Il lungo viaggio verso Remolino: (prima parte)
Viaggio nell’Amazzonia Colombiana. Ogni viaggio è un’opportunità. Ogni viaggio è una
responsabilità. Ogni viaggio implica una «restituzione». Ecco il motivo di
queste pagine: la restituzione, seppur limitata, delle ricchezze viste e
ricevute, per farle conoscere e condividere. Il nostro viaggio è stato
caratterizzato da numerosi incontri: personaggi significativi che con il
proprio vissuto ci hanno mostrato un aspetto differente della realtà
colombiana. È attraverso di loro che vi racconteremo cosa abbiamo visto.
Partiamo da Torino l’11 settembre
2012. Siamo in quattro, di età differenti: due ventenni, una quarantenne e una
sessantenne. Un bel miscuglio e una bella sfida! Dopo aver fatto scalo a
Madrid, inseguiamo il sole per 900 km, per tutte le undici ore di viaggio fino
all’aeroporto Eldorado di Bogotá, arrivando in una nuova Babele per la varietà
dei lineamenti dei volti, del colore della pelle, del taglio degli occhi: una
varietà che fa sentire «a casa» chiunque. Una città-mondo che ritroviamo anche
all’interno della casa provinciale dei missionari della Consolata,
continuamente animata da chi arriva e chi parte. Un porto di mare a quota 2.600
metri.
Padre Carlos Olarte ci aiuta a muovere i primi passi in questa
metropoli di quasi 10 milioni di abitanti, risolvendoci le prime ed essenziali
questioni relative al cambio della moneta, all’attivazione delle chiamate
inteazionali dai cellulari, ecc. Con la sua tranquillità ci trasmette serenità
e, anche se nessuno di noi conosce bene la lingua (o non la conosce affatto!),
capiamo che la comunicazione è possibile con un po’ di sforzo da entrambe le
parti e un po’ di fantasia. Anche il direttore della Casa Provinciale, padre
Josè Grisales, ci dedica molto del suo tempo dandoci informazioni sulla
situazione economica e sociale della città e portandoci a visitare i nuovi
centri commerciali, vere e proprie «metropoli nella metropoli», così
catalizzanti che vi si praticano le vaccinazioni e si celebra la Messa.
Florencia
Siamo dunque sufficientemente attrezzati per affrontare il viaggio
verso la selva. Decolliamo da Bogotà con un simpatico piccolo aereo a elica e
atterriamo al nuovissimo ed efficiente aeroporto di Florencia: la quota è
diminuita di quasi 2500 metri, mentre la temperatura è aumentata di oltre 20
gradi. Ci assale un’aria calda e umida. La casa dei missionari si trova in cima
alla collina, dove sorge un quartiere completamente costruito dal vescovo
Torasso dopo un’inondazione, per dare un tetto a tutti coloro che l’avevano
perduto. Qui l’aria è più respirabile.
Siamo ai piedi delle Ande, in una delle prime cittadine
colonizzate a inizio ‘900 dalle popolazioni che dalle montagne migravano verso
la selva in cerca di nuove opportunità di vita e lavoro. Proprio in questi
giorni Florencia festeggia i 100 anni di municipalità, mentre compie 110 anni
di fondazione, della quale è testimone ancora vivo e imponente il grande mango
piantato per l’occasione nell’attuale piazza principale del paese e sotto le
cui fronde trova ombra il fondatore Doroteo di Pujales. Florencia, capitale del
Caquetà, è spesso definita la «porta della foresta amazzonica», avendo essa
dato avvio al processo di colonizzazione di tutta la fascia pedemontana e in
seguito dell’interno del bacino amazzonico. Oggi è una cittadina animatissima
di circa 20.000 abitanti, anche se con i villaggi vicini supera i 160.000, che
fanno capo alle sue strutture pubbliche (comune, scuole, ospedale, università …)
e alle sue attività commerciali. La nostra attenzione è attratta soprattutto
dai banchi della variegatissima frutta tropicale e dal mercato molto pittoresco
con bancarelle di artigianato locale, dai tessuti al vasellame. Numerosi i
carrettini di venditori di pietanze e di succhi preparati al momento.
Il Veterano
Nella casa dei missionari della Consolata, molto armoniosa ed
accogliente, troviamo padre Bruno Del Piero. È arrivato nella zona verso la metà
degli anni ’90 e da allora non si è risparmiato per dare dignità alla
popolazione locale, realizzando opere sociali e collaborando per un’istruzione
diffusa e il diritto alla sanità per tutti. Ancora oggi, all’età di 80 anni,
ogni mattina percorre a piedi un bel tratto di strada per raggiungere
l’ospedale e stare al fianco degli ammalati. È affascinante stare seduti
attorno a lui, la sera, ad ascoltare la descrizione di come era una volta la
zona, le avventure per raggiungere anche i più lontani insediamenti, le sfide
affrontate, la paura frequente per la situazione di guerriglia, le conquiste.
Ancora più affascinante ci appare l’amore per questa terra che lo pervade ai
nostri giorni, oggi. Un amore cresciuto, rinnovato, attuale, concreto. Quando
dal balcone di casa ci indica tutti gli edifici significativi della città, i
suoi occhi si animano e le vie del quartiere (che si chiamano calle e carrera,
a seconda dell’orientamento) si animano virtualmente davanti ai nostri.
Ci rimettiamo in viaggio verso l’interno. Ci vogliono 170
chilometri per raggiungere Cartagena del Chairà, l’ultimo paese dove arriva la
strada. Dopo, per proseguire, occorre utilizzare la barca e scendere lungo il
fiume Caguan. È il primo impatto con le vie di comunicazione colombiane e
soprattutto con i tempi necessari per percorrerle: qui si sa quando si parte,
ma non si sa né se si arriverà né quando. Si possono fare previsioni, tenendosi
tuttavia pronti a ogni sorta di inconveniente. Non bisogna avere fretta né
garantire la puntualità!
Da Florencia padre Angelo Casadei diventa il nostro «angelo
custode». Ancora una volta ci sentiamo coccolati perché ci viene a prendere con
la macchina del vescovo, messa a disposizione per tutti gli spostamenti. Lungo
il tragitto ci viene spontaneo fargli tante domande sulla vita in Colombia, la
situazione politica e sociale, la sua esperienza, approfittando del suo essere
italiano e dunque della lingua.
(clicca sul simbolo a sinistra per vedere un eccezionale documentario girato da p. Angelo Casadei)
La prima parte del nostro tragitto è costituita dalla pedemontana,
strada parallela alle montagne, ai piedi delle stesse. Tale strada rappresenta
un po’ il processo di colonizzazione della selva nel tempo. Infatti prima di
procedere verso il cuore della foresta, i coloni si sono mossi negli anni
parallelamente alla montagna, disboscando e destinando la maggior parte del
terreno ad allevamento. Per avanzare nella conquista di terra hanno creato
sentirneri divenuti sempre più marcati e importanti per i collegamenti tra i vari
insediamenti, fino a costituire vere tratte di comunicazione della zona.
Realizzate inizialmente dalla popolazione locale, con il tempo sono diventate
di interesse pubblico, richiamando l’attenzione dello stato che nel tempo le ha
asfaltate e ora le gestisce. Oggi queste strade più o meno asfaltate
costituiscono un elemento importante di sviluppo, ma allo stesso tempo uno
strumento di conflitto: per lo stato rappresentano la via per raggiungere zone
ricche di materie prime, spesso appaltate a multinazionali straniere, come nel
caso del petrolio nella zona di San Vincente; per la guerriglia rappresentano
l’ennesimo furto nei confronti della popolazione colombiana. Proprio due mesi
prima del nostro arrivo, in luglio, la guerriglia ha fatto saltare un ponte
lungo il tratto che noi percorriamo e ora, dopo la veloce ricostruzione da
parte dell’esercito, ogni ponte della pedemontana è sorvegliato 24 ore su 24 da
militari, con costi esorbitanti per lo stato.
Deviamo per un villaggio chiamato «La Madonina», presso la località
Santuario: ci sembra di essere dentro un presepe ambientato nel Far West!
Una signora, lungo la strada, spreme in un torchio di legno la
canna da zucchero e ne vende il succo. Qui incontriamo padre Marini Antonio: è
in Colombia ormai da cinquant’anni e guida una landrover che vuole
tenere in vita perché non arrugginisca. Ci racconta squarci di vita degni di un
romanzo: nel ’96 i campesinos avevano organizzato una protesta, che lo
stato aveva tentato di frenare con l’esercito. In tale contesto di violenza,
per evitare spargimenti di sangue il padre li aveva ospitati in parrocchia,
dove hanno stabilito regole precise per mantenere l’ordine all’interno
dell’istituto. Tra i militanti c’era un ufficiale, che era stato suo allievo:
per il grande rispetto nei suoi confronti non fece razziare le riserve
alimentari, permettendo a tutti di continuare ad avere cibo.
Durante la visita alla sua missione ci ha introdotti nel
laboratorio da lui stesso attrezzato dove è in grado di eseguire lavori di
carpenteria, piccola meccanica, manutenzione e ci ha spiegato che un tempo per
i seminaristi erano previste esercitazioni di edilizia idraulica elettrotecnica
perché fossero in grado di fare un po’di tutto.
Ora ha 86 anni e ammette di non avere più tanta forza fisica, ma
ci lascia una frase che è diventata nostro patrimonio, «Bisogna impiegare bene
il tempo per non averlo contro». Perciò ha ripreso a studiare teologia
dedicandosi a quella medioevale.
Nella missione di Santuario, funziona molto bene un piccolo
collegio di 26 bambini, seguiti da Suor Agostina e suor Emilia. Entrambe sono
scampate al denghé, malattia che, se non curata in tempo, porta alla
morte e causata dalla puntura di una zanzara locale esclusivamente diua. Dopo
questa «avventura» hanno ripreso entrambe a pieno ritmo a portare avanti il
collegio. Le camerate dei ragazzi sono linde e allegre: le bambine sono
orgogliose di mostrarci i loro lavori di ricamo e i quadei. Frequentano tutti
la scuola pubblica, ma al pomeriggio eseguono i compiti con la guida delle
suore, per dedicarsi poi a tutte le faccende domestiche e di gestione della
casa. Le famiglie d’origine sono molto povere e le suore spesso non ricevono le
rette, nonostante la richiesta sia di soli 10.000 pesos (circa 5 euro)
all’anno. I bambini rimangono a Santuario fino alla V elementare. Le femminucce
ricevono nozioni di igiene, alimentazione, comportamento, che toeranno utili
nel giro di breve tempo perché a 14/15 anni solitamente sono già madri. Non
avendo contratto matrimonio, spesso il compagno le abbandona e si unisce ad
altre donne.
Le ragazze madri chiedono sostegno alle proprie madri per la
gestione dei figli, ma spesso sono sole e con una vita irregolare. Il ruolo dei
missionari è quindi quello di offrire luoghi sani in cui far crescere i
ragazzi, insegnando non solo le materie scolastiche, ma soprattutto la gestione
delle normali faccende quotidiane. Qui imparano a diventare adulti più
responsabili e anche a rispettare le regole di una comunità, nell’ottica di un
bene comune che porta benefici a tutti se rispettato.
Arriviamo a El Pauijl. Il paujil è un uccello – ormai
estinto – delle dimensioni di un tacchino, che seguiva l’uomo come un
cagnolino. Nel centro del paese sorge un monumento dedicato a questo animale.
Siamo arrivati proprio mentre si stava svolgendo un funerale: il carro funebre è
rosso, la partecipazione corale e, vien da dire, festosa. Abbiamo supposto che
il defunto fosse un taxista, perché all’uscita della chiesa le auto pubbliche
che stavano sulla piazza hanno suonato i clacson per poi incolonnarsi a seguito
del corteo fino al cimitero. Il paese di Pauji rappresenta un nodo cruciale: da
qui, andando dritti, si prosegue lungo la pedemontana fino a San Vincente, sede
del Vicariato; oppure, svoltando a destra, si prende la direzione della selva,
dell’entroterra. Si punta al cuore della foresta. Noi svoltiamo a destra.
Cambia la strada: non è più asfaltata, ma sterrata. Si tratta di
terra rossiccia pressata mescolata a bitume, che viene stesa direttamente sul
battuto, ma basta qualche giorno di pioggia per farla dilavare o il caldo
torrido della stagione secca per sgretolarla. Nel paese c’è molta corruzione
legata alle opere pubbliche: chi appalta i lavori spesso specula sui materiali
per trae vantaggio economico, a scapito della popolazione.
Inizia il paesaggio della seconda fase di colonizzazione con
sterminati allevamenti estensivi (in contrapposizione ai nostri allevamenti
intensivi), con colline verdissime e radi alberi isolati. Il paesaggio appare
ai nostri occhi stupendo e rilassante, ma ci rammentano che un tempo era tutta
foresta. L’erosione del terreno dovuta alle piogge stagionali incessanti e al
sottilissimo strato di humus non è ancora evidente come nei terreni della
pedemontana, ma nel raggio di 30/40 anni, se non ci sarà un’inversione di
tendenza, gran parte del terreno sarà arido e incolto.
Per le foto ringraziamo:
Angelo Casadei, Fabio Vasini, Marta Faccaro e Giacomo Lazari.
Cinzia Boschis, Stefania Biagini Ghiotti, Marta Faccaro e
Giacomo Lazari sono volontari e soci di Impegnarsi Serve, una onlus che,
tra molto altro, anima nelle scuole medie e superiori il progetto educativo «L’altra
faccia della coca».
Stefania Biagini