Bolivia 2: «Non c’è razzismo, soltanto diversità»
Intervista a Mons.
Julio María Elías Montoya.
Nelle
pianure amazzoniche del Beni, gli indigeni costituiscono una minoranza. Forse
anche per questo i candidati dell’opposizione prevalgono sempre nelle elezioni
per il governatore del dipartimento. Di
questo e altro ancora abbiamo parlato con il vicario apostolico della regione,
mons. Montoya.
Trinidad. La cattedrale sorge davanti alla piazza Generale José
Ballivian, cuore della città. La piccola facciata ha un grande rosone ed è
racchiusa ai lati da due solidi campanili a base quadrata. Gli uffici del vicariato
sono proprio a fianco, ospitati in una casa di cui s’intuisce l’antica ma
perduta bellezza. Il vicariato apostolico del Beni, creato nel 1917 da papa
Benedetto XV, include 6 delle 8 province che formano il dipartimento
amazzonico. Il vescovo si chiama Julio María Elías Montoya, francescano
spagnolo. Sacerdote dal 1968, l’anno seguente arriva in Bolivia. Nel 1974,
viene spostato dal Lago Titicaca a Trinidad. Nel 1987 è
promosso a vescovo. Mons. Montoya ha 67 anni, ma in testa ha meno capelli
bianchi del giornalista. Glielo facciamo notare e lui – divertito – ribatte con
una battuta: «Quando entrai nel noviziato, il superiore mi disse: “Vieni per
ricevere la prima comunione?”».
Monsignor Montoya, in Bolivia circa il 60 per cento della popolazione è
indigena e sono riconosciute almeno 36 differenti etnie. Com’è la situazione
nel Beni?
«Il vicariato
di cui sono responsabile ha una grande estensione territoriale ma una densità
abitativa molto bassa. Premesso questo, la maggioranza della sua popolazione è
composta da mestizos. I popoli indigeni sono una minoranza che penso non
raggiunga il 30 per cento del totale. Ci sono parecchie comunità, ma tutte
molto piccole. L’etnia più numerosa è quella dei moxeños, chiamati moxos ai tempi delle riduzioni gesuitiche».
A proposito di indigeni, nel confinante dipartimento di Santa Cruz, le
ex «riduzioni» dei gesuiti, sviluppatesi tra i chiquitos, sono molto conosciute, anche a livello turistico. Qui
cosa ha lasciato la storia delle missioni?
«Avrete
certamente notato che nel Beni tutte le cittadine hanno nomi di santi. La
ragione è che nel secolo XVII arrivarono qui i missionari gesuiti. Quasi tutti
i centri abitati sono nati dalle famose riduzioni. La prima missione gesuitica
fu fondata nel 1682 con il nome di Nuestra Señora de Loreto. Nel 1696 nacque
Trinidad e di seguito tutte le altre cittadine. Dopo la espulsione dei gesuiti
(nell’anno 1767), gli indigeni furono dispersi, ma sono loro ad aver preservato
le tradizioni cattoliche. Basti pensare alle celebrazioni durante le feste
religiose (Natale, settimana santa o feste patronali), celebrazioni attese da
tutti gli abitanti».
Raggiungere Trinidad e il Beni non è facilissimo, soprattutto nella
stagione delle piogge. Come giudica la situazione di questo dipartimento?
«Il
Beni è un po’ isolato rispetto a La Paz, Santa Cruz e Cochabamba, le principali
città del paese. Tuttavia, vivendo a Trinidad dal lontano 1974, posso dire di
aver visto progressi, anche se le difficoltà non mancano. Qui non ci sono
industrie. La nostra sola ricchezza è stata – almeno fino ad oggi –
l’allevamento di tipo estensivo».
A parte le condizioni del Beni, a suo giudizio, quali sono i principali
problemi della Bolivia?
«Al
primo posto c’è certamente la povertà. Mi spiego meglio: nella Bolivia di oggi
non manca da mangiare, ma si tratta sempre di un’economia di sussistenza. E poi
siamo carenti in tema di salute e educazione. Se ci si ammala, non è facile
curarsi. Allo stesso tempo manca anche un adeguato sistema educativo».
Nel 2014 ci saranno le elezioni presidenziali. Quando Evo Morales venne
eletto per la prima volta, nel dicembre 2004, c’erano molte aspettative.
Viaggiando per le pianure orientali abbiamo notato molta ostilità nei confronti
del presidente. Come lo spiega, monsignore?
«Con
l’elezione di Evo Morales c’è stata una grande speranza, che permane tuttora,
anche se la si trova soprattutto tra le popolazioni degli altipiani. Allo
stesso tempo, è vero che i cittadini di qui si sono sentiti un po’ colonizzati
dalla gente dell’Occidente».
Lei ritiene che ci sia una componente di razzismo in questa contesa tra
dipartimenti dell’Oriente (a maggioranza bianca e meticcia) e il resto del
paese (a maggioranza indigena)?
«No,
non credo che ci sia razzismo. Per esempio, il Beni è sempre stato aperto a
ricevere. Qui ci sono persone provenienti dagli altipiani e personalmente non
vedo razzismo nei loro confronti. D’altra parte, è altrettanto vero che
l’Oriente boliviano è diverso, culturalmente diverso dal resto del paese».
Una diversità che è stata confermata anche nelle recenti elezioni per il
governatore del Beni. La candidata del presidente e del Mas è stata sconfitta –
per la seconda volta – dal candidato dell’opposizione. Che succederà ora?
«Dopo il voto,
io ho detto pubblicamente che occorre collaborare tutti per l’interesse comune
del Beni. Con verità, giustizia, libertà, amore».
«Passeremo per
crisi, per momenti dolorosi come la croce, ma io certamente rimango un uomo di
speranza. Sono – come diceva il papa Paolo VI – per costruire una civiltà
dell’amore».
La bellissima Costituzione boliviana del 2009 parla di «sagrada Madre
Tierra». Purtroppo, anche in questo paese, come nel resto del mondo, i problemi
ambientali stanno avanzando a un ritmo impressionante…
«È così vero
che, nel marzo 2012, i vescovi boliviani hanno presentato una lettera pastorale
– dal titolo El Universo, don de Dios para la vida – dedicata proprio
alle tematiche ambientali, al modello consumistico e alla crisi ecologica. Come
francescano, io ricordo che San Francesco parlava non soltanto di “Madre Terra”
ma di “Sorella Madre Terra”. Alla base del problema ambientale sta il fatto che
non si può pensare soltanto a noi stessi, ma occorre pensare a quelli che
verranno dopo di noi».
A proposito degli interventi della Chiesa boliviana, ritiene che
l’istituzione cattolica sia ancora ascoltata?
«Abbiamo voce
nella società boliviana e siamo rispettati dal popolo, che ci sente vicini.
Certi politici e governi pensano che vescovi e sacerdoti si debbano dedicare
soltanto alla salvezza dell’anima. Però non è così. L’evangelizzazione non è
soltanto per l’anima, ma per tutta la realtà della persona umana. Come
sacerdoti e vescovi non dobbiamo guardare al denaro, al potere o al piacere, ma
dobbiamo realmente metterci al servizio del prossimo».
Paolo
Moiola
Paolo Moiola