che la
maggioranza veniva sempre attribuita a ufficiali nominati dalla giunta
militare. Oggi, il processo nato come una timida democratizzazione sta
assumendo sempre più i contorni di un evento epocale: la recente visita del
presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama ha definitivamente fatto
puntare i riflettori dei media inteazionali sulla Birmania, dopo anni di
isolamento la procedura di ottenimento dei visti turistici è stata resa più
semplice e un flusso sempre più consistente di viaggiatori inteazionali e
soprattutto asiatici affolla gli alberghi e i siti turistici.
Con impressionante rapidità l’inflazione è cresciuta, i banchetti
di souvenir si sono coperti di magliette con il volto di San Suu Kyi, Inteet è
più veloce e le e-mail arrivano a destinazione in tempo reale. Persino i
telefoni cellulari cominciano a diffondersi, mentre le banche cambiano la
valuta straniera senza più necessità del mercato nero clandestino e gli
alberghi 5 stelle di Yangon sono costantemente affollati di businessmen
in cerca di affari.
La gente è in fermento, ottimista, speranzosa: vuole godere
appieno dei nuovi, inediti spiragli di libertà. Fino a pochi mesi fa, la gente
comune viveva con la preoccupazione di essere controllata nelle proprie azioni
e nell’espressione del proprio pensiero. Il regime non aveva mai riempito le
strade e i luoghi pubblici di militari in divisa, ma aveva creato un clima di
paura e diffidenza, una sorta di cappa che gravava minacciosa su ciascun
cittadino. Ora il più significativo segno del cambiamento, al di là dei piccoli
seppur importanti progressi pratici quotidiani, è proprio il dissolvimento di
questa cappa di paura e oppressione. Prima era meglio tenere per sé le proprie
idee, magari quel signore all’angolo in attesa dell’autobus era un militare in
borghese che sarebbe potuto intervenire se insospettito da una qualche forma di
dissenso… ora invece il timore e il sospetto di essere controllati è svanito,
la libertà è soprattutto psicologica, è uno stato mentale.
Chi ha visitato il paese anni fa e vi torna ora non riconosce più
la Birmania di un tempo, soprattutto nelle città: i ritmi tranquilli e gli
atteggiamenti sottomessi di un passato recente lasciano spazio a ingorghi
stradali e attività frenetiche. Molte persone che si trovano a sperimentare per
la prima volta una forma seppur acerba di libertà, confondono questo nuovo
status con la possibilità di fare ciò che pare a loro. Il passo indietro del
regime oppressivo è interpretato come assenza di autorità e molti ignorano le
regole perché tanto non c’è più chi le fa rispettare rigidamente. La gente
comincia a vedere i visitatori stranieri non più con occhio curioso e timido,
ma come una risorsa da cui trarre guadagno. E i sorrisi appaiono un pochino
meno genuini di una volta, anche il fascino delle pagode di Bagan sfuma
lentamente mentre grandi bus scaricano decine di turisti thailandesi, coreani e
cinesi. In un tempo molto breve si è passati da 300mila ingressi annuali in
Birmania per turismo a quasi un milione di visitatori nel 2012.
Ci si può chiedere se il cambiamento, soprattutto quando è così
repentino, sia sempre sinonimo di progresso: la giunta militare tuttora al
potere è in grado di traghettare il paese verso il futuro limitando gli
strappi, le ingiustizie e gli effetti negativi che tali eventi (che rimandano
al crollo dell’Unione Sovietica) portano sempre con sé? Non bisogna dimenticare
che il processo di apertura è stato voluto e guidato dall’alto, grazie agli
elementi più illuminati tra le fila dei dirigenti militari: questi hanno
captato i segnali di una crescente insofferenza intea e internazionale ai
metodi di governo autoritari e, dopo una severa fronda intea, hanno scelto la
strada delle concessioni e delle riforme graduali. Gli esempi dell’Iraq, della
Libia, dell’Egitto, della Tunisia, della Siria devono aver pesato sulla scelta
di gestire dall’alto il cambiamento anziché di combatterlo frontalmente. Il
rischio è che la giunta, una volta attivato il processo dirompente di
democratizzazione, cerchi quantomeno di accaparrarsi una bella fetta del potere
economico prima di lasciare le briciole ai birmani più svelti e intraprendenti.
La speranza è che il carattere mite e semplice di questo popolo ne
esca rafforzato, e non stravolto, nella propria identità. Sono interrogativi e
questioni a cui solo il tempo potrà rispondere. Intanto, il pescatore Intha
gira i suoi pesci sulla brace e scruta l’orizzonte, mentre gli ultimi raggi di
sole scintillano sulle acque placide del lago Inle.
Andrea Mapelli e Daniele Biella