Bolivia 1: L’altra faccia della luna
Da Puerto Quijarro a Desaguadero (prima puntata)
La nuova Costituzione boliviana, in vigore dal 2009, parla – con
ragione – di un paese plurale. Su un territorio diviso tra pianure (llanos) e
altipiani (altiplanos) vivono popolazioni indigene e «bianche». Una convivenza non sempre facile a causa delle
grandi diversità culturali e materiali. Abbiamo viaggiato da Puerto Quijarro
(al confine con il Brasile) a Desaguadero (al confine con il Perù), dalle
pianure amazzoniche alle montagne andine, cercando di capire dove va la Bolivia
di Evo Morales, il presidente aymara eletto nel 2005.
Puerto Quijarro. Come accade spesso, il posto di frontiera è brutto, confuso e
disorganizzato. I controlli sono lenti e il personale addetto non fa nulla per
rendere meno spiacevole l’attesa delle molte persone in coda. La lentezza poi
non va a beneficio dell’accuratezza. Che probabilmente sarebbe necessaria,
considerando che da qui transita molta droga diretta verso le ricche piazze
brasiliane.
Il confine è quello tra Corumbà, in Brasile, e Puerto
Quijarro, in Bolivia. Il posto di controllo boliviano è in un minuscolo
edificio posto al centro della strada. La gente, quella che esce dal paese e
quella che vuole entrarvi, forma un’unica cola (fila) che si dispiega
all’esterno dell’edificio.
Per ingannare l’attesa, scattiamo qualche foto, ma senza
esagerare perché, dove ci sono militari e forze dell’ordine, è meglio non
attrarre troppo l’attenzione. Iniziamo allora a parlare con il signore che ci
precede. Eduardo Mejia, questo il suo nome, è un medico di Cochabamba, in
viaggio per il Brasile con la moglie biochimica e la figlia studentessa. La
conversazione si fa subito interessante.
Eduardo è deluso da Evo Morales, il
presidente aymara eletto nel 2005. Spiega: «La classe media pensava che
ci sarebbe stato un cambio, però non è stato così. I poveri non stanno meglio
di prima e neppure la classe contadina. Io ho votato per Evo, ma nel 2014 non
lo farò».
Eduardo si lamenta soprattutto della
corruzione diffusa a tutti i livelli, ma anche della grave impreparazione
culturale del presidente. «Evo non è Correa»1,
chiosa. Essendo il nostro interlocutore un medico, gli domandiamo se la sanità
funziona. «Nella mia città, Cochabamba, c’è un solo ospedale pubblico che deve
servire un milione di abitanti. La gente è ospitata nei corridoi e la poca
strumentazione esistente è obsoleta».
Nel frattempo siamo arrivati davanti ai
funzionari della frontiera. Salutiamo il dottor Mejia. Dopo le formalità
doganali, ognuno andrà per la sua strada.
Con il timbro sul passaporto e la targhetta
d’entrata, ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria di Puerto Quijarro, che
si trova alla fine di una strada polverosa. Mentre la struttura è modea, i
treni della Ferroviaria Oriental, la compagnia (privatizzata nel 1996)
che gestisce la linea, lo sono molto meno. In compenso si parte in perfetto
orario. Non facciamo a tempo a trovare il nostro posto che tre donne, vedendoci
con la telecamera in mano, ci chiedono cosa facciamo. È un’altra buona
occasione per parlare e registrare qualche opinione della gente comune. Le
donne – tutte bianche di Santa Cruz – sono come un fiume in piena, quando
rovesciano accuse sul presidente Morales. «Fa soltanto gli interessi della
parte occidentale» dicono all’unisono. «Io – spiega una di loro – sono
funzionaria pubblica, ma il presidente non mi piace». Per quale motivo?,
domandiamo. «Perché ha molto risentimento verso chi possiede denaro. Vuole
danneggiare le persone che hanno di più». La signora ha (almeno) il dono della
chiarezza. Chiediamo che cosa succederà nelle elezioni del 2014. «Sfortunatamente
– risponde – in Bolivia c’è troppo indigenismo e quella gente voterà per lui,
mentre noi siamo divisi».
Il treno della Ferroviaria Oriental
procede lentissimo. Prima che cali l’oscurità, dal finestrino riusciamo a
vedere quanto il disboscamento sia avanzato. E quanto, identicamente ai paesi
confinanti (Brasile del sud, Paraguay e Argentina), si sia diffusa la
coltivazione della soia (oramai quasi tutta di tipo transgenico, anche se una recente
legge vieta gli Ogm2).
Dopo un’intera notte di viaggio, il mattino
seguente arriviamo a Santa Cruz de la Sierra, capitale dell’omonimo
dipartimento. Una città dal clima caldo umido e con un centro formato da viuzze
strette in cui (purtroppo) convergono un numero esagerato di auto. Santa Cruz
non ha alcuna attrattiva particolare, ma è economicamente e politicamente
importante. Le fortune economiche della città dell’Oriente boliviano sono nate
prima con l’allevamento (introdotto dai missionari gesuiti nel XVII secolo) e
poi con l’agricoltura estensiva (piantagioni), che hanno beneficiato di una
terra e di un clima favorevoli. Entrambe le attività poi si sono avvalse dei
vantaggi del latifondo. Un latifondo che ancora esiste e prospera, nonostante
l’articolo 398 della nuova Costituzione boliviana lo proibisca o, per meglio
dire, lo consenta soltanto all’interno di precisi (e condivisibili) limiti3.
Politicamente Santa Cruz è parte e fulcro
della cosiddetta Media Luna, la regione orientale della Bolivia che,
oltre a Santa Cruz, comprende a Nord i dipartimenti di Pando e Beni e a Sud
quello di Tarija, disegnando appunto una «Mezza Luna». Per ragioni etniche (la
maggioranza degli abitanti – conosciuti anche come camba – sono bianchi
o meticci) ed economiche, questa regione ambisce all’autonomia dal resto del
paese a maggioranza indigena.
Il cuore di Santa Cruz è la verdissima Piazza
24 di Settembre, dove si trova anche la cattedrale di San Lorenzo. La piazza
non è soltanto un luogo piacevole, ma anche il simbolo dello spirito che anima
la città. Per capire di che si tratta, è sufficiente guardarsi attorno.
Su un lato della piazza c’è un gazebo sotto
cui è ospitato un grande pannello a colori con le foto dei prigionieri e dei
perseguitati politici in Bolivia. I più conosciuti sono Leopoldo Feández, già
governatore del Pando, e Branko Marinkovic, imprenditore di Santa Cruz. Secondo
gli autori della protesta (sei tra partiti dell’opposizione e associazioni), la
Bolivia sarebbe una vera dittatura. La frase finale incita ad agire: «Non
essere indifferente, il prossimo potresti essere tu!».
La tenda è mobile e dunque levabile in
qualsiasi momento, ma il concetto di autonomia viene ricordato anche
dall’arredo urbano. Nella piazza, accanto alle panchine, trovano posto delle
piccole colonne di legno massiccio a memento della richiesta di autonomia. Incisa hanno
una semplice scritta: mojón autonomia, cippo dell’autonomia.
Domandiamo spiegazioni a un vigile urbano
che, tranquillamente (pur essendo un impiegato pubblico in servizio), ci
conferma l’anelito autonomista e si presta per una foto accanto al cippo.
Se le idee autonomistiche meritano attenzione
(fintantoché rimangono nei binari della legalità)4, è però altrettanto doveroso non chiudere gli occhi
davanti a una Bolivia divisa dalle ingiustizie fondate su base etnica e dalla
povertà. Contro queste ingiustizie e contro questa povertà si batte il governo
centrale. Una lotta tutt’altro che facile.
Nei dintorni della piazza centrale di Santa Cruz a chiedere le elemosine
sono soltanto persone indigene. Sedute sui marciapiedi o a lato delle
gelaterie, trascorrono le giornate chiedendo un’obolo donne piccole e un po’
tozze, con i capelli neri raccolti in due trecce, le grandi gonne che
ingrossano più del reale e 2 o 3 figlioletti nelle immediate vicinanze.
Dal dipartimento di Santa Cruz ci sposteremo a quello del Beni,
anch’esso a maggioranza non-indigena e politicamente avverso al governo di Evo
Morales.
Toiamo al Terminal bimodal della
città cruseña per prendere un bus alla volta di Trinidad, capitale del
dipartimento, circa 500 chilometri in direzione Nord. La signora seduta accanto a noi è al
telefono e non possiamo non sentire. «Di quanto abbiamo vinto? Sono sicuri i
risultati?». Il Beni ha appena eletto il nuovo governatore e la lotta era tra
il candidato locale e quello del Mas, il Movimiento al socialismo che
governa il paese.
Il partito di Evo Morales aveva proposto e
sostenuto la giovane e attraente Jessica Jordan, già modella e Miss Bolivia. La
Jordan ha perso (per la seconda volta). La gente del Beni le ha preferito
Carmelo Lens, esponente dell’alleanza di centrodestra. Arriviamo nella vecchia
e malconcia stazione dei bus di Trinidad al mattino. Quando – era il 1686 – il
gesuita Cipriano Barace la fondò con il nome di La Santísima Trinidad ,
la città era sulle sponde del Rio Mamoré. La collocazione si rivelò presto
sbagliata a causa delle periodiche inondazioni. Trinidad venne quindi spostata
a 15 chilometri dal fiume, nella posizione dove oggi si trova.
La piazza centrale – abbellita da un
giardino tropicale e dalla cattedrale –
si chiama Plaza General José Ballivián.
Su lati diversi della stessa ci sono due
grandi cartelloni raffiguranti Evo Morales, da una parte sconfitto, dall’altra
vincitore. L’Evo sconfitto è quello che lo vede in compagnia della bella
Jessica Jordan, la candidata battuta nelle elezioni dipartimentali. L’Evo
vincitore è invece sul cartellone che celebra il 22 gennaio, festa nazionale
dello Stato plurinazionale di Bolivia. Una pluralità sancita dal primo articolo
della nuova Costituzione del 2009, un testo di altissimo valore, approvato a
larga maggioranza da un referendum popolare.
Sul manifesto celebrativo compaiono soltanto
volti indigeni, dando forse motivo ai bianchi e ai meticci quando parlano di un
«razzismo al contrario»5. Ne sono convinte, ed esempio, le bionde
signore che lavorano alla Paraiso Travel, un’agenzia di viaggi del
posto.
Insomma, anche a Trinidad il presidente aymara
è poco popolare, pur in assenza di segni visibili come a Santa Cruz. La Mezza
Luna boliviana rimane dunque antigovernativa, anche se lontana dagli eccessi
del 2008, quando dai quattro dipartimenti orientali furono indetti dei
referendum autonomisti illegali e ci fu un tentativo di colpo di stato.
La strada che da Trinidad porta a La Paz è
una via brutta. Nella stagione delle piogge è anche molto pericolosa. Le
compagnie di bus preferiscono non percorrerla. Per raggiungere la capitale,
occorre allora tornare a Santa Cruz e passare per Cochabamba. In alternativa,
si può prendere un aereo. I voli della Tam, la compagnia aerea dei militari,
sono di gran lunga i meno costosi.
Nell’ora di volo che separa Trinidad da La
Paz si può apprezzare chiaramente il cambio orografico, dalle pianure
amazzoniche del Beni agli altipiani andini. Il velivolo della Tam atterra sulla
pista dell’aeroporto militare de El Alto, nome più che appropriato per una città
cresciuta a 4.000 metri sopra il livello del mare.
Fa freddo. Dopo aver contrattato il prezzo,
ci infiliamo velocemente in un taxi. El Alto ha soltanto 80 anni di vita, ma ha
già superato il milione di abitanti, in maggioranza di etnia aymara,
come il presidente. Si racconta che nella città transiti molto denaro del
narcotraffico e che una parte di questi capitali si trasformi in edifici. La
circostanza non è però verificabile. Quello che invece si può notare è un
numero importante di case dall’architettura molto particolare (qualcuno direbbe
kitsch).
Nel frattempo, il nostro taxi è arrivato al
casello dell’autostrada, che scende dai 4.000 metri di El Alto ai 3.600 di La
Paz. Rispetto a Santa Cruz e Trinidad notiamo subito una novità. L’autopista
è disseminata di cartelloni e soprattutto di murales che esaltano
l’opera del presidente.
(fine prima puntata –
continua)
1 – Rafael Correa, presidente dell’Ecuador (riconfermato
nel febbraio 2013), è dottore in economia con studi in Ecuador, Belgio e Stati
Uniti.
2 – Legge 300 del 15 ottobre 2012: Ley marco de la Madre Tierra y desarrollo integral para vivir bien.
3 – Il divieto è stato confermato dall’articolo 19 della
citata legge 300.
4 – Il separatismo della regione della Mezza Luna può
raggiungere livelli aggressivi e razzisti. Si visitino, ad esempio, i seguenti
siti web: www.nacioncamba.net; www.historiacamba.com
5 – Nell’ottobre 2010, il governo di Evo Morales ha
emanato una norma antirazzismo particolarmente severa: Ley contra el racismo y toda forma de discriminacion (Ley 045).
Sulla Bolivia, sempre a firma Paolo Moiola, Missioni
Consolata ha pubblicato:
• Evo, il presidente
aymara, Incontro con Evo Morales, marzo 2006;
• Se i popoli tornano
proprietari, Intervista con il presidente Carlos Mesa, dicembre 2004;
• L’utopia infranta
dei gesuiti, Dossier sulle riduzioni, giugno 1999;
• Lontani dal mondo, Viaggio tra i mennoniti, maggio
1999.
Le tappe fondamentali del cammino di Evo Morales Ayma da campesino a
presidente del paese.
Evo Morales Ayma nasce nel 1959 nel piccolo villaggio di Orinoca, sugli
altipiani di Oruro. La famiglia, di origine aymara, abita in una casetta di
adobe e tetto di paglia. I Morales vivono di agricoltura e allevamento di lama.
Nel 1982, a causa di una grave siccità, la famiglia Morales Ayma emigra nel
Chapare (Cochabamba), provincia di coltivatori di coca (cocaleros). Evo
entra nel sindacato (Confederación de trabajadores del Trópico de Cochabamba),
divenendo ben presto segretario generale.
Nel 1997, l’organizzazione di Morales si unisce al Mas, Movimiento
al socialismo, per potersi presentare alle elezioni. Pochi mesi dopo, Evo
Morales entra in Parlamento come deputato. Nelle elezioni presidenziali del
2002, si presenta come candidato e supera il 20% dei voti, poco meno del
vincitore, Gonzalo Sánchez de Lozada detto «Goni». Il Mas entra in parlamento
con 36 congressisti.
Nel 2003, diventa leader dell’opposizione contro i provvedimenti
neoliberisti del presidente. In ottobre, la «guerra del gas» degenera in
scontri cruenti e Sánchez de Lozada è costretto alle dimissioni. Dopo la breve
presidenza di Carlos Mesa, nel dicembre 2005 il paese torna a votare.
Al secondo tentativo, Morales viene eletto con il 53,7% dei voti,
divenendo il primo presidente indigeno nella storia della Bolivia.
Il 6 agosto 2006 si installa un’Assemblea costituente, formata da 255
membri eletti, che ha il compito di redigere una nuova Costituzione. Dopo vari
conflitti, nell’ottobre 2008 la Magna Carta (di ben 411 articoli) viene approvata
dal Congresso boliviano e nel gennaio 2009 da un referendum popolare.
Fin dal suo esordio, il presidente pone in essere una politica di ri-nazionalizzazione
delle imprese strategiche, in particolare di quelle energetiche (gas e
petrolio), dell’acqua e delle telecomunicazioni.
Il 10 agosto 2008 Morales vince il referendum sulla revoca del proprio
mandato. Nel 2009 viene rieletto presidente della Bolivia con il 64% dei
suffragi.
Nonostante alcuni scandali, le accuse dell’opposizione (soprattutto nei
dipartimenti della Mezza Luna), la brutta vicenda del Tipnis e le ambiguità
sulla coca, alle elezioni del 2014 Evo Morales sarà il candidato di gran lunga
favorito.
Paolo Moiola